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Autore: HeartBreath    23/04/2014    1 recensioni
[Missing moment "Fuga di cervelli"]
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“Non ho bisogno di qualcosa che mi rimetta al mondo, nel mondo ci sono già. Ho bisogno di qualcosa che mi rimetta in piedi” mormorò Ludovico con amarezza.
“A rimetterti in piedi ci penseremo io e gli altri”. Peppino leccò la striscia adesiva della cartina per chiuderla, poi prese anche l'accendino da quel sacchetto di plastica. Accese lo spinello, inspirando un tiro. Lo porse a Ludovico, e dalle sue labbra il fumo scivolò via quando aggiunse: “Tu non devi fare altro che permettercelo”
Genere: Commedia, Demenziale, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: PanPers, Willwoosh
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ho iniziato questa fanfic una vita fa e finalmente sono riuscita a revisionarla e scrivere il finale.
Ho l'abitudine di scrivere su tutto ciò che mi fa entrare in fissa. Per questo ho scritto su Fuga di cervelli, un film che ha ricevuto moltissime critiche, alcune delle quali da me condivise, ma che in generale mi è piaciuto davvero (anche perché, non c'è niente da fare, amo incondizionatamente gli attori)
Infatti dedico la one-shot al cast del film, specie ad Andrea Pisani e Guglielmo Scilla, i miei idoli indiscussi e protagonisti della fanfic.

Spero di non essere uscita dai personaggi e che la storiella piaccia :')


V








































 
"Se non ci fosse stato Lebowski qua, che io ero in un periodo di crisi..."


 

Qui è Ludovico. Sapete come funziona: parlate dopo il bip e succhiatem-”

Bip!

Ludo, sono io. Con Emilio siamo passati da casa tua una ventina di volte, tuo padre continua a dire che devi riposare. Ma quanto cazzo dormi?!”

Ehi, sono Emilio. Alfredo mi ha detto di averti chiamato stamattina. Volevo solo sapere come stavi... Beh, richiamami”

Ludovì, ma dove minchia sei sparito?! Il pulsante per rispondere al telefono è quello verde. Come stai oggi? Fammi sapere. Tuo Franco”

Steso sul letto, Ludovico attese passivamente che la segreteria passasse al messaggio successivo. La voce che sentì era niente di meno che la più familiare che potesse parlargli. Roca, incrinata, con un accento romano marcato.

Riuscivo a eludere la sorveglianza di casa tua quando avevamo nove anni, credi che non possa anche ora? Se non mi fai salire, entro dalla finestra”

Inaspettatamente, questo gli strappò un sorriso. Le sue labbra non si smossero dal broncio che teneva da settimane, ma dentro di sé riuscì a sorridere. Suonò il campanellino sul comodino accanto al letto, e chiese al maggiordomo di permettere a Peppino di salire in camera sua.

Meno di due minuti dopo, si sentì il rumore di gomma di due infradito sul pavimento del corridoio. Quando la figura inusuale di Peppino fece capolino dalla porta, Ludovico gli lesse negli occhi l'istinto di dire quello che di solito si dice ad un amico che non vedi da tanto tempo. Qualcosa tipo “Allora sei vivo”. Ma sapevano entrambi che non era la cosa migliore da dire a chi era appena sopravvissuto ad un incidente stradale.

Invece Peppino disse: “Dovresti farti la barba”

Ludovico si passò la mano sulle guance ispide. “Nah, credo che me la farò crescere”

“Sembri un procione che ha subito un elettroshock. Hai dimenticato come ci si pettina?”

“Senti da che pulpito viene la predica! Tu ti fai crescere i capelli di mezzo centimetro e sembri Biancaneve”

Anche Peppino in quel momento sorrise senza labbra, ma in lui era una cosa piuttosto frequente: la sua bocca non sorrideva quasi mai. Si avvicinò al letto dell'amico, e si sedette accanto a lui.

“Da quant'è che non esci di qui?”

Nonostante fosse una domanda che Ludovico ancora non aveva sentito, gli bruciò dentro quanto i soliti “Vuoi aiuto?”, o “Come ti senti?”.

“Ha importanza?”

“Per il mio naso ne ha: da quanto tempo non ti lavi?”

E lì esplose. “Non so come entrare in quella cazzo di vasca!”

Peppino sembrò non avere intenzione di scomporsi. Col suo solito tono pacato di chi ha le risposte a tutto, gli chiese: “Ti do una mano?”

“Sì grazie, usala per farmi una sega” berciò in risposta il ragazzo. “Credi che mi manchino le persone disposte ad aiutarmi, qui dentro?”

Gli occhi grandi e fanciulleschi di Peppino presero a fissarlo in un modo che l'aveva sempre fatto sentire a disagio, perché quando lui iniziava a cercare risposte anche nelle persone, di solito le trovava. E a Ludovico non andava di essere trovato.

“Sai, si dice che per certe persone sia più difficile farsi aiutare che fare da soli”

Stavolta Ludovico tacque. Prese a fissare quelle gambe immobili, quegli arti che non poteva più sentire come propri. Anzi, che non poteva sentire e basta.

“Sai cosa facciamo adesso?” riattaccò a parlare Peppino, balzando in piedi.

“Non dovevi farmi una sega?”

Spalancò entrambe le finestre ai due poli opposti della grande stanza. “Dopo, magari. Fammi spazio”

Ludovico sospirò e assecondò l'amico. Si sollevò sul materasso con le braccia per spostarsi, usandole in un secondo momento per spostare anche le gambe. Peppino allora si sedette accanto al ragazzo, poggiando anche lui la schiena contro la spalliera del letto. Dalla tasca dei bermuda tirò fuori una bustina trasparente, che sembrava contenere una serie di oggetti ambigui.

E Ludovico capì. “Oh, Pep, lo sai che non mi faccio di quella roba...”

L'altro prese il necessario e iniziò a rollare una sigaretta in una cartina lunga, noncurante. “E' ora che inizi: ti rimette al mondo”

“Sei un tossico di merda”

“E tu un coniglio” sussurrò, assorto nel suo lavoro.

“Non ho bisogno di qualcosa che mi rimetta al mondo, nel mondo ci sono già. Ho bisogno di qualcosa che mi rimetta in piedi” mormorò Ludovico con amarezza.

“A rimetterti in piedi ci penseremo io e gli altri”. Peppino leccò la striscia adesiva della cartina per chiuderla, poi prese anche l'accendino da quel sacchetto di plastica. Accese lo spinello, inspirando un tiro. Lo porse a Ludovico, e dalle sue labbra il fumo scivolò via quando aggiunse: “Tu non devi fare altro che permettercelo”

La bocca contornata di barba scura del ragazzo si strinse, mentre i suoi occhi fissavano incerti quelli di Peppino. Per la prima volta da quattro settimane, le parole che sentiva bruciavano un po' meno. Forse perché nessun altro si era mai rivolto a lui fregandosene totalmente di ferire i suoi sentimenti. Nessun altro, al posto di Peppino, avrebbe avuto il coraggio di parlare di “rimetterlo in piedi”. Solo lui conosceva Ludovico abbastanza da sapere quanto odiasse che tutti gli parlassero come se stesse per tirare le cuoia.

Questo lo convinse a fidarsi. Accettò il suo aiuto, e iniziò a prendere respiri sempre più decisi da quel filtro.

Tiro dopo tiro, i suoi muscoli si rilassavano sempre di più, e lo stesso facevano le sue mura difensive. Si rese conto molto in fretta che l'effetto di quella roba non differiva molto da quello di una sbronza, era solo più fulmineo e passeggero, e la risposta di Peppino era “Continua a fumare, continua”.

La sua risposta a qualunque domanda era la droga, era così da almeno tre anni. Nella sua testa era una passione come un'altra. C'era chi leggeva, chi lavorava all'uncinetto, chi giocava a calcio. Lui si drogava. I suoi amici lo definivano uno “spacciatore con un'etica”: aveva fatto provare quel meraviglioso mondo di stordimento ad ognuno di loro, almeno una volta – con Ludovico, non rimaneva nessuno - ed era del parere che la prima dovesse essere di marijuana. Meravigliosamente tramortente, ma relativamente leggera.

Ludovico osservava attentamente il modo di inspirare di Peppino e tentava di imitarlo. Ma non riusciva a tirare respiri così lunghi senza tossire o scottarsi le labbra. Gli occhi lacrimavano, la bocca continuava a tossire, la gola bruciava come l'Inferno. Si sentiva dire ogni volta “E' normale, col tempo ci si abitua”. E voleva crederci. Per la prima volta da quando aveva perso il controllo dei propri arti inferiori, voleva credere che si sarebbe abituato. Che ci si abitua a tutto. Che le cose sarebbero andate meglio.

Peppino guardava il suo operato con un mezzo sorriso – uno vero stavolta. Il suo amico che si lasciava andare, che ingoiava il fumo e cacciava fuori i problemi, che tossiva e lacrimava ma che subito ricominciava. Sì, era soddisfatto del risultato.

Dopo la terza canna, come fosse apparsa solo in quel momento, Peppino adocchiò la sedia abbandonata nell'angolo più lontano della stanza. Si alzò – un po' barcollante – e si schiarì la gola per liberarsi le corde vocali dalla marijuana prima di parlare.

“Se tu non la vuoi usare, posso io?”

Ludovico gli fece un cenno distratto con la mano, come quando congedava i domestici. “Fa' pure, puoi darle fuoco per quel che mi riguarda”

Peppino allora crollò sulla sedia e afferrò saldamente le ruote laterali, come se fossero il suo unico sostegno per non cadere a terra. Si mosse avanti e indietro. Sembrava trovarlo anche divertente.

“Sai quante corse di Formula1 si potrebbero fare con questo coso per i corridoi di casa tua?”

“Ti rendi conto di quante me ne sarei potute scopare?” fece Ludovico, come se l'amico non avesse aperto bocca. “Ho sedici anni, cazzo. Te la ricordi Francesca Schiene, quella del IV D? Aveva promesso di darmela per inaugurare il nuovo anno di scuola. Me l'ha detto lei, giuro. Stavamo ballando alla festa di fine anno, e lei me l'ha sussurrato in un orecchio. Sapevo anche dove: nei bagni del terzo piano, quelli quasi sempre scassati. Ma l'hai vista com'è Francesca? L'hai vista? Una simile scopata mandata a puttane per un pezzo di merda che non guarda dove va quando guida...”

“Ma il dottore non ha detto che ti si può ancora rizzare?”

“Se non posso neanche uscire da questa stanza, come reclamo la mia scopata il primo giorno di scuola?”

Peppino continuava ad andare avanti e indietro su quella sedia. Alzò le spalle. “Allora hai ragione, credo che non scoperai più in vita tua...”

Un moto di rabbia fece salire a Ludovico il sangue alle tempie: si sentì preso in giro. La rabbia passò subito, com'era passata in un istante l'amarezza ripensando a Francesca del IV D, e l'euforia per il vorticare della pareti della stanza ancora prima.

“Ce l'hai ancora il vecchio skateboard?”

“Sì”. Aveva risposto senza pensare, come se parlasse di un oggetto potenzialmente ancora utile.

“Ti va se facciamo una gara per i corridoi?”

“Pep...”

“Dai, vivi in una specie di castello! Approfittane, no?”

“Tu non sai andare sullo skate”

“E allora? Nemmeno tu sai andare su quest'affare”

Ludovico strinse le labbra incerto. Acconsentì, come aveva fatto prima con lo spinello. Come faceva Peppino a convincerlo di tutto?

L'amico gli avvicinò la sedia a rotelle al letto, ma – con sua grande sorpresa – non provò neanche a chiedergli se gli servisse aiuto. Si fiondò subito verso l'armadio, dove Ludovico teneva tutte le sue cianfrusaglie. Frugò fino a trovare la tavola che voleva. Rovinata, inutilizzata da almeno un anno. C'era stato un periodo in cui Ludovico andava in skateboard in continuazione, forse per rifiutarsi di prendere la macchina – con tanto di autista – che il padre gli aveva regalato. Ai suoi amici era sempre sembrato che a volte si vergognasse del lusso in cui viveva.

Con non poche difficoltà, riuscì a muoversi sul materasso fino alla sedia a rotelle. Solo in quel momento notò che Peppino aveva bloccato le ruote per impedire che gli scivolasse via. Sospirò e le sbloccò.

Peppino si prese la libertà di aprire la porta della stanza. “Dai, se vinci ti rollo un'altra canna”

“E se vinci tu?”

“Te la rollo lo stesso”

Senza riuscire a trattenersi, Ludovico scoppiò a ridere. Sentiva di riuscire a ridere come nulla, quando solo quella mattina gli sembrava impossibile. In quel momento tutto era divertente, tutto era unico, tutto era allucinante.

Di nuovo senza pensare, si spinse in avanti sulla sedia a rotelle, seguendo Peppino in corridoio. Guidava incerto quella cosa almeno quanto Peppino lo skateboard.

Contarono fino a tre, fissando il fondo del corridoio. E iniziarono a sfrecciare sul pavimento di marmo liscio.

Peppino spingeva continuamente la tavola col piede, non per andare più veloce, ma perché restare in equilibrio sullo skateboard era piuttosto difficile.

Ludovico sollecitava le ruote come un pazzo, e ben presto sentì i muscoli delle braccia bruciargli. Ma non gli importava: la testa gli girava e questo lo faceva ridere. Era bizzarro dirsi “Più veloce, più veloce, più veloce” senza poter usufruire delle gambe, contando solo sulle proprie braccia.

Alla fine del marciapiede Peppino fermò lo skateboard, invece Ludovico semplicemente svoltò l'angolo e continuò la sua corsa.

“Stammi dietro, grande Lebowski!” urlò a Peppino, poggiato contro il muro.

L'amico accolse la sfida, e ripartì subito. Solo qualche metro più avanti lo raggiunse e, tra risate frenetiche e respiri affannosi, per qualche inspiegabile motivo allungò la mano per afferrare il manico della sedia a rotelle. Ci si aggrappò, urlando quando rischiò di perdere il controllo dello skateboard. Subito Ludovico bloccò la sedia, col risultato di far scontrare Peppino con lo schienale. Ludovico finì a terra, prima di riuscire ad afferrare qualcosa per impedirlo.

Tossì, per la fatica e la botta, reggendosi sugli avambracci.

“Tutto okay?” biascicò Peppino, stordito come se stesse per vomitare. Poggiato completamente alla sedia rovesciata, provò ad alzarsi ma finì solo per cadere a terra anche lui.

Vedendolo con la coda dell'occhio, Ludovico scoppiò a ridere, abbandonando di nuovo la fronte contro il pavimento freddo. Si sentì accompagnato dalle risate dell'amico, sdraiato sulla schiena vicino a lui.

“Certo che sei cretin- ahahahahahah! Accollarti a me in quel modo..!” sghignazzò.

“Non è che andassi a cento all'ora!”

“Intanto non sei riuscito a superarmi, sembravi un sacco di patate su tavola”

“Ha parlato Fernando Alonso”

Le risate di Ludovico si smorzarono. “... Come mi hai chiamato?”

“Come tu mi hai chiamato!”

“Quando?”

“Prima”

“Ah”

“Non te lo ricordi?”

“No”

E risero ancora.

Poi, dopo diversi secondi, il silenzio. Peppino fissava il soffitto, e gli occhi arrossati di Ludovico guardavano lo specchio a muro alla fine del corridoio. Si osservò, lì sdraiato, con i capelli arruffati, la barba sfatta, i vestiti di una settimana fa. Si sentì improvvisamente svuotato, come se invece di ridere avesse pianto. Il petto non era più così pesante, non molto. Amaro, furioso, difficile da stare là ad ascoltare. Ma non più pesante come prima.

Strisciò fino alla sedia a rotelle e fece del suo meglio per rimetterla dritta. Ma non aveva idea di come sedercisi di nuovo sopra. Notò che Peppino era ancora sdraiato sulla schiena, con gli occhi fissi sul soffitto.

Sospirò. “Mi vuoi aiutare, stronzo?”

Il ragazzo rise di cuore e si tirò su, dando una mano a Ludovico a posizionarsi sulla sedia a rotelle. Poi recuperò anche la tavola e i due tornarono placidamente verso la camera da letto.

“E se chiamassimo i ragazzi per una maratona di Mortal Kombat?”

Sentendoselo proporre, ancora una volta non riuscì a trattenersi: sorrise. Questo era l'unico difetto della droga, riusciva a strappargli sorrisi, di quelli con le labbra. “Okay” disse soltanto.

E Ludovico disse soltanto: “Prima mi devi una canna, Lebowski”

“Ci mancherebbe, Alonso”

  
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