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Autore: saraviktoria    02/05/2014    0 recensioni
Quella con Francesco non era una relazione da raccontare alle amiche. Anzi, non era proprio una relazione.
Non poteva sperare che un giorno sarebbero andati in giro mano nella mano per le vie del centro, o che si sarebbero fatti qualche foto scema che, magari, lui avrebbe caricato su Facebook. Era facile far sì che Francesco condividesse la propria vita sui Social Network ma, in quella vita “social”, lei non sarebbe rientrata.
Niente stati vomitevolmente sdolcinati, niente appassionati cinguettii, niente foto romantiche.
Se voleva stare con Francesco, la regola era una sola: nessuno doveva saperlo.
O Lorenzo avrebbe prima ucciso il suo migliore amico e poi la sua gemella.
O Teresa non avrebbe taciuto un attimo, subissandola di quelle raccomandazioni imbarazzanti che la madri adorano fare ai figli.
O avrebbe attirato le invidie delle sue ex, e di quelle che erano state respinte.
Con Eros non era stato così. Con Eros era tutto più semplice.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Titolo: Se mi ami, metti mi piace e condividi

Sottotitolo: L'amore ai tempi di Facebook

Autore: SaraViktoria

Genere: Introspettivo, Romantico, Generale

Rating: Arancione

Contesto: Generale/Vago

Note: Lime

Introduzione: Quella con Francesco non era una relazione da raccontare alle amiche. Anzi, non era proprio una relazione.
Non poteva sperare che un giorno sarebbero andati in giro mano nella mano per le vie del centro, o che si sarebbero fatti qualche foto scema che, magari, lui avrebbe caricato su Facebook. Era facile far sì che Francesco condividesse la propria vita sui Social Network ma, in quella vita “social”, lei non sarebbe rientrata.
Niente stati vomitevolmente sdolcinati, niente appassionati cinguettii, niente foto romantiche.
Se voleva stare con Francesco, la regola era una sola: nessuno doveva saperlo.
O Lorenzo avrebbe prima ucciso il suo migliore amico e poi la sua gemella.
O Teresa non avrebbe taciuto un attimo, subissandola di quelle raccomandazioni imbarazzanti che la madri adorano fare ai figli.
O avrebbe attirato le invidie delle sue ex, e di quelle che erano state respinte.
Con Eros non era stato così. Con Eros era tutto più semplice.

 

Buongiorno!

So di avere un sacco di storie già iniziate (le finirò, promesso), ma questa storia mi frullava in testa già da un po', e ho deciso di metterla per iscritto.

Io non sono stata adolescente nell'era dei social newtwork, di Whatsapp, Ruzzle e di tutte quelle app che popolano oggi i nostri cellulari, per cui mi scuso già per eventuali inesattezze, che sarò felice di correggere se me le farete notare.

Questa storia, infatti, si ispira a ciò che è successo ad una delle mie migliori amiche, Sara, di diciotto anni.

La protagonista, oltre che sua omonima, le somiglia molto sia fisicamente che caratterialmente. Ho cambiato tutti gli altri nomi e gran parte della vicenda, ma la mia fonte d'ispirazione è lei, e la ringrazio moltissimo per avermi permesso di scriverci sopra.

Il banner che troverete più avanti l'ho fatto io, è il primo che faccio e spero di non aver combinato qualche danno. Il primo ragazzo sulla sinistra è Francesco, in mezzo abbiamo Sara, e per finire Eros (ovviamente i nomi ora non vi dicono niente, ma capirete leggendo la storia)

Non è mia intenzione offendere nessuno; il rating è Arancione per via del linguaggio e di alcune cose che accadranno nei prossimi capitoli. Francesco, in particolare, ha delle idee spesso poco condivisibili, che spero non diano fastidio a nessuno, fanno solo parte del personaggio.

Buona lettura,

Baci

SaraViktoria

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L'amore ai tempi di Facebook

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Capitolo uno

 

Francesco era come quei fuochi d'artificio che ti costringono a socchiudere gli occhi, quelli che senti rimbombare nelle orecchie anche quando ormai il cielo si è ridotto al silenzio.

Francesco era impulsivo. Impulsivo come quel Fra' urlato dalla madre in un momento di isterismo quando, puntualmente, rientrata dal lavoro, lo trovava stravaccato sul divano, la televisione accesa su MTV e i piatti del pranzo ancora sul tavolo. Ed era Fra', non Francy come quando era piccolo, non il fastidioso Checco che gli avevano affibbiato quell'anno che era andato in vacanza in Puglia e che ancora lo perseguitava, sulle labbra tinte di rosa delle zie. Era Fra' perché era corto, una sola sillaba che si poteva urlare facilmente senza che il tono di voce diventasse troppo acuto, e perché non poteva esaurire il fiato pronunciando il nome del figlio per intero, o non gliene sarebbe più rimasto per continuare, per dirgli che, di quel passo, nella vita non avrebbe combinato niente, che dopo il liceo nessuno lo avrebbe assunto, che non poteva vivere solo di calcio, amici e discoteca, che nella vita i soldi bisogna sudarseli, e la famiglia pure, e che la smettesse di rincoglionirsi con la televisione e andasse a studiare.

A pensarci bene, forse avrebbe dovuto insistere un po' di più, e iscriverlo in una scuola che avrebbe potuto dargli un lavoro dopo il diploma. Ma del senno di poi son piene le fosse e, sinceramente, Claudia preferiva avere un figlio nullafacente con in mano un diploma che aveva scelto, piuttosto che un figlio nullafacente che le rinfacciava di aver scelto al posto suo.

Così si arrabbiava, ben sapendo che non sarebbe cambiato niente, nella speranza che, prima o poi, il cervello di Francesco -anzi, di Fra'- avrebbe trattenuto qualcuna delle sue parole e si fosse deciso a fare qualcosa di serio. Qualcosa di diverso dal passare il sabato sera in discoteca, a bere cocktail dalla dubbia composizione, solo perché lo facevano sentire vivo. Claudia non capiva come suo figlio potesse sentirsi vivo ingurgitando alcool fino al mattino. Non capiva perché avesse la necessità di strafare, di esagerare, di sbagliare, per sentirsi vivo, perché non potesse trovarsi una passione sana, semplice e meno distruttiva, come tutti. Non capiva i suoi momenti no, quando si chiudeva in camera, sbattendo la porta, rifiutandosi di mangiare e di parlare e di come, solo un attimo dopo, potesse scendere le scale con la giacca su una spalla, annunciando che Tizio sarebbe passato a prenderlo per andare a ballare con Caio.

Francesco non era mai stato costante, ne tantomeno abitudinario, nei suoi diciotto anni di vita. Gli amici, eccezion fatta per "quel Santo di Lorenzo" -come sospirava sempre Claudia- cambiavano a ritmi regolari. Una volta erano quelli del calcio, poi la compagnia del sabato sera, qualche compagno di scuola e, perché no, anche quelli dell'oratorio. I suoi interessi pure. Solo un mese prima si era messo a raccogliere francobolli, miseramente abbandonati in uno scatolone dopo poco tempo. E il mese prima aveva svuotato la soffitta alla ricerca dei suoi giochi d'infanzia. Anche quelli trovati, raccolti e rimessi in uno scatolone. Il calcio, come Lorenzo e come l'oratorio, erano le eccezioni che confermavano la regola.

Non aveva mai capito cosa trovasse esattamente suo figlio in oratorio. Che non credesse in Dio era lampante a tutti quelli che avevano voglia di ascoltarlo, così come non andava in Chiesa, non ricordava le feste e criticava la Chiesa alla prima occasione. Eppure in oratorio ci andava sempre, a sedersi sulle panchine di pietra fino a quando non arrivava qualcuno con un pallone.

Francesco amava il calcio come non aveva mai amato niente e nessun altro. Al ritrovarsi un pallone tra i piedi dimenticava tutto il resto. Non c'erano più né gli amici, né la scuola, né tanto meno cose banali come il tempo, lo spazio e il cielo nuvoloso. c'erano solo lui, il pallone e una porta in cui segnare.

All'inizio era la piccola rete di un campetto A5 in duro cemento verde. Poi la rete era diventata più grande, i portieri più bravi. Il cemento era diventato erba, la maglia lisa e sformata di cotone bianco una divisa sintetica di un arancione sgargiante e l'elastico per capelli prestato da qualche ragazzina una seria fascia da capitano.

E Fra' era diventato grande, iniziando a stufarsi dei cartoni animati della mattina, dei pomeriggi dalla nonna, dei libri del Battello a Vapore.

Ogni tanto, nemmeno Lorenzo lo capiva. Ma, cresciuto in mezzo a persone che fingono di essere ciò che non sono solamente per ottenere l'approvazione degli altri, considerava Francesco un mito, perché riusciva sempre ad essere se stesso, benché quel "se stesso" fosse formato da migliaia di personalità, infinite sfaccettature che ogni tanto gli facevano venir voglia di tirargli un pugno, di quelli forti, nella speranza che cambiasse e la smettesse di far cazzate. Gli voleva bene, Lorenzo. Quel bene che si vuole solo ai fratelli, e non gli rimproverava gli sbagli, le bestemmie, i troppi drink, quel continuo provarci con le ragazze. Non lo rimproverava perché i fratelli si appoggiano sempre, perché sperava di cambiarlo lentamente, perché, in cuor suo, sperava che un bel giorno sarebbe cresciuto e avrebbe messo a posto quella testa bacata che si ritrovava. E perché, un po', lo invidiava. Invidiava il modo in cui riusciva a non preoccuparsi di nulla, della verifica del giorno dopo per cui non aveva studiato niente, delle urla di sua madre, della pioggia e del ritrovarsi a piedi, a cinquanta chilometri da casa, alle quattro del mattino. Invidiava la scrollata di spalle con cui riduceva sempre ogni problema, i suoi 'passerà' e 'non pensiamoci', il vivere giorno per giorno, senza preoccuparsi del futuro, dell'università, del lavoro, del mondo; invidiava perfino la faccia tosta con cui ci provava ogni sera con una ragazza diversa, il suo sorriso ammaliatore e le frasi fatte che, però, sulle sue labbra facevano sempre colpo. Lorenzo non avrebbe mai voluto trovarsi avvinghiato ad una ragazza diversa ogni volta che usciva. Avrebbe semplicemente voluto il coraggio di provarci con la ragazza che gli piaceva da due anni, ormai, e che lo trattava come un amico.

Claudia ogni tanto temeva che non sarebbe mai cambiato. Era per quello che urlava sempre così tanto.

Temeva che suo figlio sarebbe diventato un quarantenne fallito, senza aspirazioni nella vita, ridotto ad un lavoro mediocre, delle giornate monotone e weekend davanti alla televisione.

Si sentiva un fallimento come madre: non era nemmeno stata in grado di insegnare a suo figlio come si vive, e come va il mondo.

Solo Lorenzo cercava di consolarla, ogni tanto. Se ne veniva fuori con quel suo sorriso sornione, allargava le braccia, i palmi al cielo e sospirava un 'signora Claudia, Francesco deve solo trovare la persona giusta per lui ' poi scoppiava a ridere, lanciava un'occhiata alla tromba delle scale, in cima alla quale l'amico si stava infilando le sue solite Nike, aggiungendo 'sappia solo che, se dovesse innamorarsi di mia sorella, lo accoppo '. E allora rideva anche Claudia, della gelosia di Lorenzo.

Sara e Lorenzo condividevano buona parte del loro DNA, due genitori atletici e con la passione per i viaggi, la fissazione per le scienze e il giorno di nascita. I 'Gemellini Benni' come li avevano soprannominati anni prima erano nati a pochi secondi di distanza l'uno dall'altro, prima Lorenzo -come precisava fin troppo spesso- e poi Sara, entrambi con gli occhi verdi screziati di marrone e i capelli scuri. Ogni tanto, Teresa si chiedeva come avesse potuto partorire quei due esseri litigiosi e scostanti, in grado di passare dalle moine alle parolacce in pochi secondi, che iniziavano a discutere la mattina alle sette per il bagno, e finivano -quando andava bene- la sera tardi, quando si decidevano ad andare a dormire, sibilando veementi fino a quando il sonno non aveva la meglio su di loro o, più spesso, gli scappellotti del padre non li convincevano a desistere, prima che si svegliasse anche Melissa e iniziasse a piangere, togliendo il sonno a tutti quanti. Fabio andava fiero di quelle due creature che portavano il suo cognome, che amavano il calcio, la MotoGP e pizza e birra la domenica sera. Aveva supportato Sara fino a quando un infortunio non le aveva impedito di continuare a giocare in una squadra seria, e Lorenzo, almeno fino a che non aveva scoperto la boxe, decidendo che era meglio rischiare i denti sul ring che un intervento a gamba tesa sull'erba.

I Gemellini Benni erano cresciuti in simbiosi, sviluppando due caratteri simili, che riuscivano tuttavia a metterli sempre in competizione, condividendo libri di scuola, pastelli, armadio e amici. In particolare, condividevano l'affetto per Francesco, benché questi fosse molto più restio ad ammettere che voleva bene anche a Sara, e non solo perché era la sorella di Lorenzo. Più che altro, Sara aveva ereditato dal padre la capacità di ascoltare in silenzio, di non giudicare e sapeva trattenersi dal fare quelle espressioni di disapprovazione che, invece, spesso comparivano sul viso del fratello.

E poi, lo faceva ridere. Non erano le battute tristi e la goffaggine di Lorenzo. Lo faceva ridere la sua spontaneità, quel modo di vedere sempre le cose in modo diverso dal resto del mondo, le sue storie di fate, ninfe e satiri, in cui nessuno dei due credeva, ma che era sempre bello leggere la sera tardi, con una birra di troppo in corpo e il temporale che infuria fuori dalla finestra.

Ballare con lei lo faceva stare bene. Non avrebbe mai ammesso nemmeno quello, visto che Lorenzo era troppo geloso di sua sorella, e lo avrebbe appeso da qualche parte anche per molto meno. Eppure, nonostante gli sguardi minacciosi del fratello, Sara ballava con lui da quando avevano cinque anni, e la loro maestra dell'asilo gli aveva dato l'opuscolo della loro scuola di danza. Pur non sapendo leggere, erano tornati entrambi a casa entusiasti della coppia di ballerini che vi era stampata, gridando alle madri che anche loro volevano diventare così. Teresa e Claudia avevano riso, si erano telefonate subito, e alla fine avevano deciso di assecondarli, convinte che la cosa sarebbe durata solo qualche tempo -come tutte le passioni di Francesco e come tutte le idee di Sara-. A dire il vero, ogni tanto Francesco di stufava, sbuffava, e le diceva che lui non voleva passare per frocio con quelle camice attillate e le scarpe lucide. Ma Sara lo spingeva un po', faceva qualche smorfia e fingeva di sgridarlo, concludendo con un 'beh, anche se fossi gay, dov'è il problema? l'importante è che non mi molli a metà stagione' e Francesco conveniva che, sì, non aveva senso mollare proprio adesso, che lui non era un perdente e che avrebbero finito l'anno. Tutti gli anni, puntualmente, quella storia si ripeteva, e Francesco non aveva ancora lasciato.

Si diceva che era tutta colpa di Sara, se sprecava due sere a settimana chiuso in una palestra -nonostante gli allenamenti di calcio e le serate in discoteca richiedessero già un notevole sforzo fisico-, ma poi pensava che ballare gli tornava sempre utile per rimorchiare ragazze il sabato sera, e che erano tutti muscoli in più. E poi, non poteva certo lasciarla senza un ballerino così, di punto in bianco, o sarebbe stata lei -e ,per una volta, non Lorenzo- ad accopparlo.

 

Eros studiava scienze naturali alla Statale di Milano, come era costretto a ripetere fin troppo spesso ai suoi fratelli. Per loro era semplicemente un 'ambientalista, che nel tempo libero curava gli animali'. Alessio non avrebbe mai potuto capire perché suo fratello preferisse passare la domenica mattina alla riserva del WWF, anziché girare per le bancarelle del mercato con gli amici. E Matteo era ancora troppo piccolo per capire qualsiasi cosa andasse oltre la scuola, i compiti e il calcio.

Gli anni di differenza li rendevano diversi, incompatibili e decisamente poco legati,  eccezion fatta per il calcio. Roberta ancora non si capacitava di come i suoi tre figli avessero potuto appassionarsi al calcio con un padre che aveva sempre seguito il basket e, colmo dei colmi, far appassionare anche il padre. Dopotutto, non le dispiaceva che una volta alla settimana andassero tutti insieme a fare quattro tiri, convinta com'era che si sopportassero solo per abitudine. Il che era in parte vero. Matteo era nato quando i suoi due fratelli avevano ormai raggiunto la fine dell'adolescenza, più impegnati con gli amici, con la maturità e con le ragazze, per occuparsi anche del fratellino in fasce che piangeva, vomitava e riempiva pannolini. Anzi, Alessio aveva anche tentato di usarlo per rendersi più interessante con le ragazze, ma la madre gli aveva mollato due ceffoni, intimandogli di lasciare a casa il fratello e non farsi vedere per qualche ora. Eros aveva riso di gusto, sentendoselo raccontare, perché non credeva che a delle diciottenni importasse tanto di un neonato, ne tantomeno che suo fratello avrebbe potuto mai conquistarne una così. Maggiore di quattro anni, lo guardava dall'alto, sospirando delle sue stranezze, della sua voglia di libertà e dei suoi musi lunghi. Lui era solare per natura. Anche quando fuori pioveva, anche quando tutto andava male. Perché c'era sempre qualcuno che stava peggio, e disperarsi non serviva a niente. La felicità era semplice: calciare il pallone in porta, una doccia fredda e una birra con gli amici, una serata in discoteca e essere circondati da persone che ti vogliono bene. Somigliava alla madre più di quando non fosse disposto ad ammettere e, in fondo, gli piaceva quando Roberta gli scompigliava i capelli mentre si sedeva a fare colazione e anche quando si preoccupava perché non le rispondeva al telefono. Alessio e Matteo, invece, erano più simili al taciturno Franco, che lavorava tutte le sere fino a tardi, chiuso nel suo ufficio, il computer acceso e la mano sul mouse; che tornava a casa sempre in ritardo per la cena, subendosi puntualmente le sgridate affettuose della moglie, che borbottava mettendogli davanti un piatto di pasta, e poi chiedeva a Matteo di raccontare a papà della scuola. Eros non parlava mai delle sue lezioni all'università. Un po' perché nessuno avrebbe capito quello che esattamente faceva, un po' perché ai suoi genitori interessava che a lui piacesse, che si trovasse bene e fosse convinto di ciò che faceva, un po' perché poi Alessio gli chiedeva di disegnare qualche fiore da esporre nel suo negozio di tatuaggi, e a lui le piante piaceva vederle in un campo, non sulla pelle di qualche ragazzo.

Era tranquillo, Eros, un ventiquattrenne che chiedeva solo di essere lasciato stare per fare ciò che gli piaceva, di andare a giocare a calcio la domenica sera e poi buttarsi a peso morto sul letto ad ascoltare la musica. Alessio diceva che la sua anima doveva essere molto simile al blu, tranquillo, calmo e rilassante. Ma lo diceva solo per avere la scusa di potergli tatuare addosso qualcosa di blu. Eros dubitava che si sarebbe mai fatto fare un tatuaggio ma era sicuro che, nel caso avesse preso una botta in testa con conseguente voglia irrefrenabile di farsi incidere la pelle, sarebbe andato da suo fratello. Giusto per poter picchiare qualcuno nel caso facesse troppo male.

Matteo gironzolava sempre vicino alla porta in noce che dava accesso alla camera dei suoi fratelli, con in mano il libro di storia, nella speranza che qualcuno lo ascoltasse ripetere. Alessio gli passava sempre davanti, scompigliandogli i capelli, prima di scendere le scale di corsa, afferrare il giubbotto dall'attaccapanni e prendere le chiavi della macchina. Così, alla fine, era sempre il maggiore, ad affacciarsi dalla sua camera, chiedendo al fratello se, per caso, gli volesse ripetere la lezione. Lo faceva sedere alla scrivania, si sdraiava di nuovo sul letto e ascoltava al voce incerta, acuta e lievemente balbettante di Matteo che parlava di Carlo Magno, dei Longobardi e dell'Impero Romani d'Oriente. E alla fine Matteo se ne andava contento, con quella sua camminata un po' ciondolante, lasciava il libro sul pavimento della sua stanza e si metteva a giocare ai videogames.

In realtà, Eros non si sentiva legato a suo fratello come credeva giusto che fosse, e non ne capiva il perché. Voleva bene a Matteo -probabilmente meno di quanto ne volesse ad Alessio, ma liquidava al cosa con la scusa della differenza di età- ma non vedeva suo fratello con la stessa ottica con cui i suoi amici vedevano i propri fratelli. Non era solo questione di geni, di passioni e quant'altro. Forse non si interessava abbastanza a ciò che faceva, forse ancora non si somigliavano abbastanza. Anzi, non si somigliavano per niente. Ne aveva parlato con Franco, una sera in cui i pensieri gli ronzavano più del solito nel cervello, alla vigilia di un importante esame che lo aveva costretto a fare un paio di nottate sui libri e suo padre lo aveva consolato con un 'dovresti vedere Sara e Lorenzo, i figli di Fabio. Sono gemelli, ma non lo diresti mai'

Conosceva Fabio di vista, perché era amico di suo padre, e perché l'aveva visto un paio di volte in casa. Sapeva solo che era lavorava insieme al padre. O meglio, Roberta gli aveva detto che gestivano due società complementari. Non che gli interessasse più di tanto: non aspirava a fare il lavoro del padre, non voleva passare la sua vita chiuso in un ufficio, seduto ad una scrivania, a rovinarsi la vista davanti allo schermo del computer.

Sapeva anche che Fabio aveva tre figli, ma ignorava -almeno fino a quel momento- che due di essi fossero gemelli. E la cosa, sinceramente, non gli cambiava la vita.

Aveva escluso i gemelli dai suoi paragoni a prescindere, perché aveva letto da qualche parte che sono dotati di un legame particolare, per nulla paragonabile a quello di due normali fratelli che, invece, si passano qualche anno. e, sinceramente, non gli serviva un altro perfetto legame fraterno che gli facesse pensare a quanto lui facesse schifo come fratello, soprattutto nei riguardi di Matteo.

 

Il negozio di tatuaggi di Alessio non era stato ancora sommerso dalla polvere solo grazie al lavoro certosino di Susanna. Per quanto riguardava il proprietario, si preoccupava solo della stanza in cui effettivamente lavorava, e dei suoi disegni. Era Susanna a bagnare quelle piante che stavano tanto care a Roberta, a spazzare il corridoio e passare lo straccio sul bancone, a preoccuparsi che non finissero i biglietti da visita e che il computer non prendesse qualche virus.

Alessio viveva nel suo mondo fatto di disegni dai colori psichedelici, inchiostro, aghi e forme geometriche. Passeggiava per le vie del centro con la testa per aria e ogni nuvola, insegna o persona gli dava lo spunto per un nuovo disegno. Di quei fogli bianchi, un po' stropicciati, sgualciti e con i margini deturpati da incuranti segni di penna, ne era piena la camera che condivideva con Eros e, ora, anche il negozio. Suo fratello, discreto nel disegno ma totalmente incapace di immaginare, non se ne era mai lamentato. A dire il vero, Eros non si lamentava mai di niente. Non l'aveva picchiato quell'estate che aveva preso l'abitudine di tornare alle cinque del mattino, senza preoccuparsi di fare piano e nemmeno per tutti quei torti che gli era toccato subire quando ancora erano piccoli, perché lui era il maggiore e le colpe erano sempre sue, anche se era perlopiù a causa sua, se si mettevano nei guai.

Alessio vedeva suo fratello come un essere a se stante, indipendente dalla famiglia. Somigliava a Roberta, non vi era ombra di dubbio, ma viveva in casa senza curarsi degli altri. Parlava poco, solitamente a monosillabi, e lui non ricordava l'ultima volta in cui avevano fatto un discorso sensato, se si escludevano gli insulti sul campo e sotto la doccia. Matteo era molto più simile a lui di quando non immaginasse. Al di là dell'aspetto fisico, dove la somiglianza era evidente, e nessuno avrebbe potuto obbiettare che non fossero fratelli, al vederli insieme, il fratellino era cresciuto nel tentativo di imitarlo, quale modello a lui più vicino. Alessio dubitava che sarebbe mai stato un modello positivo, per suo fratello. Eros era quello tranquillo, quello che riusciva ad uscire per fare serata senza venir coinvolto in una rissa, quello delle fidanzate serie, che faceva i compiti il pomeriggio e non faceva mai lo scemo. Eros era calmo, pacato, riflessivo. Tutto il contrario di lui. Eppure, Matteo non l'aveva imitato.

Anche quella mattina, Susanna stava spolverando, intonando a bassa voce il ritornello di una canzone che Alessio non conosceva. La salutò con un cenno del capo, lanciò la giacca sul divanetto e poi vi si gettò anche lui, fissando assente i capelli biondi della ragazza, raccolti in modo sommario con un elastico scuro e le labbra rosee che si muovevano velocemente.

"Come fai a stare con mio fratello?" le chiese. Susanna sorrise, passandosi una mano sulla fronte "Insomma, è un tipo… noioso" il sorriso della ragazza si fece più ampio.

"Eros non è noioso. È solo diverso da te"

"Appunto" scherzò Alessio "no, seriamente, Susi. Come cavolo fai a starci insieme?"

"Mi ha conquistato con una poesia di Ungaretti: San Martino del Carso. Eravamo a fare serata con degli amici, e lui inizia a recitare i primi versi… poi si è messo pure ad interrogarmi! Come potevo dirgli di no?" gli occhi di Susanna erano pieni di gioia. Alessio non capì cosa trovasse di divertente in una poesia di Ungaretti "ho scoperto solo dopo che conosce a memoria solo due poesie: quella e una di Leopardi" e non sembrava nemmeno molto divertente che suo fratello avesse deciso di conquistare una ragazza parlandole di guerra "doveva andare così, Ale" spiegò lei, vedendolo pensieroso "dovevamo stare insieme ed è successo. Ci si conosce, ci si affeziona, è così che vanno le cose" posò le mani sui fianchi e si guardò intorno, soddisfatta "bene, io per oggi ho finito; ci si vede lunedì… buon lavoro"

 

Lorenzo si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi e trovandosi nel suo letto, in testa la certezza di essere terribilmente in ritardo.

Si domandò dapprima perché Sara non lo avesse svegliato, magari gridando, magari insultandolo, perché si mettesse in piedi, facesse colazione e andasse a scuola.

Si tirò a sedere, ritrovandosi nella penombra. Il letto di sua sorella era vuoto e il suo zaino non era al solito posto, in terra accanto alla scrivania. Il suo cervello di profuse in una serie di parolacce, prima di ricordarsi che era sabato. Sabato voleva dire niente scuola, niente sveglie che suonavano ad orari improponibili e, soprattutto, niente Sara tra i piedi fino a mezzogiorno. Sbuffando, si ributtò sul letto e chiuse gli occhi.

Studiare allo scientifico aveva i suoi vantaggi: le versioni di latino si trovavano comodamente su internet, quando proprio non avevi voglia di metter mano al dizionario, e recitare tutta la declinazione a memoria; il sabato niente lezioni; la matematica ben più semplice di quella che toccava fare a Sara; filosofia spiccia, semplice, essenziale. Era bella, la filosofia, ma non gli avrebbe dato da mangiare.

Eppure, in cinque anni ancora non capiva cosa l'avesse spinto ad iscrivervisi. Lorenzo era bravo in tutto, ma non eccelleva in niente, non aveva una particolare predisposizione per una particolare materia: arrivava al sei, al sette, in qualunque cosa si mettesse in testa di studiare. Il liceo scientifico era un buon compromesso: uno studio settoriale come quello che aveva scelto sua sorella lo avrebbe fatto impazzire nel giro di un quadrimestre, le materie pratiche non erano il suo forte, e non si sentiva portato per le lingue, benché avesse studiato spagnolo alle medie e, in fondo, non gli era dispiaciuto. Non aveva neanche dovuto pensarci più di tanto. Era Sara, quella che si dava da fare. Negli ultimi mesi della terza media, mentre lui era impegnato a mettere insieme un'anonima tesina sulla Seconda Guerra Mondiale, sua sorella aveva riempito la camera di opuscoli delle scuole superiori. Lorenzo non aveva dovuto far altro che scartare il chimico -indirizzo poi scelto da Sara-, la ragioneria -di lavorare in banca proprio non gli andava- l'informatico -i computer sembravano avercela con lui- e il classico -imparare anche il greco non era nei suoi piani-. Il liceo scientifico, vicino a casa, con un piano orario semplice, gli era saltato all'occhio, e aveva deciso che lì sarebbe andato.

Francesco aveva deciso pochi giorni dopo. Assodato che, anche a lui, le lingue non erano mai piaciute, e che voleva una scuola che gli lasciasse abbastanza tempo per giocare a pallone, stare con gli amici e, perché no, anche continuare a ballare con Sara, frequentare la stessa scuola del suo migliore amico gli sembrava la cosa migliore, salvo poi scoprire, al terzo anno, l'esistenza di una materia chiamata filosofia, che gli entrava in testa ancor meno delle altre, e di cui aveva già preso due volte il debito. Ma l'aveva scelto lui, era quella la cosa importante. Doveva essere sempre lui, a decidere della sua vita: Francesco era una di quelle persone a cui proprio non va, di farsi mettere i piedi in testa.

 

Melissa, dall'alto dei suoi tre anni, era fornita di un discreto vocabolario, ma le sue preferite erano 'mamma' e 'no', quest'ultima spesso accompagnata da parole come 'letto', 'nanna' o ancora, i nomi dei suoi fratelli. Attraversava quella fase in cui i bambini tendono a dire di no indipendentemente a cosa gli si sta chiedendo. Melissa non voleva andare a dormire alle nove, non voleva mangiare seduta a tavola, non voleva salire in macchina, non voleva stare con Sara e Lorenzo, non voleva andare all'asilo. Teresa aveva imparato a rispondere con fermezza, afferrare la figlia per i fianchi e farle fare ciò che doveva. Ogni tanto si sentiva stanca, troppo stanca, e credeva che non sarebbe riuscita a resistere ancora per molto a quella 'fase dei no', come la chiamava suo marito. Si chiedeva come avesse fatto a crescere due gemelli, quando non aveva la forza per gestire Melissa. Eppure, nemmeno Sara e Lorenzo erano mai stati molto tranquilli. Ed erano in due, contemporaneamente.

Quella mattina, la parola 'no', era accompagnata da 'vestiti'. Melissa, evidentemente, non aveva voglia di vestirsi per uscire, e Lorenzo la sentì distintamente gridare dal piano di sotto, almeno fino a quando la madre non si decise a mollarle uno schiaffo, e le grida si tramutarono in pianto. Conscio che, ormai, non sarebbe più riuscito a prendere sonno, Lorenzo si alzò, deciso a fare colazione e mettersi a studiare per la verifica di storia del lunedì seguente.

Ripensandoci, avrebbe fatto meglio a raggiungere Francesco -anche se, probabilmente, dormiva ancora- e tentare di studiare con lui, visto che quello era l'ultimo anno, e non poteva sperare nelle tre materie a settembre. Cacciò via quel pensiero, non aveva voglia di discutere in prima mattina, e si concentrò sulla colazione.

 

 

   
 
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