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Autore: Framboise    25/03/2014    7 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
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CAPITOLO 3:


Eufemia guardò negli occhi il soldato, che la fissava con sguardo allarmato, brandendo ancora la spada. Si accorse che era più giovane di quanto non le fosse sembrato in un primo momento: un accenno di barba corta e bionda gli copriva il viso, in cui spiccavano due occhi chiari di un colore indefinibile a causa della penombra. Era molto alto e robusto, con le spalle larghe ed una cotta di maglia arrugginita in alcuni punti. Lui la osservava di rimando: la ragazza stringeva ancora il coltello che aveva usato contro Malaspina ed aveva la mano sporca di sangue. Alcuni schizzi avevano raggiunto anche una manica del suo vestito, sporcandone l’orlo con delle macchie scure che si allargavano sul tessuto, ma a parte questo non c’era alcuna prova del delitto. Femia ebbe la vaga consapevolezza di sembrare una pazza, sporca di sangue e scarmigliata com’era.
«I-io non... lui voleva... ho dovuto ucciderlo!» balbettò. Soltanto in quel momento il pensiero di ciò che aveva fatto la colpì appieno: “Ho appena ucciso un uomo” pensò, senza il minimo rimorso o terrore. Aveva dovuto difendersi: lo aveva avvertito di non toccarla, di lasciarla in pace. Poteva incolpare soltanto se stesso per quello che gli era accaduto.
«Sì, ho... ho visto. Lui preso te, tu hai difeso» mormorò il nuovo arrivato, abbassando l’arma e rimettendola nel fodero. Aveva uno strano accento, secco e spigoloso, che Eufemia non aveva mai sentito prima, ma le sue parole smozzicate ed il fatto che non sembrava ritenerla colpevole la tranquillizzarono leggermente. Come se la situazione non la riguardasse più, la ragazza si avvicinò al lavatoio scavalcando il cadavere e pulì la lama del coltello, passandola più volte sotto l’acqua fredda. Mentre il getto gelido le colpiva le mani, ragionava: “Se lo straniero non parla, nessuno saprà che sono stata io. Oltre a noi non c’era nessuno in questa strada, inoltre tutti sanno che Giangaleazzo Malaspina finiva sempre coinvolto in qualche rissa: non indagheranno in modo approfondito. Durante le feste succedono sempre delitti del genere, perché dovrebbero curarsi proprio di questo omicidio in particolare?”. La ragazza abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Non tremavano. Questo le fece sfuggire un sorriso di soddisfazione: anche nelle situazioni critiche poteva sempre contare sulla propria totale presenza di spirito.
«Non dire niente a nessuno. Non una parola!» ordinò allo sconosciuto quando ebbe finito di lavare il serramanico. Il ragazzo la guardò, perplesso.
«Non. Dire. Cosa. È. Successo» sillabò lei, sperando con tutto il cuore che capisse. Fortunatamente fu così.
«Io no visto nulla. Io in taverna stasera» replicò lui, porgendole una mano: uno strano gesto da compiere in una situazione del genere, ma sembrava quasi un segno di pace, il suggellamento di un accordo.
Inaspettatamente, la ragazza sorrise: lo straniero non avrebbe parlato, ma anche se lo avesse fatto, chi gli avrebbe creduto? Avrebbero pensato che l’avesse ucciso lui e che stesse cercando di coprire il fatto. D’altronde era uno straniero ed un mercenario, un capro espiatorio perfetto per le autorità cittadine...
«Grazie. Ora però devo andare » disse, stringendogliela, poi si allontanò in fretta, senza mai guardarsi indietro. Lungo la strada venne assalita da molti pensieri: paura per se stessa, per la sua famiglia e per quello che sarebbe potuto succedere se l’avessero scoperta, ma non il pentimento. Eufemia si sentiva leggermente in colpa per non provare nessun rimorso, ma non riusciva a imporsi di nutrire per Giangaleazzo un sentimento che non fosse un odio puro e pungente come una scheggia.  Mentre camminava, si arrotolò entrambe le maniche per nascondere le macchie di sangue, ma anche se qualcuno le avesse viste non gli sarebbe sembrato strano: lavorando in una macelleria è difficile non sporcarsi. Quando arrivò a casa, suo padre la salutò distrattamente, cosa che le permise di andare subito in camera sua senza dovergli fornire spiegazioni di qualunque genere. Sua sorella dormiva già, raggomitolata nelle coperte come un ghiro nella propria tana. La ragazza si svestì e si distese accanto a lei; poco dopo cadde in un sonno profondo e senza sogni.

I raggi del sole colpirono il viso di Eufemia, che si svegliò lentamente, sbattendo le palpebre e voltandosi nel letto per sfuggire alla luce improvvisa. Dopo un attimo in cui tutto le sembrò normale, i ricordi di ciò che era successo le tornarono alla mente, colpendola come un pugno nello stomaco. Spalancando gli occhi, la ragazza si sedette di scatto sul letto, scoprendo la sorella che dormiva ancora accanto a lei.
“Santo cielo. Ho ucciso Malaspina... il coltello, lo straniero...” ricordò, con il respiro affannoso ed il cuore che batteva forte, rimbombandole nella testa.
Dopo essersi vestita si diresse in cucina, dove si versò una tazza di latte, poi uscì di casa ed andò alla bottega. Era l’alba e le strade erano semideserte: per sapere se il delitto era già stato scoperto avrebbe dovuto aspettare il momento in cui le comari sarebbero passate in macelleria, diffondendo pettegolezzi sui festeggiamenti del giorno prima. Sospirando, la ragazza si scostò i capelli dal volto e cominciò a lavorare, affettando e dividendo la carne come ogni mattina, senza far trapelare nulla dei suoi sentimenti. Nonostante ciò, non poteva impedirsi di riflettere su ciò che aveva fatto e ai rischi che il suo gesto comportava.
“Che cosa potrebbe succedermi se mi scoprissero? Sicuramente mi condannerebbero al rogo, o a qualche altra pena orribile...” pensò rabbrividendo, poi scosse la testa, quasi a voler scacciare l’idea. No, impossibile, non l’avrebbero scoperta. Non c’erano testimoni a parte il mercenario, in più le autorità spesso chiudevano un occhio sui crimini compiuti in quelle circostanze, altrimenti non avrebbero mai avuto tregua: bastava pensare al Carnevale, in cui gli omicidi e le risse erano una regola!
Anche il padre dopo un po’ la raggiunse in bottega, ma non sembrava sapere nulla: le domandò soltanto, con un sorriso impacciato, se si era divertita il giorno prima. I due lavorarono tranquillamente per qualche ora, fino a quando non giunsero al negozio i primi clienti. La signora Scandolo, una donnina piccola e rugosa che conosceva i peccati e gli scheletri nell’armadio di ogni cittadino, non tardò ad arrivare.
«Avete sentito della disgrazia?» esordì, facendo il suo ingresso nel negozio con la consueta andatura lenta e malferma.
«Buongiorno, comare Scandolo. Di che disgrazia parlate?» la accolse il padre di Eufemia, aggiustandosi il grembiule.
«Come, non avete saputo? Eppure immaginavo che proprio voi, tra tutti, ne foste già a conoscenza... il figlio di mastro Malaspina, Giangaleazzo, è stato ucciso ieri notte!»
«Che cosa?» esclamò la ragazza nel sentirlo, assumendo l’aria più sconvolta che le riuscì.
«Già, che cosa terribile. Ho saputo che era il tuo promesso sposo, povera cara... chissà che dolore sarà per te!»
“Invece non hai idea di quanto la sua morte sia stata una liberazione per me, vecchia megera!” pensò lei, mantenendo però un’espressione impassibile. Quella donna non le era mai piaciuta: la considerava un vero e proprio avvoltoio, che si nutriva e si beava delle sventure altrui. Il sentimento era certamente reciproco, a giudicare dal leggero sorrisetto che aleggiava sul volto grinzoso della vecchia.
Mastro Cavadecchi domandò, pallido come un morto: «Qualcuno sa chi è stato?»
«No, nessuno ha visto niente. Dopotutto il ragazzo era un assiduo frequentatore delle peggiori bettole della città, spesso era coinvolto in zuffe... prima o poi sarebbe successa una cosa del genere» replicò la comare, con un malcelato ghigno.
Dopo aver espresso le sue più sentite condoglianze ed altre frasi di rito, la donna se ne andò: padre e figlia rimasero soli nel negozio. Per alcuni minuti rimasero in silenzio, poi Eufemia parlò.
«Santo cielo. Una cosa del genere... è terribile».
«È davvero tremendo. Una sciagura!» sospirò suo padre, apparentemente senza fare caso all’improvviso cambiamento dei sentimenti della figlia nei confronti del defunto fidanzato.
La ragazza, cercando di sembrare addolorata, si spostò nel retrobottega con la scusa di dover tagliare dei nuovi quarti di carne. Non appena scomparve alla vista del padre, si concesse un sogghigno di trionfo: non era stata scoperta!
Aspetta, non è ancora il momento di cantar vittoria... dovrai recitare la parte della fidanzata afflitta ancora per qualche giorno, poi finalmente sarai libera da ogni sospetto su di te” si disse, affettando soddisfatta un grosso pezzo di montone.

Il mattino seguente, il lavoro in bottega procedeva tranquillo come al solito. Suo padre era ancora taciturno e piuttosto irascibile per il mancato matrimonio, quindi Eufemia lavorava ancora più alacremente del solito, per evitare scontri e litigi. Mentre la ragazza stava servendo una cliente abituale, un uomo fece irruzione nella macelleria. Femia lo riconobbe subito: era un altro componente della Corporazione dei Beccai, un pescivendolo che lavorava in un negozio dalle parti del Mercato.
«Mastro Cavadecchi, deve subito venire all’assemblea!» gridò, ansimando.
«Che cosa succede? Qualcuno ha scoperto chi ha ucciso Malaspina?»
«No... è terribile, terribile! Siamo di nuovo in guerra, ci hanno attaccato stamane all’alba!» esclamò l’uomo. Il conflitto era ricominciato, dopo pochi giorni di tregua. Alcune truppe del Comune nemico avevano attaccato delle fattorie di contadini sul confine, devastandole ed uccidendo gli abitanti: per questo i Consoli avevano indetto un’assemblea alla quale dovevano partecipare tutti i maggiori rappresentanti delle Corporazioni, per decidere il da farsi. Il padre di Eufemia lo seguì subito, lasciando la gestione della bottega alla figlia.
La ragazza si sentiva sollevata: certo, essere di nuovo in guerra era tremendo, ma ciò significava che le autorità si sarebbero completamente dimenticate dell’omicidio di Malaspina. D’altronde, che cos’era un assassinio di fronte al pericolo di un’invasione? Femia continuò a lavorare, fischiettando allegramente. Approfittando dell’assenza del padre, intascò le solite due monete d’argento da portare a Balduino. All’ora di chiusura suo padre non era ancora tornato: evidentemente la situazione era molto grave. Mentre chiudeva il negozio, udì dei passi dietro di sé, ed una voce fredda come il ghiaccio mormorò: «Signorina Cavadecchi, buonasera».
Eufemia si girò di scatto. Dietro di lei c’era il padre di Giangaleazzo, avvolto nell’elegante mantello nero che indossava sempre.
«Signor Malaspina! Mi dispiace per vostro figlio... deve essere una perdita molto dolorosa per voi, come lo è per me. Avete dei sospetti su chi possa essere stato?» replicò, guardandolo negli occhi.
«Sì, sospettiamo di qualcuno, ma non abbiamo ancora prove certe. Naturalmente, adesso la questione della ripresa delle ostilità è la più importante, ma continueremo a indagare. Posso assicurarvi che il colpevole sarà presto... assicurato alla giustizia» replicò lui con impeccabile cortesia, senza mai distogliere lo sguardo glaciale dal volto della ragazza. Eufemia deglutì: era una sfumatura di minaccia quella che sentiva nella voce dell’uomo? Sapeva forse qualcosa su ciò che era successo la sera prima?
«Lo spero, signore. Ora però devo tornare a casa: arrivederci» lo congedò, mantenendo la voce ferma. L’uomo la salutò e si allontanò, con il mantello nero che si muoveva nel vento simile ad un’ala di corvo.
La ragazza corse a casa sua. Era nervosa ed agitata, tanto che quando entrò sua sorella le domandò, in uno slancio di preoccupazione sororale più unico che raro: «Tutto bene? Sei pallidissima, sembra che tu abbia visto un fantasma!»
«Non preoccuparti. Sto bene» le rispose seccamente lei, imponendosi di calmarsi. Durante la cena si comportò normalmente: fu solo quando si ritrovò nel buio della sua stanza, con Maria addormentata accanto a sé, che si abbandonò alla paura.
Se ci sono delle prove mi scopriranno. C’era qualcun altro per strada o lo straniero ha parlato? Oppure sono io che sto diventando paranoica ed ho solo immaginato che lui fosse minaccioso? No, questo no. Era un avvertimento, ne sono sicura. Devo andarmene, altrimenti tra qualche giorno verranno a prendermi e mi porteranno in tribunale... ma dove posso andare?
Eufemia ragionava, con gli occhi spalancati nell’oscurità. Come donna, non avrebbe potuto fuggire da sola in un’altra città, avrebbe attirato troppo l’attenzione. Inoltre, l’unico modo per una ragazza di mantenersi da sola era di andare a fare la prostituta, ma quello sicuramente non l’avrebbe mai fatto: decisamente il vestito giallo* non era il suo destino. Se si fosse finta un ragazzo il problema sarebbe stato evitato, ma ne sarebbero insorti di nuovi: “Non riuscirò mai a farmi assumere come apprendista in un’altra città, men che meno ad aprire un negozio. Le leggi delle Corporazioni sulla concorrenza sono spietate anche per i cittadini, per chi non è nato nel Comune sono ancora peggiori. Potrei soltanto diventare...”
La ragazza si interruppe di colpo. Un mercenario! Mastro Malaspina non l’avrebbe mai cercata nell’esercito e all’arruolamento nessuno le avrebbe fatto troppe domande: con una guerra in corso non ci si può permettere di fare gli schizzinosi. In più la paga era assicurata, perché il governo cittadino non voleva certo rischiare che i suoi temporanei alleati si trasformassero in nemici.
La decisione era presa. Femia si alzò e si diresse silenziosamente nella camera di suo padre, che russava disteso sul letto. Facendo attenzione a non svegliarlo, rubò alcuni suoi indumenti, poi uscì. Era un uomo piuttosto corpulento, quindi gli abiti le stavano larghi, ma non aveva tempo per pensarci: si vestì, poi prese il suo coltello e la piccola sacca di cuoio che conteneva tutti i suoi risparmi. Tornata nella propria stanza, raccolse in una coda i propri capelli castani, poi prese il suo serramanico e li tagliò alla bell’e meglio: li guardò per un attimo, passando le dita in mezzo alle ciocche lisce e folte, poi li gettò via con un gesto di stizza, quasi rimproverandosi per quell’inutile  sentimentalismo. Il risultato non era dei più ordinati, ma era passabile. Stava per andarsene, quando udì un rumore: era Maria che si era rigirata nel letto, scoprendosi. Eufemia le si avvicinò e le rimboccò le coperte, lanciandole una lunga occhiata. Avrebbe sentito la sua mancanza... era acida, vanitosa ed irritante, ma era pur sempre sua sorella. In quel momento le tornò alla mente un ricordo, seppellito da chissà quanto tempo.
L’epidemia di Morte Nera si era da poco placata. Eufemia aveva undici anni e si era ritrovata in poco tempo la maggiore delle figlie Cavadecchi, Maria ne aveva quasi otto e le si stringeva contro, in quello stesso letto, mormorando tra le lacrime: «Femia, voglio la mamma. Dove è andata?»
Lei non sapeva cosa rispondere: l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il fatto che avrebbe voluto soltanto che Violante fosse lì con lei e la abbracciasse come quando erano piccole, ma sua sorella era stata la prima vittima della peste nella loro famiglia. Il dolore di quando era passata al convento per salutarla ed una monaca le aveva risposto che non poteva vederla perché non stava bene ritornò, forte come lo era stato quel giorno di poche settimane prima. A quel punto aveva stretto a sé la sorellina, cercando di calmarla e allo stesso tempo di tranquillizzare se stessa: «Andrà tutto bene, Maria. Ci sono qui io. Andrà tutto bene».

Il pensiero le strinse il cuore, facendola quasi pentire di ciò che stava facendo, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Le fece una carezza leggera ed impacciata sui capelli, poi scrisse in fretta un biglietto e lasciò la casa. Per strada passò accanto alla baracca di Balduino, che però era vuota. Appoggiò sul pavimento nudo alcune monete, che gli sarebbero bastate per qualche tempo, accompagnate dallo stesso messaggio che aveva lasciato alla sua famiglia.

Devo andare, non cercatemi. Mi dispiace.

Avere i capelli corti le dava una sensazione strana, abituata com’era a portarli lunghi: l’aria fredda della mattina le pungeva la nuca, facendola rabbrividire. Camminando, si sentiva insicura. Non riusciva ad impedirsi di pensare che sarebbe stata scoperta, che l’avrebbero fermata, ma le poche persone che incontrava non sembravano degnarla di uno sguardo. Dirigendosi verso il porto, dove sapeva che avrebbe potuto unirsi ai mercenari, si fece sempre più calma al trascorrere del tempo: non la vedevano! Nessuno dei passanti poteva sospettare che sotto quella zazzera corta ed ispida e quei vestiti maschili troppo larghi si nascondesse una ragazza! Questa consapevolezza la riempì, facendola sentire più leggera. Arrivata al porto, vide che alcune persone si erano già radunate per l’arruolamento. Pochi erano originari del Comune, perché gli abitanti ritenevano più importanti i loro commerci della guerra e non volevano lasciare le loro botteghe e gli affari: erano perlopiù stranieri, molti di loro parlavano con fatica il dialetto della città. Qualcuno la urtò violentemente, facendola barcollare. Eufemia si girò di scatto, ritrovandosi a fissare il volto del soldato che aveva incontrato la sera dell’omicidio. Quest’ultimo la guardò socchiudendo gli occhi grigi, quasi cercando di capire dove l’avesse vista prima, poi ci rinunciò.
«È qui che ci si arruola?» gli domandò lei, grata di avere una voce più profonda di quella della maggior parte delle ragazze.

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Ciao! Ecco il secondo aggiornamento del mese, come promesso. Spero che vi piaccia!
*Vestito giallo: nel Medioevo le prostitute dovevano portare un abito giallo, simbolo del loro "mestiere".

  
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