Partecipante al contest Watercolor indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio
⌠EFPfanfic⌡.
(la storia non sarà valutata in
quanto scritta da uno dei giudici).
PACCHETTO
VIOLA: dark, horror, mistero.
PAROLE: 3.650 (circa).
«Bimbi e bimbe di ogni età,
ecco qualcosa
che vi stupirà»
Jostein strinse
tra le dita le rendini dell’asinello, tirandolo appena – il suo gesto
assomigliava ad una carezza. Si fermò per far passare due bambine che portavano
un cesto a testa di fiori scoloriti e appassiti.
Tutto era
appassito, in quella città.
Forse era un
bene, per lui.
Riprese a
camminare piano, dentro la carrozza malandata sua figlia si era appena
svegliata: la sentiva borbottare mentre cercava da mangiare, passando poi a
lamentarsi delle pieghe della sua gonna ed infine del freddo.
― Clara?
― chiamò lui, piano, ― Clara! ― riprovò poi, cercando di
guardarsi indietro. Dalle tende vide spuntare una zazzera aggrovigliata che,
con il fumo che danzava sopra di loro e le nubi grigie che coprivano il cielo,
sembrava di un castano spento. Da dove venivano loro, i capelli di Clara erano
ramati.
― Siamo
arrivati? ― dalla sua voce, Jostein percepiva ancora delle tracce del
sonno che si era concessa poco prima. Ritornò a guardare dritto davanti a sé,
immaginando le gonne scomposte di cui si lamentava.
― La città
è questa ― rispose pacatamente, mise per sbaglio un piede in una
pozzanghera ed il suo riflesso si distorse in piccole onde dalle tonalità
grigio scuro. I suoi capelli, meno spenti di quelli di Clara in mezzo al
marciume, parevano lingue di fuoco che spezzavano le nuvole e il fumo dietro di
lui; il suo sorriso era moltiplicato all’infinito.
― Fa
schifo!
Clara ritornò
dentro la baracca su quattro ruote, l’asino fece un lamento di stanchezza e
Jostein rise.
•
• •
― La mamma
avrebbe odiato questo posto ― la voce di Clara si disperse tra le
particelle di polvere e fumo dentro quella stanza. Sebbene la vecchia torre
dell’orologio avesse suonato da poco le quattro, il sole sembrava essere
scomparso, come se fosse già sera.
Una sera chiara,
però, perché invece del blu profondo nel cielo vi era il grigio, decorato dai
contorni sfocati delle nuvole che sembravano minacciare pioggia, ma che non
piangevano mai.
Jostein si
sedette sul ciglio del materasso, accarezzando la corona di capelli della
figlia, sparpagliati sul lenzuolo. Alzò una ciocca, tenendola tra due dita –
assottigliò lo sguardo alla ricerca del suo colore originale, come se dai
propri occhi potesse lanciare fasci di luce, luce vera.
― Non dici
niente? ― di nuovo, la voce della figlia sembrava illuminare la stanza
per qualche secondo, racchiudendoli in una bolla dorata che ricordava i loro
prati e le loro pecore. Anche la madre di Clara aveva il potere di racchiudere
tutto in un modo limpido, dove quello che vedevano brillavano di un colore
senza nome. Per questo Jostein l’amò così
tanto.
― Pensavo
a quanto stai diventando bella ― confessò, abbandonando la ciocca di
capelli prima di tirarsi su, sfilandosi le bretelle dalle spalle che gli
ricaddero sui fianchi come corde. Jostein mosse le braccia in movimenti
circolari, il cigolio del letto catturò la sua attenzione. I tacchetti delle
scarpe sporche di Clara batterono sul parquet malandato, precedendo la sua
voce. ― Hai intenzione di darmi in moglie a qualcuno?
Jostein colse la
nota quasi disperata, scosse la testa e si girò verso di lei, sorridendole.
― Non potrei mai darti in moglie a qualcuno che non ami, mia cara.
―
Piuttosto mi faccio suora.
Jostein rise.
―
Piuttosto ti fai suora ― ripeté, ― suora… ― qualcosa, nella sua testa, prendeva improvvisamente
forma. Batté la mano chiusa a pugno sull’altra aperta, alzando il mento e
schiudendo le labbra. ― Idea! ― esclamò, avvicinandosi alla figlia,
abbracciandola, ― mi dai sempre nuove idee, Clara ― le stampò un
bacio sulla fronte e fece scorrere le dita sulla sua schiena, immaginando per
un momento la curva della colonna della madre sotto le proprie dita.
― Farei di
tutto per te, papà ― era un sussurro, una promessa, un sorriso
trasformato in parole.
― Fai già
tutto quello che puoi fare per il tuo povero, vecchio padre…
La ragazza lo
allontanò, aggiustandogli il colletto della camicia, la cosa più brillante e
pulita in mezzo a tutto quel grigio marcio. ― Non sei tanto vecchio
― lo consolò, ― ma che ne dici di rivestirti e andare a fare quel
che sai fare meglio? Questa città ha
bisogno di colore ― Clara si sedette sul letto, le gonne del vestito
si gonfiarono come dei petali di rosa pronti a sbocciare. Con la mano gli
indicò la porta, muovendola poi come se dovesse scacciare un insetto, ―
forza! Vai, vai ― i suoi denti splendevano come il colletto di Jostein.
•
• •
Più Jostein
affondava i piedi nelle pozze o inciampava sui sanpietrini mal incastrati, più
si rendeva conto che Clara aveva ragione: questa
città ha bisogno di colore.
L’idea di
poterglielo portare, questo colore, non gli dispiaceva. Era come se davanti ai
suoi occhi ci fossero delle lenti grigie che scolorivano e ingrigivano tutto.
Sicuramente, si diceva, era colpa delle ciminiere lontane della Grande Città:
vomitavano su quel piccolo paese i rifiuti degli abitanti. Sembrava di vedere
sulle spalle delle donne e degli uomini che passeggiavano nella sua stessa via
tutti i problemi e le angosce dei poveri e dei ricchi della Città.
Più sono grandi
le città, sosteneva Jostein, più è difficile trovare del colore vero – le industrie producevano colore e lo
mettevano sui vestiti, tutta roba chimica. Per questo lui era fiero di
venire dalla campagna, dove il verde è verde e il rosso dei suoi capelli sembrava
fuoco vero.
Una volta sognò
Clara che perdeva quel rosso nei capelli, lasciando posto al nero, la sua pelle
diventava come quella del cadavere e persino il suo vestito preferito perdeva
quella bellezza naturale. Quel ricordo gli fece venire i brividi e affondò
ancora il piede in una pozzanghera. Tutti gli uomini attorno a lui sembravano
essere diventati come la sua Clara onirica, e Jostein non sopportava di pensare
a come potesse essere frustrante vivere così.
Da qualche
parte, qualcuno suonava uno strumento che lui non conosceva: la melodia
spiegazzata e grave gli entrava nelle orecchie e stringeva il cuore. Jostein
immaginò il proprio organo, rosso di vita, venire lentamente coperto da lampi
grigi – sciupando il suo cuore, consumando i suoi battiti che sembravano sempre
di più una nota spiegazzata.
Si tappò le
orecchie e camminò più velocemente, cercando di evitare le buche e gli
escrementi per terra. Non aveva paura di respirare il fumo e la tristezza
grigia di quell’aria, perché sapeva che non potevano fargli nulla – erano
deboli rispetto a lui, alla sua anima.
Quella canzone invece parlava di lacrime e dolore, ed era qualcosa che Jostein
non riusciva a domare: erano sentimenti che si insinuavano facilmente in quella
crepa che tutti avevano, da qualche parte, nello spirito. Come quel colore che,
in tutte le sue tonalità, non riusciva ad essere accostato con quello della
propria anima.
•
• •
Finalmente le
nuvole piansero. Jostein alzò gli occhi verso il cielo, l’acqua sembrava
evitare accuratamente le sue ciglia, perché non si incastravano tra queste. Gli
colpivano le labbra secche e screpolate, seguivano la curva delle guance e
confluivano sul mento, scivolando via. Ma gli occhi no.
Si appoggiò ad
un muro in pietra, il freddo gli attraversava la giacca e bagnava la camicia,
scorrendo sulla sua schiena. Lo sentiva ovunque, dentro di sé – persino la sua
voce sembrava congelata. L’acqua lo stava avvolgendo e lavava via tutto il
grigio che aveva addosso.
Scivolò
lentamente a terra, stringendosi le braccia contro il petto, i denti battevano
così forte che pensò potrebbero spezzarsi da un momento all’altro. Chiuse gli
occhi, sentendo le ciglia pesanti, chiedendosi se Clara stesse dormendo in quel
buco di locanda. Appena avrebbe smesso di piovere, sarebbe ritornato da lei.
― Signore?
― era la voce di una bambina.
― Becca,
non parlare con gli sconosciuti ― questa, invece, di una donna.
Jostein aprì
piano gli occhi, alzandoli per incontrare il volto della più grande. Sorrise.
I suoi capelli
sembravano spighe di grano al sole – sotto il cappellino viola, erano
perfettamente asciutti, protetti dal grigio della Grande Città.
Jostein sorrise,
e credette di essersi innamorato di nuovo.
― Signore,
vi sentite bene?
La voce della
donna gli arrivò dritta al cuore, come se avesse acceso un fuoco proprio sotto
l’organo. Lo sentiva scaldarsi e il ghiaccio sciogliersi in stille cristalline.
I polmoni gli si riempirono di aria fredda ma che era leggera come farfalle.
Eppure la sua gola era ancora congelata, e per quanto schiudesse le labbra e
provasse a parlare, ne usciva solo un rantolio.
La sconosciuta
sbuffò, diede il cesto coperto che teneva sul braccio alla bambina nascosta
dietro le sue gonne e si avvicinò a Jostein.
― Si
faccia forza, Signore ― gli consigliò, mentre passava un braccio dietro
le sue spalle e provava ad alzarlo. Jostein si sorprese della facilità con cui
lo tirò su: era così leggero?
Camminò
appoggiato alla donna, mettendo un piede dentro l’altro, lentamente. La pioggia
li accompagnò fino a quella che, secondo lui, era la casa della sconosciuta.
•
• •
― Come si
chiama?
― Jostein.
La bambina gli
sorrise, le sue dita erano morbide mentre le sfiorava per prendere la tazza che
gli stava offrendo. ― E tu? ― Jostein osservò il volto tondeggiante
della piccola, le ciglia erano amorevolmente incurvate in su, ma erano scure –
non chiare come quelle della più grande.
― Becca
― si sedette per terra, ai piedi di Jostein, e si mise a giocare con il
lembo della coperta che la padrona di casa gli aveva offerto.
― E quanti
anni hai, Becca?
― Dodici.
― Mia
figlia ne ha sedici.
Il silenzio calò
nella piccola sala da pranzo, il fruscio di gonne della donna precedette la sua
comparsa. Un profumo di mirtilli riempì le narici di Jostein e l’immagine di
quelle bacche viola si impossessò della sua mente. Chiuse gli occhi, come se
potesse rendere quella visione più reale, e il colore più vero.
― Ne mangi
uno, le farà bene. ― lo incitò lei, teneva con una mano un cesto
intrecciato, con l’altra si postava un ciuffo chiaro dietro l’orecchio, ―
sono ripieni di marmellata di more, nulla di più ― continuò poi.
Gli occhi
castani di lei avevano dei riflessi dorati, sottili pagliuzze puntavano verso
l’iride scura come minuscoli fasci di luce. Jostein schiuse le labbra secche e
assottigliò lo sguardo, trattenendosi dall’avvicinarsi all’altra.
― Nome?
― Mi
scusi?
Jostein sospirò,
riappoggiando la schiena alla seggiola, ― il suo nome ― concluse.
― Ava. Lei
è un forestiero? ― cambiò argomento, a Jostein diede l’impressione di non
voler parlare di sé. La bambina si alzò, rubò una pagnotta calda dal cestino e
scomparve dietro il muro.
Jostein si
servì, tenendo la tazza tra le gambe, con le dita staccò un pezzo di pasta dal
panetto e lo assaggiò: era buono.
― Viaggio
con mia figlia Clara, siamo… ― ci pensò un attimo, alzando gli occhi al
cielo, ― una sorta di circensi. O vagabondi, scelga lei come chiamarci.
― Vi
esibirete qui o alla Grande Città?
Jostein scosse
il capo, masticando un altro boccone. La marmellata di more scendeva calda
nella sua gola. ― Qui, assolutamente. Non amiamo le città come quelle.
Ava si sedette
dove prima vi era sua figlia, e aspettò. Jostein alternava i morsi al
manicaretto con i sorsi della bevanda calda – i suoi occhi erano fissi sui
capelli chiari di Ava, la delicatezza della curva del suo naso era adorabile.
― Mi
verrete a guardare? ― domandò infine lui.
Ava alzò il
capo, scuotendo le spalle come se fosse stata svegliata, ― dipende, in
cosa vi esibite?
La risposta non
le arrivò subito: Jostein si tirò in piedi, raggiunse la sedia vicino al camino
e riprese la propria camicia, infilandosela malamente. Prese la giacca in mano
e mise i piedi nelle scarpe senza allacciarle. ― Non posso dirvelo, è una
sorpresa.
Con poche
falcate si avvicinò alla porta, rivolse un ultimo, vivace, sguardo verso Ava,
― confido nella sua presenza, le assicuro divertimento e colori.
L’uscio si
chiuse dietro di lui e il trotto di un cavallo lo riaccompagnò fino a casa.
•
• •
Clara si svegliò
di colpo, facendo ritrarre a Jostein la mano, il movimento fu rapido ed
istantaneo.
― Papà!
La sua voce
riecheggiò nel silenzio della camera e, nello stesso momento, il fuoco
scoppiettò. Quello di Clara sembrava un grido di felicità, quello del camino un
lamento doloroso.
Le braccia della
ragazza gli avvolsero il collo, in un gesto altrettanto naturale, Jostein prese
ad accarezzarle la schiena, affondando il sorriso nei suoi capelli
scompigliati.
― Dov’eri
finito? Sei fradicio! ― commentò lei, scivolando via dalla presa, alzandosi
dal letto e lisciandosi inutilmente i vestiti, ― ti preparo un bagno?
― la sua preoccupazione era adorabile.
Jostein si sfilò
la camicia e le scarpe, mettendosi sul letto, affondando tra le coperte.
― Non stare in pensiero per me, Clara ― la rassicurò, sbadigliando,
― rilassati, leggi se vuoi ― le disse, quasi fosse una concessione.
Alzò le ciglia
chiare nel sentirla camminare verso di lui, il viso della figlia era davanti al proprio. ― Hai trovato
qualcuno che ti può aiutare, domani?
― Sì, tranquilla.
― Ti
daranno buca come al solito?
Jostein sorrise,
allungandosi a dare un bacio sulla fronte della ragazza, ― non
preoccuparti, Clara. Lo spettacolo sarà ugualmente fantastico, come sempre
― la consolò, prima di darle la schiena per riposare.
La giovane si
alzò, sospirando, raccolse da terra la camicia del padre.
Le maniche erano
sporche di rosso.
•
• •
La piazza veniva
attraversata da piccoli gruppi di persone. Sopra le loro teste le nuvole,
grigie ed immobili, stavano a guardare il piccolo carretto e l’asino spazzolato
che lo trainava.
Clara dava da
mangiare all’animale delle carote, tenendo con una mano il legume e con l’altra
un lembo del suo vestito viola, attenta a non sporcarlo. Era il suo vestito per
lo spettacolo, non poteva rovinarlo.
Lasciò una
carezza all’animale e fece il giro dell’abitacolo ambulante, spostando una
tenda color prugna per osservare l’interno: Jostein stava di schiena, la giacca
– viola come il suo vestito – era liscia sulle sue spalle.
― Papà?
― domandò piano, come se temesse qualcosa.
Osservò i
capelli rossastri dell’uomo, innaturalmente rivolti verso l’alto, eppure
puliti. Come se ci fosse qualcosa che li sollevasse. Quando il padre si girò,
notò sul suo viso i lineamenti di una donna, un sorriso rosso scuro gli squarciava
il viso, assomigliava ad una ferita incrostata di sangue. Per quanto lo
guardasse, non riusciva a trovare i punti in cui quella seconda pelle si
fondeva con la prima.
Trattenne il
respiro sentendo parlare quel volto con la voce di Jostein.
― Ci sono
quasi, Clara. Che ne dici di iniziare a raccogliere un po’ di pubblico? ―
e ritornò a trafficare con le sue maschere.
Clara ubbidì,
come faceva tutte le sere in cui si esibivano. Non aveva ancora capito il
perché suo padre si ostinasse a mettersi e togliersi decina di maschere quasi
ogni giorno, sorridendo in modo buffo e facendo strani balletti mentre
impersonava qualcuno a cui quel volto poteva calzare a pennello.
Afferrò i suoi
birilli e iniziò a volteggiare, facendo saltellare gli strumenti da una mano
all’altra. Cantando per dimenticare quel volto – o, più precisamente, quei
volti – che erano arrivati a infestarle i sogni. La sua vita era un teatro con
le tende fatte di maschere senza spessore, esattamente come quelle che usavano
loro.
Un gruppo di bambini
si avvicinarono a lei, dietro di loro le mamme dai visi scavati dal pianto e
qualche uomo. Il gruppetto di infoltì in fretta e ci fu un leggero applauso
alla fine del piccolo spettacolo di una Clara sorridente con i capelli raccolti
e tirati all’indietro.
Quando si chinò
a terra per posare i birilli, notò che l’orlo viola del suo vestito si era
sporcato di fango e altro sudiciume.
•
• •
Jostein aprì le
tende scure, i volti ricamati sopra queste così finemente da sembrare quasi
dipinti si storpiarono in linee senza senso.
Clara rimase
vicino ai bambini per tutto lo spettacolo, abbracciando quelli che, nel
guardare suo padre, si giravano impauriti.
― Te l’ho
detto ti avrebbe stupito! ― sussurrava, accarezzando i capelli scuri ai
piccoli, dietro di sé le madri commentavano con parole che lei non ascoltava.
Aveva gli occhi
fissi su suo padre: al suo modo di mettersi le mani dietro alla nuca e strapparsi via una, due, tre, quattro,
decine di facce diverse. Non sapeva come se le procurava: erano differenti di
volta in volta, e tutte le volte che lei gli chiedeva “il trucco”, lui le
posava un dito sulle labbra e mormorava ― è un segreto ―.
Vedeva quei
sorrisi che perdevano vita una volta strappati dal suo viso che cadevano a
terra tra l’acqua e il fango. Nessuno osava avvicinarsi a raccoglierli, nemmeno
lei. Continuava a guardare Jostein, pregando che quello che vedeva non fosse il
suo volto vero, che non tentasse di strapparsi anche quello – non voleva
ritrovarsi davanti lo scheletro sanguinante del padre.
•
• •
Jostein giocava,
cambiando espressione con la stessa velocità con cui si toglieva una delle sue
maschere.
― La cosa
veramente bella, ― cercava sempre di spiegare a Clara ― è che il
mio volto non cambia mai spessore, piccola ― diceva, sorridendo mentre le
acconciava i capelli in una treccia o in uno chignon.
Ma non le
avrebbe mai detto la verità. Si era promesso questo: non dirle mai da dove venivano
le maschere, sperando che non lo scoprisse da sola.
Sua madre non
aveva fatto una bella fine.
Si strappò di
dosso l’ultimo volto, regalando un sorriso ad Ava, al centro del pubblico. I
suoi capelli di sole spiccavano in mezzo al grigio della città – era più
intenso della figura di Clara. Lo rapiva totalmente.
Ava sorrise e
dalle sue labbra sfuggirono raggi di luce, che attraversavano la città e
mostravano il suo colore originario: vedeva il bianco brillante del marmo, il
verde delle lenzuola e l’azzurro degli abiti.
Si inchinò,
arrivando a sfiorarsi la punta delle scarpe con le dita. Ammirò i volti caduti
a terra che lo fissavano con la stessa espressione dei loro proprietari quando
Jostein li uccise.
Si concentrò sui
lineamenti duri dell’ultimo viso che padroneggiava su quel piccolo cumulo:
ricordava la persona a cui appartenevano, a quell’uomo seduto sul ciglio della
strada.
•
• •
― Signore,
signore ― lo aveva chiamato, piano, allungando una mano ad afferrargli i
pantaloni. ― Una moneta, signore. Avete una moneta?
Jostein ricordò
di averlo fissato a lungo, studiando i suoi occhi stanchi, scuri, dello stesso
colore dei pochi capelli che aveva attaccati
alle tempie per la pioggia come fossero righe scavate dalle lacrime.
Gli aveva fatto
pena, compassione, e anche rabbia: se ne stava lì, lamentandosi e piangendo
senza cercare la forza di rialzarsi. Jostein sospirò, infilando la mano in
tasca e lanciandogli un nichelino, lo vide gettarsi con tanta avarizia sulla
monetina che ebbe l’impulso di sputargli.
Ma no, poteva
offrirgli di meglio che una moneta – Jostein non era… cattivo.
― La
ringrazio, signore ― lo vice strisciare per terra e baciargli le scarpe.
― Se vuoi
ringraziarmi davvero ― continuò Jostein, osservando la linea dura dei
suoi zigomi, ― che ne dici di venire un attimo con me? Ho bisogno di una
mano ― continuò e, come si aspettava, il vagabondo non rifiutò.
Si avvicinarono
silenziosamente al carretto, il mulo sembrava non accorgersi della loro
presenza. I rumori erano minimi, la sensazione che si impossessava del corpo di
Jostein era febbricitante. Alzò le tende per far passare il buon uomo, lo fece
sedere e si accomodò davanti a lui, accendendo una lampada ad olio.
― Cosa
siamo venuti a fare, qui? ― chiese lo sconosciuto, sembrava preoccuparsi.
Ma aveva offerto il suo aiuto a Jostein.
― Lei sa
chi sono?
― Un…
― iniziò, grattandosi la barba incolta e grigiastra, ― forestiero?
― e fece l’errore di guardarlo negli occhi.
Perché Jostein
stava sorridendo in un modo folle, gli occhi erano diventati scuri, profondi
come due pozzi, ma scintillavano del loro colore originale. I capelli si
muovevano con la brezza che si infiltrava come lingue di fuoco occupate a
divorare anime di peccatori.
Si avventò sullo
sconosciuto, mettendogli una mano sulla bocca, facendogli cozzare la testa
contro i cardini che tenevano unite le lastre di legno. Sangue caldo scivolò
nella sua mano, bagnandogli la giacca e la camicia.
Gli occhi
dell’uomo si ribaltarono all’indietro, le spalle si abbandonarono, mosce e
Jostein fu quasi convinto di vedere l’anima uscire dal corpo attraverso le
fessure tra le sue dita.
Afferrò un telo,
lasciando il pugnale nel petto, e avvolse il torace dell’uomo, si sedette,
spostando il fantoccio senza vita in modo da avere il suo viso sulle gambe.
Allungò le mani
e con indice e medio della destra scavò nelle orbite, svuotandole dei bulbi,
con un’altra lama iniziò a tagliare meticolosamente la pelle dalla base del
collo fino alla radice dei capelli, tralasciando le orecchie. Vedeva la carne e
il sangue che disegnavano ghirigori sulle sue dita, come la traccia di due
farfalle che si rincorrono.
― Le
labbra sono sempre le più difficili ― commentò tra sé e sé,
assottigliando lo sguardo mentre cercava di concludere il suo lavoro.
Sapeva già dove
buttare via il cadavere, una volta recuperata la sua maschera: nel
fiumiciattolo dove aveva gettato tutti gli altri, quello scorrere nero di
rifiuti della Grande Città.
― Sarà uno
spettacolo bellissimo ― commentò, avvolgendo la pelle dell’uomo negli
stracci, chiudendola nel baule insieme alle altre. Aveva ripreso a piovere, era
un bene: il sangue se ne sarebbe andato via prima.
•
• •
― L’ho
fatto solo per Clara ― sussurrò, facendo un passo indietro e chiudendosi
la tenda davanti, ― per Clara e per questa città ― concluse.
Era una magia
semplice, come quella di un mangiafuoco o di un contorsionista. Lui lo faceva
con delle maschere: volti di persone che non meritavano abbastanza la vita,
almeno secondo il suo criterio.
Non aveva fatto
nulla di male.
Solo spacciato
un po’ di sorrisi qua e là.