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Capitolo 1 -
Due
anni dopo
Ordinò
un drink, il suo solito superalcolico
che, ogni volta che lo beveva, lo faceva uscire fuori di testa. Gli
bastavano
un bicchiere di B52 e due di Angelo azzurro per farlo ubriacare
completamente. Presto, sarebbero arrivati anche quelli; tutto dipendeva
dall’evolversi della serata. Se fosse stata noiosa, non
avrebbe esagerato, ma
se avesse preso la piega di sempre, l’avrebbe anche fatto.
Una tirata poi, non
mancava mai.
Ogni
sera, Tom Trümper, con il suo migliore
amico Andreas, usciva per i più lussuosi Night Club di
Berlino. Donne, sesso,
alcool, era il cocktail perfetto per una serata, come diceva sempre
lui, da sballo. Quella sera, a
fargli
compagnia, erano due gemelline russe, in gita turistica.
Offrì loro da bere. Acqua tonica
con ghiaccio. Sebbene non
capisse assolutamente la loro lingua, bastava sorridere ad entrambe per
capire
che queste, ben presto, sarebbero finite sul sedile posteriore della
sua
Cadillac nera. O almeno, era quella la sua intenzione.
Distolse
per qualche minuto lo sguardo dalle
ragazze e cominciò a guardarsi intorno. Non era mai stato in
quel locale,
“Adagio”. Andreas ha buon gusto. Pensò.
La
musica era altissima. C’era un gioco di
colori davvero molto bello. Giallo, fucsia, arancio, rosso e blu. I
riflettori
illuminavano la pista dove tre ragazze stavano ballando su un cubo.
Più
indietro, invece, una serie di uomini, dai venti ai
cinquant’anni, erano presi
a fissare - o meglio sbavare - dietro
una vetrina larga un metro e mezzo e alta all’incirca due,
dove, in ognuna di
esse, vi erano giovani ragazze non più di
vent’anni. Gli uomini avevano in mano
banconote da 20, 50, e 100 euro. I più ricchi, potevano
permettersi anche
banconote da 200 e 500 euro. Invece, dietro a dei tendoni di velo
colorati, vi
erano coloro che volevano godersi un ballo privato. Solitamente, erano
20 euro
ogni cinque minuti; il prezzo aumentava se poi, oltre al
‘balletto privato’,
fosse stato aggiunto anche qualcos’altro.
Soffermando poi lo sguardo
sulla destra, notò
una coppia di uomini che stava litigando. Rise leggermente. Accanto a
questi
c’era una ragazza, intenta a strattonare uno dei due uomini. Molto probabilmente non avranno saputo
condividersela. Pensò Tom.
«Io
ci sarei riuscito!» disse ad alta voce,
senza nemmeno accorgersene.
Tornò
a fissare le ragazze che, in quel
momento, badavano ad altro. Avevano i capelli di un rosso molto acceso,
la
pelle diafana, liscia come la porcellana. Due grandi occhi verdi e
pesantemente
truccati di nero, le ciglia erano così voluminose da
sembrare un ventaglio.
Posò lo sguardo sulle labbra, troppo fini e sottili. Si
riusciva ad intravedere
leggermente la scia di rosso fuoco che, a quanto pareva, doveva essere
il
rossetto. Passò al resto del corpo. Magre.
Troppo magre. Odio il vestito. Quanti anni potranno avere? Venti? No..
Di più.
Me le farei comunque.
Sorseggiò
il suo drink distogliendo lo sguardo
dalle due. Si mise alla ricerca di qualche altra preda nel caso in cui
quelle
due gemelline non fossero state d’accordo nel seguirlo in
macchina. Posò il
bicchiere sul bancone, lasciando un alone bagnando sotto di esso. Ne
aveva
versato un po’. Porse nuovamente attenzione sulle ragazze.
«Voi
riuscite a capirmi?» disse scandendo bene il labiale nel vano
tentativo di
sovrastare l’assordante chiasso che c’era nel
locale e, soprattutto, di farsi
capire. Tra la musica e il vociare della gente, non si poteva parlare
assolutamente. Aggiunse anche i gesti per farsi comprendere meglio. Le
ragazze
squittirono, guardandosi l’una con l’altra. Una di
loro mormorò qualcosa
nell’orecchio dell’altra. Dopodiché una
di loro parlò a Tom.
«Вы
очень хорошенький»
Tom
strabuzzò gli occhi. Che cosa aveva detto?
Lo aveva per caso insultato? Anche se, dalla reazione
dell’altra sorella, non
si direbbe. Prese a ridere con fare piuttosto da paperella.
«Cosa?
Non ti capisco!» disse Tom, urlando. La
ragazza ripeté nuovamente ciò che aveva detto.
Tom continuava a non capire. Possibile che
siano così idiote da non
capire che non conosco la loro lingua del cazzo? «Troia.
Non ti capisco!»
disse infine, ironico e con un certo ghigno divertito, vedendo che
questa
continua a ripetere - sempre in russo - la stessa frase nonostante
l’avesse
pesantemente insultata. Credo che non
avremo una discussione.
«Ha
detto che sei molto bello, idiota!» d’un
tratto sbucò l’amico da dietro, facendolo
sobbalzare. Prese il cocktail di Tom
e lo bevve d’un fiato. Quello
tecnicamente, doveva essere mio. Pensò Tom.
«Он
идиот. Не понимает!» Disse mentre si allontanava dalle spalle
dell’amico per
dirigersi verso le ragazze. Si sedette su di uno sgabello accanto. Le
russe
presero a ridere. Tom non riusciva a capire un fico secco.
Cominciò ad
irritarsi. Che cazzo gli sta dicendo?
Bastardo! Tom strattonò Andreas per la maglietta,
tirandolo violentemente
verso di sé. Com’era suo solito fare,
d’altronde. Che cazzo gli stai
dicendo? Perché ridono! Questo prese a ridere a
sua volta. Scosse il capo, dicendo che non voleva dirglielo.
«Dimmelo
ora e subito, invece! O dirò ai tuoi
che sei gay!» Sebbene il chiasso, Andreas riuscì a
capire benissimo. Smise di
ridere in un attimo. Non sarebbe mai stato in grado di rivelare il suo
segreto
ai genitori di lui. Dopo tutto, era l’unico a sapere la
verità. Sebbene
conoscesse Tom meglio di chiunque altro, era comunque imprevedibile
ogni suo
comportamento. L’unica cosa di cui era certo, era il suo
carattere irascibile e
molto vendicativo. Meglio non rischiare. Deglutì.
«Non
c’è bisogno di fare le tue solite minacce
del cazzo!» si liberò dalla presa ferrea di Tom
con uno strattone. «Gli ho
semplicemente detto che non capisci la loro lingua.» e che sei un idiota. Pensò
poi. Rise nuovamente al pensiero. Si
tradì da solo. Si morse quasi fino a farsi male, il labbro
inferiore. Così Tom
cominciò a spazientirsi.
«Anche
se sei il mio migliore amico, questo non
vuol dire che tu ti debba prendere gioco di me. Te lo puoi scordare. Se
ben ricordi.
Io so una cosa che nessuno sa. Quindi. Vedi di non fare molto lo
stronzetto
irritante con me. Che altro hai detto?» Tom gli dette un
‘amichevole’ spinta,
facendogli urtare leggermente il busto sul
bancone. Adesso era Tom a ridere. Andreas lo fissò con uno
sguardo fulmineo.
Gli occhi erano ridotti a due fessure, così come la bocca. Con precisione ho detto: è un idiota!
Non capisce. Ecco contento adesso?
Tom
annuì molto lentamente. Come per dire: bravo
bambino. Lo fissò ancora, dopodiché,
entrambi, scoppiarono a ridere. Adesso erano le ragazze a non capire il
perché
ridessero. Andreas dette una pacca amichevole sulla spalla del rasta, e
gli
offrì un altro drink. Lo stesso che si era bevuto lui stesso
un attimo prima.
«Come
fai a conoscere il russo?»
«A
scuola. Tempo fa. Non lo so alla perfezione.
Ma riesco comunque a capirlo.» Andreas era più
grande di Tom di tre anni. «Ma adesso
andiamo Tom, puoi fare di meglio. Queste qui sono pure troppo magre e
troppo...
Insomma.» le osservava, mentre queste continuavano a ridere
con fare da
ochette. Alzò le sopracciglia. «Sarò
pur sempre gay, è vero. Ma ho comunque
buon gusto! Inoltre odio i capelli rossi.» disse Andreas con
fare altezzoso.
Tom scostò il capo verso destra, in modo tale da poter
guardare un’altra volta
le ragazze.
Storse
le labbra, giocherellò con il piercing.
Stavano parlando fra di loro. Gesticolavano, si aggiustavano quella
specie di
stoffa che forse, doveva essere il loro vestito. Sì,
posso fare di meglio! Senza dubbio. Si alzò dallo
sgabello,
afferrò il cocktail che gli era appena arrivato e, con la
mano libera, salutò
in modo del tutto indifferente, le
due ragazze.
«Andiamo
a ballare, Tom!» lo prese saldamente
dal polso e cominciarono ad addentrarsi nella calca di persone presenti
sulla
pista da ballo. Tom aveva il braccio destro alzato - era la mano con
cui teneva
stretto il drink - e muoveva la testa e le spalle a tempo di musica.
Aveva
stretto il labbro inferiore fra i denti. Molta gente
cominciò a spingerlo, a
schiacciarlo involontariamente. Stavano solo ballando.
«Andy!!
Aspetta. Sono rimasto indietro!» urlò,
sentendo la presa dell’amico lasciare il suo polso.
«Andy!» urlò di nuovo.
L’amico, seppure non molto distante da lui, non
riuscì a sentire.
Le
casse erano troppo vicine e la suo voce non
poteva superare il fracasso che c’era in quel preciso punto.
Il braccio era
ancora in alto, non riusciva ad abbassarlo. Se l’avesse
fatto, di sicuro con
gli spintoni glielo avrebbero rovesciato addosso completamente. Ma che palle! Sbuffò, facendo
dietrofront per cercare un tavolino su cui poggiare quel maledetto
picchiere. Ma perché me lo sono
portato. Non potevo
finirlo prima? Quando finalmente dopo svariate gomitate,
pestate di piedi e
capelli che sbattevano sul suo viso con una velocità
supersonica, quasi
graffiandolo, riuscì a raggiungere il punto di partenza.
Poggiò il bicchiere
ormai vuoto sul bancone e si diresse verso l’uscita del
locale per fumare una
sigaretta.
Dette
due boccate e soffiò via il fumo,
formando dei cerchi concentrici perfetti. Aspirò di nuovo.
Era poggiato sullo
sportello della sua Cadillac. Due buttafuori erano in posizione
perfettamente
eretta proprio davanti ad essa. Le braccia erano bruscamente incrociate
all’altezza dello stomaco. Saranno stati alti un metro e
novanta per
centotrenta chili di muscoli. Tom si sentì uno scricciolo,
sebbene fosse anche
lui piuttosto in forma.
Fece
un cenno del capo per salutare quei tizi,
apparentemente indifferenti. Diede un’altra boccata. Con
l’ultima, tenne più
tempo il fumo in bocca, dopodiché lo fece uscire dalle
narici. Gettò il
mozzicone per terra e lo spense con la punta della scarpa.
Si
poggiò nuovamente di peso sull’auto. Si
guardava a destra e a sinistra. Le mani erano in tasca. Sebbene avesse
una
felpa piuttosto pesante, si strinse nelle spalle. Anche la primavera a
Berlino
era fredda. A Lipsia era diverso. Lì, in quel paesino, tutto
ero più calmo e
tranquillo. Nonostante il trasferimento dopo un anno
dall’incidente, ricordava
piuttosto bene quel posto. Il profumo delle ginestre che fiorivano
l’estate, il
freddo pungente dell’inverno, i deboli raggi del sole che
accarezzavano la pelle
in primavera, i colori delle foglie in autunno.
Si
portò una mano dietro il capo, poco più
sopra della nuca. La toccò delicatamente. Nonostante i
dreadlocks, riusciva a
sentire la pelle rialzata della cicatrice. Ricordava il giorno
dell’incidente. Come
aveva fatto a perdere il controllo in quel modo? Meno
male che con me non c’era nessuno. Pensò
poi. Abbassò gli
occhi. Si guardò la punta delle scarpe. Erano nere a causa
delle pedate che
aveva avuto un attimo prima. Alzò nuovamente lo sguardo.
Guardava i passanti e,
per un momento, si perse nei suoi pensieri, riportando alla mente il
giorno in
cui tornò a casa per la prima volta dopo
l’incidente.
Due
anni prima – 15
dicembre 2006
Solo
una settimana dopo il suo risveglio, Tom
poté tornare a casa. E in quella settimana, il ragazzo
accanto a lui non si era
ancora svegliato. Simone poté togliere di mezzo tutta la
roba di Bill, dandola
a Jorg. L’unica cosa che non volle dar via, fu
l’album di fotografie. Quello
non poteva. Dopotutto, era una parte della sua vita, un pezzo di
sé. L’avrebbe
nascosto sotto il materasso della camera da letto. Lì Tom
non l’avrebbe mai trovato.
Ma se l’avesse fatto... Non avrebbe voluto nemmeno immaginare
che cosa sarebbe
potuto succedere. Come gliel’avrebbe spiegato? Ma visto che
non c’era alcun
pericolo che potesse scoprirlo, non si poneva il problema.
«Vedi
Tom, questa era casa tua.» disse la
donna, posando il mazzo di chiavi sul comò posto accanto
alla porta d’ingresso.
Non appena entrò, Tom vide molti scatoloni accatastati
l’uno sull’altro e
sparpagliati tra l’ingresso, il salotto e la cucina. Si
guardò intorno,
stralunato. Dobbiamo traslocare?
«Ecco,
lascia perdere il disordine. Siamo in
procinto di un trasloco. Domattina presto il camion verrà a
prendere la roba.
Ce ne andremo a Berlino. »
«Non
ci piaceva stare qui?» passava
delicatamente le mani sulle pareti, sui mobili, anche sulle
più insulse
cianfrusaglie. Sperava in un ricordo, qualsiasi ricordo. Gli sarebbe
andato
bene tutto, ma non ricordava nulla. O almeno, non tutto: aveva vaghi
ricordi,
immagini confuse. Cominciò a passeggiare fra gli scatoloni
con le mani in
tasca. Abbassò lo sguardo e scalciò una carta
appallottolata.
«Ricordi
qualcosa?» Simone si sfilò le scarpe
bagnate e le lasciò sull’uscio della porta. Tom si
voltò verso di lei,
guardandola per qualche istante. Scosse il capo. «Tranquillo,
tesoro mio.
Presto avrai una nuova vita. Non importa se non ricorderai quella
precedente. Tanto...»
si interruppe. Perse un battito.
«Tanto
cosa?» disse spostando la sua attenzione
su un dipinto. Lo fissava attentamente.
«...Non
c’è nulla di così importante da
ricordare… basta che tu ora sia felice.» lo
guardava con un po’ d’ansia negli
occhi. Quello non era un semplice dipinto. L’aveva fatto
Bill. Porca miseria! Avrei dovuto togliere
anche
quello! In quel momento, stava solo sperando che non notasse
un piccolo particolare.
Anche se sarebbe stato inevitabile. Doveva fare qualcosa. Lo stava
osservando
con molta attenzione. I colori, le sfumature, le luci e le ombre, erano
tutti
perfettamente mescolati, fusi in un'unica cosa. Era un dipinto
bellissimo.
«Chi
è l’autore Bill?» Troppo
tardi. Doveva trovare una scusa. Subito.
All’istante. Non
esitò un attimo. Ebbe subito la risposta pronta. Disse che
nemmeno lei lo
sapeva. Affermò che quel quadro lo comprarono ad una mostra
d’antiquariato.
Sebbene il quadro sembrasse tutto meno che antico. Tom fece spallucce e
si
sedette sul divano.
«Perché
andiamo via da Lipsia? È così
tranquillo come posto. Penso che andare in città, non sia
molto favorevole per
la mia riabilitazione. Il dottore non ha detto…»
«Ha
detto che bisogna cambiare aria.» bugia.
Non aveva mai detto una cosa del genere. «Ha detto che non
devi ricordare
necessariamente tutto della tua vita passata. Non
c’è nulla di importante qui.
Nulla.» stava quasi per piangere. Non aveva mai mentito
così spudoratamente al
figlio. Come poteva dirgli che lì, a Lipsia, c’era
suo fratello? E che per
riportare alla mente le cose passate avrebbe dovuto completamente
stravolgere
la sua vita. L’avrebbe fatto nascere una seconda volta. Con la sua mente resettata,
avrebbe potuto
ficcargli in testa tutto ciò che voleva lei. Non
ciò che avrebbe voluto lui.
Era inerme, ignaro della vera situazione, succube degli imbrogli dei
genitori.
«Non
ho visto un uomo al tuo fianco, Simone.
Non ho un padre?» ancora gli sembrava strano chiamare
‘mamma’ una donna che,
fino ad una settimana prima, non ricordava di aver mai incontrato.
Simone
deglutì.
«Abbiamo
divorziato. Quando eri piccolo. Molto
piccolo. Non vuole più avere a che fare con noi. Si
è trovato un’altra compagna.»
bugia. Bugia. Bugia.
Tom
annuì. Aveva lo sguardo basso, i gomiti
poggiati sulle ginocchia divaricate. Bene!
Non ho un padre. «Fratelli o sorelle? Zii, cugini,
nonni…?» Simone deglutì
nuovamente. Non si era mai trovata così tanto in
difficoltà. Ma era inevitabile
che Tom dovesse fare così tante domande. Lei avrebbe dovuto
soltanto mentire,
mentire e mentire. Se l’avesse portato dagli zii, o dai
nonni, di sicuro questi
avrebbero chiesto di Bill. E se si fosse ricordato? No. Non poteva
succedere.
Non di nuovo. Non l’avrebbe sopportato un’altra
volta. Dovevano sparire.
Letteralmente. Scosse
il capo e sorrise
tristemente.
«Sì
Tom. Hai degli zii a Chicago. I nonni paterni...
Nemmeno loro vogliono avere a che fare con noi. I miei genitori sono
morti
quando ero piccola.» solo l’ultima affermazione era
vera. Il resto, ancora
menzogne. «Vuoi vedere il resto della casa?» Tom
scosse il capo. Si alzò
dicendo che era inutile visto l’imminente trasferimento.
«Andrò
in camera mia. O meglio… In una camera a
dormire. Dov’è la mia stanza?»
Su
per le scale e poi
l’ultima porta a destra. Annuì,
si avvicinò
alla guancia della madre e le diede un bacio. «Perdonami se
ancora non riesco a
chiamarti mamma, Simone.» Accarezzò una guancia
del figlio e ricambiò il bacio.
Gli occhi erano lucidi. Forse per la stanchezza, o quasi sicuramente,
per il
dolore che stava provocando al figlio, pur non sapendolo ancora. Ma
sapeva
benissimo che, prima o poi, la verità sarebbe venuta a
galla. Non poteva
nascondersi per il resto della vita. L’avrebbe affrontato un
giorno, e una
volta fatto sapeva che l’avrebbe perso. E questa volta, per
sempre.
«Tutto
a suo tempo, Tom. Tutto a suo tempo. »
-
«Ehi
Tom! Ma dove ti eri cacciato?» la voce di
Andreas lo fece sobbalzare, portandolo nuovamente alla
realtà. «È mezz’ora che
ti cerco!»
Possibile
tanto
tempo? Andreas
era solito ingigantire le cose.
«Ma
sarò stato via massimo dieci minuti. Ho
fumato una sigaretta e mi sono soffermato qui. »
«Al
freddo e al gelo come Gesù bambino? Non ti facevo
così masochista, Tom.» Il
rasta lo guardò con un’aria schifata. Un ragazzo
più o meno della sua età, gli
stava palpando vogliosamente il sedere. Era alto e di una carnagione
molto più
scura della sua. Sarà stato ispanico.
«Vai
a fare le tue sozzerie da un’altra parte.»
posò il suo sguardo sullo sconosciuto, lo guardò
da capo a piedi. Quello non
badò a ricambiare lo sguardo, era troppo preso da Andreas.
«Mi
presti l’auto?»
Cos’è
che vuoi tu? La
mia bambina non si presta a nessuno! Solo io posso usare i sedili
posteriori
della mia auto.
«Tom
andiamo.»
«Andatevene
in un Motel o nel bagno della
discoteca! Lasciami perdere.» Non dette il tempo
all’amico di dire altro. Si
scostò dalla portella del passeggero e si diresse verso
quella del conducente.
L’aprì e mise in moto l’auto.
Abbassò il finestrino alla sua destra.
«Io
vado a cercare qualche bella ragazza. Ti
accompagna l’amico caramellato a casa?» battuta
di cattivo gusto. Andreas annuì scocciato, e
l’altro partì.
Stava
girando da quasi dieci minuti. Ascoltava
a tutto volume Hamburg di Samy
Deluxe. Quella canzone gli dava davvero una grande carica. Era la sua
preferita.
Yeah! Oh... Scheint, als hätten die
Wichser
vergesses, wer wir Sind...
Aha... Zeit, die Augen wieder in den Norden zu richten! Hamburg!
Batteva
il clacson a ritmo di musica. I
finestrini abbassati, il gomito poggiato sulla portiera. Ogni tanto,
quando
vedeva passare una bella ragazza, suonava più volte il
clacson, faceva sorrisi
maliziosi od occhiolini. Queste sorridevano, squittivano o, alle volte,
sembravano del tutto indifferenti.
Das ist die Stadt, in der wir leben, Mann,
Digger, dies ist Hamburg! Hamburg!
Das IST die Stadt, in der es regnet, Mann,
Digger, dies ist Hamburg! Hamburg!
Tamburellava
le mani sul volante muovendo a
tempo di musica la testa. Si mordeva il labbro inferiore, come per
darsi più
carica. Continuava a guardare a destra e a sinistra, cercando qualche prostituta che avrebbe potuto portarsi a
letto.
«Bingo!»
Due
donne. Una bionda e l’altra mora. Formose,
alte, belle. Avevano davvero l’aria di due che sapevano il
fatto loro.
D'altronde, cosa c’era d’aspettarsi con due che
vendevano il proprio corpo per
soldi? Tom accostò. Si soffermò a guardare la
bionda. Lo facevano uscire fuori
di testa. Perché? Bionde e stupide!
Ecco cosa pensava di loro. La classica ragazza che, con una semplice
frase, era
pronta a darla al primo che capitava. Questo era un caso a parte,
però. Lui
sarebbe finito in mezzo alle sue gambe anche non dicendo nulla. Non era
la
prima volta che andava a donne. Forse era già la quinta o la
sesta volta. Lo
divertiva, lo eccitava. Una volta se ne portò tre insieme,
ovviamente, sul
sedile posteriore della sua Cadillac. Non avrebbe mai speso del denaro
in un
Motel da quattro soldi per una prostituta. La sua macchina, la sua bambina, li avrebbe comodamente
ospitati sul sedile posteriore. Come sempre.
«Buonasera!»
la bionda si avvicinò. Poggiò i
gomiti sulla portiera. Il finestrino era ancora abbassato.
«Che bella macchina.»
continuò poi. La mora era intenta ad avvicinarsi ad un altro
cliente. Ciao bellezza.
La
donna aveva trent’anni, o giù di lì.
Portava
una minigonna molto striminzita, di pelle rossa; calze a rete nere,
scarpe
rigorosamente alte color panna - molto probabilmente saranno state un
tacco
diciotto - e la maglietta, se quella poteva definirsi tale, era di velo
e
lasciava scoperto tutto il suo prosperoso seno. Era dello stesso colore
delle
scarpe, così come la camicetta dello stesso colore delle
calze. Si chinò a
novanta, in modo tale da mettere in mostra il suo
décolleté. Tom giocherellò
con il piercing.
«Qual
è
il tuo prezzo?»
La
donna si portò un dito vicino la bocca. Sei
maggiorenne? Tom alzò un
sopracciglio. E anche se non lo fossi? Fece
spallucce.
«70€
servizio completo.» Affare fatto. Fece
un cenno con il capo di salire in macchina.
Quella salì senza esitare. Era stata con tanti, ma tanti
uomini. Mai così
giovani. La cosa la incuriosiva parecchio. Era lui che doveva provare
piacere,
non lei. Oramai c’era abituata. Tom partì
nuovamente, trovò una via buia dopo
circa duecento metri e accostò. La canzone era appena finita.
Quando
tornò a casa erano le tre di notte e
Scotty, il suo cane, lo accolse scodinzolando allegramente. Era un
tenero
cucciolo di bracco tedesco bianco e nero. Aveva poco più di
otto mesi. Lo
adorava moltissimo. Accese la luce.
«Ehi
campione!» si piegò sulle ginocchia e
avvolse fra le mani il piccolo capo del cane. Gli accarezzò
le orecchie
fragorosamente. Alzò lo sguardo dagli occhi del cane e dette
una fugace occhiata
in giro. Non c’erano segni di disastri – almeno non
grandissimi – né bisognini
in giro, solo un cuscino completamente privato delle piume
d’oca. La federa
rosa pesca giaceva sul divano completamente strappata e un tappeto di
piume
bianche e grigie era sparso non solo sul divano ma anche per terra,
sulla
moquette bordeaux. Tom smise di accarezzare il cane e riprese a
fissarlo. «Devi
solo ringraziare che sei maledettamente tenero. Altrimenti ti avrei
schiacciato
questa tua bella testolina a mani nude.» Scotty prese a
leccarlo, come se
quello che aveva appena detto non gli importasse.
Lo
guardò ancora, sorrise involontariamente.
Quella sottospecie di cuccioletto a pelo corto era di una dolcezza
unica. Ebbe
un ricordo di quando il dottore parlò loro della Pet Therapy.
Cinque
mesi prima
«La
Pet Therapy?» Simone non aveva mai sentito
parlare di questo tipo di terapia.
«Sì
signora. La Pet Therapy o zooterapia,
è una terapia dolce, basata
sull’interazione uomo-animale. Si tratta di una terapia che
integra, rafforza e
coadiuva le tradizionali terapie e può essere impiegata su
pazienti affetti da
differenti patologie con obiettivi di miglioramento comportamentale,
fisico,
cognitivo, psicosociale e psicologico-emotivo. »
Simone
scosse il capo. Mio figlio non ha problemi
mentali, né tanto meno delle patologie. Ha
solo perso la memoria.
«Questo
lo so, signora Trümper. Ed è proprio
per questo che io le consiglio questo tipo di terapia.
D’altronde, essendo da
solo, suo figlio ha bisogno di una compagnia… e un cane, un
gatto, può senza
dubbio aiutarlo a vivere meglio e a ricordare più in fretta.
Se il suo animo è
tranquillo, grazie all’animale, non avrà incubi
sull’incidenti, insonnie, e
potrebbe superare questa grave forma di amnesia.»
Simone
annuì, Tom era accanto a lei.
Intervenne.
«Quindi.
Posso evitare di prendere le mie
piccole o di andare dallo psicologo? Detesto
quell’uomo.»
Il
dottor Braun si
lasciò scappare una risata. Sì,
il dottor Fischer non è molto simpatico. Dopodiché
tornò
nuovamente serio. «No, Tom. Questo non vuol dire che devi
smettere di prendere
le pillole o di andare dallo psicologo. Perché la Pet
Therapy non è una terapia
a sé stante, ma una co-terapia che ne affianca una
tradizionale in corso. Lo
scopo di questa è quello di facilitare l’approccio
medico e terapeutico delle
varie figure mediche e riabilitative soprattutto nei casi in cui il
paziente
non dimostra collaborazione spontanea. La presenza di un animale
permette in
molti casi di consolidare un rapporto emotivo con il paziente e,
tramite questo
rapporto, stabilire sia un canale di comunicazione
paziente-animale-medico sia
stimolare la partecipazione attiva del paziente. E credo che a te ce ne
sia
davvero bisogno, visto che Fischer continua a dirmi che non ci sono
miglioramenti da parte tua. Che non collabori.»
Tom
chinò il capo. Si guardò le punte delle
scarpe che da un bianco vivido, erano diventate di un bianco sporco; e
la pelle
era leggermente consunta. Simone sapeva che non era colpa del figlio se
non
ricordava nulla. Il dottore si basava esclusivamente su quello che gli
diceva
lei. Non sapeva niente della sua vera vita. Come poteva ricordarsi di
una vita
che non aveva mai vissuto? D’altronde, l’unico a
sapere la verità era il dottor
Frost dell’ospedale di Lipsia. Loro però erano a
Berlino adesso.
«Io
provo a ricordarmi, mi sforzo, lo giuro. Ma
è come se tutto quello che mamma mi ha detto...»
fece una breve pausa, la
guardò. Simone gli mise dolcemente una mano sulla spalla, lo
tranquillizzò,
dicendo che tutto si sarebbe sistemato.
«Ti
ricordi cosa ti dissi due anni fa? Quando
ti rimettesti dall’ospedale?»
Tom
sorrise, l’abbracciò con forza. Fece
sprofondare il viso nell’incavo della gracile spalla della
madre e pianse.
«Tutto
a suo tempo. Tutto a suo tempo.»
-
Un
rumore proveniente dallo studio di sua
madre, lo fece rinvenire.
«Tom?
Sei in casa?»
No.
Sono un ladro che
si è volutamente fatto sentire. «Certo
mamma! Chi può essere a quest’ora!?» Tom
si mise in piedi e andò nello studio di Simone. Era intenta
a scrivere, come
sempre. Aveva gli occhiali poggiati sul naso, ma non vi guardava
attraverso.
Era leggermente curva sul monitor del computer per guardare
più attentamente la
pagina di Word. Stava scrivendo il suo primo romanzo: Wer
umrahmt die Professor Schmidt? Che razza di titolo era
‘Chi ha
incastrato il professor Schmidt?’ Più volte Simone
aveva proposto al figlio di
leggere la trama per sentire cosa ne pensava, ma lui aveva sempre
rifiutato.
Non si intendeva affatto di scrittura, né tanto meno di
libri. Non gli piaceva
minimamente leggere.
Si
poggiò sullo stipite della porta, con le
braccia incrociate al petto e il piede destro davanti a quello
sinistro. «Come
mai sei tornato a casa così tardi?»
«E
tu perché sei ancora sveglia a
quest’ora?»
le rispose di getto Tom. Simone alzò lo sguardo dal monitor.
Io lavoro.
«Sì,
e io mi godo la vita mamma. Voglio
ricordarti che con me non è stata molto gentile. Non puoi
costringermi a
tornare a casa alle nove di sera come le galline del pollaio.»
«Okay,
hai ragione. Ma almeno non quando
l’indomani hai scuola.»
Colpito
e affondato. Aveva ragione: il giorno
dopo aveva scuola. Se n’era del tutto dimenticato. Come
può un ragazzo di
diciotto anni dimenticarsi che il giorno dopo ha lezione? Per di
più, il
pomeriggio avrebbe dovuto lavorare a quella fottutissima tavola calda;
di nuovo
lo straordinario. Quattro ore per soli cento schifosissimi euro in
più dalla
normale busta paga. Magra, alquanto magra. Ma doveva lavorare se voleva
uscire
ogni sera e portarsi donne facili a letto.
«Ci
devo andare per forza? Ho un lavoro mamma!»
Simone lo fulminò con gli occhi. Gli disse che anche se
fosse stato impegnato
con il lavoro ogni giorno, doveva trovare tempo per la scuola. Era
importante.
Avrebbe dovuto almeno diplomarsi. Almeno. Dopo l’incidente,
Tom saltò un mese
di scuola. Simone lo ritirò dalla scuola a Lipsia, la Mittelschule e lo iscrisse alla Friedrich-Bergius-Oberschule. Adesso si ritrovava a
ripetere l’ultimo anno.
Sbuffò.
Scotty abbaiò. Si ricordò del piccolo
incidente che aveva combinato quella piccola peste. Meglio
pulire in fretta, prima che mamma se ne accorga.
Accese
il computer: non aveva alcuna intenzione
di dormire. Se l’avesse fatto, di sicuro non si sarebbe
svegliato alle sette.
La mattina dopo si sarebbe bevuto come minimo due tazze di caffelatte
con i
biscotti. Avrebbe cominciato alla grande la giornata.
Il
monitor, con la sua luce azzurra intensa,
illuminava la gran parte della stanza. Scotty era sul letto a dormire.
Entrò su
Facebook. 5 richieste, 35 notifiche. Accettò
solo le amicizie. Andreas è
online. Non
mi va di contattarlo.
Cazzeggiò
un’ora, non di più. Gli occhi
cominciarono a bruciargli e a farsi sempre più pesanti, fece
due, o forse anche
tre sbadigli di seguito. Il sonno stava cominciando ad impossessarsi di
lui.
Avrebbe fatto meglio a dormire. L’indomani la giornata
sarebbe stata alquanto faticosa
e lui, avrebbe dormito poco meno di tre ore.