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Asuka
Dicono che i proverbi siano la
saggezza dei popoli. Realtà della vita, sperimentate da secoli, che grazie a
due parole messe in croce si fossilizzano per sempre in un breve aforisma.
Nessuno può cambiarli, nessuno scalfirà uno iota di questa ricchezza
tradizionale. Così, anche tra milioni di anni, quando sugli habitat orbitanti
ci nutriremo di sostanze chimiche estratte dagli asteroidi, sarà sempre meglio
un uovo oggi della gallina del giorno dopo. L’erba del vicino sarà sempre la
più verde anche quando la nostra Terra sarà ridotta a un deserto inospitale, e
l’ospite continuerà a puzzare come il pesce anche se osserverà tutti i dettami
dell’igiene personale. I proverbi ci dicono che anche i ricchi piangono, che si
stava meglio quando si stava peggio e soprattutto che quando i vecchi “non
avevano niente allora avevano tutto”.
E c’hanno ragione. Perché la
felicità non è una questione esogena, non viene da fuori. Non è che se stai
bene allora sarai felice. E non è detto che se tu stia male allora sarai
necessariamente infelice. Avere un conto in banca ripieno di zeri, una morosa
uscita da America’s Next Top Model, un lavoro in una start up di Pasadena sono
cose che aiutano, certamente. Ma non sono queste le origini, le cause della
felicità. Così, non c’è da stupirsi se certi ricchi attori di Hollywood si
rovinano con le peggio droghe o si impiccano nella rimessa del loro yacht e se
certi bimbi africani sieropositivi alla vista di una palla di stracci sorridono
come un napoletano di fronte a un presepe.
Asuka Daiki Junior era legato a una
sedia di legno con corde e nastro adesivo. Quella sera aveva visto per la prima
volta della sua vita un cadavere, quello del vecchio Vescovo, mentre aveva
assistito in diretta, dall’altra parte della porta, all’uccisione di due onesti
tutori della legge. Aveva commesso degli errori da poppante che gli sarebbero
costati, in ogni accademia militare e in ogni scuola di polizia, l’espulsione
con disonore. Peggio che peggio, era stato picchiato, gli avevano rotto il naso,
gli avevano strappato un dente che diversamente si sarebbe portato con
tranquillità nella tomba, gli avevano rotto una rotula e, soprattutto, gli
avevano fatto perdere ogni dignità residua: se l’era in parte fatta addosso.
Nulla in quel momento gli garantiva che ne sarebbe uscito vivo, e nulla – ancor
peggio – gli garantiva che ne sarebbe uscito in modo dignitoso, sulle sue
gambe, con la sua autonomia. Eppure era felice.
Era felice perché lì c’era la sua
Meimi. C’era la sua Saint Tail. Entrata come un angelo animato da giusta ira in
quel consesso di malvagità, era lì. Era lì per lui.
Meimi o Saint Tail? La testa gli
pulsava. Il terrore e il dolore lo avevano fatto precipitare in uno stato di
confusione completa. Aveva la febbre? Non avrebbe potuto dire se la temperatura
del suo corpo fosse 32 gradi – ai limiti del congelamento – o 44. Sicuramente,
tanto per chiarirci, non toccava la quota salutare di 37.
Confuso, girò il volto verso la
ragazza che aveva appena gridato, con un ruggito da leonessa: «VOGLIO UCCIDERTI!!!».
Ma udì soltanto una stilettata
fendere l’aria. Proveniva da dietro. La Belva? Aveva sparato con un
silenziatore?
Volse nuovamente la testa, ma era
come entrare in una galleria del vento. Non riusciva neppure a respirare. Non
vedeva nulla.
«Fumogeni». La voce dalla Belva.
Possibilmente ancor più gelida del solito.
Asuka provò a respirare, ma sentì
altri proiettili passargli accanto. Chiuse gli occhi e pregò che tutto andasse
bene, ma non fece in tempo ad iniziare la prima Ave Maria che sentì qualcosa
tirargli i piedi. Un’ondata di vaniglia.
«Io». Bofonchiò. La ragazza era
china su di lui. Ma chi era con precisione quella ragazza? La conosceva già. In
quel magazzino pieno di paccottiglia e oggetti dimenticati, quell’esile corpo
femminile era l’unico elemento di cui gli importasse davvero qualcosa. Il cuore
gli batteva all’impazzata: quando si accorse che lo stava toccando, liberando
in pochi istanti caviglie e polsi, con una carta da gioco affilata, da corde e
scotch da pacchi gli sembrò di impazzire d’imbarazzo. Già. Ma chi era quella
ragazza? A malapena si ricordava di chi fosse lui in quel mare di dolore e di
confusione. La capitale del Canada? Sette per otto? Le virtù cardinali? Il
vuoto. Ma quella ragazza la conosceva. E si lasciò, in quella nube di fumo,
prendere di peso come un sacco di farina dalla buona mugnaia.
«Stai qui, Asuka-kun. Qui non ti
vedrà». La voce femminile sussurrava. Non c’era più fumo, ma faceva lo stesso
fatica a respirare. Aprì gli occhi. Erano sempre nel magazzino, ma era per
terra, dentro un armadio in parte scassato, avvolti da un’infinità di stoffe
che sembravano piovere dall’alto. Cos’erano? Tute di lavoro? Tovaglie? Non
capiva. La bocca gli pulsava come se gli avessero detonato al centro del palato
una bomba a mano. Dal ginocchio non sentiva nemmeno più il dolore, tanto era
gonfio. La testa gli girava come non mai, ma aver cambiato posizione e avere le
gambe stese sul pavimento lo avevano sollevato, e non di poco. Sentiva un
respiro su di lui. Respiro e vaniglia.
«Meimi», ansimò, fissandola. Era
Meimi.
In Asuka cervello e cuore avevano
sempre fatto a cazzotti. Fin da quando era bambino, il cervello aveva preso il
volante dopo aver legato il cuore e dopo averlo chiuso nel bagagliaio. Ogni
tanto, il secondo mugolava da dentro, offrendo i suoi pareri e spingendo il
ragazzo verso quella o quell’altra risoluzione. Ma, ripeto, il volante della
baracca ce l’aveva il cervello. Quella sera, però, il cervello era stato messo
fuori gioco da un criminale italiano dal capello selvaggio vestito di bianco. E
così, con calma e serenità, il cuore, liberatosi dalle corde delle consuetudini
e dal bavaglio delle pare mentali, era libero di mettersi al volante del
ragazzo fischiettando un motivetto che sapeva di montagna, acqua fresca ed
erbette stagionali. «Meimi…». Era Meimi. Il cervello era steso a terra, suonato
come una zampogna. E non poteva essere lì a fargli venire mille interrogativi.
Non poteva ricordargli – a ragione – che Meimi era una pasticciona imbranata
mentre Saint Tail era un genio. Non poteva suggerirgli in alcun modo che Saint
Tail aveva un fascino di un tipo mentre Meimi era tutta un’altra persona. Non
poteva girargli le carte in tavola. Così Asuka dovette accontentarsi, senza
sovrastrutture, della banalità dei fatti. L’amore che provava per Saint Tail
era identico a quello per Meimi, perché il suo cuore era lo stesso. Era stato
ingannato? Era stato preso in giro? Avrebbe dovuto catturarla o imprigionarla?
Ripeto: il suo cervello era stato pestato, legato e chiuso a chiave dentro il
cesso di un Autogrill mentre il suo cuore, libero da freni, sfrecciava a 130
all’ora sull’autostrada della felicità. «Meimi… io».
La ragazza non si scompose neppure.
Si limitò, con un dito di fronte alla bocca, ad invitare Asuka a starsene
zitto. Ma la mano continuava a tremargli. E non era vergogna né paura. Solo la
semplice voglia di fare a pezzi quello che l’aveva ridotto così.
Improvvisamente, Asuka spalancò gli occhi come colpito da una scarica
elettrica. «Tu…». Non potendo muovere le braccia, ancora troppo stanche per
azzardare la benché minima flessione, fissò la spalla sinistra della giovane
maga. La Belva non aveva sparato tutte le sue pallottole a vuoto. Un rivolo di
sangue le cadeva giù per il braccio, la spallina del tutù era squarciata,
mostrando la pelle e una vistosa ferita. Era stata colpita di striscio, ma era
pur sempre stata colpita. Pareva non se ne fosse nemmeno accorta.
Quando la Belva lo aveva colpito,
gli aveva cavato un dente e spezzato un ginocchio, aveva provato un’ondata di
angoscia e di dolore. Ma nemmeno un briciolo di rabbia. Ora, vedendo la ragazza
ferita, seppur lievemente, si accorse di avere una specie di gatto nello
stomaco che si stava facendo le unghie sulle mucose delle pareti interne. Se
avesse avuto il controllo del suo corpo, ora ridotto a una specie di inutile
manichino, si sarebbe alzato e avrebbe svitato il cranio a quel criminale. Ma
non poteva.
«Non è nulla», sussurrò la ragazza.
Fece per alzarsi, poi, però, ad occhi chiusi, si chinò su di lui. Se l’era già
fatta addosso: in caso contrario se la sarebbe fatta addosso in quel momento.
Fu un istante. Un timido bacio sulla fronte sporca e sudata. Il classico
bacetto che danno le mamme mettendo a letto i loro figli o le nonne quando
salutano i nipotini con le loro labbra sbavanti. «Io», sussurrò il ragazzo, che
si accorse con stupore che nessuna parte del corpo gli faceva più male. Altri
due bacetti così e sarebbe andato in paradiso.
«Non muoverti», ripeté la ragazza.
Continuava a tremare, ma era un tremore un po’ diverso. Era sempre rossa in
viso, ma ora non erano solo lacrime. Gli diede un’ultima occhiata, si ricordò
perché stava combattendo e tornò. Gli avrebbe fatto pagare tutto con gli
interessi.