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Autore: EsterElle    29/04/2014    2 recensioni
Nella terra di Cadmow tutto sta per cambiare. L’armonia che vi ha sempre regnato, l’equilibrio voluto da Dira, la perfetta partizione di un potere enorme: ogni cosa è destinata ad essere sconvolta. Sconvolta, per rinascere a nuova vita.
Ambizione, tradimento, menzogne e segreti; un velo cupo si stende sulla storia delle quattro Regioni. A districarsi tra le torbide acque del mare in tempesta sono due ragazzi, destinati ad essere nemici, entrambi simboli del cambiamento.
Come salvarsi dal crollo di una civiltà? Come sanare un mondo destinato alla rovina?
“Noi siamo Guardiani per volere di Dira e Dira ha fatto si che, per millenni, quattro Guardiani proteggessero il suo popolo. Questa è la Grande Magia, questa è la Sua volontà. Chi sei tu per sovvertire le leggi della natura?”
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6
Acqua



 
Delicata come il vento in primavera, una voce si alzò da un punto imprecisato davanti ai bambini. Cantava in una lingua antica e bella, anche se incomprensibile. Carezzava lieve le orecchie dei ragazzi, che rimasero immobili in ascolto, incantati. Pian piano, un coro vigoroso si unì al fragile canto e un corteo di uomini apparve all’altezza del piccolo lago con la cascata. Tutti indossavano una tunica arancione e gialla, riccamente drappeggiata sulle spalle e sulla vita. Procedevano secondo una formazione rigida, quasi militare, i loro passi erano cadenzati e ritmicamente studiati. E il canto divenne sempre più forte e violento, veloce e urlato al cielo, scandito dal battere dei sottili sandali in cuoio sulla pietra.
Istintivamente, Dima ed Elsa indietreggiarono verso l’apertura del tunnel, intimoriti da quella marea arancio diretta verso di loro.
Quando i monaci giunsero a pochi passi, si aprirono in semicerchio, esponendo un uomo adorno della tunica più bella, finemente ricamata con un brillante filo d’oro.
Né alto né basso, mostrava un volto duro, perfettamente sbarbato e segnato da una lunga cicatrice che gli  incurvava il lato destro della bocca in una smorfia perenne. La pelle abbronzata del volto, le folte sopracciglia scure, rubavano una luce dai piccoli e splendenti occhi azzurri.
Scrutò i ragazzi con attenzione, nel silenzio più assoluto, dopo che anche le ultime note del canto si erano spente. Proprio quando Dima iniziava a preoccuparsi ed Elsa a mordersi il labbro inferiore, in ansia, questo apri le braccia e mostrò loro il suo sorriso monco.
“Benvenuti, cari ragazzi! Avete superato con successo la Prima Prova, quella a cui tutti gli ospiti del Tempio di Odundì sono sottoposti al loro arrivo. Il tunnel ha testato il vostro sangue freddo, la vostra forza d’animo e la vostra fermezza; noi monaci non potremmo essere più fieri” disse, muovendo qualche passo verso di loro.
“Oggi è giorno di festa ad Odundì; l’intera Cadmow gioisce e ringrazia la Madre!” proclamò infine, con voce forte e gentile, rivolto ai suoi compagni.
Questi chinarono rispettosamente il capo e, a mani giunte, si allontanarono in ordine sparso, diretti in un luogo diversi di quel grande cortile in pietra.
“Io sono il Sommo Sacerdote, il mio nome è Jeyco. Purtroppo i miei numerosi impegni spesso mi trattengono lontano da qui. I monaci si prenderanno cura di voi, provvederanno alla vostra istruzione, al cibo, ai vestiti, allo svago. Qualunque vostro desiderio, qualunque vostra necessità, deve esserci riferita; nel limite delle nostre possibilità ci adopereremo per esaudirvi. In cambio, dovrete accettare e rispettare il Codice, le regole benedette dalla Madre e che ci indicano la via per una serena convivenza. Presto vi saranno illustrate e, da allora, non saranno ammessi errori” disse, coi lineamenti severi e la voce ferma.
Con lentezza, fece seguire al breve discorso un ampio gesto della mano e, quasi all’istante, un altro monaco comparve al suo fianco, chinando il capo.
“Vi presento fratello Ashim, Mastro della Casa. Seguitelo, vi condurrà ai vostri alloggi e provvederà al vostro ristoro”.
Il Sommo Sacerdote scrutò ancora i ragazzi per un lungo minuto, gli occhi azzurri pungenti e indagatori. Infine si avvicinò, fino ad essere a pochi centimetri dai loro visi e posò la mani grosse e tozze sulle loro teste.
- Ma dove diavolo sono finito! – pensava con discreta disperazione Dima, mentre, ad occhi chiusi, sopportava il peso di quel tocco.
Il sommo sacerdote aggrottò la fronte e chinò le spalle, come se fossero state improvvisamente gravate di un gran peso, e prese a borbottare parole senza senso.
“È davvero sorprendente, mai in tanti anni mi è capitato di assistere ad un evento simile. Un potere tanto grande equamente diviso, la forza stessa sembra essersi sdoppiata per originare tutto questo” mormorò.
Quando aprì gli occhi e spianò le rughe che gli increspavano la fronte, il suo volto si trovava all’altezza di quello dei bambini, incredibilmente vicino.
“Siete speciali come nessuno in questa terra lo è mai stato. Le vostre piccole mani stringono il destino di Cadmow; molti vorranno manipolarvi, usarvi, eliminarvi, persino. Imparate presto di chi fidarvi, trovate la giusta via del bene” disse, gli occhi spalancati, un filo di saliva lungo la bocca storpia.
Con un movimento brusco raddrizzò la schiena e, altrettanto bruscamente, prese a camminare velocemente in direzione del tunnel.
Dima ed Elsa fecero in tempo a scambiarsi uno sguardo stralunato, prima che la loro attenzione fosse nuovamente catturata da fratello Ashim, Mastro della Casa.
“Se volete seguirmi” disse, iniziando a percorrere un sentiero decorato da lisce pietre levigate.
I ragazzi si affrettarono per tenere il passo con le lunghe falcate dell’uomo, e rimasero stupiti quando questo si fermò poco dopo, davanti alla costruzione ottagonale.
Aprì la porta in vetro azzurro con grazia e li precedette all’interno.
Uno spettacolo di luci colorate li attendeva tra quelle mura; una vasca in pietra con tanto di rubinetti in ottone occupava alcuni dei lati della costruzione, mentre un soffice tappeto dorato ne ricopriva quasi interamente il pavimento. Una pila di morbidi asciugamani e strani tessuti pendeva dal soffitto, disegnando piccole amache di seta, cotone e altre stoffe certamente pregiate.
“Io non mi lavo” mise subito in chiaro Dima, non appena i suoi occhi si posarono sul lavatoio.
“Zitto” gli bisbigliò di rimando Elsa, tirandogli una gomitata tra le costole.
“Ehi!”
Il monaco si schiarì la voce sonoramente, ponendo fine alla discussione che sarebbe sicuramente nata tra i due.
“Questa è la Sala della Purificazione” disse, solenne.
“Ecco, lo sapevo. Ancora bagni!” grugnì Dima, massaggiandosi il fianco.
“Purificarsi non è sinonimo di lavarsi, Signore” lo corresse il monaco, con malcelato fastidio.
“Verserò personalmente dell’acqua sulle vostre mani, i vostri piedi, il vostro petto e le vostre labbra; una volta puri, una volta che avrete allontanato tutto ciò che non è gradito alla Madre, ogni cattiveria, ogni maldicenza, ogni durezza di cuore, vi saranno date in dono nuove vesti” spiegò, invitandoli a spogliarsi.
“Che cosa?” protestò Elsa, il viso in fiamme.
“A me piacciono questi vestiti” rincarò Dima, anche lui rosso come un pomodoro.
“Nessuno è ammesso al Tempio se porta con sé i resti del Mondo di Fuori. Bisogna preservare il più possibile la santità di questo luogo” disse l’uomo, sempre più irritato.
“Ma dai, un po’ di terra e polvere non fanno male a nessuno! Certo non a Dira, che se ne sta lassù e non conosce nemmeno la differenza tra sporco e pulito!” esclamò Dima, scuotendo la testa.
“Avete davvero molto da imparare, Signore. È solo grazie alla vostra temporanea ignoranza che eviterete un serio provvedimento disciplinare” ribatté il monaco seccamente, riducendo le labbra in ad una linea sottile.
Rosso di rabbia e con lo sguardo torvo, sfilò la tunica di Dima e il vestito azzurro pallido di Elsa, che rimase con la sola biancheria intima.
Con lo sguardo rivolto al soffitto e le guance chiazzate, i ragazzi lasciarono che il monaco compisse il rituale senza fiatare ma, soprattutto, senza mai guardarsi.
Quando furono di nuovo sotto il cielo luminoso del Mondo di Sotto, indossavano abiti semplici, puliti e morbidi, di un’incantevole sfumatura di blu.
Elsa stava sistemandosi con le mani le pieghe della gonna, lunga fin sopra le ginocchia ossute, e Dima lottava contro il colletto troppo stretto della sua tunica quando fratello Ashim li superò e fece loro cenno di seguirlo. Insieme, camminarono lungo il viale fino a giungere sulle sponde di un lago, l’ennesimo. Lo specchio d’acqua era piuttosto grande e piccole onde tranquille si infrangevano sulla riva; al centro, si innalzava un’enorme palafitta, una costruzione alta due piani e traforata di finestre.
“Caspita!” bisbigliò Dima, incantato da ogni cosa nuova.
“Questa è la Casa. Qui i monaci riposano, mangiano, si occupano dei loro affari privati. È qui che risiederete anche voi per i prossimi sette anni” spiegò il monaco, fieramente.
“Davvero?” esclamò Dima, entusiasta.
Non attese risposta e subito si lanciò lungo il ponte in legno che collegava le sponde del lago alla piattaforma su cui poggiava l’intera costruzione.
“Signore, non è bene correre in questo modo!” lo rimproverò fratello Ashim, con voce stridula, mentre, afferrata Elsa per una spalla, si affettava sulle assi mobili della passerella.
“Elsa, vieni, muoviti!” incitava il bambino, ormai arrivato.
Tutto in quel posto era un mistero e Dima stava già progettando una fantastica spedizione per scoprirne tutti i segreti.
- Sarà divertente, persino più che al Palazzo d’Inverno- pensava, sorridendo.
Fu solo quando fratello Ashim mosse alcuni passi verso di loro che il bambino vide i due monaci, fermi sulla porta principale della Casa, alta e in pesante legno dorato.
“Chi sono loro?” chiese al trafelato monaco.
“Due fratelli che vi mostreranno la Casa, i vostri alloggi e vi illustreranno la Regola”
“Ma non ne bastava uno?” chiese Elsa, timidamente.
“No, mia Signora” rispose secco Ashim, prima di dare ad entrambi una piccola spinta verso i due uomini.
Così Elsa e Dima varcarono il portone e restarono per qualche secondo in un ampio ingresso, buio e fresco. L’odore del legno era forte e piacevole, e dei fiori di campo spargevano il loro profumo per tutta la stanza.
“Da questa parte” dissero in coro i due monaci, incamminandosi per due diversi, e opposti, corridoi.
I bambini si guardarono; infine, proseguirono ognuno per la loro strada, un po’ più soli, un po’ più tristi.
- Elsa non è la bambina più simpatica del mondo, ma almeno era un’amica con cui parlare- si ritrovò a pensare Dima, mentre seguiva il monaco.
Si corresse subito, però: loro non erano amici! Come aveva potuto dimenticarlo?
Camminò in silenzio per qualche minuto, senza mai perdere di vista la tunica arancione, un po’ stretta in vita, del monaco grassoccio di fronte a lui.
“Siete dispiaciuto, Signore?” gli chiese inaspettatamente l’uomo, mentre svoltava in un secondo corridoio, altrettanto stretto e male illuminato.
“Un po’”
“È per la vostra amica?”
“Lei non è mia amica”
“Fate bene a parlare in questo modo, Signore. Non è bene fidarsi di chi è nostro rivale”
 “Ma perché Dira ha scelto anche lei? Non le bastavo io?” chiese di getto il bambino, dando voce ad una domanda che da tempo si agitava nella sua testa senza pensarci troppo.
“Sarei un uomo molto sciocco se pretendessi di sapere la risposta esatta. Chi di noi può vantarsi di conoscere le ragioni di un dio? Eppure credo, Signore, che Dira abbia messo il suo popolo dinnanzi una prova; e noi dobbiamo mostrarci fedeli e devoti, rispettando la sua legge ed estirpando il maligno dal nostro mondo”
“Ma sarebbe Elsa, questo “maligno”?”
“No, mio Signore. Il maligno è in tutte quelle cose lontane da Dira. Che si sono allontanate da Dira” precisò, girando una chiave d’ottone nella serratura di una vecchia porta di legno.
Dima mosse alcuni passi nella piccola stanza circolare, completamente vuota, prima di essere folgorato da un pensiero terribile.
“Ma allora, tutti noi siamo dei “maligni”! Dira non è a Imbris, né nella Regione del Nord, non c’è proprio a Cadmow! Siamo lontanissimi da lei”
Il vecchio monaco guardò con tenerezza il suo allievo e, con un cenno del capo, gli indicò il pavimento. Entrambi sedettero per terra, le gambe incrociate, uno di fronte all’altro.
“Dimitar, chi è la persona a cui volete più bene in assoluto?” gli chiese, scrutandolo, guardandolo fisso negli occhi bruni.
“Teppe” rispose con sicurezza il bambino.
“E Teppe vuole vi vuol bene?”
“Certo! Siamo grandi amici, io e lui”
“Come fate a dirlo con tanta certezza?”
“Non lo so. Non lo so spiegare, lo so e basta”
“È vero, è molto difficile da esprimere a parole” annuì il vecchio. “Allora provate a dirmi cosa sentite quando Teppe è vicino a voi, quando siete insieme”
“Certo che voi monaci fate domande strane!” ridacchiò Dima, leggermente in imbarazzo.
“Sono felice, non faccio mai brutti pensieri e non mi sento triste. Nemmeno se la mamma mi ha appena picchiato” rispose infine, con lo sguardo basso.
“Ecco, Dimitar. Quando Dira vi è vicino, quando voi le siete vicino, vi dovreste sentire proprio in questo modo. Non serve vederla, toccarla, per sapere che vi vuole bene” sorrise il vecchio, il volto increspato di mille e più rughe.
“Quindi, quando siamo insieme, io sto bene? Tutte le volte che sono felice, tranquillo, che faccio qualcosa di buono, io sono vicino a lei e lei è vicina a me?”
“Esattamente”
“Ma allora, Dira è un po’ un’amica, un po’ una Teppe invisibile!” esclamò Dima, alzandosi in piedi per l’agitazione della sua nuova scoperta.
“Dira non la vedo, non la posso toccare, e quindi basta che la porto con me, nella mia testa, e non mi lascerà mai! Avrò sempre un’amica!”
Il monaco guardò il ragazzino con le guance chiazzate di rosso, emozionato, finalmente in contatto con quella loro grande Madre. Cosa c’è di più bello di un Guardiano, di un Prescelto, che per la prima volta si avvicina a Lei? È lo sfiorarsi, l’annusarsi e il toccarsi, di due anime gemelle, tenute lontane a lungo e finalmente ricongiunte. È la magia della prima carezza di una madre al suo bimbo appena nato.
“Siete molto saggio Dimitar, ma ancora non lo sapete”
“Non m’importano tutte le parole complicate dei monaci” disse Dima, con un’alzata di spalle.  “Sono contento, adesso!”.
“Allora sarete tanto ubbidiente da seguirmi nella vostra stanza” ribatté il monaco, alzandosi a fatica dal pavimento e incamminandosi verso l’unica porta presente nella stanza circolare.
Dima varcò una l’ennesima porta di legno e si ritrovò in una piccola stanzetta quadrata, sulla quale si apriva una grande finestra. Al di là del vetro si scorgeva un cortile interno, un chiostro, verde e fiorito, sul quale si affacciavano numerose altre finestre.
-Chissà qual è quella di Elsa- corse veloce , impalpabile, il pensiero, mentre guardava oltre il vetro.
L’arredamento era essenziale: un letto in legno intagliato, un piccolo armadio, una scrivania e una sedia. Nulla di più, nessun decoro, nessuno sfarzo; quella stanzetta era l’esatto opposto dell’intero appartamento che gli avevano riservato al Palazzo d’Inverno.
“Cosa ne pensate?” chiese il monaco, fermo sulla porta.
“Mi ricorda un po’ casa mia, ad Imbris. Non è poi così brutta” affermò il bambino, lasciandosi cadere a peso morto sul letto, duro.
“Ma questo non sarà molto comodo, credo” mormorò, tastando il materasso sotto di lui.
“Odundì non è il luogo del riposo e dell’ozio, Signore, lo scoprirete presto. Tutto qui è in funzione della meditazione, della conoscenza, dell’apprendimento”.
“Ma non vi divertite mai?” chiese allora, iniziando a rotolarsi sul letto.
“Certamente. Ma dubito che il divertimento che troverete ad Odundì corrisponderà a quello che avete in mente voi” replicò il monaco, con un mezzo sorriso.
 “Quand’è che iniziano le lezioni?”
“Domani mattina”
“Bello! Devo farvi vedere cosa riesco a fare con un bicchiere di cristallo, sono bravissimo!”
“Signore, perché non vi sedete un attimo, così che io possa parlarvi qualche momento?” chiese il monaco, quando intuì che il bambino stava per mettersi a saltare sul letto.
“Va bene” ubbidì Dima, lasciandosi cadere in una scomposta posa e rannicchiandosi sulle gambe.
Il monaco si accomodò sulla sedia di legno e iniziò a parlare con voce sicura.
“Le regole di Odundì sono poche e semplici, Dimitar. Vivendo con i monaci, parteciperete alla vita comunitaria, ai pasti, a tutte le preghiere e le meditazioni; in più frequenterete le vostre lezioni, presso la Torre della Prova. Non dovrete mai mettere in dubbio l’autorità dei vostri insegnanti; siete stato scelto come Guardiano, è vero, ma il percorso è ancora lungo e voi avete molto da apprendere da persone più anziane e più colte. Vi sarà vietato accedere al Mondo di Sopra senza un’esplicita autorizzazione del Sommo Sacerdote; riceverete le visite degli altri Guardiani e dei Consiglieri, ma a nessun altro sarà permesso accedere al Tempio. Tutto chiaro, fin qui?”
“Si. Non sembra molto difficile”
“Molto bene. Ricordate anche che non potrete giocare nel cortile, né schiamazzare, tuffarvi nei laghi, raccogliere i fiori della aiuole; qui tutto è un segno, un dono, una preghiera. Dovrete avere il massimo rispetto de luogo che vi circonda”.
“Va bene, farò il bravo” disse Dima, un po’ più afflitto.
Aveva l’impressione che tutto fosse vietato, in quel posto. Era tutto molto bello, eppure tanto inarrivabile, tanto intoccabile, da sembrare finto.
“La  vostra buona volontà è un ottimo punto di partenza. Il compito è arduo, lo sappiamo bene, ma tutti noi riponiamo un’immensa fiducia in voi e nella Madre” sorrise il vecchio monaco, congiungendo le mani in grembo.
“Ci sono altre regole che devo conoscere?”
“Una sola. La più importante”
“Sono pronto”
“Non dovrete mai cercare di vedere Elasia. Non dovrete avere nulla a che fare con lei, non una parola, non un gesto, un sorriso, una smorfia. Vivrete ad Odundì come se lei non esistesse, non vi incontrerete, non avrete occasione di ritrovarvi nella stessa stanza, alla stessa lezione, nessuna motivo di incrociare i vostri sguardi. Da questo momento in poi, potete dimenticarvi della bambina”
“Ma è proprio necessario?” chiese Dima, dispiaciuto ma piuttosto rassegnato.
“Assolutamente. La prossima volta che vedrete Elaisa sarà dopo il vostro diciassettesimo compleanno, quando sarete chiamato a confrontarvi con lei per stabilire chi di voi ha il diritto, nonché il dovere, di guidare la Regione del Nord” disse categorico il monaco.
Dima chinò il capo.
“Credo che mi mancherà”
“Siate forte, mio Signore, e vedrete che tutto andrà bene. Sono certo che sarete presto felice ad Odundì” ribatté il monaco, il viso nuovamente increspato dalle rughe del sorriso.
“Lo spero tanto” mormorò Dima in risposta.
Il suo pensiero corse subito a Nenjaat, a Teppe, che lo aspettava, a Bessie, tanto dolce, a Dira, la sua nuova amica. Non era affatto facile.
“Con chi potrò giocare nel mio tempo libero, se Elsa non la posso più vedere?”
“Con noi monaci, naturalmente. Sappiamo essere molto divertenti,  e degli ottimi compagni di giochi, se vogliamo”.
Dima alzò le sopracciglia in un gesto fin troppo eloquente.
“Suvvia, non siate così critico, così negativo!”  ridacchiò quello, facendo sobbalzare il suo stomaco pronunciato.
“Non siete mica il primo bambino che viene a stare ad Odundì! Tutti i Guardiani hanno trascorso sette anni in nostra compagnia e sono venuti su forti e sani come pochi in Cadmow” continuò, allegro.
“Ma hanno perso del tutto il senso dell’umorismo” commentò Dima, strizzando l’occhio destro.
“Non potete ancora dirlo, ma presto li conoscerete meglio e allora riprenderemo questa conversazione” proclamò il monaco, fingendosi urtato.
Entrambi risero; per la smorfia buffa dell’uomo, Dima, per il sorriso del bambino, il monaco.
“Adesso devo lasciarvi. Presto sarete raggiunto da un fratello che vi aiuterà a sistemare le vostre cose”
“Già vai via? Non viene Ashim, vero?”
“Il fratello Ashim ha compiti per più importanti da svolgere. Per vostra somma gioia, aggiungerei”
“Puoi dirlo forte!”
Un ultimo sguardo d’intesa, e il monaco sparì oltre la porta.
La giornata continuò lenta e noiosa, per Dima, alle prese con un monaco di veneranda età e ossa di pasta di zucchero, indaffarato col suo enorme baule.
Al sesto rintocco del pomeriggio, fu condotto in una sala interna molto grande, dal pavimento in legno lucido ricoperto di cuscini; passò l’ora seguente inginocchiato su uno di essi, ascoltando le monotone litanie intonate dai monaci. I suoi occhi non poterono trattenersi, e cercarono Elsa in ogni volto; ma si accorse ben presto di essere circondato da monaci in preghiera e nulla più.
A cena, restò in silenzio, stretto tra due uomini in arancio, e nella sua testa cercava di elaborare un piano per sfuggire alle future ore di preghiera.
Quando infine si infilò sotto le coperte del suo letto, nulla di quello che aveva vissuto in quella giornata gli sembrava reale. Nulla, tranne Elsa, la sua amica Elsa.
Con questo pensiero, si addormentò.
 

 
Da sempre Dima aveva la cattiva abitudine di dormire sul bordo del letto, in precario equilibrio per tutta la notte. Vuoi per necessità (a casa sua aveva sempre condiviso la sua branda con uno o più fratelli), vuoi per piacere personale, raramente riusciva a riposare al centro del materasso.
Ci pensarono i monaci, la mattina del secondo giorno, a fargli cambiare completamente idea.
L’alba di Odundì aveva appena colorato il cielo di viola quando un suono profondo, basso, e roboante si disperse per tutta l’area del Tempio. Dima sussultò così violentemente, il suo corpo si tese tanto di scatto, che fu impossibile per lui non finire dritto sul pavimento di pietra, sbattendo dolorosamente la fronte e un ginocchio.
Imprecando come solo un monello di Imbris saprebbe fare, si alzò in piedi, massaggiandosi la testo con una mano.
“Maledizioni ai monaci, ai rintocchi e a questo posto assurdo” borbottò, mentre afferrava di malavoglia i pantaloni che gli avevano dato il giorno prima e se li infilava saltellando sulla gamba sana.
Una volta vestito, si diresse al catino d’acqua vicino alla finestra e, senza pensarci, vi immerse entrambe le mani con decisione. Si lavò il viso e il collo per bene e si asciugò con la salvietta pulita e austera lì accanto, lasciando vagare lo sguardo aldilà del vetro. Fu un attimo, il riflesso del sole, il soffio del vento; per qualche secondo a Dima sembro di intravedere la chioma bionda di Elsa affacciata ad una delle finestre del chiostro.
Subito spalancò le imposte e prese a gridare forte il suo nome, dimentico di qualsiasi divieto:
“Elsa! Ehi, Elsa!” chiamava, muovendo le braccia e l’asciugamano che ancora teneva tra le mani.
Quando nessuno ricomparve alla finestra, Dima iniziò a pensare di essersi sbagliato, non erano i capelli di Elsa quelli che aveva intravisto, e allora smise di saltellare sul posto e tornò al suo letto.
Un po’ deluso, si infilò gli stivali e passò velocemente una mano tra i riccioli, memore degli insegnamenti di Bessie. Infine uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Attraversò veloce l’atrio circolare antistante la sua camera e si ritrovò in uno dei corridoi stretti e bui della residenza dei monaci.
Non sapeva bene da che parte andare; era certo, però, che lo attendeva un’altra snervante e noiosissima ora di preghiera.
Un uomo vestito di giallo svoltò nel suo stesso corridoio e Dima pensò di seguirlo.
Con discrezione, non distolse mai gli occhi dalla sua schiena e ne seguì ogni passo, fino a che non giunsero nella grande stanza dal pavimento in legno, già piena di monaci inginocchiati.
Alla preghiera seguì la colazione e Dima si sentiva perso in mezzo a quella marea arancio, senza un amico, senza nessuno con cui parlare. Allora si ricordò di Dira, la sua nuova amica invisibile, e pensò che fosse educato augurarle il buongiorno.
“Ciao! Come stai? Hai dormito bene? Io così così, il letto era durissimo e sono pure caduto. Spero che oggi sia una bella giornata, anche se non so bene cosa dovrò fare. In questo posto mi perdo sempre, è un labirinto! Chissà se qualcuno mi verrà a prendere e mi accompagnerà nel posto giusto” bisbigliò piano, per non farsi sentire.
Quando si accorse che nessuno gli avrebbe risposto, mise su il broncio, incrociò le braccia al petto e restò pensieroso per il resto della colazione.
Fu il tocco leggero di una mano sulla spalla destra che lo riscosse dalle sue meditazioni. Alzò la testa di scatto e puntò gli occhi in quelli verdi e vitrei di fratello Ashim.
“Mio Signore, è ora di andare. Il vostro maestro vi attende” disse in tono piatto.
Dima si alzò, fece cadere le briciole del pane dalla tunica e seguì ubbidiente il monaco.
Uscirono dalla Casa e percorsero un breve tratto costeggiando il lago. Si ritrovarono a guardare il retro della residenza, mentre alla loro spalle fioriva una foresta verde e piuttosto intricata.
Un monaco li attendeva, con la tunica sollevata e i piedi immersi nell’acqua fino alle caviglie. Aveva gli occhi chiusi e la sua barba bianca tremava, scossa dal vento leggero.
“Cosa sta facendo?” bisbigliò il bambino al suo accompagnatore.
“Medita” rispose quello, secco.
Si avvicinarono e attesero che l’uomo barbuto aprisse gli occhi.
“Lui è Dimitar, fratello Gahs. Vi auguro una buona lezione, che la Madre possa guidare i vostri passi” biascicò fratello Ashim prima di allontanarsi a passo svelto.
Il vecchio e il bambino si guardarono per qualche secondo, studiandosi a vicenda.
“Vieni, Dimitar” disse infine, facendogli un piccolo cenno con la mano.
Il bambino si avvicinò di qualche passo.
“Dentro l’acqua?” chiese, un po’ titubante.
Il monaco annuì.
Dima, allora, si tolse velocemente gli stivali e bagnò le punte dei piedi. L’acqua non era fredda, nulla era ormai freddo per lui.
“Cosa senti Dimitar?” gli chiese il monaco, che aveva nuovamente chiuso gli occhi.
“È piacevole. L’acqua mi scivola tra le dita, è bello” rispose il bambino, schietto.
“ Poi?”
-Cosa devo dire?- si scervellò.
“Ehm… sento caldo?”
“Devi sforzarti di più, ragazzo. Pensa!”
Dima allora imitò l’uomo, e chiuse gli occhi nella speranza di concentrarsi.
L’acqua lambiva le sue caviglie dolcemente e le carezzava con impercettibili movimenti; avanti e indietro, avanti e indietro. Improvvisamente percepì con estrema chiarezza i suoi piedi, tutto il suo corpo, e iniziò a riprodurre quel movimento ondeggiante con il busto.
“Molto meglio” disse il monaco, con un sorriso nella voce.
Dima aprì gli occhi e vide che l’uomo lo stava osservando.
“L’acqua è parte di te, Dimitar. Il Nord è acqua. Nel ghiaccio dei fiumi, nelle nevi perenni, nelle piogge e nelle grandini, l’acqua trova la sua casa al Nord. Grande, mutevole e inconsistente, cristallina e pura, amica e nemica, crudele talvolta, spesso inaspettata, l’acqua è parte della tua essenza, tu sei acqua. È questo che imparerai con me; ti insegnerò a riconoscere l’acqua dentro di te, a riconoscerti come acqua e, quindi, a conoscere te stesso”.
Dima ascoltava rapito le parole del monaco, imprimendosele nella mente, curioso come sempre, avido di nuove scoperte. Erano discorsi difficili, però.
“Finché non riconoscerai questo, raramente riuscirai a utilizzare la grande magia che risiede in te” concluse fratello Gahs, senza scomporsi.
“Ma io l’ho già fatto una volta. Anzi, ben due!” lo interruppe il bambino, emozionato.
Il monaco lo osservò con cura.
“Tutti  Prescelti hanno una forte manifestazione del loro potere non appena ne vengono investiti. Tu, Dimitar, hai distrutto la tua casa e quasi ucciso la tua famiglia” disse severo. “Non è certo qualcosa di cui vantarsi”.
“Ma non l’ho fatto di proposito! È successo e basta e io nemmeno me lo ricordo!” esclamò il bambino, infervorandosi davanti al quel rimprovero ingiusto.
“E comunque, mi è capitato di usare i miei poteri anche a Nenjaat, al Palazzo. Ho fatto diventare di ghiaccio un bicchiere di cristallo” continuò, orgoglioso fino in fondo.
Se il monaco restò stupito da questa rivelazione, Dima non lo seppe mai. I suoi lineamenti rimasero inalterati e la sua voce ugualmente calma e pacata. 
“Adesso non è importante” disse. “Togliti la tunica e seguimi” aggiunse, camminando sul fondo del lago.
Si fermò e attese, immerso nell’acqua fino alla vita, le vesti arancioni fluttuanti.
Dima non era sicuro di potersi fidare del fratello Gahs, aveva un che di inquietante, ma, come gli era capitato fin troppo spesso negli ultimi mesi, non aveva altra scelta.
Si sfilò la tunica blu dalla testa e la lanciò sulla riva; poi, raggiunse il monaco, camminando incerto.
“Avvicinati di più” disse quello, fissando un punto imprecisato davanti a sé.
Il bambino mosse qualche passo verso sinistra, fino ad arrivare a sfiorare il braccio del vecchio con la spalla.
Con un movimento troppo rapido per un uomo dell’età di fratello Gahs, il monaco sollevò il braccio rinsecchito e, senza lasciargli il tempo per un solo pensiero coerente, premette con tutta la sua forza sulla testa di Dima.
Il bambino ebbe giusto il tempo per un respiro veloce, sorpreso, impaurito; e poi, si ritrovò sott’acqua, schiacciato da una forza sorprendentemente grande.
Dima per la sorpresa spalancò i grandi occhi bruni, prese a muovere convulsamente mani e braccia, cercò di nuotare, di sbattere forte i piedi, di liberarsi, liberarsi a tutti i costi. Il monaco era troppo forte per lui, sentiva i suoi polmoni svuotarsi, e il panico crescere, crescere tanto, sempre di più, crescere troppo.
Urlò e graffiò quella mano, quel polso d’acciaio, ma niente di quello che faceva sembrava bastasse a liberarlo. Infine, dovette abbandonarsi alla corrente, dovette, per forza, aprire la bocca e tentare di respirare. Un fiotto d’acqua gli passò violento tra le labbra e poi giù, giù nei polmoni. Con gli occhi chiusi per metà, senti come un risucchio e, improvvisamente, come tutto era iniziato, tutto finì.
Il monaco gli batteva forte una mano sulla schiena, incoraggiandolo a buttare fuori tutta l’acqua che aveva bevuto.
Dima tossì forte, e sputò, e singhiozzò, e pianse. In un moto di paura e ribellione si allontano da fratello Gahs, cercò di tornare a riva il più velocemente possibile.
La gola gli bruciava e il cuore martellava nel suo petto.
“Stai lontano!” urlò in direzione del monaco quando questo lo raggiunse sulla terraferma.
“Tranquillo, Dimitar. Nessuno di noi vuole farti del male, tanto meno io”
“Stai scherzando? Per poco non mi facevi annegare, brutto vecchio!”
“Per poco, hai detto bene. È questo il tuo addestramento, ragazzo, questa è la tua lezione. Ti immergerai nel lago tutte le mattine, fino a quando non sarai in grado di entrare in sintonia con l’acqua che ti circonda. Allora, annegare non sarà più un problema, perché tu sarai acqua” spiegò pacato, apparentemente immune agli insulti.
“Io non lo voglio fare!”
“Non puoi sottrarti. Ci sono molte cose che devi imparare e scoprire la tua vera natura è il primo passo. Non pensare di fuggire, non ci riusciresti”.
Era forse una minaccia? Di sicuro era la verità. Non l’avrebbero fatto andare via. Lui era il Prescelto. E poi, cosa lo aspettava fuori di lì? La fuga. Avrebbe dovuto nascondersi, vivere nei boschi, da solo. E Dima non era assolutamente disposto.
-Io voglio essere un Guardiano, lo voglio davvero!-
Allora chinò il capo e con il volto rosso di indignazione e risentimento, mosse i primi passi nell’acqua bassa della riva, pronto a ricominciare.
 
 
 
 
Note
Dopo moltissimo tempo, aggiungo un capitolo a questa storia. Sono fermamente convinta che non è uno dei migliori, anzi. Spero non risulti troppo pesante, troppo lungo, “troppo” in generale. È un periodo difficile, l’ispirazione per scrivere va e viene, ma la voglia di portare avanti questa storia è tanta.
Se qualcuno di voi lettori ha un po’ di tempo  e un po’ di voglia, sarebbe davvero importante per me ricevere una recensione, o una mail privata, o un piccione viaggiatore, un gufo, un messaggio in una bottiglia… Insomma, mi farebbe davvero piacere sapere cosa pensate di questi capitoli!
Grazie a tutti quelli che continuano a leggere e leggeranno ;)
A presto,
EsterElle
  
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