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Autore: Rhona    13/03/2014    2 recensioni
[Storia in revisione grammaticale e stilistica, alcune volte con l'inserimento di scene di passaggio e simili. Pubblicazione nuovi capitoli ancora in corso, ma a rilento.]
I romani: un popolo colto, erudito, padrone del mediterraneo ed oltre. Potenti uomini conquistatori che non esitano a commettere genocidi in onore di Roma, capitale del mondo intero.
I barbari: guerrieri, selvaggi, forse anche cannibali, che combattono per la loro terra, ma per difenderla, non per ampliarla.
E poi c'è lei. Chi è lei? Non è barbara, ma si oppone a chi la chiama romana... Non è romana, ma si arrabbia se la si chiama selvaggia...
Romani contro barbari: non è la guerra di due popoli; è lo scontro di due mondi opposti eppure tanto vicini.
**** Attenzione: il rating e gli avvertimenti potrebbero cambiare.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Capitolo V
 
ROMA
 
Maximus si divertiva sempre ai combattimenti fra gladiatori: le urla che inneggiavano alla battaglia, il sangue che zampillava vivo, il combattere per la gloria e per conquistare la libertà  lo entusiasmavano. Anche le corse dei carri erano divertenti; con tutti gli uomini che tifavano per il partecipante sul quale avevano scommesso, le risse, il pericolo che i carri si ribaltassero nelle curve prese ad alta velocità: Maximus aveva notato che quello più lento finiva per vincere, dato che era l’unico a non ribaltarsi. Si ricordava che anche a Lucius piaceva scommettere sui carri. Lucius era partito per l’addestramento: aveva detto che andava a uccidere i barbari. Maximus era sempre più orgoglioso del fratello soldato; “Lo farò anch’io il soldato, un giorno!” pensò. Presero posto sugli spalti: il loro non era un posto privilegiato, ma si vedeva abbastanza bene l’arena, e il palco dell’imperatore. Maximus sperava di vederlo! Si mise seduto fra i fratello maggiori Menio e Gneo. Gaio era vicino a Menio, a sua volta vicino alla madre. Il padre sedeva accanto a Gneo. Maximus si mise le mani sotto lo cosce, dondolando i piedi: non vedeva l’ora che iniziasse. Gneo gli diede una gomitata «Ehi, Maximus, sai cosa succede oggi?»
«Il combattimento fra gladiatori.» rispose allegro e risoluto.
«Si, ma prima...» sussurrò «c’è un’esecuzione... Damnatio ad Bestias.»
Maximus non capiva bene cosa volesse dire «Che significa?»
«Che uccidono i cattivi facendoli sbranare dalle bestie.» Gneo credeva forse di spaventarlo?
«Guarda che non mi fai paura.» dichiarò «Quali cattivi?»
«I barbari alleati che si sono ribellati.» disse. Maximus sorrise, saltellando sul posto.  «Mi piacciono i barbari sconfitti!» disse sorridente a Gneo. «Quando sarò grande entrerò nell’esercito e combatterò i barbari! Proprio come Lucius!»
«Ma Lucius è nella provincia Cirenaica!» rise l’altro «Non ci sono i barbari nordici lì.»
Maximus lo incenerì con lo sguardo. «Non è vero. Lucius mi ha detto che andava contro i barbari...» piagnucolò, mettendo il muso. Gneo sorrise «Ce lo manderanno, ma dopo: ora lo addestrano in Cirenaica. Nostra madre ha tirato un sospiro di sollievo, almeno l’addestramento lo farà lontano dal freddo e dai barb...» fu interrotto dallo squillo di trombe. Un uomo benvestito, con tunica e toga cominciò a parlare. Maximus sentiva, ma non riusciva a vedere cosa accadesse nell’arena. Si alzò in piedi sul suo posto, mentre Gneo lo teneva per le gambe per non farlo cadere. Con lo sguardo cominciò a cercare i barbari. Non li vedeva... Alcuni dicevano che erano alti come quattro uomini normali, con i capelli chiarissimi –forse bianchi-, la pelle candida e gli occhi di ghiaccio. Forti come orsi, che mangiavano le spoglie dei loro avversari, una volta sconfitti. Ricordava quando Lucius, prima di partire per l’addestramento, lo aveva portato in una biblioteca e gli aveva letto il discorso fatto da Critognato alla sua gente, prima dello scontro con Cesare. Maximus, anche se era solo un bimbo di tre anni, aveva maturato la convinzione che chiunque fosse un barbaro era un mostro senz’anima e senza pietà. Finalmente si accorse che non c’erano ancora uomini nell’arena. Attese paziente, quando le porte si aprirono. Entrarono degli uomini altissimi e robusti, ma non potevano essere i barbari: no, impossibile, non avevano i capelli chiarissimi; alcuni erano biondo-sporco, altri castani, rossi, mori: niente capelli bianchi. Erano incatenati gli uni agli altri, con una daga ciascuno come unica arma. Si raccolsero in cerchio, volgendo le spalle al centro mentre tenevano le daghe in avanti. Uno di loro diede istruzioni in un’altra lingua. Altre porte si aprirono, ed entrarono i leoni.
«Gneo!» chiamò «Quanti sono?»
«Dieci barbari contro cinque leoni!» esclamò eccitato per lo scontro. Allora erano quelli i barbari! Sembravano forti come tori. Le belve non esitarono ad attaccare. Una di loro si getto a capofitto nella mischia, disperdendo la formazione dei barbari. Il più robusto di loro andò contro un altro leone, gli afferrò le zampe anteriori e lo tenne occupato, mentre un altro gli affondò la daga nel ventre. Due, tre, quattro volte e ancora di più. La folla esultò. Il leone cadde a terra, morto. Un barbaro correva, inseguito dai leoni. Ad un tratto inciampò e uno dei due felini gli saltò sopra. Un lago di sangue si allargò sulla sabbia dell’arena da combattimento. Gli animali continuarono a sbranare il barbaro che urlava in maniera disumana, contorcendosi per il dolore indescrivibile. Maximus spalancò gli occhi, a metà fra il sorpreso e il raccapricciato. Il leone staccò la testa al barbaro, tranciandola di netto. Sul suo viso era impressa un’espressione di disperazione, ombrata di dolore. Gli altri barbari continuarono a combattere. La folla inneggiava al combattimento. Maximus continuava a fissare il cadavere martoriato e putrefatto dell’uomo senza testa, per cui i leoni avevano perso interesse. Si accorse che erano rimasti due leoni. Uno era morto, steso a terra, mentre altri due si leccavano le ferite, accanto alla porta da dove erano entrati. L’ultimo barbaro, combattendo con il leone cominciò ad urlare, forse maledicendo la città, fissando il palco vuoto dell’imperatore, occupato dalla sua sorella, con il marito e i figli, e dai figli dello stesso imperatore, della stessa età di Maximus. Il leone salì sulle spalle del barbaro e gli morse la testa, uccidendolo sul colpo. La parte superiore del cranio volò via, con il sangue rosso brillante che colava dietro. La folla esultò più forte che mai, felice. Maximus si chiese perché erano così felici. Questa cosa lo faceva arrabbiare: come si poteva essere felici per la morte, per le ferite? Che cosa avevano fatto di male quei leoni?
 
 



 
TERRE DEI SASSONI
 
«Ora tu dici quanti siete, dove, quando attaccare e chi comanda.» il latino non era il suo forte... Vaughan aveva legato le sentinelle all’albero più robusto. Olaf si era gettato senza pensare sui due, ancora nascosti, e ne era uscito ferito: una spada conficcata in un braccio, una ferita profonda che trapassava il braccio da parte a parte. Nulla, in ogni caso, che non potesse essere curato: Fearchar lo aveva portato al rigagnolo più vicino –sperando che non fosse gelato- per lavare la ferita che pur essendo profonda non era sporca o imprecisa. Le sentinelle erano due soldati semplici, fanti forse, armati di una spada e uno scudo. Le avevano catturate e poi imprigionate.
«E perché dovremmo farlo?» rispose quella che aveva riconosciuto come la più determinata. Avrebbe fatto leva sull’altra per ottenere informazioni.
«Tu  dici a me e io ti uccidi senza dolore.»
«Io non temo il dolore!» proclamò impavido.
«Vedremo...» lasciò la frase in sospeso. Buttò la lancia a terra e colpì con un gesto tanto veloce quanto violento il volto del soldato. L’uomo rivoltò il viso: un gran livido sanguinolento comparve nella zona fra il naso e la bocca della sentinella, dal naso un rivolo insanguinato cominciò a fluire. Il romano iniziò a respirare affannosamente. Gridò, tentando di liberarsi e digrignando i denti a Vaughan, cercando forse di spaventarlo. «Ammiro la dedizione di abbandonare voi stessi a morte dolorosa per proteggere casa, io rispetto.»
«È  il mio modo di proteggere la mia famiglia.» disse l’altro, asciugandosi il sangue sulla spalla. Vaughan annuì. L’ospitalità era sacra, certo, ma non poteva rischiare la vita di tutti, per un uomo. «Se dite, io vi uccidi senza dolore.»
Il romano mischiò una lacrima al sangue, scuotendo la testa. «Pur di avere morte lenta?» chiese allora Vaughan.
«Possa l’Impero Romano vivere in eterno.» proclamò, mentre poche lacrime lavavano via il sangue dalla sua guancia, rigando il viso. Vaughan annuì, lo slegò dall’albero e lo fece inginocchiare, ancora con mani, braccia e piedi legati. Il soldato tenette la testa alta, aspettando il colpo che lo avrebbe portato al suo Creatore. Vaughan si sorprese a pensare alla vita e alla morte. Chi era lui, per metter fine a quello che il mondo aveva voluto creare? L’aveva fatto talmente tante volte che non aveva mai davvero pensato a questo. Bastavano pochi attimi, semplici e primordiali sentimenti, a porre fine ad una vita durata anni e anni. Ma non era il momento per i sentimentalismi; non lì, nella Foresta Nera del Nord, che ha come unica legge quella del taglione... E Vaughan era di tutt’altra pasta. Prese la sua spada che aveva dietro la schiena e la sguainò. Si posizionò dietro all’uomo e, con un colpo netto gli staccò la testa, senza dire nulla. La testa ruzzolò sulla neve, tingendola di rosso vivo, con un espressione decisa ma serena; il corpo, mosso ancora da un ultimò spasmo, si contorse in uno spettacolo macabro anche per uno come Vaughan, cadendo di lato alla fine. Sentì le fronde muoversi, la neve cadde da alcuni rami, dopo poco vide arrivare Fearchar, con Olaf al suo seguito. «Tutto bene?» chiese ad Olaf.
«Fa un male cane!» rispose lui seccato.
«Passerà: Cicilia ha dei buoni rimedi per le ferite.» Lui annuì e sospirò lungamente esaminando la ferita.
«Il rigagnolo era ghiacciato: ci abbiano sciolto sopra un po’ di neve, ma non so se è lo stesso.» intervenne Fearchar.
«Andrà bene. Quando torneremo al villaggio si prenderanno cura di te, fratello.» lo rassicurò. Voltandosi verso la seconda sentinella, tremante e spaventata, riprese il discorso che i due avevano interrotto.
«Allora? Quanti siete, dove, quando attaccare e chi comanda?»
Il ragazzo balbettò un poco, si leccò e labbra un paio di volte guardandosi intorno e continuando a sbattere le palpebre, ma alla fine confessò tutto «Cinque legioni di soldati preparati e un manipolo di sentinelle sparse per la zona, siamo accampati sul luogo dell’ultima disfatta romana in un accampamento ben sorvegliato, fortificato e munito di molte armi, il comandante non parla con noi dei suoi piani: si chiama Gaio Tullio Titurio, ma è un anziano senatore, non combatte.» Vaughan fece cenno a Fearchar, che lo slegò e lo fece inginocchiare. Lo uccise in fretta, non accorgendosene neppure; la cosa più importante era un’altra: doveva tornare al villaggio per avvertire gli altri, o sarebbero morti tutti. Si rivolse a Fearchar «Olaf ed io torniamo al villaggio. Appena gli altri tornano, dì loro di setacciare la zona: trovate le altre sentinelle e uccidetele tutte tranne una. Datele le teste mutilate delle altre: che rechi un messaggio a questo “Titurio”!»
 
 
 
 


 
Titurio osservò la neve cadere velocemente nell’aria fredda del Nord. Il vendo sapeva di buono, portava il profumo muschiato degli alberi. Dopo la disastrosa (e a dir poco vergognosa) sconfitta del giovane Flaviano, si era reso necessario il suo tempestivo intervento. Prendere in mano la situazione era stato facile: l’esercito era composto da mercenari, e a loro bastava essere pagati, e da romani motivati, che avevano accolto di buon grado l’idea di essere guidati da un navigato generale, nonché abile politico, come lo era Titurio. Ma lui non aveva alcuna intenzione di patteggiare o di usare la diplomazia: i barbari erano ignoranti, troppo per scendere a patti; la strategia di Titurio era semplice: genocidio. Non aveva detto ai soldati il suo piano, ma avrebbe dato l’ordine di partire in marcia verso il villaggio più vicino, non appena le sentinelle che aveva mandato avrebbero fatto ritorno.  Erano una ventina di soldati ben addestrati. Fra di loro c’erano cinque dei migliori veterani di Titurio: faceva il massimo affidamento su di loro, sapendo che avrebbero sorvegliato i più giovani ed inesperti. Tremante, affondò il collo nella pelliccia che faceva da ornamento al lungo mantello rosso. Neppure la toga era abbastanza pesante per resistere a quelle temperature. Troppo freddo, troppi barbari, troppo malcontento. Avevano già provato ad invadere la Germania, ai tempi di Augusto, ma dopo lo sterminio di tre intere legioni a Teutoburgo –nel 9- avevano deciso di lasciar perdere... No, non del tutto: quando i barbari attaccavano i confini bisognava ricacciarli al loro posto all’istante e dar loro una lezione.
«Generale!» si sentì chiamare. Voltandosi vide che si trattava di uno sei suoi veterani, che tornava dalla ronda.
«Quali notizie?» chiese, nascondendo la trepidazione. Si accorse di trattenere il respiro.
«È  tornata una sola sentinella, dice che anno ucciso i suoi compagni. L’hanno costretto a portare qui le loro teste.»
Titurio sentì il sangue ribollire nelle vene. La rabbia lo invase. Strinse i denti, allargò le radici e parlò: «Ha informazioni sui barbari?»
«Ha detto un solo nome, quando è tornato.»
Titurio attese, abbassò gli occhi e si decise «Quale?» scandì lentamente in modo deciso.
Il soldato esitò un poco «Vaughan.»
 
 



 
Cecilia si risvegliò a casa sua. Accanto al suo letto c’erano Mathilda e altre due donne che non ricordava bene. Vedendola sveglia Mathilda spalancò la bocca felice. «Come stai, mia signora?» chiese.
«Cosa è successo?» si sorprese del timbro della sua voce, così basso e rauco, segno che non parlava da un po’.
«Sei svenuta, ma è può essere una cosa normale in gravidanza. Devi avere più cura di te, mia signora.» rispose la vecchia donna dai capelli rossi, mentre le metteva una pezzetta bagnata sulla fronte. «Cos’hai mangiato stamattina?» chiese.
«Delle erbe amare.» rispose Cecilia.
Lei la fulminò con lo sguardo «Non è abbastanza!» spiegò calma «Devi mangiare di più, mia signora! Hai già dei figli, dovresti saperlo.»
Si spaventò «Dov’è Brynhildr?» chiese preoccupata. Mathilda sorrise, indicando la culla poco distante. «Non preoccuparti, mia signora è lì: Mafalda a nutrito Brynhildr con del latte di capra. Sta bene, ma fra poco avrà bisogno di mangiare di nuovo.» Tirò un sospiro di sollievo. «Vaughan è tornato?»
La ragazza sembrò in difficoltà. Una tragica idea attraverso in un lampo la mente di Cecilia; Vaughan... morto... La ragazza però continuò a parlare «È  tornato, ma ha portato brutte notizie; i Romani si preparano ad attaccare. Entro dieci giorni dobbiamo sgombrare il villaggio e bruciare tutto ciò che resta. Tuo marito sta organizzando le difese, in caso arrivino prima. Ha mandato dei messaggeri ai villaggi vicini.»
Cecilia sospirò, sentendosi in parte responsabile: quella che stava per attaccare era la sua gente. Per un attimo pensò a Marco, ma il suo ricordo scomparve velocemente. L’aveva usata e maltrattata. L'aveva abbandonata senza rimorsi con sua figlia in grembo: la più grande soddisfazione che poteva avere era vedere Vaughan che staccava la testa di Marco dal suo giovane corpo martoriato. Brynhildr era nella culla di legno e dormiva beata, sognando chissà cosa. Sospirò. «Sta tranquilla, Cicilia. Vaughan è il capo del villaggio e anche il capo dei sassoni in questa zona: lo seguiranno in battaglia.»
Era proprio questo il punto: Vaughan avrebbe combattuto, Vaughan poteva morire.




 
***Spazio autore***
Mi scuso per averci messo un’infinità, ma –complice la saltuaria wi-fi di casa- non ho avuto molto tempo per scrivere. Buona lettura!
  
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