Capitolo II
All' alba
Sentiva solo
il suo respiro; il respiro e il rumore sordo
e cadenzato dei passi che battevano sul bagnasciuga, scandendo il ritmo
della
sua corsa mattutina. Ogni tanto il verso di qualche gabbiano a caccia
della
colazione.
L’alba era
sorta da poco.
Era uscito
quando le prime luci del giorno illuminavano
appena la linea dell’orizzonte e l’aria fredda e umida della notte non
aveva
ancora lasciato il posto al lieve tepore del sole; aveva indossato un
paio di
short e una canottiera, come sempre, ma aveva aggiunto una felpa
leggera per
sopportare l’aria frizzante del mattino almeno finché la corsa non lo
avesse
riscaldato a sufficienza.
La spiaggia
era deserta.
Si era
prefissato di correre per circa un’ora, non
importava fin dove sarebbe arrivato. Avrebbe pensato più tardi a come
rientrare. Dopo una colazione abbondante in un caffè lungo la spiaggia,
avrebbe
chiesto un passaggio. Oppure avrebbe potuto affittare una bici. O
ritornare a
piedi, così com’era arrivato.
Il tempo, in
quei giorni, non importava. Era suo. Soltanto
suo.
Un paio di
settimane prima aveva messo piede in quel
piccolo paese francese affacciato sulla costa atlantica e fin dal primo
momento
aveva provato l’irrefrenabile desiderio di correre su quella spiaggia
solitaria
e selvaggia, forse perché ben si addiceva al suo stato d’animo in quel
periodo:
solitario e selvaggio.
Dal giorno
successivo il suo arrivo l’aveva fatta
diventare una piacevole abitudine.
L’anno appena
trascorso era stato davvero difficile: la
promozione del suo ultimo romanzo aveva richiesto una campagna
pubblicitaria
pressante e faticosa ed era stato costretto dal proprio agente a
soddisfare le
richieste dell’editore.
Ma sarebbe
stata l’ultima volta.
Non gli
importava se i suoi libri vendevano centomila o duecentomila
copie. Non a lui. Quelle cifre importavano solo a quei due pescecani. A
lui
importava solo di scrivere.
Scriveva per
i lettori, ovviamente; ma aveva iniziato a
scrivere, brevi racconti oltre
al suo
diario e a penosi tentativi di poesia, soprattutto per se stesso e si
era
ripromesso che quello sarebbe stato sempre il suo obiettivo principale.
Invece
le cose avevano preso una piega diversa da quella decisa quando,
improvviso,
era arrivato il successo proprio con il suo primissimo romanzo,
pubblicato a
soli venticinque anni.
Dopo cinque
best-seller, praticamente uno all’anno, si era
accorto che certe cose non facevano per lui. O meglio: se n’era accorto
molto
prima, ma aveva permesso che gli eventi lo travolgessero.
Era giunta
l’ora di cambiare la situazione e
riappropriarsi della propria vita e, soprattutto, della propria
creatività.
Aveva
abbandonato il suo loft di New York ed era partito
per l’Europa.
Indeciso fino
all’ultimo sulla meta, una sera aveva aperto
un vecchio atlante (ne conservava ancora uno tra i suoi numerosi libri)
su una
pagina a caso e il caso l’aveva condotto in Francia. Non ci aveva
pensato due
volte: l’idea di quindici giorni, un mese… forse anche due, in uno
sperduto
paesino sulla costa atlantica, dove nessuno lo conosceva, l’aveva
attratto in
maniera irresistibile. Si era immaginato una specie di novello Ernest
Hemingway
a caccia di esperienze, di nuovo ossigeno per la propria ispirazione.
Magari
avrebbe ambientato proprio in Francia il suo prossimo romanzo.
Già, il suo
prossimo romanzo: aveva solo qualche idea
confusa che ogni tanto gli frullava nella mente; andava e veniva, senza
soffermarsi. Ancora nulla di concreto.
Non aveva la
trama giusta, non sapeva bene neppure dove né
in quale periodo storico ambientare la vicenda ma, soprattutto, non
aveva
ancora un titolo. Quando arrivava il titolo, la storia c’era. Ed era
quella
giusta. Purtroppo finché il titolo restava un mistero, le idee gli
riempivano
la mente, ma tutto il processo creativo si fermava lì.
Non
arrivavano immagini, non arrivavano parole.
Continuavano ad arrivare solo idee confuse, che si accavallavano senza
sosta,
l’una sull’altra.
Solamente il
titolo metteva fine a tutto quel disordine e
chiariva ciò che ancora restava oscuro. Da quel momento in poi era in
grado di
scrivere per ore ed ore, senza interruzione, finché le pagine non
assumevano la
forma desiderata: le immagini descritte diventavano quelle che aveva
visto con
gli occhi della mente e le parole sul foglio erano le stesse che aveva
sentito
risuonare nelle proprie orecchie.
Purtroppo
negli ultimi mesi non era arrivato proprio
nulla, se non poche idee vaghe. Di immagini e parole neanche l’ombra.
In quel nulla
totale, c’era un’unica cosa di cui
finalmente si era reso conto e della quale ormai era assolutamente
certo. Non
era mai accaduto, infatti, che trascorresse così tanto tempo senza che
qualcosa
prendesse forma nella sua testa; sapeva che la maggior parte della
colpa era da
attribuire alla sensazione di disagio che lo assaliva quando un libro
era terminato
e la sua pubblicazione imminente, ma il fatto che quel vuoto assoluto
durasse
così a lungo doveva pur dirgli qualcosa.
Sempre più di
frequente le idee per il nuovo romanzo, che
già cominciavano ad affacciarsi al suo subconscio quando ancora non
aveva
scritto la parola fine al lavoro
che
stava terminando, finivano con lo scomparire, soffocate proprio da quel
disagio; a suo avviso, però, il protrarsi della mancanza d’ispirazione
stava a
significare che c’era qualcosa in più: desiderava un cambiamento. Un
cambiamento rispetto a ciò che aveva scritto fino a quel momento.
Aveva sempre
odiato tutto ciò che comportava il successo e
il lancio di un nuovo libro: le interviste, la pubblicità, scegliere le
immagini per la copertina… tutti dettagli che a lui non interessavano,
ma che
richiedevano il suo tempo.
L’unica cosa
che a lui interessava, invece, era potersi
concentrare su quelle nuove idee che gli frullavano nella testa, quei
teneri e
indifesi germogli che sarebbero scomparsi immediatamente se non
coltivati con
sufficiente pazienza e attenzione.
Purtroppo
quello era il prezzo del successo, e, mentre le
nuove idee svanivano così com’erano affiorate alla mente, a lui
restavano
soltanto tutte quelle incombenze da soddisfare. Ma fino ad allora,
terminato il
periodo legato alla promozione del suo ultimo romanzo, le idee
tornavano con la
stessa rapidità con la quale erano scomparse, e lui poteva immergersi
di nuovo
nella scrittura, finché terminava un nuovo best-seller e il ciclo
ricominciava.
Per fortuna,
con un po’ d’astuzia, era riuscito almeno a
convincere l’editore ad evitare servizi fotografici, di qualunque tipo
e per
qualunque motivo.
Odiava l’idea
di essere sotto i riflettori, eppure
sua madre continuava a dirgli che era
così bello che avrebbe potuto benissimo fare il modello… forse aveva
ragione,
pensò sorridendo, meditando sulla corporatura forte e atletica che
Madre Natura
gli aveva donato. Alto e con ampie spalle, aveva la fortuna di
possedere anche
un volto affilato, dai bei lineamenti finemente cesellati. La carriera
di
modello, tuttavia, non era la sua strada.
Lui
desiderava scrivere. Solo scrivere, fin da quando era
ragazzo.
Senza
smettere di correre, si levò la felpa e la legò in
vita. L’aria cominciava a riscaldarsi.
Sorrise
divertito, ricordando l’espressione dell’editore
quando lo aveva visto per la prima volta di persona: si era sfregato le
mani al
pensiero di poter mettere in copertina l’immagine di un giovane
scrittore tanto
attraente. I libri avrebbero venduto di più, gli aveva detto
compiaciuto. Era
probabile che sognasse già cartelloni pubblicitari con la sua immagine
in
formato gigante. Ma lui aveva stroncato sul nascere quell’entusiasmo:
appena
aveva scorto quel particolare luccichio negli occhi dell’editore,
subito si era
visto costretto a sopportare anche la tortura di sfibranti servizi
fotografici
e così lo aveva convinto ad abbandonare l’idea di sfruttare la sua
prestanza
fisica per incrementare le vendite, con la brillante trovata di creare
attorno
alla propria persona un alone di mistero che, in un mondo dove
l’immagine ormai
contava più d’ogni altra cosa, avrebbe incuriosito più del suo volto
sul retro
della copertina.
Aveva esteso
la storiella anche ad eventuali foto per
interviste… in pratica s’era creato il personaggio dello scrittore
senza volto,
e l’idea aveva fatto centro. Ai lettori era piaciuto l’alone di mistero
che
circondava la sua persona e acquistavano i suoi romanzi perché
avvincenti e ben
scritti e non perché l’ultima produzione dello scrittore bello e sexy!
L’editore era
contento, il suo agente pure ed entrambi non
avevano più insistito con le foto in copertina. Ora erano proprio loro
i primi
a tutelare la sua immagine e a controllare che ogni intervista fosse
priva di
un qualunque servizio fotografico, persino del minimo scatto effettuato
da un
cellulare.
E così almeno
quella tortura se l’era risparmiata!
Guardò
l’orologio e scoprì di aver corso per più di
mezz’ora.
Non si
sentiva per niente stanco. Anzi, ad ogni passo, ad
ogni respiro, ad ogni tensione dei muscoli, sentiva una nuova energia
impadronirsi di lui, come non gli accadeva da settimane.
Aveva fatto
bene a staccare la spina e scomparire per un
po’.
Si sentiva
libero, finalmente. Libero e selvaggio, proprio
come quella spiaggia deserta. Avrebbe tanto desiderato avere con sé
Joy, la sua
cavalla araba, uno splendido esemplare dal mantello nero che aveva
acquistato
con i proventi del suo primo romanzo; quando era in California, a casa
dei suoi
genitori, ogni mattina poco prima dell’alba montava in sella a piedi
scalzi e
con indosso solo un paio di vecchi jeans e la lanciava in un galoppo
sfrenato
lungo la spiaggia... correvano insieme, criniera e capelli al vento,
due
animali selvaggi, finché Joy non decideva che era l’ora di rientrare;
allora le
permetteva di ricondurlo a casa al passo, mentre si godeva il sole che
lentamente sorgeva ad illuminare la giornata.
Invece aveva
lasciato Joy in America, per evitarle lo
stress di un viaggio oltreoceano solo per soddisfare il suo desiderio
di
libertà.
Avrebbe
dovuto accontentarsi delle proprie gambe, quel
mattino, per sentirsi libero.