Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: ManuFury    04/04/2014    6 recensioni
Duncan delle Lame... Gladiatore ed esiliato.. potrà uscire dall'Arena in soli due modi: da vincitore o da cadavere.
Warren Velenodikobra... discendete in una delle più nobili casate di Cavalieri di Drago... vuole ottenere una sola cosa, l'approvazione di suo padre.
Sasha l'Ardente... spadaccina infallibile... che vuole solo scoprire chi è in realtà.
E Dagh dagli Occhi d'Argento... Protettore di Drakkas... offrirà loro un'avventura indimenticabile!
[Storia scritta per la Challenge: "L'ondata Fantasy" indetta da _ovest_]
Dal Capitolo 5...
“Gli occhi azzurrissimi del ragazzo si alzarono a quella colonna che aveva visto in sogno, verso quella figura avvolta dalla tenebre che ora, approfittando del velo sottile del fumo, era sparita.
Duncan non sapeva più che pensare: aveva smesso di porsi tante domande in vita sua, di capire le azioni e gli avvenimenti che si abbattevano su di lui come un’onda si abbatte su uno scoglio, aveva semplicemente smesso di lottare per capire e si limitava a farsi trascinare dalla corrente."
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Drakkas'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Lo sbattere della porta alle sue spalle zittì di colpo le voci che provenivano dallo studio di suo padre. Dal legno giunse un lieve scricchiolio, che diede quasi l’impressione di spaccarsi a metà, per quanta potenza era stata usata nel colpo. Ma l’ira del giovane era lungi dall’essere sedata.
Warren avanzò di paio di passi appena, prima di colpire la parete di pietra al suo fianco con così tanta forza da strapparsi il guanto di pelle scura e ferirsi le nocche, le quali presero presto a sanguinare.
Imprecò rabbioso, scuotendo la mano mentre proseguiva per il lungo corridoio: non badando alle goccioline rosse del suo sangue che macchiavano i raffinati tappeti o ai preziosi quadri che ornavano le pareti di roccia, la collera che l’animava era così potente e ruggente da renderlo cieco alla bellezza che aveva attorno. Non prestò nemmeno attenzione alle persone che incontrava sul suo cammino, che spintonava rudemente a lato per farsi strada.
Qualcuno aveva anche tentato di protestare, infastidito dal poco educato comportamento del ragazzo, ma riconoscendo in lui l’ultimo figlio del nobile Orson Velenodikobra tutti avevano concordato sull’ignorare quegli spintoni, soprattutto alla luce delle ultime notizie giunte dal fronte.
A Warren non importava che pensavano gli altri, anche se ammetteva che non era il suo comportamento abituale quello, ma la rabbia per la notizia appena riferita da suo padre era stata troppo grande e troppo ingiusta per non farlo reagire in quel modo.
Dopo un dedalo di corridoi raggiunse un’altra porta, più alta e spessa di quella varcata in precedenza; l’aprì con un solo e sonoro calcio, quasi scardinandola dalla sua sede e fu fuori.
La luce fortissima e calda del sole gli accarezzò il viso incredibilmente glabro per la sua età, il vento s’insinuò tra i suoi capelli neri con dita invisibili. Chiuse gli occhi scuri, respirando a pieni polmoni e sedando la sua ira, anche se solo in parte. L’aria calda e bollente del deserto, che sembrava un infinito e stanco respiro della terra, aveva il potere di calmarlo.
Ma le velenose parole di suo padre ancora gli ronzavano nella testa, tanto che dovette scuoterla diverse volte prima di riuscire a cacciarle del tutto. E in quei momenti, in cui il malessere lo coglieva impreparato, attanagliandogli le viscere, il giovane sapeva che c’era un solo posto in grado di rilassarlo veramente, e non era nemmeno lontano.
Sì, era quello che gli serviva dopo quella discussione.
Alzò le palpebre e si avviò a passo svelto, anche se leggermente appesantito dall’armatura che indossava. Camminò per qualche manciata di minuti, scivolando per le strette vie della Torre di Addestramento che si estendevano tutto attorno alla sua dimora. Tutta la città, in verità, era un po’ condensata: sia per la continua crescita demografica sia per la posizione in cui era stata costruita, su un solitario e imponente sperone di roccia che si stendeva a strapiombo su un burrone nero e infinito. Era una posizione strategica visto che potevano essere aggrediti solo frontalmente e in tempi bui come quelli in cui gli attacchi non mancavano mai, le alte mura di pietra rossa erano una difesa che non era mai stata abbattuta. Purtroppo, questa scelta di isolarsi in un angolo aveva costretto gli architetti a costruire le case l’una attaccata all’altra, riducendo al minimo lo spazio vitale di ogni cittadino e creando il caos tra le vie sempre troppo affollate di gente.
La Torre di Addestramento faceva una piccola eccezione: era un'altissima torre costruita proprio sull’orlo del crepaccio e godeva di un ampio spiazzo centrale dedicato agli allenamenti. Inoltre lì vi erano le stalle e proprio quest’ultima era la meta del giovane.
Aveva appena svoltato l’angolo di una costruzione quando avvertì un lievissimo movimento, come uno spostamento d’aria.
Per istinto, Warren balzò indietro giusto in tempo per vedere un bastone calare là dove prima c’era il suo corpo; nell’aria una risatina.
“Sei diventato veloce, sai?”
“O sei tu che sei diventato lento, Jansen.” Ridacchiò il ragazzo, riconoscendo in quella voce quella dell’amico d’infanzia e di tante scorrerie adolescenziali. Questi si fece avanti, il sorriso che aveva stampato in faccia era nascosto da spessi strati di stoffa che gli fasciavano interamente il viso, com’era d’usanza per quelli del suo rango sociale, lasciandogli scoperti solo i bellissimi occhi verdi, eredità di un padre straniero. Indossava la solita e sgualcita armatura di cuoio sbiadito di sempre e si passava il lungo bastone di legno scuro da una mano all’altra.
“Sentiamo War, cosa ti turba?” Domandò, abbassando lo sguardo sul legno, non gli serviva guardare l’amico negli occhi per capirne lo stato d’animo, gli bastava la sua sola presenza: era un legame che avevano sempre avuto, che aveva avuto modo di rafforzarsi con gli anni e con le avventure che i due avevano vissuto assieme.
“Cosa ti fa credere che io sia turbato?” Rispose Warren, subito sulla difensiva, alzando il mento con fare quasi indignato e incrociando le braccia al petto. Odiava la capacità di Jansen di capirlo così a pelle, era una cosa che non aveva nessun’altro. E in certe circostanze risultava estremamente fastidiosa.
“Per il semplice fatto che sei qui. – Affermò il ragazzo dal viso coperto. – Se tutto andasse bene o saresti chiuso nella tua camera a esercitarti a tirar di spada, oppure saresti sulla piazza centrale, ad aiutare la carovana nei preparativi per la partenza.” Alzò gli occhi verdi in quelli neri dell’altro, appoggiando una spalla contro la parete al suo fianco. Non aggiunse altro, sapeva che se Warren avesse voluto parlare l’avrebbe fatto e senza pregarlo. Confidarsi; era una cosa che faceva sempre con lui.
Un minuto di silenzio, forse due, di certo non di più prima che le labbra sottili del giovane cavaliere si aprissero.
“Non andrò in battaglia nemmeno questa volta. – Rassegnazione nella sua voce e una nota di sconfitta che si sentiva raramente. – Mio padre teme per la mia vita, da… beh, dalla morte dei miei fratelli.” Il tono della sua voce, solitamente sempre così forte e possente, calò un attimo al ricordo: era accaduto quattro mesi prima, eppure, non riusciva ancora a farsene una ragione, anche perché non c’era stato onore nella loro morte, non c’erano state possibilità di scampo; non c’era stato nemmeno uno scontro diretto, ma una semplice rappresaglia da vigliacchi.
Jansen lo guardò, il verde accesso delle sue iridi appena oscurato, rattristato dalla notizia, non ne sapeva niente, le informazioni che arrivavano dal fronte erano scarse, quasi sempre incomplete. Si avvicinò di qualche passo, a dargli una pacca sulla spalla.
“Andiamo War, non fare così. Devi capire tuo padre: con questa guerra ha perso tutti i suoi figli tranne te, è normale che cerchi di proteggerti.” Sospirò piano, almeno l’amico aveva un padre che si preoccupava per lui, Jansen non sapeva nemmeno dove fosse il suo, o che faccia avesse; sua madre diceva che era bello, che aveva gli occhi così verdi che ti rapivano al primo sguardo, ma lui non l’aveva mai conosciuto.
Ma a quelle parole, che volevano essere di conforto, l’ira tornò ad animare gli occhi neri del giovane cavaliere.
“Ma io non ho bisogno di protezione! Io voglio andare su quel campo di battaglia e sterminare quei bastardi che hanno ucciso i miei fratelli!” Ruggì con forza, la mano sull’elaborata impugnatura della spada.
“Ahn, certo. Ottimo piano, grande stratega. – Lo canzonò l’amico. – E in che modo intenderesti raggiungere il fronte, se posso saperlo?”
“Che domande, ho un rettile che dovrebbe servire anche a quello, no?”
“A proposito di lui…” Iniziò Jansen, lasciando la frase un po’ a metà visto che non era certo di saper proseguire nel modo giusto, l’argomento era spinoso.
Alzò lo sguardo e si trovò gli occhi neri del giovane e ultimo Velenodikobra fissi nei suoi, gelidi come potrebbero esserlo due diamanti neri e seri, terribilmente seri.
“Che fine ha fatto il rettile?” Pose quella domanda piano, con tutta la calma del mondo e quello non era un bene, non lo era mai; quel tono non era da Warren.
“Beh… - Jansen si passò una mano dietro al collo, si stava già arrampicando sugli specchi e non aveva ancora nemmeno iniziato, grandioso. – Sai, la stagione secca è appena iniziata. E… insomma… sai che i Falsi Draghi in questo periodo… fanno la muta.”
Silenzio.
Attimi interminabili che si dilatavano come ore.
“Un modo molto raffinato per dirmi che il mio drago non c’è!” Ringhiò Warren.
“Ehi, non prendertela con me, chiaro? Non sono io il cavaliere.”
“Infatti sei lo stalliere e come tale dovevi badare al mio drago!” Il ragazzo si morse la lingua troppo tardi: vero, Jansen non era un cavaliere e non lo sarebbe mai nemmeno stato, il massimo cui quelli come lui potevano aspirare era di fare gli scudieri, guardando i terribili Cavalieri del Deserto sempre dal basso, senza mai poter alzare il viso in loro presenza.
Warren fece per parlare, per chiedere scusa all’amico di sempre; ma rimase in silenzio, mordendosi appena il labbro inferiore, era il solito idiota che parlava a sproposito, almeno su quello suo padre aveva ragione da vendere.
Il silenzio che si era creato tra di loro era più freddo del gelo dell’inverno. Solo dopo diversi istanti Warren riuscì a parlare.
“Scusa.” Disse semplicemente. Avrebbe voluto aggiungere di più: dirgli che era il solito demente che parlava senza collegare la bocca al cervello, che era frustrato per la situazione in cui viveva, che trovava ingiusto il fatto che Jansen avesse quel rango sociale, senza possibilità di cambiarlo, benché potesse dare tanto, tantissimo. Ma nessuno di questi pensieri varcarono le sue labbra dopo quella banale e semplice parola.
Gli occhi verdi dell’altro si alzarono lentamente e da sotto la stoffa che gli copriva il volto, nacque un sorriso invisibile.
“Scuse accettate. – Gli diede una pacca sulla spalla. – Anche se meriteresti di essere punito per la tua insolenza nei mie confronti, ma non ne ho voglia.”
“Come se riuscissi a tenermi testa.” Sorrise a sua volta l’altro, facendogli cenno di seguirlo mentre si avviava in uno stretto vicoletto appena visibile tra due basse stalle. Era molto angusto, tanto che gli spallacci dell’armatura di Warren stridevano appena contro i muri di pietra, ma sapeva che ne valeva la pena.
Raggiunse un piccolo spiazzo di roccia rossa largo poche decine di metri, se non di meno, che dava sull’immenso e nero strapiombo che proteggeva la loro città. Il sorriso sul viso del giovane cavaliere si allargò, mentre nuove invisibili e calde dita d’aria gli accarezzavano capelli e pelle; respirò a pieni polmoni, chiudendo un attimo gli occhi, quello era il posto che più adorava. Alzando le palpebre vide in lontananza, oltre le sconfinate e piatte distese delle Rosse Lande del Nord, il sole, immenso globo di luce, iniziare la sua lenta parabola discendente, prendendo a insanguinare ancora di più il paesaggio. Era uno spettacolo già visto, ma ogni volta era come se fosse la prima. Lì era il luogo dove Warren riusciva veramente ad annullare se stesso, ritrovando la sua calma interiore; ed era da lì che aveva salutato l’ultima volta i suoi fratelli.
“I tuoi piani per il futuro, War?” Domandò il compagno, affiancandosi e schermendosi gli occhi con una mano, il colore chiaro delle iridi era spesso un problema, specie in quella stagione dove i raggi solari tagliavano più di mille spade.
“Come?” Si voltò verso Jansen, con un’espressione assente, gli occhi scuri ancora pieni di quel paesaggio che era rosso come il sangue e infinito come l’orizzonte.
“Non m’inganni, sai? Quando mi porti qui è sempre per confidarmi qualcosa. – E ci tenne a sottolineare quel sempre. – Avanti, sputa il rospo.” L’incitò l’amico, osservandolo a sua volta, appoggiandosi al bastone.
Warren prese un bel respiro, chiudendo ancora una volta gli occhi. Nel farlo, si ritrovò a passare in rassegna tutti gli avvenimenti degli ultimi mesi: la malattia di sua madre, che sembrava procedere di pari passo con la guerra, fiaccando il suo corpo non più giovane, aggredendola come nemici che assaltano il fronte. La morte ingloriosa e orrenda dei suoi fratelli, il ricordo dei loro cadaveri straziati sotto il sole, con le bocche spalancate come a urlare vendetta. Ancora una volta sua madre, il suo viso un tempo così bello, deformato dal dolore e dalla malattia che la stava facendo cedere. E ancora il veleno nelle parole di suo padre e nel Comandante Lungalancia, che spezzavano definitivamente i suoi sogni.
Quando riaprì gli occhi e puntò lo sguardo verso l’orizzonte comprese una cosa e la decisione che aveva deciso di prendere si rafforzava istante dopo istante.
“Voglio andarmene.” Affermò con la sicurezza che da sempre lo caratterizzava, sicuro dell’appoggio del suo amico.
Jansen, al suo fianco, sussultò appena, sgranando leggermente gli occhi e guardandolo con un’espressione che avrebbe potuto mandare a un vecchio pazzo che chiede l’elemosina a bordo strada, ma lo sguardo del nobile figlio di Orson Velenodikobra era così fermo e sicuro da fargli comprendere che quelle parole non erano state dette così a caso.
“Tu sei pazzo!” Sentenziò lo stalliere.
“Affatto, semplicemente sono stanco di aspettare, di stare qui ad attendere che qualcuno mi giudichi pronto. Io voglio dimostrare loro che sono pronto, così da fargli rimangiare quella parole da serpe.” Si riferiva in particolare a suo padre, si capiva dal tono. La sua approvazione era ciò che ricercava da una vita, ma che non era mai arrivata.
“Non hai una cavalcatura.” Gli fece notare l’altro. Avrebbe trovato mille validi motivazioni per riportare il cavaliere sulla retta via, quello in cui voleva buttarsi era una follia.
“La recupererò. Il rettile sarà sicuramente alla Piana, là dove i suoi simili fanno la muta, mi dirigerò lì e lo troverò.”
“E dopo? Cos’hai intenzione di fare dopo? Sii realistico Warren, non hai mai combattuto seriamente, non hai mai ucciso nessuno, non puoi buttarti in quest’impresa suicida.” Tentò di dissuaderlo, voleva fargli tornare quel minimo di buon senso.
“E dopo? – Gli fece eco l’altro ragazzo, sorridendogli. – Andrò verso il tramonto.”
Perché sentiva che quello era il suo posto, l’aveva sempre creduto ogni volta che alzava lo sguardo verso l’orizzonte, ogni volta che pensava a quello che c’era oltre la sua caotica città.
Sorrise, dando le spalle allo splendido spettacolo del sole che iniziava la sua lenta parabola decrescente. Si avviò con sicurezza; aveva preso la sua decisione e nemmeno le imprecazioni urlate del suo migliore amico l’avrebbero dissuaso, non questa volta.
Sentì Jansen bestemmiare come mai aveva fatto prima, buttando con stizza il bastone in terra.
“Warren! No-non puoi farlo! Dannazione a te! Questa è una vera…!”
 
[Continua…]
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Tesori miei siete ancora qui?
Visto come la Manu è cattiva?
Vi fa aspettare una vita per un capitoletto che non ha nulla d’interessante (tranne quel bell’imbusto del mio War! *Q*).
Ma ho una spiegazione logica, lo giuro! ^^’’
Anzi, più di una… u___u
Ho l’università che non mi da pace (stupido Diritto Amministrativo! -.-‘’) e due Contest (di cui uno a Turni) che non mi lasciano respiro, per non parlare della Musa Ispirazione che ogni tanto mi saluta e mi lascia un bigliettino con scritto: “Scusami cara, sono ai Caraibi, torno presto!” … quindi, portante pazienza, ve ne prego.
Allora, che ne dite del prode Warren Velenodikobra? Vi piace? È un antipatico? Volete Dagh, vero?
Warren: ma! è_____é
Beh… dovrete portare pazienza ancora un pochino che ho ancora mille cose da fare, ma vi assicuro che il prossimo capitolo è già in fase di stesura e ci sarà un po’ più di sangue e qualche nuovo personaggio.
Se avete voglia di lasciarmi il solito commentino mi farete felice! ^^
Grazie dell’ascolto e a presto! ;)

P.S: i primi tre capitoli di questa Long si sono Classificata UNDICESIMI (a pari merito con Shallo) al Contest: "Contest dei primi capitoli" indetto da Mitsuki91.
Finito per davvero! :P

ByeBye
 
ManuFury! ^_^
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: ManuFury