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Autore: Emerlith    24/04/2014    3 recensioni
1 Novembre del 1981. Petunia Dursley e Severus Piton non hanno mai avuto nulla in comune, a parte i sentimenti contrastanti che li legavano a Lily. Ed ora che non c'è più nulla da fare, entrambi possono solo aggrapparsi ai propri ricordi. Forse Petunia e Severus hanno in comune molto più di quel che si pensa.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lily Evans, Petunia Dursley, Severus Piton | Coppie: Lily/Severus
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Dove nascono gli echi
 
 
L’amore vince tutto, aveva spesso sentito ripetere.
L’amore è più forte della morte.
E invece non era vero, perché l’amore, anche se esiste, è fragile.
È così fragile da essere pressoché invisibile.”
-Susanna Tamaro, Rispondimi.

 
*Durante la narrazione si alternano i PoV e i ricordi di Petunia e Severus. Le scene non sono in ordine cronologico.
 
 
I rami degli alberi e i cespugli delle ortensie si agitano convulsamente alle raffiche di vento.
I petali divelti delle rose rosse volano sparpagliati in balia degli scrosci di pioggia incessante, muoiono al gelo, sfatti sull’asfalto grigio e bagnato. Il cancelletto cigola e sbatte, sbatte contro la ringhiera che delimita questo giardino così curato, sbatte contro la mia testa e martella sui miei ricordi, mentre resto ferma qui, immobile, inerme.
Tuo figlio è sdraiato in una cuccia di cuscini arrangiata sul tappeto del salotto.
È sporco, piange e si dimena con tutte le poche forze che gli restano.
Non l’ho neppure guardato bene, tuo figlio.
 
Avevo una bicicletta verde e rosa, con le ruote bianche.
Quando l’ho scartata sotto l’albero di Natale, a cinque anni, ero così emozionata che non ho voluto neppure toccarla. L’ho spinta con delicatezza nella legnaia, ho avuto cura di mettervi un telo su, perché avevo paura che i ragni vi salissero sopra e la rovinassero, mangiassero le gomme.
 
Tu avevi una testa che mi sembrava fin troppo piccola.
Quando dormivi nel tuo lettino avevo preso l’abitudine di avvicinarmi nel buio, di restare a guardarti mentre stringevi quel curioso coniglio di pezza. I tuoi riccioli correvano lungo la federa in una danza cremisi, incorniciavano le tue guance bianche come la porcellana in un contrasto che a volte suscitava in me persino fastidio.
Lily, chiamiamola Lily.                      
Ha la pelle delicata come quella di un giglio, aveva detto papà chino sulla tua culletta d’ospedale.
Io ero rimasta a fissare le palme delle mie mani.
Viola, livide per la rabbia con cui avevo stretto i bordi del vestito elegante infilatomi a rovescio.
Viola come i petali da poco prezzo di una volgare petunia.
Una pianta così rustica, così banale, così facile da coltivare.
Così, nell’ombra, continuavo ad aggrapparmi con forza le sbarre in legno del tuo lettino.
 
***
 
Due stivaletti gialli sono il primo ricordo accecante che ho di te.
Pioveva con brutale violenza, il cielo nero sembrava stesse piangendo tutti i dolori e le nefandezze del mondo, tutte quelle che avevo già avuto il privilegio di vedere nei miei otto anni di vita.
Rannicchiato contro il tronco di un albero, nascosto dai cespugli, ero in preda ad uno dei pochi pianti che mi ero concesso fino ad allora.
Mio padre mi aveva afferrato per i capelli, con un calcio violento mi aveva gettato con il viso nella pozzanghera sul vialetto di casa.
Mentre continuavo a sbirciare da quei cespugli provando a ritagliare brandelli di vita non miei, i tuoi stivaletti sono comparsi nel mio campo visivo.
Troppo vicino, pericolosamente vicino.
Tu ridevi e io avevo le mani premute con forza sulla bocca per non farmi scoprire.
Appena hai voltato la testa e mi hai scorto tra i rami, hai smesso di ridere e in silenzio hai continuato a scrutarmi.
Ti sei acquattata con fare cospiratorio, ma non hai osato fare un passo di più.
Quando tua sorella ti ha trovata e riacciuffata per riportarti a casa, di corsa hai sfilato il cappellino che avevi in testa e l’hai lanciato verso di me.
Il cappello ha delineato un arco perfetto, per poi restare qualche secondo sospeso nel vuoto e posarsi con delicatezza sulla mia testa.
 
-Copriti. Hai la pelle così delicata.-
Ti avevo detto una volta in cima alla torre di astronomia, mentre spedivi a casa il tuo gufo.
Ero arrossito subito dopo ed ero tornato a incollare la mia faccia sui profili imbiancati delle montagne, mentre tu ravviavi i capelli e ti avvolgevi la sciarpa attorno alla bocca.
-Non per questo posso sfuggire al sole, non ti sembra?-
Poi di colpo avevi stretto le labbra, eri rimasta a fissare assorta il lago e in un secondo il riverbero del sole sulla superficie dell’acqua aveva catturato le tue iridi facendole proprie.
L’ululato sinistro di un lupo era arrivato assieme agli ultimi raggi scarlatti.
-Sev, secondo te dove nascono gli echi?- Avevi sussurrato.
-Che intendi dire?-
Ti eri voltata a guardarmi con tremenda intensità e con gli occhi velati dall’ombra di un antico dolore. Per un po’ eravamo rimasti così, in silenzio, abbarbicati in un brandello di nulla.
Una lacrima ti aveva poi rigato la guancia, era scivolata in silenzio a nascondersi nella tua sciarpa rossa.
-Almeno sai quando ritornano indietro?-
In tutti quegli anni avevo fissato le screziature delle tue iridi abbastanza a lungo per sapere che un’eco, una volta nata, è condannata a perdersi per sempre.
 
***
 
-Va’ piano, Tunia.-
Piano era una delle tue parole preferite. La ripetevi almeno dieci volte al giorno. Parla piano, va’ piano, fa’ piano.
Il tuo aspetto delicato, fragile, quasi etereo alle volte, si accordava melanconicamente al tuo carattere mite, così poco incline ai disordini di tutto quello che ci stava attorno.
Avevi paura del disordine. Una paura atavica, strana, una paura a me incomprensibile.
Ti infastidivi e piangevi nel trovare la camera sottosopra, i nostri letti sfatti.
Strepitavi perché avevi il terrore di perdere i tuoi giochi e i tuoi ninnoli. Sostenevi che scomparissero per poi riapparire nei posti più impensati. Come la storia della tua bambola preferita, sparita nel nulla e ricomparsa accanto a te nel letto nel cuore della notte.
Non ti credevo. Ti trovavo patetica, pensavo solo che fossi bugiarda.
-Va’ piano!-
Perciò, sorridevo nel farti un dispetto.
Eravamo in discesa e mi entusiasmavo nel sentire la tua testa premuta con forza contro la mia schiena, le tue urla e le tue suppliche disperate nel mio orecchio.
Non volevo che la bicicletta con su entrambe si schiantasse per davvero contro un albero.
Contavo di frenare appena un attimo prima. Al massimo tu saresti stata sbalzata via a causa della frenata violenta, ma te la saresti cavata con un paio di ginocchia sbucciate.
Non avevo calcolato la stringa slacciata della mia scarpa.
In un secondo si impigliò nella catena, persi il controllo della bicicletta e sterzai per finire a ruzzolare giù, oltre il ciglio della strada. In un primo momento non capii perché la tua vocetta spaventata ora mi giungeva da un punto così lontano, ma poi alzai la testa e ti vidi corrermi incontro. Incolume, senza neppure un graffio, mentre io me ne restavo lì a terra a sputare sangue.
-Tunia! Ti avevo detto che stavi andando troppo veloce! Ti sei fatta male?-
Ti scansai bruscamente, mandandoti a finire in terra come me. Non capivo come fosse stato possibile, sapevo solo che in qualunque modo fosse successo, come al solito, tu te l’eri cavata ed io no.
-Come diavolo hai fatto, si può sapere? Ti urlai contro, spingendoti più volte.
Ma tu non parlavi, come al solito, non parlavi.
Te ne restavi zitta e tremante, suscitando in me ancora più astio, ancora più incredulità.
-Non l’ho fatto di proposito.-
-Bugiarda! Sei una bugiarda!-
-Come hai fatto a saltare giù?- Urlai, alzandomi in piedi e puntandoti contro il dito.
-E come fai a far riapparire le cose dal nulla?-
Avevi le mani serrate attorno agli steli dell’erba alta, proprio come io le serravo attorno alle sbarre della tua culla.
-Io non lo so, Tunia.- Ripetevi, rossa in viso, le lacrime che lottavano per non farsi scorgere.
-Sì che lo sai.- Sibilavo, in risposta. - È solo che non vuoi insegnarmelo. E adesso, per colpa tua, la mia bicicletta è a pezzi, e nostro padre si arrabbierà solo con me.-
Perché non avevi mai la forza di alzarti e scuotermi con violenza, Lily?
 
***
Prendevamo il tuo mappamondo impolverato, lo tiravamo giù dalle mensole senza toccarlo, concentrandoci e tenendoci per mano. Lo rimettevamo sullo scaffale solo per poter continuare a ridere di quel gioco tanto speciale. Quando ce ne stancavamo, lo facevamo girare tenendo gli occhi chiusi, fino a quando uno dei due non lo fermava puntandoci contro un dito.
Giravamo tutto il mondo chiusi in quella stanza.
Avrei dato qualunque cosa purché continuasse per sempre.
 
-La bicicletta di tua sorella è da buttare?-
Quando ti rivelai il perché delle tue magie, ti aggrappasti a me come se fossi la tua ancora di salvezza.
Per la prima volta io avevo qualcuno con cui parlare e tu avevi qualcuno come te.
Petunia ci spiava in silenzio. Non riuscivo quasi mai a scorgerla, ma percepivo le sue ondate di rabbia come le sferzate gelide di un violento uragano che si prepara a distruggere. Tu la difendevi. Dicevi che non era cattiva, che ti voleva bene e cercava solo di proteggerti.
Dicevi che era solo dispiaciuta per la bicicletta cui teneva tanto.
Negavi le tue doti magiche con eccezionale modestia. Ripetevi che tutto quello che ti raccontavo era impossibile, che erano tutte fortuite coincidenze, nulla di più.
Mi indispettivi, ma ti ammiravo.
Ti ammiravo in silenzio e col passare dei giorni iniziavo a soffrire della tua lontananza.
Non poterti vedere era per me fonte di ansia e crescente preoccupazione. I tuoi occhi così belli erano uno specchio limpido e un nascondiglio segreto per la mia anima inquieta.
Quando sorridevi e imbarazzata mi mostravi come riuscivi a far schiudere i petali dei fiori, in me si accendeva una scintilla di gioia. Con il passare del tempo, diventò fuoco.
Un fuoco distruttivo, un incendio che mi dilaniava nel petto.
Perché non sei mai riuscita ad accorgertene, Lily?
***

-Mi sei mancato, Sev.-
Non ci vedevamo da due anni.
Era la fine dei nostri giorni ad Hogwarts. Ti avevo seguita nella foresta solo per poterti vedere un’ultima volta lontana da Potter.
Te ne stavi seduta con le ginocchia al petto, eri solita fare delle passeggiate da sola, lo avevi sempre fatto fin da piccola.
-Mi sei mancato, Sev.-
Me l’avevi detto mentre, come da bambino, me ne stavo ancora nascosto in silenzio a spiarti.
Non avevo saputo resistere al suono nuovo, più maturo e delicato, della tua voce.
Ero balzato fuori con sorprendete audacia, probabilmente dettata dal rimorso e dalla rabbia covata nell’ombra di quei sotterranei così vuoti e freddi.
Mi ero avvicinato a te a passo incerto, con le mani sprofondate nelle tasche. Mi avevi teso la tua senza voltarti. L’avevi agitata per un attimo in aria e non trovando la mia avevi afferrato il lembo del mantello che indossavo. Eri rimasta così, a guardare la pioggia estiva cadere.
-Non ti siedi?-
Mi ero inginocchiato senza aggiungere repliche.
-Come stai?-
Non riuscivi ancora a guardarmi. Ed io mi sporgevo in avanti come sulla prua di una nave e non riuscivo più a staccare i miei occhi neri e vuoti dai tuoi.
-E tu?- Ero riuscito a sputare fuori.
Solo allora, finalmente, ti eri voltata.
-Un po’meglio, adesso.-
Avevo deglutito con forza, spinto giù la bile che era risalita nella mia gola riarsa.
-Io, io non…-
Tenevi ancora le dita strette attorno alla stoffa nera e logora della mia divisa.
In tutti questi anni desolati, mi sono chiesto continuamente se quello non fosse stato un debole segnale, un barlume soffocato di aiuto, un segno.
-Mi dispiace, Lil-
Avevi sussultato a risentirmi chiamarti così, ti eri stretta ancora di più nelle spalle, ricacciato indietro anche tu qualcosa, come un riccio impaurito. Poi avevi scosso la testa, come a volermi dire che era stata tutta una colossale sciocchezza, due anni di niente senza neppure un motivo.
-E che sarà mai, Sev.-
La mia fronte aggrottata e le mie labbra serrate ti avevano fatta sorridere mentre io, dentro, urlavo e morivo.
Penso di essere morto quel giorno, in realtà.
Quando le tue labbra, in silenzio e spettacolare lentezza, si sono dischiuse sulle mie con un grido muto. Quando le mie mani, sempre fredde, hanno afferrato i tuoi fianchi caldi. Quando i tuoi capelli hanno finalmente accarezzato il mio viso e le tue lacrime hanno bagnato le mie ciglia.
Ho fatto l’amore con te come un bambino maldestro che mangia un gelato e non riesce a gustarlo appieno per paura che gli si sciolga fra le dita. Non riuscivo a chiudere gli occhi. Cercavo di imprimere a fuoco nella mia mente ogni particolare di te cui stavo avendo accesso. Tu piangevi e sussurravi cose che non riuscivo a capire. Ed io volevo solo tenerti così, stretta e avvinghiata a me fino alla fine del mondo. Eri calda, fragile, eri nei contorni sfocati di un sogno.
Mentre ti baciavo e sfilavo via i tuoi vestiti, sentivo il mio cuore reclamare indietro ogni suo battito perso a cercarti. Le tue dita fra i miei capelli e sulle mie spalle tremavano.
-Resta con me.-
-Lo sai che non posso.-
Avevo provato persino a contare le efelidi delicate sul tuo viso.
-Lo ami?-
Avevi stretto con forza la tua mano nella mia. Passato la punta del tuo indice sul contorno delle mie labbra secche.
-Allora, quand’ è che un’eco ritorna indietro?-
 
***

Giocavate con quel ridicolo mappamondo fino a consumarvi gli occhi. Lo spiraglio della porta era il mio solo punto d’accesso al tuo mondo segreto. Solo ora, con in sottofondo questo pianto logorante che mi avvolge e pesa già sulle mie spalle, riesco ad ammettere che la paura che nutrivo era solo dettata dalla certezza che quel mondo, prima o poi, ti avrebbe definitivamente portata via da me.
Severus ti guardava con gli stessi occhi con cui ti guardava papà.
Eri la perfezione racchiusa in un solo sorriso.
E tutto quello che io volevo, era solo brillare per un po’ del tuo riflesso.
Essere speciali aveva sempre un prezzo troppo alto da pagare.
Non me l’aveva mai detto nessuno, ma lo avevo capito da sola, fin troppo presto.
Prestigio e potere si pagano sempre.
Perché non potevi essere semplicemente e meravigliosamente normale, come me?
Perché qualcun altro doveva aver libero accesso alle tue magie, perché non potevi condividere qualcosa di così bello e speciale solo con me?
E perché ogni qualvolta ti veniva rivolto uno sguardo amorevole, io mi sentivo sempre più vuota?
Perché si innamoravano tutti di te?
 
-Perché si innamorano tutti di te?-
Guardavi il fumo della sigaretta salire verso il soffitto.
-Quello che è successo ieri pomeriggio è stato uno sbaglio. Un terribile sbaglio. Non accadrà mai più. Sono venuta solo per dirti che … che non ha significato niente.-
La sedia contro il muro e i miei polsi serrati attorno ai tuoi, fiato contro fiato.
-Ripetilo adesso, se ne hai il coraggio, Lil.-
-Lasciami andare Sev, mi fai male.-
-Fa’ l’amore con me, Lil.-
-E tu fa' piano.-
Avrei voluto che il tuo morso sulle mie labbra avesse potuto imprimervi una cicatrice profonda.
E che i tuoi sospiri avessero potuto fondersi con i miei in modo tale da non lasciarci più esistere lontani l’uno dall’altra.
-Non piangere, Lil.-
-Lo sapevi fin dall’inizio. Sev. Lo sapevi.-
 
No, Lily, non lo sapevo.
Non sapevo quanto potesse essere profondo e tenebroso il baratro in cui poi sono caduto.
Non sapevo quanto male avrei sentito, in ogni singola parte del mio corpo e con ogni mio singolo organo, nel tenerti stretta a me quell’ultima volta.
-Ho avuto un incubo.-
La tua camicetta bianca era scivolata lungo la tua schiena. Avevi rinunciato a rimetterla ed avevi incrociato di nuovo le ginocchia al petto. Nuda, fra le lenzuola sfatte. Un tremito appena percettibile era corso lungo la tua spina dorsale, ma avevi fatto finta di non accorgertene e avevi preso la mia mano tesa verso di te.
-Ti ascolto.-
-Sogno una bambina.-
Non eri tornata a guardarmi.
-Sogno sempre la stessa bambina.- Rantolavo, soffocando tra la polvere che mulinava nell’aria e i tuoi pensieri lasciati in sospeso fra quelle quattro mura.
-Ha il tuo viso. I tuoi capelli. E piange. Cammina nella nebbia, ed io non posso salvarla.-
Di scatto avevi ritratto la mano, asciugandoti con rabbia una lacrima furtiva che non avevo avuto il tempo di scorgere. Le tue dita tremavano. Tremavano come si trema solo prima di un addio.
 
***
 
-E così ti sposi, eh?-
-Non mi seccare, Petunia.-
-Perché fai ancora la valigia a mano, sorellina cara?-
Il golf verde era finito sulla mia faccia graffiandomi.
-Come osi? Sei una lurida sgualdrina, ecco che cosa sei! Va’, va con quel Piton, a buttare via la tua vita, a sfornare marmocchi in una misera capanna in mezzo al bosco!-
-Come mai quest’improvviso interesse per la mia vita, eh? Tu non sai niente di me, niente!-
Nel tentativo disperato di fermarti, ero corsa verso di te ed ero inciampata fra i vestiti alla rinfusa, finendo con le ginocchia sul pavimento, proprio come da bambina.
Non avevi riso e non avevi fatto alcun commento. Mi avevi solo lasciata lì, senza mostrare nessun rammarico o ripensamento.  Non mi avevi detto neppure che non si trattava di Piton.
Me lo disse nostra madre, appena prima del matrimonio a cui poi non presi parte.
Nel giorno delle tue nozze restai allibita sulla porta di quella che era stata la nostra cameretta e che si era trasformata anno dopo anno in un piccolo campo di battaglia. Il vuoto che mi attanagliava le viscere sembrava non riuscire a saziarsi, continuava ad espandersi e divorarmi. Di più, sempre di più, assieme al dolore inammissibile e inconfessabile che mi spingeva a buttare via ogni nostra fotografia.
Se si fosse trattato di quel Piton, forse sarei anche riuscita ad accettare la cosa, un giorno.
Invece no. Tutti i miei miseri sforzi nel restare in disparte, nel restare a guardarvi giocare e parlottare di nascosto, non erano valsi a nulla. Anche con la mia mente infantile, e come amava spesso sottolineare papà, limitata, avevo compreso fin da subito quanto quel ragazzino ti amasse.
E invece tu, tu te n’eri semplicemente infischiata di lui, così come avevi fatto con me.
 
Tuo figlio è sdraiato in una cuccia di cuscini d’emergenza arrangiata sul tappeto del salotto.
È sporco, piange e si dimena con tutte le poche forze che gli restano.
Non l’ho neppure guardato bene, tuo figlio.
Non ho sentito se tra le pieghe della tutina sgualcita è rimasta la scia del tuo profumo.
Ma forse neppure lo ricordo ormai, il tuo profumo.
Se avessi saputo che non sarei più riuscita ad acciuffarti, ti avrei stretta più forte.
Anche il cielo si è innamorato di te.
Avrei dovuto saperlo.
E avrei dovuto lottare di più, per riuscire a stringere con amore tuo figlio almeno una volta.
 
-BAU!-
Sporta alla finestra, tenevi le mani premute a coppa attorno alla bocca e gridavi i versi di tutti gli animali che avevi imparato a conoscere.
Poi tendevi l’orecchio e non appena sentivi l’eco della tua voce rimbalzare sul muro del palazzo di fronte, esultavi e ti arruffavi contenta come un curioso coniglio.
Mi facevi ridere talmente tanto che nostro padre aveva ormai rinunciato a riprenderci e solo quando urlavamo troppo ci intimava bonariamente di smettere.
Ma tu continuavi imperterrita. Io contavo i secondi che intercorrevano fra la prima sillaba gridata e l’eco felice della tua voce.
 
 
I rami degli alberi e i cespugli delle ortensie si agitano convulsamente alle raffiche di vento.
I petali divelti delle rose rosse volano sparpagliati in balia degli scrosci di pioggia incessante, muoiono al gelo, sfatti sull’asfalto grigio e bagnato. Il cancelletto cigola e sbatte, sbatte contro la ringhiera che delimita questo giardino così curato.
Tua sorella è alla finestra, proprio come quando ci fissava giocare in strada.
Tuo figlio piange, sento l’eco disperata delle sue urla che si unisce al vento freddo, forse perché, così, spera di poter arrivare a te per l’ultima volta.
Cado in ginocchio anch’io, e come tuo figlio, urlo. Dilaniato e morente resto a picchiare l’asfalto che si macchia del mio peccato scarlatto.
Ma l’eco delle mie grida, del mio dolore lancinante e delle mie suppliche non ti riporta indietro.
Se solo l’avessi saputo, avrei chiesto al sole di accecarmi quel giorno.
Invece rimango qua.
E tutto quello che mi rimarrà da guardare sarà solo il riverbero del tuo ricordo.
 
 
Fine
  
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