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Autore: L_aura_grey    14/04/2014    4 recensioni
Tanto, tanto tempo fa, questa terra era ricca di bestie di ogni tipo: spaventose, pericolose, mortali. Vivevano di sangue e pianto, dolore e paura.
Gli uomini erano soli e indifesi, contro quella natura che li aveva creati ma che non li voleva più, perché non erano più Puri. Si erano sporcati con la loro voglia di conoscenza e sapere, perdendo mano a mano la loro parte animale, e divenendo sempre più umani.
Ma erano soli, pochi e indifesi, contro qualcosa di molto più grande e potente di loro.
Fu quando vide morire sotto ai propri occhi una giovane coppia, sbranata viva da una di quelle bestie che Lilith, la dea dei venti che era stata esiliata, si rivide in noi e ci riconobbe come proprie creature.
Da quel momento fu per noi la Grande Madre, e infuse in alcuni di noi il suo spirito. Ci distinse; a coloro che usavano la mente donò il Genio, e a chi ancora rimpiangeva quella libertà dettata dalla Purezza, donò il suo sangue bianco, il Volo affinché potessero librasi in cielo con lei, sfidando apertamente quella natura selvaggia e crudele, che ci aveva ripudiato.
Genere: Avventura, Guerra, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6
Primi armistizi



 


 

“Ancora non mi hai detto perché sei qui.”
“Scappo.”
“Oltre quello.”
“Semplicemente, scappo.”
“E nel mentre..?”
“Non lo so… Vivo?”
“Sono entrambe rischiose, mi pare.”
“Non in quantità particolarmente differente.”





 

Martha lo guardò apatica per qualche istante, calibrando le parole di Mika.
"Ripeti quello che hai detto" sibilò.
L'Impuro le rispose atono: "Sto andando a ritirare la richiesta per divenire..."
Per la prima volta da anni la ragazza colpì l'altro. Nonostante i più di venti centimetri di differenza che aveva lui, nonostante la consapevolezza che avrebbe potuto fermarla con facilità. Non fece resistenza, avrebbe gettato acqua sul fuoco. Vedendo che non avrebbe risposto magari lo avrebbe lasciato in pace. Poco gli importava, un livido in più o in meno non avrebbe fatto la differenza.
Si sentiva leggero, e il pugno con cui Martha lo colpì al volto, sulla guancia sfregiata, lo fece indietreggiare di qualche passo. Avrebbe potuto volare via, per quello che gli sarebbe interessato.
L'apatia dell'Impuro ottenne invece l'effetto contrario nella ragazza, che cominciò a tempestarlo di pugni e calci. Tutti gli fecero male, ma non rispose a nessuno, limitandosi a schivare gli schivabili.
Agli ennesimi Mika l'afferrò per i polsi, impedendole di raggiungerlo ancora. Alche Martha gli sputò in un occhio.
"Quindi almeno il coraggio per rispondermi a voce ce l'hai. Ma per spaccare il culo ad Adam neanche l'ombra."
Ritirò i pugni, trafiggendolo con lo sguardo.
Era una fortuna che in quel momento il corridoio fosse deserto, infondo erano tutti in mensa per il pasto serale.
Martha, però, lo aveva aspettato sulle porte dell'enorme salone, le braccia conserte e in volto un espressione nuvolosa.
Le sue preoccupazioni erano divenute realtà.
“Quindi è vero. È davvero lui. Ed è vivo.”
Mika si era limitato ad annuire. Poi lei aveva chiesto cosa aveva intenzione di fare. Lui aveva risposto che avrebbe ritirato la sfida.
“Le nostre possibilità della vittoria sono meno della metà, meglio non scendere in campo, se rischiamo solo che un’umiliazione.”
Lei lo guardò disgustata.
“Non eri della stessa previsione, questa mattina.”
“Dovevo motivarvi, se volevo vincere.”
“Ora non lo vuoi più.”
“No” rispose lui, semplicemente. Tremò, quasi, all’esplosione di rabbia che lo raggiunse.
“Pagherai amare conseguenze.”
“Non importa.”
“Di fronte a tutti. Verrai sbeffeggiato per anni, Adam ti renderà la vita un inferno” sibilò Martha, ormai al limite della frustrazione. Mancava poco perché riprendesse a prenderlo a pugni.
Mika chiuse gli occhi: “Mi ripeterei.”
In risposta l’altra lo spintonò all’indietro, gridando: “Ah, è così?! Quindo l’unica cosa che per te vale più di un moscerino è Djbril, vero? Ora che è tornato puoi permetterti di buttare tutto all’aria perché, certo, non ti importa!”
Ansimò dal furore, prima di riprendere: “Ma credi davvero che per lui potrebbe essere lo stesso?”
Per la prima volta vide una scintilla d’attenzione in risposta negli occhi dell’altro. Dentro di sé la ragazza ringhiò di vittoria. Almeno quello, almeno quello.
“Perché è tornato solo ora? Mi vuoi dire che in cinque anni, mai, mai, avrebbe avuto un occasione?” girò il coltella nella piaga, mentre Mika assottigliava gli occhi, comprendendo il gioco a cui l’altra voleva farlo perdere. Voleva farlo reagire.
E sarebbe anche potuta riuscirci, se le porte della mensa non si fossero aperte poche istanti prima che l’Impuro proferisse parola, facendo sfociare decine di Angeli con la pancia piena e il desiderio di andare a letto. La sconfitta prese posto sul volto della giovane, che si voltò di scatto, allontanandosi.
“Mika!” si sentì chiamare il ragazzo. Clara lo abbracciò con trasporto, mentre James li raggiunse con urgenza l’istante successivo: “Quindi è vero, è davvero.. lui?”
Mika attese qualche istante, prima di sorridere mestamente.
“Djbril è tornato.”



 

Aveva risposto alle domande eccitate di James, sorriso all’entusiasmo di Clara. Entrambi gli saltavano attorno come grilli, felici come Pasque, chiedendo quando avrebbero potuto rivederlo, perché non lo lasciavano venire da loro e soprattutto come era cambiato, cosa era cambiato.
Aveva descritto al meglio che poteva, i nuovi tratti fisici, i capelli che gli arrivavano, lisci, fino al petto, il volto che di certo non era più quello di un bambino. Non aveva neppure provato a descriverne il sorriso e, lì, sotto l’acqua della doccia, lo studiò mentalmente in ogni angolatura, ogni significato. Erano labbra che aveva ritrovato nei suoi incubi, schiuse in un espressione di paura, mentre venivano richiamate dal vuoto.
Ora però non si trattava di un sogni, l’acqua fredda sul viso lo confermava. Era sveglio, e il suo Compagno era vivo. Chiuse la manopola e, tremante, si strinse nell’accappatoio bianco. Gocciolante, rimase lì ancora per poco, prima che si rendesse conto quale fosse quel pensiero che continuava a tormentarlo, girandogli attorno senza mai lasciarsi prendere e osservare, meschino.
Alzò in capo, di scatto, guardando la finestra, chiusa. Era buio, fuori. Per questo non si vedeva nulla.
Con urgenza vi arrivò sotto ma, quando tirò giù la maniglia con forza, non entrò alcun ramo con prepotenza, solo la pungente aria della notte. Con un peso sul cuore attese qualche istante, prima di alzarsi da terra quel tanto che bastava per arrivare all’altezza del poggiolo.
Si sporse, osservando, nella semioscurità, in mezzo al cortile, il ceppo di quello che, una volta, era stato un albero rigoglioso, così verde da far male agli occhi. Sporse il braccio, mentre guardava la grossa base. Vi fosse stata luce avrebbe contato uno per uno tutti gli anelli che ne indicavano l’età. L’aveva letto una volta in un libro, trovandolo interessante. Ora poteva vedere coi suoi occhi, perché l’avevano tagliato.
E quello che aveva dimenticato la finestra aperta, lasciandolo alla vista di chiunque, era solo che lui.
Non avrebbe mai più potuto provare a sfiorarne le foglie.




 

-§ Cinque anni prima §-




 

Djbril succhiava con voracità, senza lasciare la minima traccia della zuppa sul cucchiaio. Poco importava se era rovente e la lingua bruciava in protesta ogni volta che se lo rinfilava in bocca, lo scopo era riempirsi la pancia e pareva che ci sarebbe voluto ancora molto, prima che raggiungesse il limite di sopportazione.
L’Angelo non si curava dei tre paia di occhi che parevano decisi a non lasciarlo neanche un attimo. Vi era chi lo guardava con tenerezza, Olivia, chi con astio, Thomas, chi con curiosità:
Chris aveva mandato via tutti gli altri, persino Mat, nonostante le sue proteste e battute che avevano fatto arrossire Thomas e ridere il padre. La ventenne lo aveva guardato con freddezza, ignorandolo fino a quando non aveva lasciato la sala.
Djbril aveva finito in fretta la carne secca, passando poi al pane. Anche quello era finito in poco.
Quindi Olive, sotto gentile suggerimento di Chris, aveva armeggiato in cucina fino a quando non era stato messo di fronte al dodicenne un piatto di pasta, del riso, una bistecca e delle verdure. Finite quelle cose la giovane era passata alla zuppa di ceci.
“Di questo passo finirà l’intera riserva della città” commentò acidamente Thomas. Come tutti si era seduto a un tavolo, in un angolo, il più lontano possibile da Djbril, la guancia appoggiata al pugno, sul volto un broncio bambinesco: “Mangerà di più di quello che potremmo ricavare macellandolo.”
“Tom!” lo fulminò Olive, mentre Chris ridacchiava alle parole del figlio.
“Sei troppo permissivo con lui.”
“Già” commentò placidamente l’uomo “Lo so.”
La ragazza lo guardò spiazzata, prima di tornare a Djbril, che era seduto avanti a lei: “Ti piace?”
In verità l’Angelo trovava orribile il sapore che gli bruciava il palato, troppo forte, ma di fronte all’aspettativa positiva che la giovane riversava su di lui si limitò a succhiare con più forza il sorso successivo.
Olive interpretò come un gesti di apprezzamento e annuì, entusiasta.
“Sai, hai la stessa età di mio fratello!”
“Fratello?” domandò l’Angelo, perplesso.
“Sì. Si chiama…” Olive fu interrotta dall’aprirsi delle porte. Ad entrare fu un anziano dal passo lento, ma pareva deciso a non farsi aiutare da nessuno, neppure da un bastone. Chris parve illuminarsi, mentre si alzava per avvicinarsi all’altro uomo. Questi lo fermò con l’alzarsi della mano e lui obbedì, non per questo l’entusiasmo smorzato.
“Era ora che arrivassi, vecchio. Il tipetto, qui, si sta spazzolando la dispensa.”
“Posso immaginare. Mi chiedo come possa essere sopravvissuto per così tanto tempo con quello che gli infilavo in bocca” rispose l’anziano, mentre dava qualche pacca scherzosa sull’enorme petto dell’uomo e si andava quindi a sedere alla destra di Djbril. Questi non aveva smesso di mangiare neppure per un istante, così come non aveva staccato gli occhi dal vecchio. Lo aveva riconosciuto immediatamente: era quello che lo aveva fatto trascinare nella galleria e che gli aveva tolto la freccia dal fianco. Poi gli aveva somministrato una strana sostanza liquida ed era svenuto nuovamente.
“Pare tu ti sia fatto notare subito, vero?” disse, in tono scherzoso, mentre andava a posargli una mano sulla testa, probabilmente con l’intento di scompigliargli i lunghi capelli bianchi. Djbril allontanò d’istinto il viso, abbassandosi. Il vecchio indugiò qualche istante, prima di rivolgergli un sorriso che, a giudicare da quel che sentiva, era di scuse.
“Albert sta bene. È fuori pericolo.”
Chris scoppiò in una poderosa risata: “E chi lo ammazza quello? Il suo fantasma non ci avrebbe creduto che era stato fatto fuori da uno scricciolo come quello.”
Djbril si accorse di come il clima della sala si era improvvisamente ridisteso, e anche lui si sentì un po’ sollevato, per quanto capisse ben poco di quel che stava accadendo. L’uomo a cui aveva preso le chiavi stava bene e quello era l’importante, o almeno credeva.
Si permise un piccolo sorriso, fra un sorso e l’altro. Cosa che non sfuggì a Olive, che riprese il gesto con doppio entusiasmo, tanto che si alzò per andare a preparare altre cose da mangiare Chris però le fece segno con la mano di fermarsi.
“Il piccolo dovrà farsi bastare quello che ha avuto fino ad adesso, farà colazione poi domattina con tutti gli altri.”
Nel suo tono di voce vi era la stessa vena confortante che l’aveva caratterizzato fino a quel momento, unita però a una nuova inflessione, molto più dura, imperativa. Quasi come quello che usavano i Maestri della Scuola, e allo stesso tempo era differente. Djbril favorì concentrarsi su quello, piuttosto che sul fatto che finita la zuppa avrebbe finito anche di abbuffarsi.
“Deve mangiare, o non crescerà mai! Guarda che spalline” ridacchiò il vecchio.
“E noi vogliamo che diventi grande e forte” sorrise Chris, mentre tornava a sedersi.
“Esatto!” confermò l’anziano, voltandosi nuovamente in direzione di Djbril:
“Allora, ragazzo. Il tuo nome?”
“Djbril, numero nove-cinquantadue…” rispose lui, o per meglio dire pigolò. Il vecchiò alzò un sopracciglio: “Cosa sarebbe questo numero?”
L’Angelo indugiò qualche istante: “Il mio nome…”
L’altro parve rifletterci su, ripetendo, senza emettere suono, il cinquantadue, annuendo poi con una comprensione più triste che compiaciuta. A Djbril parve di avergli fatto un torto, leggendo il dispiacere dell’altro, ma aveva solo risposto alla domanda.
“Capisco… quindi hai… quanto? Undici anni?”
“Dodici.”
“Bene… e cosa sai, esattamente, della Guerra?”
Djbril finì la zuppa e fece durare l’ultimo sorso così a lungo che pareva avrebbe finito per risucchiare anche il cucchiaio. Alla fine lo appoggiò alla scodella con ramarrico.
“Parli di quella dell’uomo contro la Natura?”
Il vecchio alzò un sopracciglio: “Non proprio, ragazzo, no. Quella è solo una leggenda.”
“Una fiaba” annuì il ragazzino.
Il silenzio cadde, pesante, sui cinque. Djbril si grattò la punta del naso, in imbarazzo. Raramente gli accadeva, in verità. Ma normalmente se ne stava in compagnia di Mika, ad allenarsi o a guardarlo disegnare.
Voleva tornare alla Torre.
“Quando… quando potrò tornare a Babilonia?” spezzò il silenzio, la voce incerta.
“Tornare?” ripeté stupita Olive: “Come puoi voler tornare in quel posto?”
“Ti abbiamo appena liberato. Guarda com’è la vita qui e poi decidi” si intromise, calmo, Chris. L’Angelo avrebbe voluto rispondere che non aveva bisogno di valutare oltre, che quel mondo era troppo alieno per lui, troppo scuro, piccolo, puzzolente e scuro, per lui. Voleva gli alti soffitti della Torre, ma ancora più di quelli quello senza barriere che era il cielo.
Decise invece di non dire una parola, dato il tono imperativo che l’uomo aveva usato.
“Thomas, lo accompagnerai alle camere. Magari fai sloggiare qualcuno da loculo vicino al tuo e lo tieni d’occhio.”
Il ragazzo sgranò gli occhi: “Cosa?! Dovrei tenerlo vicino a me… io?”
“Sì, Tommy, tu” alzò gli occhi al cielo il padre, apparentemente divertito: “Una bella dormita, e domani magari lo porti anche a fare un giro del Buco.”
Il corvino scosse la testa, incredulo. Poi, con rabbia, si alzò, incamminandosi verso la porta. A pochi passi si fermò, tornò indietro e afferrò il collo della maglietta che l’Angelo indossava, tirandoselo dietro. L’albino rischiò di cadere, ma bene o male riuscì a seguire l’altro.
“Vieni” sibilò, velenoso, il giovane “Fammi fare gli onori di casa.”


 

 

-§ Oggi §-





 

Il capitano Shan rispose allo sguardo deciso di Martha con uno ben più placido, di chi è abituato abituato a trattare con ragazzini e persone immature. D’altronde così era, se si toglievano i suoi colleghi di anzianità. Ma a quel punto preferiva parlare con ragazzini capaci di volare, piuttosto che con vecchi dagli sguardi acidi. L’Angelo che si trovava davanti, però, gli dava tutta l’impressione che sarebbe stata una rogna, piuttosto che una fonte di svago.
Distrattamente, si mise a giochicchiare con le matite che aveva davanti, facendole rotolare. Tutto, pur di sfuggire allo sguardo di fuoco della ragazza; ciò che detestava, e allo stesso apprezzava, era la possibilità di comprendere gli Angeli con poco. Bastava uno sguardo, una parola, alcuni inondavano persino con le proprie emozioni e, come in quel caso, persino umani come lui potevano percepire un pizzicorio dietro la nuca, un brivido di disagio.
“Numero tre-cinquantadue, giusto?”
Martha annuì.
“Hanno detto che sei qui per una richiesta.”
“Costringete Mika, numero dieci-cinquantadue, alla sfida che si terrà domani.”
Il capitano Shan alzò un sopracciglio, prima di ridacchiare mestamente: “Certo che voi Angeli siete sempre più intraprendenti.”
La ragazza rispose con uno sguardo duro.
“Mi pare che il giovanotto parteciperà di suo, perché costringerlo?”
“So che domani mattina verrà a ritirare la sfida.”
“Un vero peccato, si preannunciava uno spettacolino interessante” sospirò di disappunto l’anziano “Ma non vedo il motivo di costringerlo. Non sarò io a pulire la Torre da capo a fondo per il resto della mia vita.”
Martha sbatté i pugni sulla scrivania, trattenendosi appena dall’esprimersi in una smorfia di grottesca rabbia. Shan alzò un sopracciglio, mentre dentro sé se la rideva sotto i baffi. Al contrario dei suoi colleghi considerava le situazioni di stallo alla lunga terribilmente noiose, a settant’anni suonati ancora non ne voleva sapere di fare le ragnatele sulla sua poltrona.
“Lei è stato quello entusiasta dell’idea, mi ha detto Mika. Quello che lo appoggiato.”
“È vero” rispose asciutto l’altro.
“E ora lui sta rinunciando! Come può permetterlo?”
“Ti ho già risposto. Per quello che vale, non sarò io a pagare questa decisione, non ho interesse a fare pressione perché quel confronto avvenga. Invece di andare a guardare la sfida seduto su una scomoda panchina, di fronte a una sfilza di monitor, me ne starò in camera mia a leggere. In ogni caso, quel che cerco io è un pizzico di divertimento.”
Martha ondeggiò. Strinse i pugni abbassando lo sguardo. Fu da quel gesto che l’anziano capì che quella ragazzina avrebbe ottenuto quello che voleva. In un modo o nell’altro.
Com’erano interessanti, quegli Angeli. Quante intricate variabili. Unì le dita delle mani, facendole tamburellare fra loro e sorridendo attese una risposta da parte dell’altra, parole che non tardarono ad arrivare: “Vuole il divertimento? Le sto offrendo il miglior spettacolo che quei pulcini là sotto abbiano mai visto. Vuole il sangue? Glielo darò. Faccia scendere in campo Mika e, tempo pochi anni, sarà in grado di guidare tutti gli squadroni che volete. Non so esattamente quello che ci sia là fuori, ma può stare certo che dieci-cinquantadue è quello che cerca.”
“So a malapena perché voleva scendere in campo, ora neppure perché vorrebbe ritirarsi” replicò quieto il capitano, continuando a tamburellare. In verità era impressionato. Mai aveva visto tanta audacia in un Angelo, neppure nel ragazzo per cui si batteva tanto. Forse era su di lei che doveva scommettere. Ma se lei a sua volta puntava sull’altro, forse un motivo c’era...
“Il suo Compagno, che abbiamo creduto morto da anni è… tornato” fece una smorfia Martha.
L’anziano si irrigidì impercettibilmente. Sì, quello che era stato ritrovato da una squadra esplorativa. Gli era stato detto. E così era lui. Anzi, erano loro.
Le cose parevano farsi sempre più interessanti.
“Evidentemente l’ha distratto dall’obbiettivo” continuò Martha “Facendogli credere che non ha più bisogno di stracciare Adam. Cosa che non è.”
“No?” l’assecondò divertito l’anziano.
“No. Lui ne ha un estremo bisogno. E deve dimostrare quello che vale. Non voglio che marcisca ai piedi della piramide, quando potrebbe guardare tutti dall’altro. E lo stesso per me.”
Shan scoppiò a ridere: “E quindi cosa dovrei fare? Prenderlo a forza e chiuderlo nel simulatore?”
“Se ha perso la giusta motivazione, basta dargliene un’altra di uguale o maggiore importanza…”
Il capitano rimase qualche istante in silenzio, gli occhi puntati sul ventilatore che, dal soffitto, scandiva ritmicamente i secondi che passavano.
“Ti ascolto.”



 

Martha si chiuse la porta dell’ufficio alle spalle, sul volto un’espressione indecifrabile.
Nello stesso istante un’ombra si staccò dalla parete bianca per avvicinarsele con timore.
July le si presentò di fianco, camminandole il più vicina possibile. L’altra però, a parte un veloce sguardo quando si era accorta della sua presenza, continuò il suo tragitto. Le sue falcate erano maggiori, dato che la Compagna era alquanto più bassa di lei. Per quello, e altri mille motivi, July rimaneva sempre un poco indietro. E di questo ringraziava, perché così l’altra non notava i suoi patetici tentativi di prenderle la mano, anche se quando le dita arrivavano ormai a sfiorarsi, le tirava sempre via. Se mai Martha se n’era accorta, non aveva dato segni e lei aveva continuato.
Si trovavano ai piani superiori. L’accesso non era vietato, ma difficilmente un Angelo trovava il desiderio di girare fra gli stretti e lunghi corridoi, le pareti candide interrotte solo di tanto in tanto da una porta in vetro o scorrevole.
Raggiunsero una delle aperture circolari presenti sul pavimento, che permettevano agli Angeli di potersi spostare da un piano all’altro senza dover per forza utilizzare scale o ascensori, per loro molto più lenti rispetto al volo. Le due si lasciarono cadere per diversi metri, prima di rallentare in prossimità di quello dove si trovavano i dormitori femminili, quindi atterrarono.
Erano ormai di fronte la porta, quando finalmente July trovò il coraggio di parlare: “Che… che cosa ha detto, il capitano?”
Martha si voltò nella sua direzione, studiandola mentre si torturava una ciocca di corti capelli bianchi, sul volto un’espressione di disagio. La fece vibrare di disgusto, cosa che l’altra non ebbe problemi a percepire. Abbassò gli occhi, affranta, ottenendo solo nuovi pensieri negativi rivolti a lei.
“Domani la sfida ci sarà.”
“Bene…” la ragazzina attese ancora qualche istante, prima di aggiungere: “E hai chiesto a Mika? Visto che James non potrà partecipare un posto libero c’è. Potrei...”
“No” la interruppe rudemente l’altra, facendo scuotere di paura July.
“Così potremo fare qualcosa assieme…”
“Ti ho detto di no, non insistere.”
“Potrò mostrarti quanto valgo! Sono migliorata, anche i maestri lo hanno detto!” si aggrappò a lei la Pura, una nota disperata nella voce. Guardami, pareva dire, apprezzami!
Martha la scostò rudemente: “Non mi importa, July. Conosco il tuo potenziare. Qualunque sia il livello che puoi raggiungere, non sarà mai abbastanza. Non ti è chiaro il concetto?” domandò, abbassandosi su di lei, sibilandole a pochi centimetri dalle labbra: “Sei una creatura patetica, se ancora cerchi una carezza gentile da parte mia. Non potrai mai darmi quello che voglio, tanto vale che tu sparisca. Che questa sia l’ultima volta che affrontiamo il discorso. Anzi…”
Si rialzò, dandole le spalle e aprendo la porta dei dormitori: “Che sia l’ultima volta che ti vedo.”



 

-§ Cinque anni prima §



 

Djbril si era fatto condurre senza protestare, subendo l’aura negativa del suo accompagnatore, che in verità gli onori di casa non li aveva ancora fatti, a meno che non si riferisse all’infinità di ennesimi cunicoli, gallerie e scale in cui lo aveva condotto, tutti uguali all’altro. Solo ogni tanto, alla luce dei neon che attraversavano, occupando il meno spazio possibile, le lunghe pareti di terra o roccia, compariva qualche porta, un altarino o una bizzarra decorazione. Vi erano anche pannelli di metallo, diversi mostravano adesivi che avvisava del pericolo in cui sarebbe incorso colui che li avrebbe aperti.
Erano ormai diversi minuti che erano in cammino, tanto che l’Angelo stava per proporre di tornare indietro, perché c’era il rischio che sarebbero morti di fame nel tentativo di tornare alla dispensa, poi.
Finalmente Thomas si voltò, di fronte a una porta che, rispetto alle altre, semplici rettangoli in legno o acciaio, era molto più grande, un semicerchio decorato.
“Ascoltami bene” cominciò, con tutta l’aria di uno che quel discorso proprio non lo voleva fare, cosa che era vera “Perché te lo dirò una e una volta soltanto, quindi se hai intenzione di fare qualche domanda stupida dovrai andare a piangere sotto le gonne di Olive. Capito?”
Il Puro annuì, cercando di mostrarsi il più affidabile possibile.
“Bene. Primo: quando le luci si spengono nessuno fiata. Nessuno. Secondo: gli Angeli non sono i nostri migliori amici. Aspettati di trovare più persone come me, che come Chris. Terzo: fai quello che ti dico, punto. Non voglio proteste, sciocche domante o osservazioni impertinenti. Ora non ti chiederò se è chiaro o meno, deve esserlo e basta.”
Djbril, intimorito, annuì. Invece che quietare l’altro lo mandò ancora più bestia, tanto che gli sputò ai piedi: “Mi fate davvero schifo. Siete degli animali senza cervello, ecco cosa siete. tutto ciò che sapete fare è ubbidire.”
L’Angelo rimase muto alle parole di Thomas, che nel tanto si era voltato, aprendo finalmente le porte. Dopo l’aver mangiato, tornare a dormire non sarebbe stato male. Non avrebbe pensato alla Torre che non gli era permesso, al non avere Mika al fianco, come era avvenuto ogni notte da quando aveva memoria. No, in verità sarebbe stato davvero molto difficile, dormire, senza avere il proprio Compagno a cui dire di tacere, perché tutte le parole che durante il giorno l’Impuro tratteneva divenivano confidenze notturne sotto cui doveva stare e subire. Gli mancavano terribilmente.
“Questo è il dormitorio dei ragazzi. Insomma, ci sta tutta quella gente fra i cinque e i sedici anni, poi si va in quello per donne o quello per uomini.”
Si ritrovarono in un grosso salone scuro, rettangolare, più lungo che largo. Ai due lati, incastonate nelle pareti, si alzavano quattro file di loculi nella pietra, il letto in legno con sopra un materasso in tutti, anche se non tutti erano occupati. Decine di metri oltre loro, finiva la sala, con lei anche le rientranza. Anche lì, i colori dominanti erano il grigio e il marrone. Non ci volle molto perché diverse paia di occhi si rivolgessero in direzione del punto bianco che corrispondeva a Djbril, mentre il brusio tranquillo che li aveva accolti con l’aprirsi delle porte andava a scemare. Rabbrividì, sotto il peso di tutti quelli sguardi, ondeggiò sotto al carico di emozioni che lo raggiunsero, tutte differenti, tutte potenti.
Come potevano provare qualcosa di così forte?
Thomas non diede segno di accorgersi del suo smarrimento e riprese a camminare, sotto sguardi giudicatori o curiosi o annoiati.
Si fermarono verso il fondo della sala. Alla fine di ogni loculo vi era uno spazio che permetteva a una scala a pioli di appoggiarglisi, arrivando fino al soffitto.
“Cass, smamma” disse Thomas, naso all’aria.
Una cascata di riccioli rossi comparve all’appello, mentre una giovane li fissava, strusciandosi un occhio.
“E dove dovrei andare?” domandò “Stavo già dormendo, trova qualcun'altro da far trasferire.”
Detto questo, Cassandra riscomparve. Bastarono pochi secondi, perché si udisse, nonostante la luce accesa e i rumori ancora insistenti, un quieto russare.
Thomas batté un piede a terra, infastidito, prima di voltarsi.
“Judy!”
“Che vuoi, testa di cocomero?!”
Un mostriciattolo dai lunghi e scompigliati capelli neri saltò dal terzio piano di loculi dritto in testa al corvino, che si ritrovò crudamente a terra, mentre veniva tempestato da una valanga di pugni, tutti diretti al suo volto.
“Credi che non me ne sia accorta?! L’hai messa mano tu, alla mia collezione!”
Thomas lottò qualche istante, prima di ribaltare la situazione e costringere a terra la bambina, otto anni al massimo, considerò Djbril, piantandole un braccio sul petto. Lei si agitò con fervore, riuscendo a colpire con un calcio il mento del ragazzo che la sovrastava, che si portò una mano al volto, facendo una smorfia. Sfruttando l’attimo di distrazione un secondo calcio lo raggiunse in mezzo alle gambe.
L’Angelo incassò la testa al gemito di dolore del giovane, mentre la bambina si alzava battendo fra di loro le mani, come a togliere un’immaginaria polvere. Poi due, ennesimi, pozzi neri furono puntati su di lui.
“Quindi tu sei il tizio volante di Babilonia” constatò, sicura, mentre andava a piazzarsi proprio avanti a lui, fra loro pochi centimetri. Era bassa, più di lui, ma aveva di certo molta più sicurezza. Guardava dal basso Djbril, ignorando senza tanti problemi i venti centimetri che li separavano.
“Non sei venuto a rapire nessuno, vero?”
“No…” rispose lui, spiazzato. Per l’ennesima volta, in quella infinita giornata.
“Bene” timbrò lei la conversazione, passandosi le mani in mezzo alla zazzera scura che aveva, tirando più e più volte, causa l’infinità di nodi che aveva “Questa è l’ennesima dimostrazione che le storie che mi racconta” e indicò Thomas, ancora rantolante in mezzo alla povere, per quanto, lacrime agli occhi, cercava di avvicinarsele con aura omicida “... sono false. L’ennesima. Ma io lo sapevo, mica sono stupida. E comunque non te lo do, il mio posto.”
Veloce come un fulmine, sfuggì alla mano con cui il corvino tentò di agguantarle la caviglia. In risposta gli pestò le dita e lui la ritrasse con un sibilo.
“Piccola pazza, che cavolo stai dicendo? Non metterei mai le mani in quello schifo di buco dove tieni le tue cose.”
“E invece lo so di per certo, che sei stato tu!”
“Di per certo! Ma se non sai neppure quante pulci hai fra i capelli!”
Judy ingrossò le guance: “Non ho le pulci!” di nuovo attentò alla mano del giovane, che questa volta fu abbastanza veloce da salvarla, ritirandosi malamente in piedi.
“Certo che le hai. Ti ballano fra i capelli, mangiandoti la testa, scavandoti gallerie così piccole che neppure te ne accorgi, arrivandoti al cervello, e ti mangiano anche quello. Così diventerai sempre più stupida, sempre più stupida, fino a non sapere neppure più il tuo nome!”
“Smettila, smettila, smettila!” si gettò su di lui la bambina, tempestandolo di pugni. Questa volta fu lui più veloce, afferrandola per la vita e capovolgendola a testa in giù “Per stanotte dormirai con me, coltivatrice di pulci. Il tuo posto lo lasci a Djbril.”
“Con te?! Brutto ladro che non sei altri, lasciami stare!” si agitò lei, senza però riuscire a sfuggire alle grinfie dell’altro.
Thomas fece una smorfia: “Brutta rogna le sorelle… su, sali!” disse,facendo un segno frettoloso a Djbril, che sobbalzò, prima di prendere il volo per raggiungere il loculo. L’intera sala trattenne il sospiro. Persino in fondo riuscirono a sentire il russare di Cassandra. L’Angelo riconobbe che non era stata un’idea arguta.
“Ma che ti salta in mente?” ringhiò a bassa voce Thomas, afferrandogli il piede dei pantaloni e scuotendolo con rabbia: “Già è difficile non notare i tuoi capelli bianchi, ti metti anche a volare? Credi di essere a casa, beh non è così. Qua siamo tutti umani, quindi ti comporti da umano. Capito?”
Djbril avrebbe voluto metterlo a corrente del fatto che non si sentiva a casa.
O dirgli di come gli mancasse Mika.
O che non sapeva, esattamente, come si comportasse un umano.
Si limitò ad annuire, rintanandosi poi nell’angolo del loculo di pietra. Rannicchiato, la testa fra le ginocchia, poteva stare, dato che non era molto basso, ma questo non evitava che un gran senso di claustrofobia si facesse sempre più pressante.
Djbril vide Thomas salire e, a giudicare dai rumori, sistemarsi nella cuccetta superiore alla propria.
Le luci si spensero, segno che era ora di andare a dormire, e i borbotti diminuirono. Si sentì qualche tonfo e qualche lamento, di chi era stato colto in flagrante fuori dal proprio loculo e che doveva farsi strada nel buio per raggiungere il proprio posto.
L’Angelo tastò un poco attorno a sé, prendendo la coperta e il cuscino che erano presenti. Cercò di addormentarsi, l’oscurità della notte, se fuori di lì era effettivamente notte, paesaggio ben più familiare di quello dove si era ritrovato. Il sonno però non arrivò.
Continuò a guardare avanti a sé, pensando a Mila, alla paura che aveva provato quel giorno, al posto dove si trovava. Chi erano quelle persone? Cosa volevano da lui? E perché non gli avevano mai detto niente?
Si rigirò fra quei pensieri per un tempo che parve infinito.
Improvvisamente la penombra dove si trovava divenne ancora più scura. Voltandosi verso il lato aperto trovò un brillante occhio azzurro a fissarlo, circondati da lunghi ricci scuri. Dopo lo spaventi iniziale capì che si trattava della ragazza che dormiva sopra di sé, e che quindi in realtà erano di un rosso brillante.
Con una mossa da brillante ginnasta, la giovane entrò nel suo loculo, andando a sedersi ai suoi piedi, costretta a piegarsi un poco in avanti per non sbattere la testa. I due continuarono a osservarsi per qualche istante, prima che lei si sporgesse verso di lui, sussurrando: “Io mi chiamo Cassandra.”
“Lo so.”
“Ma io non so il tuo. Per questo dicevo prima il mio.”
“Che abitudine strana. Insomma, non mi pare sia una conseguenza inerogabile.”
“Già, ora che ci penso hai ragione. Non dovresti rispondere per forza.”
Tornarono in silenzio per qualche istante, prima che lei lo rompesse di nuovo:
“Allora me lo dici il tuo nome?”
“Non lo so, devo? Tutti non fanno che chiedermi altro.”
“Dillo e basta.”
“Djbril, numero dieci-cinquantadue.”
“Che vuol dire, numero?”
“Qui non li avete?”
“No.”
“E allora come fate a distinguervi?”
“Non so, con il nome… so che una volta si usava anche il cognome, una cosa che veniva dopo, tutti i figli prendevano quello del padre, ma non quello della madre, così si sapeva, più o meno, di chi fosse figlio chi.”
“Ma non si sapeva chi era la madre.”
“Già.”
“Beh, è una cosa un po’ scorretta.”
“Scorretta tanto.”
Nella penombra all’Angelo parve che l’altra sorridesse. Poi lei si mise a carponi, gattonandogli incontro e sedendosi accanto a lui, poggiandogli poi la testa sulla spalla. Bastò poco che cadesse addormentata.
Djbril, atterrito e confuso, con delicatezza fece scivolare la propria sulla testa di lei, percependo i ricci morbidi e sottili sotto la guancia. Chiuse gli occhi. Cullato dal respiro regolare della ragazza e dal suo tepore, cadde in un sonno senza sogni.

 



 

-§ Oggi §-





 

Quella mattina era andato nella segreteria, come aveva deciso.
La donna dietro al bancone lo aveva guardato per qualche istante, prima di indicargli una piccola stanza d’attesa. Poi era scomparsa, lasciandolo solo, e solo era rimasto per diversi minuti.
Sospirò, poggiandosi alla parete. Era già la seconda volta in due giorni che si ritrovava ad aspettare, neppure lui sapeva bene cosa. Solo, aspettare.
Eppure aveva sentito di altri diciassette che avevano ritirato le proprie proposte, e a nessuno era mai andata particolarmente male, il semplice restituire di un figlio compilato, la domanda del perché si volevano tirare indietro. Aveva chiesto, quella non era la procedura standard, quindi. Certo, neppure la sua richiesta lo era stata, quindi non poteva che essere una conseguenza.
Quando la porta si era finalmente aperta aveva alzato lo sguardo.
In verità non si era ancora abituato, come avrebbe potuto? Sapeva che era vivo da meno di ventiquattr’ore, e per quanto fosse ancora lui, era diverso. Era cresciuto, aveva passato cinque anni senza di lui, aveva tutte le caratteristiche di uno sconosciuto.
Djbril gli si sedette davanti, mentre Miss Edgard superava la soglia, veloce come uno spettro, per andare a piazzarsi in un angolo sterile della saletta. Se non ci facevi attenzione potevi quasi dimenticartene. Peccato che a Mika piacessero i particolari.
“Mi hanno spiegato bene o male la situazione… sono cambiate un po’ di cose…” iniziò il Puro, facendo sobbalzare l’altro. Più gli stava vicino, più notava dettagli più o meno evidenti. La voce. Erano passato anni dall’ultima volta che l’aveva sentita e, ovviamente, non era più quella di un bambino. Era bassa e delicata, un tono che aveva il dopo di quietare le anime e i demoni. Come tutto, in lui, d’altronde.
“Pare che i… giochi siano accelerati.”
Djbril si mordicchiò un attimo il labbro, prima di proseguire: “Mi hanno detto dei Capoclasse. E del tuo desiderio di divenire uno di loro.”
“Non l’ho mai voluto.”
“Però hai fatto la domanda. Perché?”
Mika sorresse il suo sguardo ancora per qualche istante, prima di distogliere gli occhi: “Per orgoglio. Per far capire un cosa ad Adam.”
“Adam?”
“Il diciannove a cui hanno affidato la nostra classe. Si meriterebbe una lezione.”
“E allora dagliela” replicò con semplicità il Puro, sorridendogli, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
“Non… non è così semplice. E se proprio deve essere, non sento il bisogno di essere io a dargliela.”
“Ma se non lo farai tu, chi altro?”
“Io… non lo so, in verità mi sono sempre limitato a guardare, non vedo perché non potrei tornare a farlo.”
“Perché hai proposto la sfida.”
“Ma non ci credevo neppure! Loro sono più forti, più abili.”
“Il Mika che conoscevo non avrebbe mai accettato una sfida, se sapeva di perderla” replicò il Puro, mentre l’altro si adombrava. Si parlava di un ragazzo di cinque anni prima, che non aveva portato la colpa della sua scomparsa sulle spalle. E allo stesso tempo provò una profonda vergogna.
“Il Mika che conoscevi non aveva una cicatrice sul volto” si limitò a rispondere, poggiandosi alla parete, sul viso un’espressione neutra.
“Questo non vuol dire che non veda l’ora di conoscere il nuovo” gli sorrise, senza perdersi d’animo, Djbril. Pareva quasi non fosse accaduto nulla, per lui, cinque anni come un giorno. Eppure, allo stesso tempo, vi era qualcosa che non andava. Eppure…
“Perché hai deciso di sfidarlo?”
“Perché ti aveva insultato” si decise a rispondere, duro “Perché ha continuato a farlo, non sopportavo più una cosa del genere. Ha insultato te, me, mi ha... mi ha dato la colpa. Non ci ho più visto.”
“E perché ora tutto questo non importa più?” domandò con dolcezza Djbri.
L'altro lo guardò spiazzato: “Perché... sei tornato. Davvero, è solo una stupida sfida, che importanza ha, ora?” replicò con un'altra domanda, un tono esasperato. Perché non poteva fare come sentiva? Perché doveva per forza prendere armi che al momento brillavano più di una luce scomoda, che di vittoria.
Djbril andò a prendergli la mano, sorridendo comprensivo: “Mika…” chiamò i suoi occhi, due specchi che si riflessero nei suoi “Perché ha importanza ora come prima, perché quell’Adam si merita una lezione e tu puoi dargliela, perché sono tornato, ma tu sei ancora quel Mika che ha vissuto per tanto tempo senza di me, che sente il bisogno di difendere il proprio nome come il mio. Io sono il tuo Compagno, sempre lo sarò. Non dubitare mai di questo. Ma io non sono tutto, ci sono anche tanti altri fattori, altre cose a cui ci dobbiamo dedicare.”
Per una volta fu Mika a non comprendere. Lo guardò stupito, perché neppure il Djbril che conosceva lui avrebbe mai parlato in maniera tale da non fargli capire. Perché per una volta era certo ci fosse qualcosa di più, dietro quelle parole, ma non riusciva ad afferrare cosa.
Si sentì tradito. Si sentì ricatapultato al giorno prima, come se dalla porta Djbril dovesse ancora rientrare, solo che questa volta sapeva che poteva accadere, con tutta l’ansia e il terrore che potesse non accadere.
Djbril si alzò, spostandosi una ciocca dietro l’orecchio e guardandolo, incoraggiante. Lo tirò sù , dandogli una pacca sulla spalla.
“E poi non vedo perché farsi tanti problemi. È ovvio che vincerai.”
Mika alzò un sopracciglio: “Ovvio?” ripeté, ironico.
“Certo! Dato che la tua squadra è da quattro, mi è stato detto di entrare come quinto componente.”
L'Imputo lo guardò, perplesso: “Seriamente? Dopo solo un giorno che sei qui?”
“Meglio di mille test fisici, senza dubbio” sorrise l'Angelo: “Sarà una passeggiata."
“Ah. La fai facile, tu.”
“Le cose sono sempre più facili di come le si crede.”






 

“È troppo facile.”
“Thomas...”
“Cornelia, insomma, la storia che gli ha raccontato avrebbe fatto ridere anche un bambino. Sempre ammesso che l'abbia fatto.”
“Era più che verosimile, Tom, non rompere. E se gli avesse detto la verità a quest'ora saremmo nelle segrete di Babilonia, se non due metri sotto terra. E invece siamo qua, ad arroventarci il sedere in questa pianura di mercoledì. Ormai faccio prima a mettere il binocolo al posto degli occhi.”
“Già, dovresti anche trovarti un cuore di mucca, di certo è più tenero di quello che hai al momento.”
“Il tuo sarcasmo raggiunge ogni giorno livelli sempre più alti, principino, complimenti, davvero.”
“So io cosa potrebbe raggiungere una postazione davvero alta, nel tuo culo...”
“Ragazzi, per favore, non siate volgari.”
“Ragazzo lo dici a lui, io ho quattro anni più di te.”
“Come vuoi, Corny.”
“E smettila! Sai che detesto quel soprannome.”
“Ovvio che lo so.”
“Jean, si può sapere perché sei venuta a rompere le scatole qui?”
“Mi ha mandato il vecchio. Quel pover'uomo è sopravvissuto a di tutto e di più, ma sono certa gli farai venire un infarto, mostriciattolo che non sei altro.”
“E quindi?”
“E quindi pare che Chris e Mandy abbiano chiesto del loro papà.”
“Ah... beh, di che li richiamo dopo, quando ho finito.”
“Ok, boss. Come vuoi. Notizie da Babilonia?”
“Tutto quieto. La gente continua a vivere nella loro placida utopia, il cielo è limpido, fa un caldo becco e... uno squadrone di Angeli sta lasciando la Torre... diretto verso di noi...”
“Oh, merda.”
“Presto, fai spegnere i generatori. Presto!”







 

   
 
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