Fanfic su artisti musicali > Pearl Jam
Segui la storia  |       
Autore: IamNotPrinceHamlet    04/04/2014    2 recensioni
Seattle, 1990. Angela Pacifico, detta Angie, è una quasi 18enne italoamericana, appassionata di film, musica e cartoni animati. Timida e imbranata, sopravvive grazie a cinismo e ironia, che non risparmia nemmeno a sé stessa. Si trasferisce nell'Emerald City per frequentare il college, ma l'incontro con una ragazza apparentemente molto diversa da lei le cambia la vita: si ritrova catapultata nel bel mezzo della scena musicale più interessante, eterogenea e folle del momento, ma soprattutto trova nuovi bizzarri amici. E non solo.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Per una paranoica come la sottoscritta, vittima, tra le varie cose, di manie di persecuzione piuttosto marcate, il breve tragitto tra casa e ristorante è da considerarsi una prova di forza non indifferente. Crescere vuol dire anche questo, no? Affrontare le proprie paure. E dopo quella dell’ascensore di qualche mese fa, ora mi ritrovo a fare i conti con la sensazione di avere decine di occhi puntati addosso. Sarà il fatto che, per paura di cadere rovinosamente nelle pozze di neve e poltiglia o di sporcare le preziosissime scarpe rimediate al mercatino dell’usato per $9,95, sto camminando praticamente sulle punte delle unghie dei piedi come Wile E. Coyote quando si allontana dalla dinamite che ha appena piazzato o come Harrison Ford in Indiana Jones e l’ultima crociata, quando deve saltellare sul percorso di letterine giuste per non fare la stessa fine dei suoi predecessori nell’impresa. Stranamente mi sento più vicina al primo. Sarà anche perché sono vestita, truccata e pettinata da bambolina e la giacca di pelle e la sciarpetta non servono a un cazzo perché tremo di freddo. Oppure perché mentre cammino continuo a toccarmi la porzione di pelle tra naso e labbro superiore, affascinata e magneticamente attratta dalla nuova sensazione di liscio. Una deficiente. Sicuramente lo stanno pensando tutti quelli che incontro lungo la strada. Lo penserà anche Jerry appena mi vedrà, però non dirà niente, perché comunque apprezzerà l’impegno dimostrato nel cercare di assomigliare a una ragazza normale, e anzi, mi dirà che sono carina. Come no. Attraverso la strada cercando di non farmi investire, a passo né troppo lento né troppo svelto, e miracolosamente ci riesco, anche se mi becco un colpo di clacson e una serie di fischi e sghignazzi sguaiati da dei coglioni su un pick up. La tentazione di rispondere con un glorioso dito medio è forte, ma non si sa mai cosa può succedere con certa gente. Mi limito a tirare dritto con gli occhi bassi, per evitare i loro sguardi e le buche sul marciapiede. Giro l’angolo e mi sembra già di vedere la faccia da schiaffi di Jerry, il suo sorrisino sexy puntato verso di me mentre mi rivolge il suo solito fottutissimo occhiolino che io… In realtà mi sembra e basta, perché non lo vedo: arrivo di fronte al ristorante e lui non c’è.

19:45

L’orologino fine che mi ha prestato Meg, perché secondo lei il mio scuba non stava bene col resto dell’abbigliamento, sarà piccolo, ma parla chiaro. Mi piazzo sotto la tettoia di fianco all’entrata del ristorante guardandomi attorno. C’è da dire che la neve ha messo a dura prova la viabilità in questi due giorni… ma tre quarti d’ora di ritardo sono tanti, persino per uno come Jerry. Non è che ho sbagliato ristorante? Ricontrollo rapidamente l’insegna: Canlis, è questo. Non è che ha sbagliato lui? Ci sono un altro paio di locali carini in zona, magari si è confuso, come faccio a saperlo? Mica posso mettermi a fare un tour dei ristoranti per cercarlo. E poi comincio ad avere freddo sul serio. C’è una sola cosa da fare, anche se preferirei di gran lunga mozzarmi una mano a morsi.

“Ehm buona sera” mi rivolgo al tizio elegante, sorridente e dall’età indefinibile che sta all’ingresso, dietro un piccolo bancone.

“Buona sera, signorina. In cosa posso esserle utile? Ha prenotato?”

“No. Cioè, sì, non io, ma sì. Forse. Ehm, per caso c’è una prenotazione a nome Cantrell?” domando in maniera stentata, cercando in tutti i modi di reprimere l’istinto di toccarmi sopra il labbro.

“Un momento, mi faccia controllare.” risponde l’uomo per poi scorrere con lo sguardo e col dito l’elenco di nomi sul quaderno che aveva sottomano. “Sì! Eccolo, Cantrell per due, giusto?”

“Sì, sono io! Cioè, sono una dei due… Insomma, è il mio tavolo” rispondo e non so se essere contenta perché ho azzeccato posto o se preoccuparmi perché Jerry non si vede ancora.

“Perfetto, allora la faccio accompagnare. La signorina al tavolo 35” l’uomo fa un impercettibile cenno del capo a una cameriera, una ragazza bellissima coi capelli castani raccolti e gli occhi verdi, in camicia bianca e pantaloni neri, che mi sorride e mi invita a seguirla.

“Ehm grazie”

“Buona serata signorina” l’uomo mi rivolge un ultimo saluto e accoglie i clienti successivi, mentre io seguo la cameriera nella sala enorme e affollata, con le pareti in pietra, il caminetto, anzi, più d’uno, dei lampadari che da soli penso valgano come tutto il mio appartamento e che diffondono una luce calda e soffusa, assieme alle candele poste su ogni tavolo. La cameriera, più rapida di me, anche perché dotata di calzature più agevoli, si ferma ai piedi di una scalinata per aspettarmi. Scale. Scale più tacchi. Cazzo Jerry, non potevi prenotare di sotto? Mentre salgo divento un tutt’uno con il corrimano e nella mia mente si materializzano scene di me che rotolo giu dagli scalini degne di Joan Crawford in Che fine ha fatto Baby Jane?, ma quando arrivo al piano superiore devo ammettere che Jer ci ha visto giusto. La mia attenzione viene subito catturata dai finestroni giganti sul lato lungo, praticamente un’intera parete di vetro con vista mozzafiato sul Lake Union, e man mano che mi avvicino seguendo la cameriera mi rendo conto che il nostro tavolo è proprio tra quelli accanto alle finestre. Jerry, ritiro tutto! La cameriera è costretta a sfilarmi quasi di forza la giacca e la sciarpa perché io sono impalata come una statua e non sapevo che ci fosse un guardaroba. Effettivamente non mi pare proprio un posto da giacca sulle ginocchia o appesa allo schienale della sedia. Sono ancora in piedi a osservare sbalordita le luci della città e delle imbarcazioni sul lago, quando vedo la ragazza prendere una delle due sedie e tirarla indietro e ci metto un po’ a capire che non deve fare nessuno spostamento particolare, ma sta soltanto aspettando che io ci metta il mio culone sopra e mi accomodi, così che possa tornare a servire gli altri clienti, quelli meno coglioni. Mi siedo e la tizia mi sorride, poi si allontana brevemente e torna con dei menù, che distribuisce tra me e il posto vuoto, prima di andarsene di nuovo. Ora sono in fissa sui lampadari, ancora più fighi di quelli di sotto, ognuno dei quali penso valga come tutto il mio condominio, poi mi rendo conto di essere l’unica nel salone con lo sguardo al cielo e la bocca aperta, almeno non per mangiare, quindi cerco di darmi un contegno e comincio a sfogliare uno dei mille menù che ho di fronte. Il primo è dei vini e lo metto subito da parte, visto che non mi serve. In realtà mi servirebbe eccome, un po’ di alcol è quello che ci vorrebbe in questo momento per riprendermi, ma lascio perdere. Il secondo è dei dolci e le prime foto sono già spettacolari, lo richiudo onde evitare di cominciare a sbavare come il cane di Pavlov al suono della campanella, idem col terzo che è solo di gelati. Il quarto è il menù nel vero senso della parola e faccio appena in tempo ad adocchiare un’insalata da $20,00 che la cameriera figa di prima si rimaterializza al mio tavolo con un taccuino e una penna in mano.

“Comincia già ad ordinare o preferisce aspettare l’altra persona?”

“Ehm, no, preferisco aspettare… il mio ragazzo” mentre lo dico non so perché lo dico, ma immediatamente dopo averlo detto capisco perché: adoro chiamarlo così. Non posso mai farlo, cazzo, quelle parole non escono mai dalla mia bocca e adesso che finalmente posso farlo non perdo l’occasione. Sotto sotto, in un angolo recondito della mia coscienza, credo ci fosse anche l’intento di volermela tirare un attimo. E poi mi piace il suono di il mio ragazzo… sì, suona decisamente bene. Il mio ragazzo che ha un’ora di ritardo, invece, suona meno bene.

*********************************************************************************************************

“Hey” Cornell ci apre la porta e non si perde in chiacchiere nell’accoglierci nel suo appartamento.

“Ciao Chris” entro assieme a Stone, ma il padrone di casa ci si para davanti guardandoci male.

“Non dovevate portare da bere?”

“Adesso arriva, vecchio alcolizzato! Ci abbiamo mandato Eddie” risponde Stone e lo scavalca passandogli sotto il braccio.

Chris fa spallucce e lo segue e io faccio lo stesso.

“Ce l’abbiamo mandato due ore fa Eddie, tra parentesi” aggiungo sottovoce, mentre Chris si allontana in camera sua e io e Stone ci accomodiamo sul divano.

“Ma sì, arriverà, starà facendo un giro”

“Oppure si è perso, come al solito”

“Nah, secondo me sta sbollendo la rabbia per il fatto che la sua bella domani se ne torna in Idaho” spiega Gossard accendendosi una sigaretta.

“Eheheh può darsi”

“Poi anche tu, dovevi proprio fare il guastafeste ieri sera? Non potevi lasciarli un attimo da soli a tubare?” domanda riferendosi all’episodio della scala antincendio.

“Tubare?”

“Non mi dire che hai creduto anche solo per un secondo alla cazzata del giramento di testa?”

“Ma no… ma che ne so, li ho visti lì fuori come due coglioni, pensavo stessero congelando!” cerco di difendermi mentre mi stravacco ancora più comodamente sul divano.

“Quelli si stavano scaldando, altroché… E poi che c’entra, anch’io mi ero affacciato e li avevo visti! Ma poi mi sono giustamente allontanato di soppiatto senza dire un cazzo”

“Tu sì che sei un vero Cupido, Stone” scherzo mentre Chris ritorna in soggiorno con un’altra maglietta, che a me non sembra granché più pulita di quella precedente.

“La tua ragazza?” mi domanda il cantante fissando senza motivo la tv spenta.

“Non c’è, è alla cena di Natale coi colleghi”

“Oh, quindi c’è anche il fratello di Meg! Perché non gli dici di raggiungerci tutti insieme? Così magari ci provi anche con lui e completi l’opera” mi pareva strano che Stone non avesse ancora fatto battute in merito.

“C’è qualcosa che non so?” chiede Chris, che evidentemente si è perso qualche puntata della telenovela.

“Fattelo raccontare da Meg, a proposito: dov’è?” domanda Stone intuendo che non ho voglia di rispiegare tutta la storia da capo.

“Oh è in cucina ad aiutare Matt con la cena” risponde il cantante prima di lasciarsi cadere sulla poltrona.

Ad aiutarlo con la cena, certo. Meg e la cucina sono due concetti che non possono neanche stare nella stessa frase, figuriamoci nella stessa stanza. La prima e unica volta che Roxy l’ha messa in cucina, è riuscita a bruciare persino il bollitore dell’acqua. Già solo questo dovrebbe farmi capire cosa sta realmente facendo con quello che dovrebbe essere un mio amico. Se poi ci mettiamo tutte le moine e le feste che si fanno ogni volta che si vedono e il fatto che alla festa di ieri siano stati praticamente tutto il tempo appiccicati, ci vuole poco a capire cosa sta succedendo. Ma che stronzo! Resta solo da capire se ci sia qualcosa di vero sotto o se Meg lo stia facendo solo per farmi ingelosire. Beh, in ogni caso ci sta riuscendo alla grande.

“Eccoti! Stavamo giusto parlando di te, cara” Stone si allunga sul bracciolo del divano e non avrei bisogno di alzare lo sguardo per capire di chi si tratta. Ma lo faccio lo stesso.

“Ciao ragazzi… Matt mi ha appena cacciata dalla cucina, sono offesissima” spiega imbronciata.

Che avevo detto?

“Come biasimarlo! Dov’è la Lillipuziana?” continua Gossard ridendo sotto i baffi.

“Angie non c’è, non viene”

“Come non viene? Domani parte e non ci saluta?”

“Che stronza” mi accodo a Stone nelle proteste, anche se non mi riferivo necessariamente ad Angela.

“E’ andata a studiare da un suo compagno di corso, o meglio, ad aiutarlo a studiare” spiega lei avvicinandosi al divano.

“Compagno? Ma chi?” domanda sospettoso il chitarrista.

“E che ne so! Solo perché viviamo assieme, non vuol dire che lei mi dica tutto” si difende Meg e io so benissimo che sta dicendo una cazzata. Non staremo più insieme, o quel che era, ma le sue bugie le riconosco a chilometri. E’ vero che Angie non le dice tutto, ma questa gliel’ha detta, glielo leggo in faccia: quando mente allarga leggermente le narici e in questo momento sembra sbuffare come un toro.

“MEG, VIENI UN ATTIMO!” la voce di Matt arriva fino in soggiorno.

“Ah ecco, prima mi cacci e adesso ti servo?!” si lamenta lei facendo ritorno in cucina.

Lo so io a cosa gli servi.

Il telefono squilla e Chris ci mette il tempo di cinque squilli per capire che il cordless non è qui e alzarsi per andare a cercarlo in giro per la casa.

“Da un compagno di università, eh? Allora Eddie ha un motivo in più per disperarsi” commento guardando il mio socio.

“Sempre che il misterioso compagno di università esista… Secondo me si chiama Vedder” ridacchia alzandosi e andando a recuperare il portacenere dal bracciolo della poltrona di Chris.

“Sai che avresti un futuro come sceneggiatore di Beautiful? Se ci va male con la band, facci un pensierino”

“Indovinate chi era?” Chris ritorna con un sorrisone da ebete e il telefono tra le mani.

“Qualcuno a cui devi dei soldi? Non guardare me” rispondo alzando le braccia.

“Violet”

“CHE?!” esclamiamo io e Stone praticamente in coro.

“Come cazzo l’ha trovato il tuo numero?” chiede lo Sherlock Holmes dei poveri.

“Boh, che cazzo ne so, non gliel’ho chiesto. Comunque sarà dei nostri!” aggiunge Chris entusiasta, dopodiché s’incupisce quando vede che non mostriamo lo stesso grado di felicità.

“Abbiamo trovato un terzo motivo per far incazzare Eddie” commento e quasi mi scappa da ridere.

“Perché? Devo farmi spiegare da Meg anche questo?”

Ecco, bravo, vai a fartelo spiegare. E già che ci sei interrompi qualsiasi cosa stia facendo col tuo amico.

*************************************************************************************************************

20:30

Mi sono finalmente decisa a srotolare il tovagliolo accuratamente piegato a forma di ventaglio o stella o qualcosa del genere che, pur non avendo gli occhi, mi fissava da più di mezz’ora dal piatto su cui era stato sistemato. In questo lasso di tempo la cameriera è passata altre tre o quattro volte nei paraggi, senza chiedermi nulla, ma solo guardandomi, sorridendo e aspettando un mio cenno, che non è mai arrivato. Anzi, ogni volta ho distolto lo sguardo fingendomi interessatissima all’aragosta da $70 dollari sul menù o alle calle arancioni in bella mostra nel vaso al centro del tavolo, talmente arancioni da sembrare dipinte, o alle cime degli alberi ancora spruzzate di bianco o al…

“Mi perdoni, signorina, magari vorrebbe cominciare a ordinare da bere?” la cameriera mi spunta accanto a tradimento e mi prende alla sprovvista.

“Ehm… sì, certo…” fingo di sfogliare la carta dei vini, tanto si vede lontano un miglio che sono troppo piccola, e alla fine ordino dell’acqua naturale.

“Abbiamo anche degli aperitivi analcolici” aggiunge la ragazza infilando un dito nel menù delle bevande e rimandandomi alla pagina giusta.

“Oh caspita, non avevo notato questa sezione eheh!” mi prenderei a schiaffi da sola. Non lo faccio e mi limito a ordinare un cocktail alla pesca.

“Perfetto. Non si preoccupi comunque, la neve ha creato qualche problema a molti clienti” mi dice sempre sorridendo, nel tentativo di consolarmi.

“Sì, lo so, purtroppo…”

“Un piccolo aperitivo con qualche stuzzichino le renderà più piacevole l’attesa, torno subito” la cameriera si congeda con un cenno e si dilegua in un attimo e io torno alle mie elucubrazioni mentali.

E se se ne fosse dimenticato? Ma no, impossibile! Magari è imbottigliato nel traffico o gli si è rotta la macchina… Oddio, e se avesse avuto un incidente? Angie, piantala. E se si fosse semplicemente addormentato come un coglione? Magari in questo preciso istante sta citofonando al mio appartamento, pensando che io sia ancora lì ad aspettarlo. E se non mi trova lo capirà che sono già qui? Ma certo che lo capirà, non è mica scemo! E se gli fosse successo qualcosa? E se fosse rimasto senza benzina? Certo… e magari ha una gomma a terra, non ha i soldi per pagarsi il taxi, la tintoria non gli ha portato il vestito, gli è crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette! Scuoto la testa e quando smetto di scuoterla mi ritrovo davanti un bicchiere adornato di cannucce e ombrellini e altre cose luccicanti, più un vassoio di tartine e simili. Ringrazio la cameriera e esamino il bicchiere. Senza farlo apposta ho scelto un cocktail il cui colore s’intona perfettamente con quello delle calle nel vaso. Se riuscissi a convincere la cameriera di averlo fatto apposta probabilmente guadagnerei qualche punto di serietà, che di certo mi farebbe comodo. Prima di assaggiare qualsiasi cosa, mi sorge il dubbio su dove posizionare il tovagliolo: sarà il caso di mettermelo sulle gambe? L’ho sempre visto fare… Perché i miei genitori non mi hanno mai portato in posti del genere? Almeno avrei potuto fare figure di merda in un’età in cui non frega un cazzo a nessuno se fai figure di merda, e soprattutto non frega un cazzo a te. Mi guardo attorno cercando di vedere come hanno fatto le altre donne nella sala. Merda. Ovviamente salta fuori che le donne sono tutte sedute dalla parte opposta alla mia e quindi mi è impossibile vedergli le cosce. No, aspetta! Una tizia in fondo al salone si alza e prende chiaramente il tovagliolo dalle gambe per poi appoggiarlo sul tavolo. Allora ci avevo preso, evvai! Mi sistemo il tovagliolo sulle gambe e sollevo il bicchiere. Fortunatamente mi rendo subito conto che è il caso di rimuovere almeno parte delle decorazioni se non voglio cavarmi un occhio con un fottuto ombrellino, quindi provvedo a togliere tutte quelle cianfrusaglie, sistemandole sul bordo del piattino su cui mi è stato portato il bicchiere. Sarà il posto giusto? Boh, che cazzo me ne frega, ho sete. Mmm per lo meno è buono.

21:00

Io mi ci sono messa d’impegno per mangiare piano e far durare stuzzichini e tartine il più possibile, ma non posso certo masticare un’oliva 458 volte. E ho finito anche il cocktail, ho mangiato la fettina di pesca infilzata sul bordo del bicchiere e mi sono succhiata uno ad uno pure i cubetti di ghiaccio, cercando di non dare nell’occhio. Due ore di ritardo sono tante, troppe. Comincia ad affacciarsi nella mia mente l’eventualità che Jerry non venga affatto. Quanto cazzo costava l’analcolico? E gli stuzzichini dovrò pagarli? Quanti soldi ho nel portafogli? Voglio andarmene a casa, ma allo stesso tempo vorrei rimandare il più possibile il momento in cui dovrò affrontare la cameriera e chiederle il conto, facendo la figura dell’idiota abbandonata dal fidanzato in un ristorante di lusso.

“Era tutto di suo gradimento?” chiede appunto la cameriera, appena apparsa alla mia sinistra. Ma da dove cazzo arriva? C’è un passaggio segreto per caso? E se fosse un ologramma? Magari è a questo che servono tutti questi lampadari, ad occultare i proiettori!

“Oh sì, tutto molto buono, grazie…”

“Vuole attendere un altro po’?” domanda, rivolgendomi l’ennesimo sorriso, stavolta connotato da una sfumatura diversa, una sfumatura di compassione.

“No! No no, ormai non credo che ehm… l’altra persona arriverà” rispondo ed ecco che il mio ragazzo è stato relegato nuovamente allo status di altra persona. Maledetta me, che me la tiro per niente! E perché cazzo sono entrata?!

“Mi spiace, vedrà che ci sarà stato sicuramente un contrattempo. Vuole il conto o…?” il sorriso compassionevole si allarga leggermente, tanto da sembrarmi quasi un risolino di scherno, che fa scattare dentro di me qualcosa di inaspettato.

“No, perché? Sono… sono pronta per ordinare!”

Ordino il salmone con le patate che, a memoria, mi pareva fosse tra le cose meno costose, e già che ci sono chiedo se c’è un telefono.

“Certo, laggiù un fondo, dietro al bar” mi indica la ragazza, prima di allontanarsi.

C’è pure il bar… Afferro la borsetta e attraverso l’enorme sala cercando di ostentare una sicurezza che non ho, supero il maestoso bancone che sembra brillare di luce propria e seguendo le indicazioni trovo i telefoni, esattamente di fianco all’ingresso della toilette. Infilo qualche moneta in uno dei telefoni e compongo quel numero che conosco ormai a memoria, ma non ho neanche il tempo di prepararmi un discorso o una frase d’esordio abbastanza cattiva, perché dalla cornetta mi arriva subito il segnale di occupato. Riaggancio, l’apparecchio mi restituisce le monete e io le inserisco di nuovo e rifaccio rapidamente il numero. Occupato. Riattacco sbuffando. Se è occupato ci sarà qualcuno in casa, magari Jerry stesso che mi sta lasciando un interminabile messaggio di scuse in segreteria anziché alzare il culo e venire qui a salvarmi! Oppure potrebbe essere Layne e Jerry chissà dov’è. Faccio un ultimo tentativo, niente. Torno al tavolo e il mio salmone e già lì che mi aspetta, assieme alla cameriera, che mi augura un buon appetito. Sembra buono, se fosse un tantino più scuro sarebbe perfettamente in tinta coi fiori anche lui. Tutto intonato stasera, l’unica cosa che stona qui sono io.

21:40

Il salmone era delizioso e pure le patate e le altre verdure di contorno, fosse per me me ne farei portare altri due piatti, ma non mi pare il caso e non solo per una questione di portafoglio. Non faccio in tempo ad appoggiare la forchetta sul piatto dopo l’ultimo boccone e a bere un sorso d’acqua che la mia amica è già alle mie spalle e mi chiede anche stavolta se è stato di mio gradimento e se può portare via.

“Sì, grazie, era squisito” rispondo, cercando di non strozzarmi per la sorpresa. Il numero dell’acqua dal naso lo eviterei per questa volta.

“Gradisce anche il dolce?”

E certo che gradisco anche il dolce, ho proprio bisogno di qualcosa che mi addolcisca questa amara serata. Ordino delle Malasadas e faccio una cosa che non posso non fare prima di uscire di qui, probabilmente per non tornarci mai più: faccio una puntata al cesso. Entro e scopro che chiamarlo cesso è decisamente riduttivo: questo cesso è più grande di un intero piano del mio palazzo, nonché incredibilmente più elegante. Le pareti sono di un verdino chiaro, il pavimento e le rifiniture sono di marmo scuro. Alla mia destra una fila di lavandini da qui all’eternità, ciascuno con rubinetteria dorata (spero sia solo il colore), specchio rotondo, erogatore di sapone e di asciugamani di carta. Alla mia sinistra quasi altrettante porte, dico quasi perché lo spazio è in parte occupato anche da quattro divanetti in tinta con le pareti. Divanetti. Divani al cesso. Entro in uno dei gabinetti, mi chiudo a chiave, mi siedo e mentre faccio quello che devo fare mi sento combattuta tra la voglia di fuga e il desiderio di venire a vivere in questo cesso per sempre. Quando mi accorgo che la tavoletta è riscaldata per poco non mi commuovo. Esco e provvedo a lavarmi le mani. Il fatto che gli specchi siano messi troppo in alto perché possa a riuscire a vedermi più di metà faccia dovrebbe farmi incazzare, come sempre, ma stavolta mi rincuora: finalmente un’imperfezione anche qui. Torno di corsa al tavolo, dove mi aspettano le mie frittelline, ancora calde.

22:00

Finisco il dolce e chiedo il conto. Pensavo peggio. Alla fine me la cavo con $60 più mancia, che in questo caso è stata piuttosto esigua, mi dispiace per quella cara ragazza. Il tragitto di ritorno verso casa mi pare più veloce di quello di andata, forse perché me ne frego delle pozzanghere, tanto ormai non ho più motivo di essere carina. Arrivo sotto casa e rallento l’andatura, avvicinandomi con circospezione e tenendo gli occhi aperti, pronta a nascondermi da qualche parte nel caso spuntasse qualcuno di mia conoscenza. Le luci del mio appartamento sono ovviamente spente, invece le finestre di Chris sono illuminate. Sono ancora qui, cazzo. Mi infilo nella prima cabina del telefono che trovo, con l’iniziale intento di restarci finché non li vedrò uscire tutti. Capisco immediatamente che si tratta di una stronzata galattica, ma già che ci sono ne approfitto per richiamare Jerry. Occupato. Ancora. La cosa è strana, molto strana. Forse è staccato. Ma perché cazzo Jerry dovrebbe staccare il telefono? Improvvisamente comincio a pensare a qualcosa di sbagliato che potrei aver fatto e che potrebbe averlo spinto a tirarmi un bidone e non farsi trovare, ma non mi viene in mente nulla di nulla. E se stesse male? L’illuminazione arriva proprio come un lampo, seguita da una parola: Dottore. E se avesse preso qualcosa? E se… Comincio a tremare, ma non me ne accorgo finché non provo a comporre il numero di Chris. Spero non risponda proprio-

“Pronto” la voce di Stone, lo sapevo.

Metto giù e opto per l’unica soluzione possibile: andare da Jerry. Esco dalla cabina in fretta e furia, tiro fuori le chiavi della macchina dalla borsa e faccio una decina di passi prima di ricordarmi che la mia auto non è qui, ma a casa di Jeff. Mi maledico per l’ennesima volta, stasera ho perso il conto. Mi incammino in attesa, a questo punto, di un taxi, quando alzo lo sguardo e vedo in fondo alla strada l’autobus appena partito dalla fermata. Faccio quello che teoricamente dovrebbe essere uno scatto, ma nella realtà è una corsa goffa e lenta, durante la quale mi si rompe anche un tacco, che recupero al volo e mi infilo nella tasca della giacca. Dio benedica i semafori, perché è soltanto grazie a uno di questi che riesco a raggiungere il pullman.

22:20

Scendo dall’autobus semivuoto zoppicando, un po’ perché le mie ginocchia sono ancora provate dallo sforzo atletico di prima, un po’ perché sono senza un tacco. Devo decidermi a fare qualcosa, ho 18 anni, cazzo, non posso avere il fisico di una pensionata obesa! I pensieri sulla mia forma fisica sono un abile diversivo per evitare di pensare a tutte le prospettive agghiaccianti che mi girano in testa in questo momento. Non voglio pensarci. Ma io potrei aver passato due ore a fare la Pretty Woman della situazione in un ristorante di lusso, mangiare, divertirmi e gingillarmi nel bagno delle donne, mentre Jerry… NON PENSARCI. Osservo la facciata del palazzo cercando di calcolare quali siano le sue finestre, ma è inutile: quelle del suo piano sono tutte spente. Luci spente, telefono staccato. Non mi piace proprio per un cazzo. Suono al citofono, aspetto, abbasso lo sguardo sulle mie scarpe, totalmente fradice e lerce di fango, nessuno risponde. Risuono, guardo il mio riflesso nella vetrata del portone, il rossetto non c’è più, dopotutto avevo detto a Meg di metterne poco, non volevo lasciargli il segno baciandolo. Ancora nessuna risposta. D’un tratto vedo accendersi la luce delle scale, forse qualcuno sta uscendo. Per l’appunto, nel giro di un minuto, attraverso il vetro vedo aprirsi le porte dell’ascensore, da cui spunta una giovane coppia. Appena escono dal portone mi infilo dietro di loro e mi lancio su per le scale, camminando sulle punte per via del tacco mancante. Quando arrivo al piano giusto, comincio a correre lungo il corridoio, dopodiché mi attacco al campanello, suonandolo per non so quanto e, insieme, busso alla porta con tutta la forza che ho. Sto già meditando di chiamare qualche vicino per chiedere aiuto e sto valutando a quale delle altre porte bussare, quando sento quella dell’appartamento di Jerry aprirsi, finalmente. Dopodiché è solo buio.

“Ehi, che cazz… Ah, sei tu”

Monica, la barista dell’Off Ramp, è sulla porta e si stropiccia gli occhi. Ha indosso una camicia di Jerry, quella di flanella bianca e blu che gli ho rammendato qualche sera fa perché era un po’ scucita sul polsino, e credo nient’altro, visto che, fatta eccezione per un bottone, è aperta e non lascia nulla all’imaginazione. Dovrei provare qualcosa, sorpresa, rabbia, disgusto, ma non sento niente. E’ come se qualcuno mi avesse trascinata a vedere un brutto film.

“Cerchi Jerry?” mi chiede avvicinandosi.

“E’ qui?”

“Sì, è a letto”

Dove stavi anche tu, immagino.

“Sta bene?” mi limito a chiedere.

“Sì, sta solo dormendo. Abbiamo avuto un pomeriggio un po’ movimentato… e siamo crollati” risponde sbadigliando.

Io annuisco lentamente, e basta.

“Vuoi che te lo chiami?” domanda barcollando all’indietro e indicando l’appartamento buio col pollice.

“No! Non serve”

“Devo dirgli qualcosa?”

“No, non ho niente da dirgli” faccio qualche passo indietro, mi volto e comincio a correre, come se il pavimento scottasse.

***********************************************************************************************************

Ma è mai possibile che debba sempre perdermi in questa cazzo di città?! Quando Chris ci ha chiesto di portare da bere io mi sono subito offerto volontario per andare a fare acquisti, anche perché dovevo comprarmi le sigarette, ma soprattutto perché volevo stare un po’ da solo. Ho comprato due confezioni da sei di birra e una stecca di American Spirit blu e sono andato verso il porto, con l’idea di farmi un giro, distarmi, cercare di non pensare… e invece lì ho pensato, cazzo, ho pensato un sacco. E ho concluso che Angela non mi piace. Certo, mi piace come ragazza, come persona, come amica, ma non può piacermi in quel senso. Ho stilato anche un elenco di motivi per i quali Angie non può piacermi:

  1. è piccola, troppo piccola, ha appena compiuto 18 anni, stiamo scherzando?

  2. ha un ragazzo, che è anche un amico… beh, un conoscente, e si dà il caso sia uno con cui presto andrò in giro a suonare

  3. è troppo timida, troppo dolce, troppo… Angie! Non va bene, io ho sempre avuto ragazze piuttosto aggressive, lei non resisterebbe tre giorni assieme a uno come me

  4. è troppo giovane

  5. mi sono attaccato a lei solo perché seguo il mio solito schema di merda. Non appena una ragazza comincia vagamente a interessarsi alla mia vita io mi ci affeziono. Sarebbe anche ora di uscirne, no?

  6. è troppo bassa, a me piacciono le ragazze alte

  7. mi piace solo perché mi ricorda Beth, ecco cos’è, un surrogato di Beth, quello che con molta probabilità sto inconsciamente cercando

  8. è piccola, cazzo!

  9. se mi ci metto assieme e faccio casini sono fuori dalla band. E quasi sicuramente morto

  10. sono single da meno di due mesi, non posso provare a stare un po’ da solo una volta tanto?

Vago senza meta per le strade di Seattle, per me ancora ignote, sul mio pick up. O meglio, una meta ce l’ho, Westlake, è solo che non ho idea di dove cazzo sia. Qualcosa mi dice che è agli esatti antipodi rispetto a dove sono ora. Tanto per aggiungere una nota di colore al quadretto, ha ricominciato a nevicare. Alla radio terminano gli spot pubblicitari e parte New Rose dei Damned. Mi scappa una risata isterica. Vi siete messi tutti d’accordo per prendermi per il culo? Ma poi, tutti chi? Con chi cazzo ce l’ho? Allungo le mani sul pacchetto di sigarette che scivola a destra e sinistra sul cruscotto, me ne infilo una tra le labbra e premo il bottone dell’accendisigari. Mentre aspetto che si riscaldi, non posso fare a meno di cantare, dopotutto stiamo parlando del primo pezzo punk della storia, altro che Sex Pistols.

I got a feeling inside of me

It’s kind of strange like a stormy sea

I don’t know why, I don’t know why

I guess these things have got to be

I got a new rose, I got her good

Io non ho un cazzo invece, niente di niente. E’ stata solo colpa della malinconia da compleanno. E del whisky.

See the sun, see the sun, it shines

Don’t get too close or it’ll burn your eyes

Qui il sole non si vede neanche in cartolina. In compenso qualcosa che brucia c’è: l’accendisigari è appena scattato e io provvedo ad accendermi la sigaretta.

I got a new rose, I got her good

Guess I knew that I always would

I can’t stop to mess around

I got a brand new rose in town

Sono bloccato in coda e forse un cartello mi viene finalmente in soccorso. So dove sono! E fortunatamente sto andando nella direzione giusta. Sempre che le macchine davanti a me si muovano.

I never thought this could happen to me

This is strange, why should it be?

I don’t deserve somebody this great

I’d better go or it’ll be too late

Se è per questo sono già in un ritardo mostruoso e probabilmente gli altri se ne sono già andati chissà dove senza di me. Non che la cosa mi dispiaccia, anzi, fosse stato per me, il mio compleanno l’avrei trascorso serenamente nella mia stanza a suonare e grattarmi le palle tutto il giorno. Intanto il traffico riprende lentamente e comincio a fare qualche metro in più. Invece no, Chris ha insistito: “Che cazzo fai a casa da solo?” Come se non fossi in grado di stare senza Jeff. Mica è la mia fidanzata, cazzo! E poi lo sapevo che non dovevo cedere sulla festa di ieri, lo sapevo che sarebbero riemersi i ricordi a fottermi il cervello. La mia testa è così confusa che vedo Angela e Beth dappertutto. Merda, anche adesso! Mi pare addirittura di scogere la prima seduta su una panchina sotto la neve. Tsk, figuriamoci… Un momento… Ma quella è Angie. O no? Perdo completamente interesse per il flusso del traffico e per la canzone e rimango a bocca aperta a fissare quella figura raggomitolata sulla panchina dall’altro lato della strada, cercando di capire se si tratta di lei. Se non è lei è la sua gemella perché è uguale, a parte i capelli. Ci metto un po’ ad accorgermi che dalla bocca aperta è scivolata la sigaretta, realizzo tutto quando comincio a sentire puzza di bruciato e un fastidio vicino al cavallo dei pantaloni. Merda! Cerco di recuperarla in qualche modo, ma non la trovo, poi la trovo, ma mi sfugge, scivola dal sedile e cade sui tappetini. Allungo il braccio per acchiapparla e per poco non tampono la station wagon che mi sta di fronte.

Questo è l’effetto delle maledizioni di Beth, sicuro.

Appena siamo di nuovo fermi accendo la luce interna della macchina e finalmente, con calma, trovo la sigaretta, che nel frattempo ha fatto un buco pure nel tappetino. Apro il finestrino per buttarla e nel contempo mi affaccio, per guardare meglio la ragazza sulla panchina. E’ immobile e sembra che i fiocchi bianchi che le cadono sulla testa e sulla giacca non la turbino minimamente. E’ chiaramente lei.

“ANGIE!” provo a chiamarla, ma lei non si muove di un millimetro.

Probabilmente non mi ha sentito. Ci vogliono alcuni minuti prima che il traffico si sblocchi definitivamente e io riesca, con una manovra quanto meno azzardata, a fare inversione e tornare indietro. Accosto di fianco alla fila di macchine parcheggiate, metto le quattro frecce e scendo.

“Angela” la chiamo per nome avvicinandomi a lei e stavolta alza lo sguardo. I suoi occhi sono diversi dal solito, sembrano ancora più grandi, sarà il trucco.

“Eddie” pronuncia il mio nome, semplicemente, senza nessuna sfumatura di sorpresa, sollievo o fastidio, senza alcuna inflessione interrogativa, senza niente.

“Angie, che ci fai qui?”

“Aspetto l’autobus” risponde tornando a fissare i suoi piedi, sprofondati nella neve.

“A quest’ora? Da sola?” le chiedo perplesso e lei si limita a un’alzata di spalle appena percettibile “Vuoi un passaggio a casa?”

“Tanto tra poco arriva il pullman”

“Ma va, chissà quando e se arriva! E poi sto andando a casa tua, cioè, da Chris, mi pare più-”

“Ok,” taglia corto lei alzandosi di scatto e scrollandosi la neve dai capelli e dalle maniche della giacca “andiamo”

Fa qualche passo verso di me e mi accorgo che ha un’andatura un po’ incerta.

“Ma, ti sei fatta male?”

“Non io, le mie scarpe” risponde levandosi una scarpa e mostrandomi il tacco mancante, prima di osservarla per alcuni minuti e buttarla ai piedi della panchina. Subito dopo fa la stessa cosa con l’altra e mi segue scalza fino alla macchina.

Cosa cazzo è successo?

***************************************************************************************************************

Quando apro gli occhi, in realtà sono già sveglio da un po’. Sveglio è una parola grossa, forse cosciente sarebbe un termine più adatto. Sono in uno stato a metà tra coscienza e incoscienza, sogno e realtà. Un sogno in cui non succede un cazzo, in cui sono come a mollo in una piscina, cullato da una serie di onde che, anziché farmi oscillare a destra e sinistra, mi fanno andare su e giù. Di tanto in tanto provo a uscire dall’acqua, ma ogni volta, più che di salire, ho l’impressione di cadere, e ogni volta, regolarmente, è come se qualcuno mi spingesse giù, sul fondo, che si fa sempre più vicino. E io non so di cosa avere più paura, se di affondare o di precipitare. Con l’ultimo tuffo al contrario, cioè dall’acqua verso il cielo, mi sveglio definitivamente e apro gli occhi. Ci metto poco a realizzare che cos’è successo, ci pensa il mal di testa che comincia a picchiare appena giro il capo verso sinistra, oltre alla visione di Monica che si toglie la mia camicia (chi le ha detto che poteva mettersela?) e si infila nel letto di fianco a me.

“Puoi anche andartene a casa tua” borbotto, almeno quello è il mio intento, in realtà le parole rimbombano nelle mie orecchie come se le avessi urlate con un megafono.

“Oh ti sei svegliato! Dormito bene?” mi chiede la stronza girandosi verso di me, con quella sua voce stridula che in questo momento odio ancora di più.

“Per niente, ma per lo meno non vedevo la tua faccia” ribatto ruotando lentamente la testa dall’altra parte.

“Ahahah peccato, speravo proprio di essere nei tuoi sogni, Jer Jer” commenta lei, avvicinandosi e solleticandomi il collo con le dita, prima di stamparci su un bacio.

“Piantala” le dico, cercando di allontanarla con la mano, visto che credo dovrò aspettare ancora qualche minuto per riuscire ad alzarmi.

Attraverso la finestra vedo la neve, che evidentemente ha ricominciato a cadere copiosa su Seattle mentre dormivo. O mentre scopavo con Monica, chi lo sa. All’inizio ci stavo abbastanza dentro, ho cominciato a non capire più un cazzo nel giro di un’oretta. E poi il vuoto. Altro che Ecstasy, chissà cosa cazzo mi ha datto quella troia.

“Lasciatelo dire: sei negato nelle coccole post-sesso, Jerry” aggiunge lei con una risatina, per poi avvicinarsi a me e cingermi le spalle con un braccio.

Ma com’è che lei è così vispa? E soprattutto, perché è così di buon umore? Ok che io non sono male, ma non l’ho mai sentita così allegra dopo… Doveva essere roba buona.

“Lasciami” insisto e tento di scrollarmela di dosso con qualche scatto delle spalle, ma non funziona.

Sospiro e continuo a guardare fuori dalla finestra, guardo ma non vedo quello che dovrei vedere e che realizzo solo alcuni minuti (O secondi? O ore?) dopo: è buio.

“E’ buio” ripeto esattamente quello che ho pensato oppure lo penso ad alta voce, non so.

“Bravissimo Jerry! Stai ricominciando a connettere!” esclama lei dandomi un bacio sulla guancia e il desiderio di levarmela dalle palle supera qualsiasi botta di qualsiasi sostanza stupefacente: riesco miracolosamente a mettermi seduto.

“Che cavolo di ora è?” domando chiudendo gli occhi, anche se so benissimo che in questi casi è peggio e che farei meglio a tenerli aperti e guardare un punto fisso.

“Boh? Aspetta…” sento le lenzuola muoversi, probabilmente perché lei sta scivolando verso la sveglia sul comodino “Undici meno dieci”

“Che cazzo dici?” reagisco incredulo.

Se lei è arrivata a casa mia prima delle due, come fanno a essere ancora le undici? Siamo tornati indietro nel tempo? Non so perché il mio cervello non riesce a elaborare subito il concetto di sera.

“Sono le undici meno dieci, guarda tu stesso!” ribatte lei stizzita.

Apro gli occhi e i numeri in rosso sulla radiosveglia non mi lasciano scampo e mi riportano bruscamente alla realtà.

22:50

“MERDA!” lo penso e lo dico contemporaneamente e, allo stesso tempo, sposto il lenzuolo buttandolo praticamente in faccia a Monica e metto i piedi a terra.

“Ehi! Ma che modi!”

“Taci! E vestiti, te ne devi andare” le dico mentre mi alzo, forse troppo in fretta, perché quello che sembrava essersi vagamente stabilizzato, ricomincia a girare più di prima.

“Perché?” chiede lei sollevandosi appena sui gomiti.

“Perché sono nella merda! Stavolta sono veramente nella merda!” vago per la mia stanza in cerca dei miei vestiti, ma non trovo nemmeno le mutande. Ai piedi del letto vedo, appallotolate insieme, la camicia e la giacca che avevo tirato fuori nel pomeriggio per l’appuntamento. Sì, quello che ho appena mandato a puttane.

“Jerry, calmati! Che è successo?”

“E’ successo che Angela mi fa il culo” rispondo mettendomi i primi jeans che trovo pescando nell’armadio e la camicia spiegazzata raccolta da terra.

“Ahah questo è poco ma sicuro!” commenta lei mettendosi a sedere.

“Devo chiamarla, cazzo… E tu vedi di tacere! Se apri bocca ed emetti anche solo un fiato mentre sono al telefono ti spezzo il collo, capito?” blatero mentre seguo il filo del telefono, che non è al suo posto sul comodino, per cercare di capire dove cazzo sia finito.

“Io sto zitta, tranquillo, ma tanto è inutile”

“Chiudi quella bocca!” trovo il telefono a terra, di fianco all’armadio, con la cornetta staccata incastrata tra le mie chitarre. Come cazzo ci è arrivato qui? Ho il sentore che la scopata con la rossa abbia preso una piega piuttosto violenta, anche a giudicare dai segni che mi vedo sul petto.

“Stai sprecando il tuo tempo, ormai è tardi” Monica continua con la sua lagna e io sono tentato di spaccarle il telefono sui denti. Ma non posso, mi serve per qualcosa di più importante.

“Non ho chiesto il tuo parere!” mi siedo sul letto e cerco di fare mente locale, o meglio, di sgombrare la mente da tutta la merda che ci è passata oggi, e ricordarmi il numero di Angela.

“Non hai capito. E’ tardi” continua lei.

“Tardi per cosa?”

“E comunque non la troverai di certo a casa, a meno che non sia Flash Gordon o come cazzo si chiama”

“Che?!”

“Era qui fino a poco fa, non può essere già-” non fa in tempo a finire la frase che io sono già saltato su di lei, ancora col telefono in mano.

“CHE CAZZO HAI DETTO?”

“Cos’è? Hai ancora voglia?” mi chiede provando a cingermi i fianchi con le gambe, ma io ho improvvisamente ritrovato i riflessi e una certa lucidità, o almeno qualcosa che ci assomiglia, e la blocco.

“Ripeti quello che hai detto”

“Cosa? Che era qui?”

“Angela?”

“Sì, la nanerottola. Ha suonato alla porta come una pazza e sono andata ad aprire, non ti sei accorto di niente?” risponde candidamente, come se nulla fosse, come se non avesse appena confessato di aver firmato la mia condanna a morte.

“Tu… tu le hai aperto?” le chiedo sconvolto.

“Certo! Che cazzo dovevo fare? Aspettare che sfondasse la porta?”

“E cosa… cosa cazzo le hai detto?”

“Che le dovevo dire? Le ho detto che dormivi. Poi le ho chiesto se dovevo svegliarti, ma lei ha detto di no e ha girato i tacchi”

“Angela… ti ha… oh cazzo” indietreggio sul letto e mi alzo come un automa, lasciando cadere a terra il telefono.

“Jerry…”

“Cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo…” lo ripeto per non so quante volte, facendo avanti e indietro per la stanza “Ma quando è successo? Quando è venuta?”

“Ma boh, prima… Cinque o dieci minuti fa” si alza anche lei sbuffando e dirigendosi verso il bagno, ma io l’afferro per un braccio a metà strada.

“Cinque o dieci? Non è uguale!”

“Ahia! Mi fai male! Ma che ne so, poco fa, poco prima che ti svegliassi”

“Cristo, ma allora…” non completo neanche il pensiero, mi limito a infilarmi il primo paio di scarpe che trovo e a scappare, prima fuori dalla stanza, poi fuori dall’appartamento, giù per le scale, senza neanche curarmi di chiudere la porta. Magari è ancora nei paraggi, Dio benedica la sua fobia degli ascensori! Corro come un dannato, con l’unico pensiero di trovarla, per scusarmi e spiegarle tutto. Ma che cazzo le spiego? Non so che cosa le dirò, non ne ho la più pallida idea, ma mi verrà in mente qualcosa, come sempre, l’importante è che la trovi subito. Per le scale non c’è. Arrivo al piano terra, esco dal portone e mi ricordo di non aver messo nemmeno una giacca, ma me ne frego, anzi, almeno il freddo mi aiuterà a svegliarmi un po’. Guardo a destra e sinistra, non vedo nulla, procedo nel fare il giro del palazzo, un paio di volte, ma senza successo. Allora faccio il giro dell’isolato. Niente. Il risultato è sempre lo stesso. Quella stronza di Monica ha un senso del tempo più distorto del mio, chissà quanto tempo è passato da quando è… cazzo, non riesco neanche a immaginare la scena, non voglio!

“Queste sono sue!” la voce fastidiosa della rossa attira la mia attenzione mentre sto rientrando nel palazzo.

E’ vestita di tutto punto, col cappuccio del pellicciotto tirato su sopra la testa, in piedi di fronte a una panchina, e ha qualcosa in mano. Quella… che poi non è certo una panchina qualsiasi. Avvicinandomi a lei realizzo che ha in mano delle scarpe.

“Cosa?”

“Queste scarpe, le aveva su lei. Almeno, quello che ne resta…” spiega lei porgendomele.

Sono bagnate fradice e a una manca il tacco. Scarpe coi tacchi?! Angela?!

“Lei non mette questa roba” replico stizzito.

“Se l’è messe per l’occasione, idiota! Per te! Era tutta in tiro… Mi duole dirlo, devo ammettere che non era affatto male” osserva appoggiando le scarpe sulla panchina.

“Sei una puttana”

“Che cosa?”

“Hai capito benissimo, sei una puttana ed è tutta colpa tua!” le urlo in faccia, incurante dei pochi sparuti passanti.

“Ehi, piano con le parole!”

“Io uso le parole che voglio e chiamo le cose col loro nome. Sei una lurida puttana! E’ colpa tua!”

“Senti, carino, guarda che ti stai sbagliando. Forse quella roba ti ha bruciato il cervello, perché mi pare che i tuoi ricordi siano un po’ annebbiati!”

“Roba che mi hai dato tu! Anche i tuoi ricordi fanno cilecca, mi pare”

“Certo, tesoro. Ma, se ricordi bene, sei tu che mi hai fatto entrare e sei tu che l’hai presa volontariamente. Non ti ho mica puntato una pistola alla tempia”

“Ma…”

“Né ti ho obbligato in altra maniera. E se spremi ancora un po’ quelle tue meningi del cazzo, ti ricorderai che sei sempre tu ad esserci stato con me quando ci ho provato”

“Ero fatto!”

“No, non eri fatto quando hai iniziato a mettermi le mani addosso!”

“Io…”

“E poi non sono certo io quella fidanzata! Io non ho legami e mi va bene così, non faccio finta di essere qualcosa che non sono. Se c’è una puttana qui, beh, quella sei tu. E con questo ti saluto” Monica finisce di sputarmi in faccia quella che, dopotutto, è solo la verità. Non ribatto, non ne ho la forza, né gli argomenti. Mi trascino fino al portone, che per fortuna ha lasciato aperto, sperando che abbia fatto lo stesso con la porta dell’appartamento. Ho le scarpe di Angela con me, anche se non so nemmeno perché le ho prese e non ho la minima idea di cosa cazzo farci. Cenerentola ha sbagliato a scegliere il suo principe e forse ora se n’è finalmente accorta.

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Pearl Jam / Vai alla pagina dell'autore: IamNotPrinceHamlet