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Autore: Framboise    20/05/2014    5 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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CAPITOLO 5:


I mercenari camminavano lenti sul sentiero, dirigendosi verso il campo di battaglia. Trovare la strada era semplice: bastava dirigersi verso il luogo da cui vedevano allontanarsi i profughi. In quei giorni Eufemia ne aveva visti tanti, di quei fuggitivi. Alcuni si muovevano da soli, portando con sé le poche cose che erano riusciti a portare via dalle loro case prima di abbandonarle, ma erano perlopiù intere famiglie provenienti dalle fattorie del contado che andavano a cercare rifugio dalle razzie dei nemici nel Comune. La maggior parte di loro si spostava a piedi, con i vestiti sudati e sporchi della polvere che si alzava dalla strada ad ogni passo, mentre i più fortunati viaggiavano su dei carretti malandati sui quali avevano stipato i loro pochi averi ed i loro innumerevoli figli: aveva visto una giovane madre con uno scialle consunto di lana grigia che con un braccio stringeva a sé un bambino di pochi mesi, attorniata da almeno altri cinque marmocchi che le si erano avvicinati repentinamente quando avevano incrociato i soldati. Mentre passavano loro accanto, i piccoli li avevano guardati con occhi grandi e spaventati, atterriti dalla vista delle loro armature arrugginite e delle loro armi. Alcuni mercenari li avevano ignorati, altri avevano tentato di rivolgere loro dei sorrisi che però erano serviti solo a spaventarli di più. Wiligelmo aveva trovato nella sua bisaccia alcuni avanzi di carne che avevano cucinato il giorno prima e l’aveva offerta alla donna, nonostante le proteste non troppo velate di molti suoi commilitoni. Quest’ultima aveva mormorato un ringraziamento mentre il carro si allontanava, accompagnato dal cigolio delle ruote e dagli sbuffi del vecchio cavallo che lo trainava. In quell’istante la ragazza si era resa conto che quella contadina non sembrava molto più grande di lei, forse di tre o quattro anni al massimo.
«Santo cielo» si lasciò sfuggire, guardandoli scomparire all’orizzonte «Questo è già il terzo gruppo che vediamo oggi, senza contare quelli che abbiamo incontrato nei giorni scorsi. Finiranno tutti a chiedere l’elemosina per le strade della città!»
«Meglio vivi e mendicare che morti» replicò Alois con un sorriso sghembo.
«Questo è poco ma sicuro... anche se mi chiedo come faranno a sfamare tutti quei figli».
«Io invece mi chiedo come faremo a campare noi! Non avresti dovuto dare a quei pezzenti il nostro cibo!» sbottò all’improvviso uno dei soldati, un uomo grande e grosso senza un occhio. L’aveva perso durante un incendio, le aveva raccontato Wiligelmo pochi giorni prima: da ragazzo era rimasto intrappolato nella propria casa in fiamme, quando essa era stata attaccata dall’esercito nemico. Era riuscito a fuggire appena in tempo con i propri genitori, ma il fuoco gli aveva divorato gran parte del volto, sfigurandolo. Nonostante questa menomazione, era uno tra i mercenari più temuti: aveva imparato a combattere servendosi al meglio dell’unico occhio rimanente e di tutti gli altri sensi. I suoi compagni d'arme lo chiamavano "il Guercio", ma questo soprannome veniva usato con rispetto e persino con timore.
«Smettila. Erano rimasti pochi pezzi, non sarebbero comunque bastati a sfamarci tutti» replicò freddamente il falconiere.
«Forse, ma ora non abbiamo più niente ed il rancio non arriva da giorni!» gridò l’altro, ergendosi in tutta la sua altezza ed avvicinandosi minacciosamente al suo interlocutore.
Wiligelmo si mosse repentinamente, portando la mano all’elsa della spada. I suoi occhi, di solito fermi e decisi, si erano assottigliati ed avevano assunto una luce pericolosa. «Allora digiunerai, come faremo tutti! Ricordati che qui sono io che procuro il cibo, quindi posso farne ciò che voglio!» ruggì, in tono tanto minaccioso che il suo commilitone indietreggiò. Sul suo si disegnarono rabbia e disprezzo: la ragazza era sicura che da un momento all’altro avrebbe attaccato il falconiere e si preparò ad intervenire, ma ad un tratto l’uomo sputò per terra, si voltò e si allontanò imprecando. I mercenari che si erano riuniti attorno ai due ricominciarono a camminare, alcuni delusi dalla brusca conclusione della lite, ma altri sollevati che non fosse degenerata.
«Lodovico, non preoccupa tu. Lui fa spesso così, ma mai attacca Wiligelmo» mormorò in quel momento Alois, affiancando la ragazza.
«Perché?» sussurrò lei di rimando, incuriosita suo malgrado.
«Sa che lui è troppo forte e che non poter... no, non potrebbe vincere» replicò il ragazzo, alzando le spalle. I due proseguirono per un po’ in silenzio, poi ad un tratto lo straniero parlò.
«Hai paura?»
«Di che cosa?» gli domandò Femia, stupita.
«Noi stare andando in guerra... tu non ci sei mai stato. Sei s... s...» cercò di spiegarle lui, ma dopo alcuni tentennamenti rinunciò a terminare la frase.
«Spaventato?» gli venne in aiuto la ragazza. La frase la colpì: fino a quel momento non si era quasi posta il problema, era stata troppo occupata a tenere celata la sua vera identità agli altri soldati. “Ormai niente può più spaventarmi” pensò cupamente. “Il destino che mi aspetta se combatterò non è molto diverso da ciò che dovrei affrontare se scoprissero che sono una donna, o che ho ucciso il mio promesso sposo”. Cercò di pensare ad una risposta che non la facesse sembrare né una smargiassa, né una codarda: non voleva insospettire gli altri mercenari dimostrandosi troppo sfrontata o troppo pavida.
«Non lo so. Insomma, è come hai detto tu: non ho mai combattuto, posso solo immaginare come sia... ma in ogni caso lo scoprirò presto» replicò, forse più seccamente di quanto non fosse nelle sue intenzioni. Alois annuì, serio.
«Hai ragione. Presto toccare a noi».
«Si dice “toccherà”!» lo avvisò lei, nascondendo un sorriso.

La sera stessa si fermarono a riposare in una cascina abbandonata che incontrarono lungo la strada. Era una lunga costruzione di mattoni schiariti dal sole, con davanti un piccolo orto del tutto spoglio. Ad una prima occhiata sembrava che i proprietari l’avessero lasciata per rifugiarsi nel vicino Comune, come era successo alle altre che avevano visto, ma non appena entrarono, i soldati vennero assaliti dall’odore penetrante e metallico del sangue: un sentore che tutti loro conoscevano fin troppo bene. I primi ad entrare si arrestarono improvvisamente.
«Che cosa...» domandò Eufemia, ma subito la domanda le morì in gola: aveva visto qualcosa sul pavimento. Quando gli uomini che le stavano davanti si spostarono, vide che si trattava di un uomo riverso a terra, circondato da una pozza di sangue, con taglio lungo e slabbrato che gli attraversava la gola da parte a parte. Una rapida ispezione rivelò anche i corpi di una ragazza e di un bambino piccolo, che presentavano anch’essi delle profonde ferite. I pochi mobili della casa erano rovesciati e la dispensa era spalancata e vuota: era evidente che i proprietari dovevano essere stati sorpresi da una razzia dei nemici e che erano morti nel tentativo di difendere ciò che possedevano.
«Il sangue è ancora fresco, non è passato molto tempo da quando li hanno uccisi» mormorò in quel momento Agilulf. Femia lo osservò, stupita: non si era accorta della presenza del comandante.
«Fate attenzione, potrebbero essere ancora qui intorno».
In quel momento si udì un rumore provenire dalla stanza accanto e subito i mercenari sguainarono le loro armi, pronti ad attaccare. Visto che il suono si ripeté nuovamente, Alois e la ragazza, i più vicini, si avvicinarono silenziosamente alla porta e la spalancarono con violenza, rivelando il corpo di qualcuno che si trascinava sulle assi di legno del pavimento. Era una donna di forse quarant’anni. I capelli neri in cui si intravedevano dei fili argentati inizialmente dovevano essere stati raccolti in una crocchia dietro la testa, ma ora si erano sciolti e spiovevano in lunghe ciocche disordinate sul suo volto insanguinato. Aveva il respiro affannoso e rantolante e strisciava faticosamente verso di loro aiutandosi con le braccia. Eufemia istintivamente si precipitò verso di lei, lasciando cadere la spada. Solo vagamente consapevole del fatto che anche altri soldati erano entrati nella stanza, prese la donna tra le braccia e la strinse a sé.

“È la stessa cosa che facevo per tranquillizzare Maria, quando era piccola e mi svegliava in piena notte per un incubo...” le venne da pensare, ma il ricordo svanì subito: il liquido scuro che la ricopriva era fin troppo reale, così come i rantoli della sconosciuta, che le stringeva disperatamente una mano conficcandole le unghie nella carne.
«I soldati... nemici... sono stati loro...» mormorò quest’ultima, con voce roca e quasi inintelligibile.
«Lo so. Non preoccuparti, adesso qualcuno ti curerà. Starai bene» cercò di rassicurarla la ragazza, anche se sapeva che non era vero. Nel sentire queste parole, Alois scosse la testa e si indicò lo sterno, nel posto dove approssimativamente dovevano trovarsi i polmoni: si trattava di una ferita mortale.
«Mio... mio figlio» boccheggiò la donna, stringendo ancora di più la presa sulla mano della ragazza.
«Lui... è con noi» mentì Eufemia, ricordando il bimbo visto appena entrata nella cascina. «Non preoccuparti. Starà bene. Quando starai meglio ritornerà con te».
«Graz...» cercò di replicare l’altra, ma venne interrotta da un attacco di tosse che la scosse dalla testa ai piedi. Cercò di dire qualcosa, ma improvvisamente i suoi occhi si appannarono e si afflosciò a terra senza più muoversi, facendosi d’un tratto molto più pesante.
La ragazza non la lascò. Avrebbe voluto scuoterla, svegliarla, ma sapeva che sarebbe stato inutile.
«Lodovico, tu lascia lei. È morta».
Femia si voltò, trovandosi faccia a faccia con Alois. I suoi occhi verdi, di solito sorridenti, erano velati e lucidi.
«Almeno seppelliamoli. Non possiamo lasciarli così» replicò la ragazza, stupendosi della propria voce, roca e decisa. Nonostante il groppo che si sentiva in gola, non c’erano lacrime sul suo viso. Non avrebbe pianto, non davanti agli altri uomini.
«Certo» rispose in quel momento la voce di Agilulf, che nel frattempo si era avvicinato a loro e li fissava con sguardo duro. I suoi occhi sembravano la lama di una spada: erano freddi, penetranti ed erano animati da una luce pericolosa come lo scintillio del sole su una lama affilata. «Qualcuno cerchi qualcosa per scavare. Muoversi!»

Senza quasi rendersene conto, la ragazza si ritrovò sul retro della casa stringendo in mano una vanga che un suo compagno d’arme aveva trovato chissà dove. La spingeva con violenza nel terreno duro, rivoltando le zolle di terra. In breve le mani cominciarono a dolerle, ma non si fermò: scavava con accanimento, mentre continuava a vedersi davanti agli occhi la scena di poco prima. Accanto a lei, Wiligelmo scavava in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto ed il sudore che colava lungo il volto. Quando ebbero finito, alcuni uomini calarono i corpi nella fossa, poi li ricoprirono di terra. I mercenari rimasero per un attimo attorno alle tombe, in silenzio e a testa china. Nessuno di loro sapeva cosa dire. Erano quasi tutti uomini abituati alla violenza e alla morte, che avevano abbandonato da tempo la speranza che esistesse un qualsiasi Dio che in un’altra vita avrebbe ricompensato i deboli e gli innocenti: nella loro esperienza, le persone di questo tipo erano le prime a soccombere. Nessun Salvatore avrebbe permesso scempi come quelli che avevano visto e vissuto sulla propria pelle, ecco perché nessuno di loro accennò una preghiera davanti al tumulo. Semplicemente, pochi per volta, si allontanarono.
Aglilulf si incamminò insieme ad Eufemia.
«È la prima volta che vedi qualcosa del genere, vero?»
«Sì, signore».
«Ci farai l’abitudine, ragazzo. La guerra è così: vengono sempre coinvolte le persone che non possono difendersi. È per questo che ci siamo noi» replicò l’uomo. In quel momento sembrava più vecchio dell’età che inizialmente la ragazza gli aveva attribuito: le rughe sembravano più profonde, le guance più scavate. Nonostante ciò, sembrava emanare forza, come sempre. Forse era l’unica cosa stabile di quel mondo tanto violento e precario, pensò lei.
«Capitano... li fermeremo, vero? Non lasceremo che lo facciano di nuovo. Non li faremo arrivare alla città» gli domandò all’improvviso. Subito dopo si rimproverò per l’ingenuità di quella domanda: erano mercenari, combattevano per il miglior offerente. Nessuno di loro aveva legami con il Comune, tranne pochi; il loro unico signore era il denaro.
Il comandante non rispose subito. La guardò pensieroso per qualche secondo, poi gettò indietro la testa.
«Certo che no. Non li lasceremo entrare in città» disse, con un sorriso storto. «Anche a costo di dover resistere fino all’ultimo uomo».

Dopo alcuni giorni in cui avevano camminato ininterrottamente per miglia e miglia, arrivarono alle retrovie del campo di battaglia. Era il posto più affollato che Eufemia avesse mai visto: le ricordava la piazza del mercato nei giorni di festa, o un formicaio in piena attività. C’erano uomini che correvano in ogni direzione, soldati che trasportavano i loro commilitoni feriti, corpi a terra e cavalli che scalciavano per la paura, il tutto unito alla cacofonia di voci, grida di dolore, ordini e nitriti delle bestie.
La ragazza si guardò intorno. Gli uomini accoglievano i nuovi arrivati con gratitudine, mentre si addentravano in quella massa brulicante di persone.
«Finalmente! Adesso potranno darci il cambio!»
Vide Agilulf  e Ruggero parlare con un uomo dall’aria stanca e distrutta, con un braccio fasciato alla bell’e meglio con una benda sporca che sembrava essere stata strappata dalla sua stessa camicia. I tre parlarono per alcuni minuti, consultando una mappa sgualcita che il ferito stringeva tra le mani, indicando alcuni punti sul foglio e discutendo le modalità dell’attacco. Ad un certo punto, il capitano congedò il suo interlocutore e si diresse verso i mercenari, seguito a poca distanza dal luogotenente.
«Adesso tocca a noi. Geri guiderà metà di voi: il vostro compito sarà quello di accerchiarli ed attaccarli da dietro mentre il resto di noi li terrà impegnati in un combattimento frontale» spiegò in tono deciso e spiccio. In breve divise gli uomini in due gruppi: Alois ed Eufemia vennero assegnati entrambi a quello del luogotenente.
«Buona fortuna, Lodovico» le augurò Ruggero in tono viscido e minaccioso, ostentando un ghigno compiaciuto: adesso sì che il novellino avrebbe avuto ciò che si meritava.
Tutti gli altri mercenari trasalirono, guardando impensieriti la ragazza.
«Porta male augurare buona fortuna prima di uno scontro!»
«Non preoccupatevi» li rassicurò lei, cercando di sembrare più convinta di quanto in realtà non fosse, poi si voltò verso l’uomo.
«Anche a lei, signore» rispose, imprimendo il proprio disgusto in ogni lettera dell’ultima parola.
Geri la fulminò con lo sguardo, poi le voltò le spalle gridando:«Uomini! Seguitemi!» e si incamminò verso il campo di battaglia, seguito dai soldati.

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Eccomi con il nuovo capitolo! Il prossimo dovrebbe arrivare (come promesso) entro la fine di maggio. Spero che questo vi sia piaciuto... :)
Fra

  
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