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Autore: Mayuko    10/07/2008    0 recensioni
Io odio e amo. Ma come, dirai. Non lo so, ma sento che avviene e che questa è la mia tortura.
G.V. Catullo, Carm. 85
Genere: Romantico, Triste, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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† †. What is he

Non so quanto tempo dopo riuscii a risollevare le palpebre, ma di alcune cose – mentre roteavo freneticamente le pupille e riprendevo un po’ di forze, fui immediatamente certa. Prima di tutto, ero all’asciutto, avvolta da un maestoso ed insormontabile mare di bianco. Nuvole? pensai Mi è stato veramente concesso il paradiso? No, erano soltanto il fresco lino, la seta liscia e la calda lana di tante, troppe coperte.

E quello che sembrava un cielo stellato sopra la mia testa, era soltanto il blu trapuntato del mio baldacchino.

Ero viva.

Viva e nella mia stanza, ma non ero da sola. Sentivo delle voci familiari, ma non era nelle mie volontà prestare loro attenzione. Mi sentivo intorpidita, febbricitante. Delle sensazioni di caldo e freddo, vuoto e pienezza continuavano ad invadere ed infastidire il mio petto. E pensai che quella ferita che da tempo faceva sanguinare la mia anima si fosse letteralmente materializzata dopo il mio risveglio. No, non volevo questo. Ero riuscita a deludere persino me stessa.

A questo pensiero, lo sfocato mondo intorno a me divenne labile come se l’acqua di un torrente stesse attraversando il mio campo visivo. Gli occhi iniziarono a bruciarmi e quasi simultaneamente le mie labbra cominciarono a liberare dei singhiozzi sofferenti dalla mia gola calda e secca.

Quando iniziai a piangere – e solo allora, notai per la prima volta da quando avevo ripreso conoscenza da dove provenisse quel sibilare di voci che poco prima mi avevano infastidito e risvegliato, poiché un paio di sagome si precipitarono al mio capezzale, a destra e alla sinistra del mio letto.

Alla mia sinistra, un uomo e una donna di mezz’età mi guardavano con apprensione, e la donna, addolorata e piangente, mi stringeva la mano con forza. Erano vestiti totalmente di nero e i loro profili sembravano infuocati, illuminati alla luce di un candelabro. L’uomo mi sorrise e lo sentii posare il suo grande palmo sul mio avambraccio. La signora mi guardò per qualche istante a bocca aperta, poi si soffiò il naso borbottando qualcosa di incomprensibile inframmezzato dai suoi patetici singhiozzi. Il signore al suo fianco la strinse per confortarla, e poi notai che anche i suoi occhi erano lucidi, pronti a liberare un mare di lacrime.

Ma per che cosa diavolo stavano piangendo? Questa era la prima domanda che mi era venuta in mente di fare ai miei genitori, riunitisi al mio fianco per chi sa quale motivazione. Sembravano pronti per un lutto.

Mio padre spostò il candelabro davanti a se, illuminandomi, e quelle sette candele sembrarono levitare nel vuoto tra le coperte e il baldacchino. Spalancai gli occhi: c’era qualcun altro nella stanza.

Una mano grande, forte e giovane impugnava saldamente l’asta principale di quella reliquia seicentesca e le sue vene risaltavano alla luce di quei moccoli. Oltre il buio comparve poi un braccio, un busto e delle spalle ed infine, un secondo braccio la cui mano stringeva qualcosa rimasta sottratta alla mia vista dalla semioscurità che regnava nella mia camera. Poi, quelle sette piccole fiammelle sopra delle asticelle di cera diedero luce ad un viso. E le lacrime sui miei occhi semplicemente…scomparvero.

Chi era? O meglio, che cosa era? Quel ventenne dove nascondeva le sue ali piumate? Perché l’unica cosa che mi parve di vedere, non era un volto minimamente definibile come umano. Quel viso ovale e perfetto, la carnagione diafana, quei capelli dorati, quegli occhi profondamente strani, come in preda ad una trasformazione: tutto quello apparteneva ad una categoria soprannaturale.

Vidi quella persona abbozzare un sorriso e far scintillare per un poco la sua dentatura smagliante nella penombra, ma non appena illuminò bene il mio viso, quel sorriso scomparve per lasciare posto ad un’espressione seria, quasi professionale. Lo guardai dritto negli occhi, rapita e succube. E quello che riuscivo a vedere – mi dovetti convincere che non era un sogno – era una cosa che non avevo mai visto.

Il colore degli occhi di quel ragazzo si avvicinava molto al caramello ma aveva qualcosa di più splendente fra quegli sprazzi chiari, ora stava cambiando. Gli occhi si stavano scurendo, diventando neri e lividi. Era innaturale che qualcuno potesse avere una pupilla così grande da invadere l’iride. Ero sicura di aver letto da qualche parte che le pupille così dilatate si potevano osservare solo in soggetti deceduti. Morti, senza vita. Ma quella bellissima persona, quel giovane uomo era vivo, in piedi, davanti al mio sguardo impietrito.

Distratta dalla sua perfezione e dai suoi occhi, non mi ero accorta che era fradicio, e che l’acqua che colava dai suoi bei vestiti picchiettava come una pioggerellina estiva sulle mie coperte bianche. Seguii una goccia che avanzava lungo il dorso della sua mano e scivolò congelata sull’incavo del mio gomito.

Rimasi con gli occhi inchiodati sul mio braccio roseo per qualche attimo, osservando quella goccia che vi scivolava sopra lentamente, quando le dita bianchissime di quell’uomo mi carezzarono il braccio, raccolsero la goccia e andarono a stringersi saldamente lungo il mio polso. Atterrita dal gesto improvviso, alzai la testa e mi accorsi con stupore ancora più grande che i nostri visi erano vicinissimi. Non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo; ero indecisa se essere terrorizzata dal fatto che le sue mani sembravano fatte di ghiaccio e che la sua presa era irremovibile e dura come l’acciaio o rimanere più sorpresa dal fatto che il suo respiro era come vento oceanico e sapeva vagamente di…non sapevo cosa fosse, comunque era un profumo assurdamente appetitoso. E quei due occhi che mi fissavano a pochi centimetri di distanza sembravano essere capaci di pietrificare. Quei pochi istanti mi parvero durare ore, tanto che riuscivo a sentire la lingua che si impastava. Quando poi lo vidi schiudere le labbra, istintivamente ricacciai i miei occhi fin troppo curiosi sotto le ciglia, strizzandoli con forza sotto le palpebre, attendendo che arrivasse l’Apocalisse. Inutile descrivere quanto ero contenta di sapere che il giudizio divino che aspettavo altro non era che una risata affabile che sapeva di quell’effluvio sconosciuto prima di allora al mio naso lentigginoso.

«Va tutto bene,» sussurrò una voce al mio orecchio «Ci penserò io a prendermi cura di te.»

«Santo Cielo! Come sta, dottore, ci dica come sta!» ululò mia madre, probabilmente sconvolta dal fatto che qualcuno stesse ridendo della mia salute cagionevole.

Nel frattempo riaprii gli occhi, spostandoli dai miei genitori, gente banale e ordinaria, a quell’uomo, tutt’altro che ordinario.

«Madame, sua figlia ha bisogno di molto riposo, anche se ho avuto il piacere di constatare che il suo polso e i suoi riflessi sono tutt’altro che deboli.» disse soave, quasi sospirando «Eppure, Madame, eppure non vorrei che avesse perso la voce. Come saprà, certi mal di gola di questi tempi…sono proprio da evitare.»

Mio padre si chinò lesto su di me e quasi pregandomi disse «Tesoro, dì al signore come ti chiami.»

Riportai gli occhi sul giovane uomo, e armatami di una certa dose di coraggio, ignorando le mie guance che bruciavano, schiusi le labbra e mimai il mio nome. Ma non uscì alcun suono: solo una tosse esasperata.

«Santo cielo…questo…non è forse sangue?» biascicò mia madre, torturando il lembo del suo fazzoletto.

Le pupille del giovane si ingrandirono alla vista di tutte quelle goccioline che mi macchiavano il collo e la veste. Ero più spaventata dalla sua aria famelica che dal fatto che i miei polmoni stavano sanguinando. Si allontanò repentinamente da me, l’aura delle fiammelle lo illuminava ancora debolmente. Corrugando la fronte ordinò: «Pulitela.»

Strizzai gli occhi per osservarlo nella penombra in cui si era ritirato per pochi istanti: gli occhi di ossidiana pura brillavano al riflesso aranciato delle candele, e sembrava sforzarsi di mantenere un’espressione meno inquieta possibile. Era come se la sua lingua stesse assaggiando un bolo molto acido e non potesse fare a meno di sgranare gli occhi e contrarre le guance – la sinistra segnata da una strana ruga profonda, che lo rendeva ancora più innaturale.

Mio padre strappò il fazzoletto dalle mani di mia madre istintivamente e mi ripulì, rapido. Solo qualche istante dopo si mise a riflettere sul tono perentorio del giovane dottore, che a dirla tutta, sembrava più un universitario. Di nuovo si avvicinò a me, chinandosi in avanti in modo aggraziato, ignorando le espressioni sconcertate dei miei genitori, che ora lo studiavano attentamente, pronti a chiamare i nostri valletti e a farlo sparire se avesse detto nuovamente qualcosa che non andava o, peggio, se avesse fatto qualcosa che in quegli istanti desideravo ardentemente. Una pazzia, una cosa inimmaginabile – ovviamente. Nulla che avesse a che fare con la razionalità.

«Questo non va affatto bene, Amaranth.» mi alitò in tono confidenziale «Se fossi arrivato un minuto più tardi,» continuò parlando più a sé stesso che con i miei parenti là accanto o con me, che lo ascoltavo ammirata senza perdermi una sillaba del suo tono leggermente irritato «non so cosa…»

Non finì la frase e prese subito i suoi strumenti, cominciando a visitarmi. Mentre mi misurava la febbre e ascoltava il mio respiro mi misi a riflettere. Non gli avevo mai detto il mio nome. Eppure sembrava che fosse riuscito a captarlo oltre la mia tosse sanguinolenta.

Inoltre non capivo a cosa si stesse riferendo. Era forse stato lui a raccogliermi dalla terra battuta del mio giardino, sotto il temporale? Incosciente, avevo viaggiato fra le sue braccia sbozzate nell’avorio più lucente, con la sua giacca chiara che tentava di proteggere il mio tronfio vestito vermiglio pieno di sbuffi, merletti e pizzi, mentre la sua camicia di lino dal colorito candido – una volta bagnata – lasciava posto alla trasparenza, aderendo alle forme delicate e perfette del suo petto? Mentre mi visitava mi sentii arrossire, perché i miei occhi sicuramente lasciavano intuire che con la mente ero lontana dal mio letto. Sognavo ad occhi aperti – speravo ad occhi aperti. E probabilmente tentavo di sospirare, estasiata quanto non mai, ma dalla mia gola usciva solo un fischio altisonante che faceva da sottofondo alla mia fortuita immaginazione.

Fu molto accurato nel controllo, davvero professionale. E veloce. Quando fece per andarsene, raccogliendo gli arnesi del mestiere e borbottando qualcosa di accademico verso i miei genitori, rimasi sconvolta dall’ondata di tristezza che sembrava avermi travolta. Non volevo che se ne andasse.

Sfiorai la sua pelle fredda impercettibilmente, ma lui se ne accorse. Mi guardò per più di qualche istante, e alla luce del candelabro, i suoi occhi erano nuovamente oro liquido. Abbozzò un sorriso, aspettando una mia reazione, che ovviamente arrivò: il sangue che sembrava incendiarmi le gote mi salì fino alle orecchie. Sperai che quello bastasse per fargli capire il mio messaggio. Era molto più intelligente di una persona normale, proprio perché non era normale. E forse non era neanche una persona, ma ne aveva solo le fattezze.

Non capivo perché, ma era come se ne avessi la certezza.

«Tornerò sempre per prendermi cura di vostra figlia fino a quando non guarirà.» però sembrò subito ritrattare le sue parole, perché senza guardarmi aggiunse: «O almeno fino a quando riprenderà un po’ di voce.»


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E' una storia complicata, questa.
Lo è anche la nostra.
Io non mi arrendo; tu sei uno di quelli duri a morire.
La verità è che siamo troppo testardi, tesoro.
Ci sono persone che si vogliono bene a prescindere, e tu devi capire questo:
noi siamo una di quelle coppie.
Entrambi schiavi,
delle passioni cattive,
e di quelle buone.

Buon non-Anniversario, Amore.

  
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