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Autore: Bill Kaulitz    28/02/2014    2 recensioni
«Sai, Tom, c’è un vecchio mito giapponese...e dice che: se due amanti sfortunati commettono un suicidio, si reincarneranno come gemelli.» fece una pausa. «Ed io sono convinto che, quei due amanti, quei due gemelli, siamo proprio noi due.» - Questa è una FF twincest quindi, se non gradite il genere, siete pregati di non leggere. Peace&Love Thanks!
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ti ricordi di me?'
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- Capitolo 1 -

Due anni dopo

Ordinò un drink, il suo solito superalcolico che, ogni volta che lo beveva, lo faceva uscire fuori di testa. Gli bastavano un bicchiere di B52 e due di Angelo azzurro per farlo ubriacare completamente. Presto, sarebbero arrivati anche quelli; tutto dipendeva dall’evolversi della serata. Se fosse stata noiosa, non avrebbe esagerato, ma se avesse preso la piega di sempre, l’avrebbe anche fatto. Una tirata poi, non mancava mai.

Ogni sera, Tom Trümper, con il suo migliore amico Andreas, usciva per i più lussuosi Night Club di Berlino. Donne, sesso, alcool, era il cocktail perfetto per una serata, come diceva sempre lui, da sballo. Quella sera, a fargli compagnia, erano due gemelline russe, in gita turistica. Offrì loro da bere. Acqua tonica con ghiaccio. Sebbene non capisse assolutamente la loro lingua, bastava sorridere ad entrambe per capire che queste, ben presto, sarebbero finite sul sedile posteriore della sua Cadillac nera. O almeno, era quella la sua intenzione.

Distolse per qualche minuto lo sguardo dalle ragazze e cominciò a guardarsi intorno. Non era mai stato in quel locale, “Adagio”. Andreas ha buon gusto. Pensò.

La musica era altissima. C’era un gioco di colori davvero molto bello. Giallo, fucsia, arancio, rosso e blu. I riflettori illuminavano la pista dove tre ragazze stavano ballando su un cubo. Più indietro, invece, una serie di uomini, dai venti ai cinquant’anni, erano presi a fissare - o meglio sbavare - dietro una vetrina larga un metro e mezzo e alta all’incirca due, dove, in ognuna di esse, vi erano giovani ragazze non più di vent’anni. Gli uomini avevano in mano banconote da 20, 50, e 100 euro. I più ricchi, potevano permettersi anche banconote da 200 e 500 euro. Invece, dietro a dei tendoni di velo colorati, vi erano coloro che volevano godersi un ballo privato. Solitamente, erano 20 euro ogni cinque minuti; il prezzo aumentava se poi, oltre al ‘balletto privato’, fosse stato aggiunto anche qualcos’altro.

Soffermando poi lo sguardo sulla destra, notò una coppia di uomini che stava litigando. Rise leggermente. Accanto a questi c’era una ragazza, intenta a strattonare uno dei due uomini. Molto probabilmente non avranno saputo condividersela. Pensò Tom.

«Io ci sarei riuscito!» disse ad alta voce, senza nemmeno accorgersene.

Tornò a fissare le ragazze che, in quel momento, badavano ad altro. Avevano i capelli di un rosso molto acceso, la pelle diafana, liscia come la porcellana. Due grandi occhi verdi e pesantemente truccati di nero, le ciglia erano così voluminose da sembrare un ventaglio. Posò lo sguardo sulle labbra, troppo fini e sottili. Si riusciva ad intravedere leggermente la scia di rosso fuoco che, a quanto pareva, doveva essere il rossetto. Passò al resto del corpo. Magre. Troppo magre. Odio il vestito. Quanti anni potranno avere? Venti? No.. Di più. Me le farei comunque.

Sorseggiò il suo drink distogliendo lo sguardo dalle due. Si mise alla ricerca di qualche altra preda nel caso in cui quelle due gemelline non fossero state d’accordo nel seguirlo in macchina. Posò il bicchiere sul bancone, lasciando un alone bagnando sotto di esso. Ne aveva versato un po’. Porse nuovamente attenzione sulle ragazze.

«Voi riuscite a capirmi?» disse scandendo bene il labiale nel vano tentativo di sovrastare l’assordante chiasso che c’era nel locale e, soprattutto, di farsi capire. Tra la musica e il vociare della gente, non si poteva parlare assolutamente. Aggiunse anche i gesti per farsi comprendere meglio. Le ragazze squittirono, guardandosi l’una con l’altra. Una di loro mormorò qualcosa nell’orecchio dell’altra. Dopodiché una di loro parlò a Tom.

«Вы очень хорошенький»

Tom strabuzzò gli occhi. Che cosa aveva detto? Lo aveva per caso insultato? Anche se, dalla reazione dell’altra sorella, non si direbbe. Prese a ridere con fare piuttosto da paperella.

«Cosa? Non ti capisco!» disse Tom, urlando. La ragazza ripeté nuovamente ciò che aveva detto. Tom continuava a non capire. Possibile che siano così idiote da non capire che non conosco la loro lingua del cazzo? «Troia. Non ti capisco!» disse infine, ironico e con un certo ghigno divertito, vedendo che questa continua a ripetere - sempre in russo - la stessa frase nonostante l’avesse pesantemente insultata. Credo che non avremo una discussione.

«Ha detto che sei molto bello, idiota!» d’un tratto sbucò l’amico da dietro, facendolo sobbalzare. Prese il cocktail di Tom e lo bevve d’un fiato. Quello tecnicamente, doveva essere mio. Pensò Tom.

«Он идиот. Не понимает!» Disse mentre si allontanava dalle spalle dell’amico per dirigersi verso le ragazze. Si sedette su di uno sgabello accanto. Le russe presero a ridere. Tom non riusciva a capire un fico secco. Cominciò ad irritarsi. Che cazzo gli sta dicendo? Bastardo! Tom strattonò Andreas per la maglietta, tirandolo violentemente verso di sé. Com’era suo solito fare, d’altronde. Che cazzo gli stai dicendo? Perché ridono! Questo prese a ridere a sua volta. Scosse il capo, dicendo che non voleva dirglielo.

«Dimmelo ora e subito, invece! O dirò ai tuoi che sei gay!» Sebbene il chiasso, Andreas riuscì a capire benissimo. Smise di ridere in un attimo. Non sarebbe mai stato in grado di rivelare il suo segreto ai genitori di lui. Dopo tutto, era l’unico a sapere la verità. Sebbene conoscesse Tom meglio di chiunque altro, era comunque imprevedibile ogni suo comportamento. L’unica cosa di cui era certo, era il suo carattere irascibile e molto vendicativo. Meglio non rischiare. Deglutì.

«Non c’è bisogno di fare le tue solite minacce del cazzo!» si liberò dalla presa ferrea di Tom con uno strattone. «Gli ho semplicemente detto che non capisci la loro lingua.» e che sei un idiota. Pensò poi. Rise nuovamente al pensiero. Si tradì da solo. Si morse quasi fino a farsi male, il labbro inferiore. Così Tom cominciò a spazientirsi.

«Anche se sei il mio migliore amico, questo non vuol dire che tu ti debba prendere gioco di me. Te lo puoi scordare. Se ben ricordi. Io so una cosa che nessuno sa. Quindi. Vedi di non fare molto lo stronzetto irritante con me. Che altro hai detto?» Tom gli dette un ‘amichevole’ spinta, facendogli urtare leggermente il busto sul bancone. Adesso era Tom a ridere. Andreas lo fissò con uno sguardo fulmineo. Gli occhi erano ridotti a due fessure, così come la bocca. Con precisione ho detto: è un idiota! Non capisce. Ecco contento adesso?

Tom annuì molto lentamente. Come per dire: bravo bambino. Lo fissò ancora, dopodiché, entrambi, scoppiarono a ridere. Adesso erano le ragazze a non capire il perché ridessero. Andreas dette una pacca amichevole sulla spalla del rasta, e gli offrì un altro drink. Lo stesso che si era bevuto lui stesso un attimo prima.

«Come fai a conoscere il russo?»

«A scuola. Tempo fa. Non lo so alla perfezione. Ma riesco comunque a capirlo.» Andreas era più grande di Tom di tre anni. «Ma adesso andiamo Tom, puoi fare di meglio. Queste qui sono pure troppo magre e troppo... Insomma.» le osservava, mentre queste continuavano a ridere con fare da ochette. Alzò le sopracciglia. «Sarò pur sempre gay, è vero. Ma ho comunque buon gusto! Inoltre odio i capelli rossi.» disse Andreas con fare altezzoso. Tom scostò il capo verso destra, in modo tale da poter guardare un’altra volta le ragazze.

Storse le labbra, giocherellò con il piercing. Stavano parlando fra di loro. Gesticolavano, si aggiustavano quella specie di stoffa che forse, doveva essere il loro vestito. Sì, posso fare di meglio! Senza dubbio. Si alzò dallo sgabello, afferrò il cocktail che gli era appena arrivato e, con la mano libera, salutò in modo del tutto indifferente, le due ragazze.

«Andiamo a ballare, Tom!» lo prese saldamente dal polso e cominciarono ad addentrarsi nella calca di persone presenti sulla pista da ballo. Tom aveva il braccio destro alzato - era la mano con cui teneva stretto il drink - e muoveva la testa e le spalle a tempo di musica. Aveva stretto il labbro inferiore fra i denti. Molta gente cominciò a spingerlo, a schiacciarlo involontariamente. Stavano solo ballando.

«Andy!! Aspetta. Sono rimasto indietro!» urlò, sentendo la presa dell’amico lasciare il suo polso. «Andy!» urlò di nuovo. L’amico, seppure non molto distante da lui, non riuscì a sentire.

Le casse erano troppo vicine e la suo voce non poteva superare il fracasso che c’era in quel preciso punto. Il braccio era ancora in alto, non riusciva ad abbassarlo. Se l’avesse fatto, di sicuro con gli spintoni glielo avrebbero rovesciato addosso completamente. Ma che palle! Sbuffò, facendo dietrofront per cercare un tavolino su cui poggiare quel maledetto picchiere. Ma perché me lo sono portato. Non potevo finirlo prima? Quando finalmente dopo svariate gomitate, pestate di piedi e capelli che sbattevano sul suo viso con una velocità supersonica, quasi graffiandolo, riuscì a raggiungere il punto di partenza. Poggiò il bicchiere ormai vuoto sul bancone e si diresse verso l’uscita del locale per fumare una sigaretta.

Dette due boccate e soffiò via il fumo, formando dei cerchi concentrici perfetti. Aspirò di nuovo. Era poggiato sullo sportello della sua Cadillac. Due buttafuori erano in posizione perfettamente eretta proprio davanti ad essa. Le braccia erano bruscamente incrociate all’altezza dello stomaco. Saranno stati alti un metro e novanta per centotrenta chili di muscoli. Tom si sentì uno scricciolo, sebbene fosse anche lui piuttosto in forma.

Fece un cenno del capo per salutare quei tizi, apparentemente indifferenti. Diede un’altra boccata. Con l’ultima, tenne più tempo il fumo in bocca, dopodiché lo fece uscire dalle narici. Gettò il mozzicone per terra e lo spense con la punta della scarpa.

Si poggiò nuovamente di peso sull’auto. Si guardava a destra e a sinistra. Le mani erano in tasca. Sebbene avesse una felpa piuttosto pesante, si strinse nelle spalle. Anche la primavera a Berlino era fredda. A Lipsia era diverso. Lì, in quel paesino, tutto ero più calmo e tranquillo. Nonostante il trasferimento dopo un anno dall’incidente, ricordava piuttosto bene quel posto. Il profumo delle ginestre che fiorivano l’estate, il freddo pungente dell’inverno, i deboli raggi del sole che accarezzavano la pelle in primavera, i colori delle foglie in autunno.

Si portò una mano dietro il capo, poco più sopra della nuca. La toccò delicatamente. Nonostante i dreadlocks, riusciva a sentire la pelle rialzata della cicatrice. Ricordava il giorno dell’incidente. Come aveva fatto a perdere il controllo in quel modo? Meno male che con me non c’era nessuno. Pensò poi. Abbassò gli occhi. Si guardò la punta delle scarpe. Erano nere a causa delle pedate che aveva avuto un attimo prima. Alzò nuovamente lo sguardo. Guardava i passanti e, per un momento, si perse nei suoi pensieri, riportando alla mente il giorno in cui tornò a casa per la prima volta dopo l’incidente.

Due anni prima – 15 dicembre 2006

Solo una settimana dopo il suo risveglio, Tom poté tornare a casa. E in quella settimana, il ragazzo accanto a lui non si era ancora svegliato. Simone poté togliere di mezzo tutta la roba di Bill, dandola a Jorg. L’unica cosa che non volle dar via, fu l’album di fotografie. Quello non poteva. Dopotutto, era una parte della sua vita, un pezzo di sé. L’avrebbe nascosto sotto il materasso della camera da letto. Lì Tom non l’avrebbe mai trovato. Ma se l’avesse fatto... Non avrebbe voluto nemmeno immaginare che cosa sarebbe potuto succedere. Come gliel’avrebbe spiegato? Ma visto che non c’era alcun pericolo che potesse scoprirlo, non si poneva il problema.

«Vedi Tom, questa era casa tua.» disse la donna, posando il mazzo di chiavi sul comò posto accanto alla porta d’ingresso. Non appena entrò, Tom vide molti scatoloni accatastati l’uno sull’altro e sparpagliati tra l’ingresso, il salotto e la cucina. Si guardò intorno, stralunato. Dobbiamo traslocare?

«Ecco, lascia perdere il disordine. Siamo in procinto di un trasloco. Domattina presto il camion verrà a prendere la roba. Ce ne andremo a Berlino. »

«Non ci piaceva stare qui?» passava delicatamente le mani sulle pareti, sui mobili, anche sulle più insulse cianfrusaglie. Sperava in un ricordo, qualsiasi ricordo. Gli sarebbe andato bene tutto, ma non ricordava nulla. O almeno, non tutto: aveva vaghi ricordi, immagini confuse. Cominciò a passeggiare fra gli scatoloni con le mani in tasca. Abbassò lo sguardo e scalciò una carta appallottolata.

«Ricordi qualcosa?» Simone si sfilò le scarpe bagnate e le lasciò sull’uscio della porta. Tom si voltò verso di lei, guardandola per qualche istante. Scosse il capo. «Tranquillo, tesoro mio. Presto avrai una nuova vita. Non importa se non ricorderai quella precedente. Tanto...» si interruppe. Perse un battito.

«Tanto cosa?» disse spostando la sua attenzione su un dipinto. Lo fissava attentamente.

«...Non c’è nulla di così importante da ricordare… basta che tu ora sia felice.» lo guardava con un po’ d’ansia negli occhi. Quello non era un semplice dipinto. L’aveva fatto Bill. Porca miseria! Avrei dovuto togliere anche quello! In quel momento, stava solo sperando che non notasse un piccolo particolare. Anche se sarebbe stato inevitabile. Doveva fare qualcosa. Lo stava osservando con molta attenzione. I colori, le sfumature, le luci e le ombre, erano tutti perfettamente mescolati, fusi in un'unica cosa. Era un dipinto bellissimo.

«Chi è l’autore Bill?» Troppo tardi. Doveva trovare una scusa. Subito. All’istante. Non esitò un attimo. Ebbe subito la risposta pronta. Disse che nemmeno lei lo sapeva. Affermò che quel quadro lo comprarono ad una mostra d’antiquariato. Sebbene il quadro sembrasse tutto meno che antico. Tom fece spallucce e si sedette sul divano.

«Perché andiamo via da Lipsia? È così tranquillo come posto. Penso che andare in città, non sia molto favorevole per la mia riabilitazione. Il dottore non ha detto…»

«Ha detto che bisogna cambiare aria.» bugia. Non aveva mai detto una cosa del genere. «Ha detto che non devi ricordare necessariamente tutto della tua vita passata. Non c’è nulla di importante qui. Nulla.» stava quasi per piangere. Non aveva mai mentito così spudoratamente al figlio. Come poteva dirgli che lì, a Lipsia, c’era suo fratello? E che per riportare alla mente le cose passate avrebbe dovuto completamente stravolgere la sua vita. L’avrebbe fatto nascere una seconda volta. Con la sua mente resettata, avrebbe potuto ficcargli in testa tutto ciò che voleva lei. Non ciò che avrebbe voluto lui. Era inerme, ignaro della vera situazione, succube degli imbrogli dei genitori.

«Non ho visto un uomo al tuo fianco, Simone. Non ho un padre?» ancora gli sembrava strano chiamare ‘mamma’ una donna che, fino ad una settimana prima, non ricordava di aver mai incontrato. Simone deglutì.

«Abbiamo divorziato. Quando eri piccolo. Molto piccolo. Non vuole più avere a che fare con noi. Si è trovato un’altra compagna.» bugia. Bugia. Bugia.

Tom annuì. Aveva lo sguardo basso, i gomiti poggiati sulle ginocchia divaricate. Bene! Non ho un padre. «Fratelli o sorelle? Zii, cugini, nonni…?» Simone deglutì nuovamente. Non si era mai trovata così tanto in difficoltà. Ma era inevitabile che Tom dovesse fare così tante domande. Lei avrebbe dovuto soltanto mentire, mentire e mentire. Se l’avesse portato dagli zii, o dai nonni, di sicuro questi avrebbero chiesto di Bill. E se si fosse ricordato? No. Non poteva succedere. Non di nuovo. Non l’avrebbe sopportato un’altra volta. Dovevano sparire. Letteralmente. Scosse il capo e sorrise tristemente.

«Sì Tom. Hai degli zii a Chicago. I nonni paterni... Nemmeno loro vogliono avere a che fare con noi. I miei genitori sono morti quando ero piccola.» solo l’ultima affermazione era vera. Il resto, ancora menzogne. «Vuoi vedere il resto della casa?» Tom scosse il capo. Si alzò dicendo che era inutile visto l’imminente trasferimento.

«Andrò in camera mia. O meglio… In una camera a dormire. Dov’è la mia stanza?»

Su per le scale e poi l’ultima porta a destra. Annuì, si avvicinò alla guancia della madre e le diede un bacio. «Perdonami se ancora non riesco a chiamarti mamma, Simone.» Accarezzò una guancia del figlio e ricambiò il bacio. Gli occhi erano lucidi. Forse per la stanchezza, o quasi sicuramente, per il dolore che stava provocando al figlio, pur non sapendolo ancora. Ma sapeva benissimo che, prima o poi, la verità sarebbe venuta a galla. Non poteva nascondersi per il resto della vita. L’avrebbe affrontato un giorno, e una volta fatto sapeva che l’avrebbe perso. E questa volta, per sempre.

«Tutto a suo tempo, Tom. Tutto a suo tempo. »

-

«Ehi Tom! Ma dove ti eri cacciato?» la voce di Andreas lo fece sobbalzare, portandolo nuovamente alla realtà. «È mezz’ora che ti cerco!»

Possibile tanto tempo? Andreas era solito ingigantire le cose.

«Ma sarò stato via massimo dieci minuti. Ho fumato una sigaretta e mi sono soffermato qui. »

«Al freddo e al gelo come Gesù bambino? Non ti facevo così masochista, Tom.» Il rasta lo guardò con un’aria schifata. Un ragazzo più o meno della sua età, gli stava palpando vogliosamente il sedere. Era alto e di una carnagione molto più scura della sua. Sarà stato ispanico.

«Vai a fare le tue sozzerie da un’altra parte.» posò il suo sguardo sullo sconosciuto, lo guardò da capo a piedi. Quello non badò a ricambiare lo sguardo, era troppo preso da Andreas.

«Mi presti l’auto?»

Cos’è che vuoi tu? La mia bambina non si presta a nessuno! Solo io posso usare i sedili posteriori della mia auto.

«Tom andiamo.»

«Andatevene in un Motel o nel bagno della discoteca! Lasciami perdere.» Non dette il tempo all’amico di dire altro. Si scostò dalla portella del passeggero e si diresse verso quella del conducente. L’aprì e mise in moto l’auto. Abbassò il finestrino alla sua destra.

«Io vado a cercare qualche bella ragazza. Ti accompagna l’amico caramellato a casa?» battuta di cattivo gusto. Andreas annuì scocciato, e l’altro partì.

Stava girando da quasi dieci minuti. Ascoltava a tutto volume Hamburg di Samy Deluxe. Quella canzone gli dava davvero una grande carica. Era la sua preferita.

Yeah! Oh... Scheint, als hätten die Wichser vergesses, wer wir Sind...
Aha... Zeit, die Augen wieder in den Norden zu richten! Hamburg!

Batteva il clacson a ritmo di musica. I finestrini abbassati, il gomito poggiato sulla portiera. Ogni tanto, quando vedeva passare una bella ragazza, suonava più volte il clacson, faceva sorrisi maliziosi od occhiolini. Queste sorridevano, squittivano o, alle volte, sembravano del tutto indifferenti.

Das ist die Stadt, in der wir leben, Mann,
Digger, dies ist Hamburg! Hamburg!
Das IST die Stadt, in der es regnet, Mann,
Digger, dies ist Hamburg!
Hamburg!

Tamburellava le mani sul volante muovendo a tempo di musica la testa. Si mordeva il labbro inferiore, come per darsi più carica. Continuava a guardare a destra e a sinistra, cercando qualche prostituta che avrebbe potuto portarsi a letto.

«Bingo!»

Due donne. Una bionda e l’altra mora. Formose, alte, belle. Avevano davvero l’aria di due che sapevano il fatto loro. D'altronde, cosa c’era d’aspettarsi con due che vendevano il proprio corpo per soldi? Tom accostò. Si soffermò a guardare la bionda. Lo facevano uscire fuori di testa. Perché? Bionde e stupide! Ecco cosa pensava di loro. La classica ragazza che, con una semplice frase, era pronta a darla al primo che capitava. Questo era un caso a parte, però. Lui sarebbe finito in mezzo alle sue gambe anche non dicendo nulla. Non era la prima volta che andava a donne. Forse era già la quinta o la sesta volta. Lo divertiva, lo eccitava. Una volta se ne portò tre insieme, ovviamente, sul sedile posteriore della sua Cadillac. Non avrebbe mai speso del denaro in un Motel da quattro soldi per una prostituta. La sua macchina, la sua bambina, li avrebbe comodamente ospitati sul sedile posteriore. Come sempre.

«Buonasera!» la bionda si avvicinò. Poggiò i gomiti sulla portiera. Il finestrino era ancora abbassato. «Che bella macchina.» continuò poi. La mora era intenta ad avvicinarsi ad un altro cliente. Ciao bellezza.

La donna aveva trent’anni, o giù di lì. Portava una minigonna molto striminzita, di pelle rossa; calze a rete nere, scarpe rigorosamente alte color panna - molto probabilmente saranno state un tacco diciotto - e la maglietta, se quella poteva definirsi tale, era di velo e lasciava scoperto tutto il suo prosperoso seno. Era dello stesso colore delle scarpe, così come la camicetta dello stesso colore delle calze. Si chinò a novanta, in modo tale da mettere in mostra il suo décolleté. Tom giocherellò con il piercing.

«Qual è il tuo prezzo?»

La donna si portò un dito vicino la bocca. Sei maggiorenne? Tom alzò un sopracciglio. E anche se non lo fossi? Fece spallucce.

«70€ servizio completo.» Affare fatto. Fece un cenno con il capo di salire in macchina. Quella salì senza esitare. Era stata con tanti, ma tanti uomini. Mai così giovani. La cosa la incuriosiva parecchio. Era lui che doveva provare piacere, non lei. Oramai c’era abituata. Tom partì nuovamente, trovò una via buia dopo circa duecento metri e accostò. La canzone era appena finita.

Quando tornò a casa erano le tre di notte e Scotty, il suo cane, lo accolse scodinzolando allegramente. Era un tenero cucciolo di bracco tedesco bianco e nero. Aveva poco più di otto mesi. Lo adorava moltissimo. Accese la luce.

«Ehi campione!» si piegò sulle ginocchia e avvolse fra le mani il piccolo capo del cane. Gli accarezzò le orecchie fragorosamente. Alzò lo sguardo dagli occhi del cane e dette una fugace occhiata in giro. Non c’erano segni di disastri – almeno non grandissimi – né bisognini in giro, solo un cuscino completamente privato delle piume d’oca. La federa rosa pesca giaceva sul divano completamente strappata e un tappeto di piume bianche e grigie era sparso non solo sul divano ma anche per terra, sulla moquette bordeaux. Tom smise di accarezzare il cane e riprese a fissarlo. «Devi solo ringraziare che sei maledettamente tenero. Altrimenti ti avrei schiacciato questa tua bella testolina a mani nude.» Scotty prese a leccarlo, come se quello che aveva appena detto non gli importasse.

Lo guardò ancora, sorrise involontariamente. Quella sottospecie di cuccioletto a pelo corto era di una dolcezza unica. Ebbe un ricordo di quando il dottore parlò loro della Pet Therapy.

Cinque mesi prima

«La Pet Therapy?» Simone non aveva mai sentito parlare di questo tipo di terapia.

«Sì signora. La Pet Therapy o zooterapia, è una terapia dolce, basata sull’interazione uomo-animale. Si tratta di una terapia che integra, rafforza e coadiuva le tradizionali terapie e può essere impiegata su pazienti affetti da differenti patologie con obiettivi di miglioramento comportamentale, fisico, cognitivo, psicosociale e psicologico-emotivo. »

Simone scosse il capo. Mio figlio non ha problemi mentali, né tanto meno delle patologie. Ha solo perso la memoria.

«Questo lo so, signora Trümper. Ed è proprio per questo che io le consiglio questo tipo di terapia. D’altronde, essendo da solo, suo figlio ha bisogno di una compagnia… e un cane, un gatto, può senza dubbio aiutarlo a vivere meglio e a ricordare più in fretta. Se il suo animo è tranquillo, grazie all’animale, non avrà incubi sull’incidenti, insonnie, e potrebbe superare questa grave forma di amnesia.»

Simone annuì, Tom era accanto a lei. Intervenne.

«Quindi. Posso evitare di prendere le mie piccole o di andare dallo psicologo? Detesto quell’uomo.»

Il dottor Braun si lasciò scappare una risata. Sì, il dottor Fischer non è molto simpatico. Dopodiché tornò nuovamente serio. «No, Tom. Questo non vuol dire che devi smettere di prendere le pillole o di andare dallo psicologo. Perché la Pet Therapy non è una terapia a sé stante, ma una co-terapia che ne affianca una tradizionale in corso. Lo scopo di questa è quello di facilitare l’approccio medico e terapeutico delle varie figure mediche e riabilitative soprattutto nei casi in cui il paziente non dimostra collaborazione spontanea. La presenza di un animale permette in molti casi di consolidare un rapporto emotivo con il paziente e, tramite questo rapporto, stabilire sia un canale di comunicazione paziente-animale-medico sia stimolare la partecipazione attiva del paziente. E credo che a te ce ne sia davvero bisogno, visto che Fischer continua a dirmi che non ci sono miglioramenti da parte tua. Che non collabori.»

Tom chinò il capo. Si guardò le punte delle scarpe che da un bianco vivido, erano diventate di un bianco sporco; e la pelle era leggermente consunta. Simone sapeva che non era colpa del figlio se non ricordava nulla. Il dottore si basava esclusivamente su quello che gli diceva lei. Non sapeva niente della sua vera vita. Come poteva ricordarsi di una vita che non aveva mai vissuto? D’altronde, l’unico a sapere la verità era il dottor Frost dell’ospedale di Lipsia. Loro però erano a Berlino adesso.

«Io provo a ricordarmi, mi sforzo, lo giuro. Ma è come se tutto quello che mamma mi ha detto...» fece una breve pausa, la guardò. Simone gli mise dolcemente una mano sulla spalla, lo tranquillizzò, dicendo che tutto si sarebbe sistemato.

«Ti ricordi cosa ti dissi due anni fa? Quando ti rimettesti dall’ospedale?»

Tom sorrise, l’abbracciò con forza. Fece sprofondare il viso nell’incavo della gracile spalla della madre e pianse.

«Tutto a suo tempo. Tutto a suo tempo.»

-

Un rumore proveniente dallo studio di sua madre, lo fece rinvenire.

«Tom? Sei in casa?»

No. Sono un ladro che si è volutamente fatto sentire. «Certo mamma! Chi può essere a quest’ora!?» Tom si mise in piedi e andò nello studio di Simone. Era intenta a scrivere, come sempre. Aveva gli occhiali poggiati sul naso, ma non vi guardava attraverso. Era leggermente curva sul monitor del computer per guardare più attentamente la pagina di Word. Stava scrivendo il suo primo romanzo: Wer umrahmt die Professor Schmidt? Che razza di titolo era ‘Chi ha incastrato il professor Schmidt?’ Più volte Simone aveva proposto al figlio di leggere la trama per sentire cosa ne pensava, ma lui aveva sempre rifiutato. Non si intendeva affatto di scrittura, né tanto meno di libri. Non gli piaceva minimamente leggere.

Si poggiò sullo stipite della porta, con le braccia incrociate al petto e il piede destro davanti a quello sinistro. «Come mai sei tornato a casa così tardi?»

«E tu perché sei ancora sveglia a quest’ora?» le rispose di getto Tom. Simone alzò lo sguardo dal monitor. Io lavoro.

«Sì, e io mi godo la vita mamma. Voglio ricordarti che con me non è stata molto gentile. Non puoi costringermi a tornare a casa alle nove di sera come le galline del pollaio.»

«Okay, hai ragione. Ma almeno non quando l’indomani hai scuola.»

Colpito e affondato. Aveva ragione: il giorno dopo aveva scuola. Se n’era del tutto dimenticato. Come può un ragazzo di diciotto anni dimenticarsi che il giorno dopo ha lezione? Per di più, il pomeriggio avrebbe dovuto lavorare a quella fottutissima tavola calda; di nuovo lo straordinario. Quattro ore per soli cento schifosissimi euro in più dalla normale busta paga. Magra, alquanto magra. Ma doveva lavorare se voleva uscire ogni sera e portarsi donne facili a letto.

«Ci devo andare per forza? Ho un lavoro mamma!» Simone lo fulminò con gli occhi. Gli disse che anche se fosse stato impegnato con il lavoro ogni giorno, doveva trovare tempo per la scuola. Era importante. Avrebbe dovuto almeno diplomarsi. Almeno. Dopo l’incidente, Tom saltò un mese di scuola. Simone lo ritirò dalla scuola a Lipsia, la Mittelschule e lo iscrisse alla Friedrich-Bergius-Oberschule. Adesso si ritrovava a ripetere l’ultimo anno.

Sbuffò. Scotty abbaiò. Si ricordò del piccolo incidente che aveva combinato quella piccola peste. Meglio pulire in fretta, prima che mamma se ne accorga.


Accese il computer: non aveva alcuna intenzione di dormire. Se l’avesse fatto, di sicuro non si sarebbe svegliato alle sette. La mattina dopo si sarebbe bevuto come minimo due tazze di caffelatte con i biscotti. Avrebbe cominciato alla grande la giornata.

Il monitor, con la sua luce azzurra intensa, illuminava la gran parte della stanza. Scotty era sul letto a dormire. Entrò su Facebook. 5 richieste, 35 notifiche. Accettò solo le amicizie. Andreas è online. Non mi va di contattarlo.

Cazzeggiò un’ora, non di più. Gli occhi cominciarono a bruciargli e a farsi sempre più pesanti, fece due, o forse anche tre sbadigli di seguito. Il sonno stava cominciando ad impossessarsi di lui. Avrebbe fatto meglio a dormire. L’indomani la giornata sarebbe stata alquanto faticosa e lui, avrebbe dormito poco meno di tre ore.

   
 
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