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I membri della squadra si
guardarono attorno, non riuscendo a capacitarsi di ciò che avevano dinnanzi
agli occhi.
Il Megonia, la nave più esclusiva che si fosse mai vista, sembrava
essersi trasformata in un vascello fantasma, svuotato di tutti quegli
industriali, conti, magnanti e altri pezzi grossi che
sborsando cifre improponibili per i comuni mortali si erano voluti regalare
quel viaggio da sogno.
Nessuno,
neppure Georg, sapeva cosa pensare, e la situazione divenne ancor più
angosciante quando Vincent, avventuratosi nel cuore della stanza per cercare di
capire meglio cosa avesse provocato quella baraonda, trovò in terra una macchia
rossa dall’origine inequivocabile.
«Qui c’è
del sangue» disse tastandolo.
Fu come
il suono di un allarme, che, semmai ve ne fosse stato bisogno, fece salire
ulteriormente la tensione.
Una dopo
l’altra, a ben cercare, non fu difficile localizzare altre pozze più o meno
grandi in vari punti della sala.
«Mio
Dio, c’è sangue dappertutto» mormorò Ulrich.
Georg
sentì nuovamente quel brivido.
A questo
punto, la teoria dell’attacco pirata non appariva più così campata per aria; ma
se questa era la verità, che ne era stato dei corpi?
Perché
dei pirati, interessati solo a fare soldi e scappare a tutta velocità prima
dell’arrivo di qualche pattuglia, avrebbero dovuto prendersi il disturbo di
fare una strage tra i passeggeri, e fare oltretutto sparire i cadaveri?
La cosa
si stava facendo paradossale, e tra i giovani il nervosismo era evidente.
«Ma si
può sapere che diavolo è successo qui?» si domandò Klaus «Dove sono spariti
tutti?»
«È una
cosa senza senso.» disse Amanda «Niente corpi, solo sangue.»
«Datevi
una calmata!» ordinò perentoriamente Georg. «È proprio per scoprire cosa è
successo che ci hanno mandati qui, ricordate?
Se voi
signorine vi lasciate impressionare da così poco non sopravvivrete cinque
minuti. Quindi ora mente sgombra, culo stretto e sangue freddo, mi sono
spiegato?»
«Sissignore.»
risposero i cadetti, ma nessuno con vera convinzione
«Bene»
replicò Georg fingendosi soddisfatto. «Come prima cosa, cerchiamo di capire se
questa bagnarola può ancora funzionare. Dobbiamo tirarla fuori da questo cono
oscuro, così potremo ripristinare il contatto con Celestis.
Drassimovic e
Trenton, alla sala di controllo. Debois
e Castaldi, ponte di comando. Keys e Gerth, salone
principale e ponti passeggeri. Io e Krietzmann
esploreremo i livelli inferiori e la stiva.
Tutto
chiaro?»
«Sissignore!»
dissero tutti in coro
«E
allora forza, chiappe in spalla! E teniamoci in contatto radio!».
Quasi ogni punto della nave
poteva essere raggiunto attraverso varie rampe di scale, alcune pubbliche altre
riservate al personale, ma vi erano zone, soprattutto quelle di alta sicurezza,
accessibili solo tramite ascensori a riconoscimento.
Tra
queste zone vi era la sala di controllo, a cui si accedeva per mezzo di un
ascensore che scendeva direttamente al Ponte H. Teoricamente questi ascensori
“sensibili” dovevano poter funzionare anche in caso di guasto all’alimentazione
principale, ma visto come erano ridotti i sistemi del Megonia,
Ulrich e Vincent non nutrivano grandi speranze di
trovarlo ancora attivo.
Ma la
fortuna, una volta tanto, aveva voluto essere dalla loro, e raggiunte le porte
sul Ponte B i due agenti si avvidero che l’ascensore, incredibilmente,
funzionava ancora.
C’era
solo un piccolo problema.
«Sarà
anche in grado di muoversi, ma come lo usiamo?» mugugnò Vincent indicando il
pannello di sicurezza. «Senza una di quelle carte di riconoscimento questo
affare non si muove, e non so tu ma io non ne ho nessuna sottomano.»
«Non
serve la carta.» rispose Ulrich collegando il suo
terminale e prendendo subito a lavorare.
Nel giro
di quindici secondi, il sistema fu bypassato, e le porte dell’ascensore si
aprirono placidamente davanti a loro lasciando Vincent con gli occhi sul fondo
del naso.
«Basta
un buon computer.»
«Ora
capisco perché il Capitano ti ha voluto per questa missione» sorrise Hawk Eye «Forza, dentro».
Con
l’ascensore scesero fino al ponte desiderato, ma anche qui trovarono ad
attenderli solo oscurità, silenzio e nessun’anima viva.
«Qui diventa
sempre più inquietante.» osservò Vincent, che con il mirino ad infrarosso del
suo fucile cercò di fendere l’oscurità meglio di quanto non facessero le torce.
Lungo il
corridoio, come previsto, non vi era nessuno, ed in lontananza si poteva
scorgere la porta della sala controllo.
«Via
libera, procediamo».
A rigor
di logica, anche quella porta avrebbe dovuto essere saldamente chiusa. Ma
piuttosto del fatto di trovarla allentata quanto bastava da poterne aprire
manualmente le ante a colpire i due agenti furono più che altro le condizioni
in cui era ridotta: accatastati in un angolo vi erano una mazza, uno scalpello
di fortuna e vari altri attrezzi da scasso, e le due ante della porta erano
state visibilmente percosse con una certa violenza, tanto che la chiusura ermetica
alla fine doveva aver ceduto sotto il peso di tutti quei colpi.
Inoltre,
il lettore di tessere sembrava disattivato, il che probabilmente era ciò che
aveva spinto chicchessia a tentare quella misura disperata.
Vincent
buttò un occhio all’interno, e il vedere scintille che sprizzavano di quando in
quando da una fonte non meglio identificata fu come la prova evidente che lì
dentro doveva essere accaduto qualcosa di serio.
«Non
promette nulla di buono. Prudenza».
Ulrich si
appoggiò al muro, e ricevuto il via libera dal partner aprì fulmineo la porta
permettendogli di entrare per poi varcare la soglia a sua volta; fecero
irruzione fucili alla mano, già pronti a rispondere a qualunque minaccia, ma
tutto ciò che trovarono fu il nucleo centrale con la parete protettiva divelta
e apparentemente in pieno corto circuito, oltre ad una quantità abnorme di
sangue che come un tappeto rosso ricopriva non solo il pavimento, ma anche e
soprattutto la console di comando.
«E
questo cos’è?» domandò Vincent, che pure era abituato a spettacoli di quel
genere. «Il mattatoio della nave?».
Per
nulla impressionato da quella scena cosi macabra Ulrich
mosse una mano sopra le pozze di sangue, facendole scomparire nel nulla sia dal
nucleo di memoria che dalla console.
«Allora
non sei solo un nerd da computer, dopotutto.» rise Vincent, che poi rivolse la
sua attenzione sul nucleo. «Sembra conciato piuttosto male. Ora mi spiego
perché qui è andato tutto all’aria.
Pensi di
poterlo aggiustare?»
«Non con
i mezzi che abbiamo» rispose il giovane, già intento ad armeggiare con i
computer. «Ma forse posso ripristinare alcune funzioni isolando le zone
danneggiate del sistema operativo.»
«Ah,
capisco» rispose Hawk Eye,
che in realtà non ci aveva capito niente.
Come Ulrich provò ad avviare il computer, però, tutti gli
schermi si illuminarono di rosso.
«Che
succede?»
«Accidenti.
Sembra che tutti i firewall siano attivi. Qualcuno deve aver provato a forzare
l’accesso.»
«Probabilmente
la stessa persona che ha fatto il diavolo a quattro per entrare qui dentro,
dovunque sia finita.»
«Ci
vorrà un po’ per riuscire a violarli tutti. Tu intanto mettiti comodo.»
«Certo,
come no? Mi farò un pisolino. Tanto qui non sta succedendo niente di che,
giusto?».
Di tutti i cadetti che
aveva avuto occasione di conoscere e addestrare nelle tecniche di infiltrazione
e contrasto silenzioso in cui era maestra, Joe Debois
era certamente quello dal quale Helen era rimasta maggiormente colpita.
Le sue
abilità erano molto al di sopra della media degli altri agenti operativi,
avvicinandolo al livello dei professionisti navigati, al punto che Sleeping
Beauty quasi non riusciva a spiegarsi perché qualcuno avesse voluto inserirlo
in quel corso invece di promuoverlo direttamente Agente scelto, o addirittura
caposquadra.
Poi,
leggendo il suo stato di servizio e la relativa scheda, aveva cominciato a
capire.
Quel
ragazzo era speciale.
«Ho
letto la tua scheda» disse d’un tratto così, per rompere il silenzio e
allentare un po’ la tensione. «Tu sei un Ranger».
Se Celestis e le sue città, per non dire le sue intere
nazioni, avevano potuto vedere la luce, lo dovevano in egual misura alla
volontà ferrea dei suoi coloni e all’operato indispensabile dei Ranger.
Quando i
primi terrestri avevano deciso di avventurarsi al di fuori dei primi insediamenti
dando via all’opera di colonizzazione vera e propria, come subito dopo l’arrivo
sul pianeta, avevano trovato ad attenderli territori inesplorati ed una natura
alle volte ostile.
Tra i
troll della montagna, i worrold delle foreste e gli anuk delle praterie, Celestis
abbondava di specie più o meno pericolose, senza contare le conoscenze
indispensabili per garantire la sopravvivenza di una comunità, conoscenze che i
coloni alle volte non possedevano.
I Ranger
erano nati come corpo volontario puramente civile, ma nel giro di pochi anni
erano diventati prima una unità paramilitare vera e propria e poi, in seguito,
un corpo scelto di molte nazioni che grazie a loro erano riuscite a sorgere, e
a cui avevano affidato la custodia degli insediamenti più distanti ed
inaccessibili nell’attesa di dare vita a più efficaci vie di comunicazione e
collegamento.
Le loro
competenze spaziavano dall’esplorazione alla caccia, fino alla cura del
bestiame e alla salvaguardia di quella natura da cui, alle volte, erano chiamati
a difendere gli esseri umani; inoltre impedivano fenomeni come il brigantaggio,
le ruberie e le scorribande dei predoni, tutti problemi che stando ai libri di
storia erano stati tutt’altro che sporadici nei primi cinquant’anni di
colonizzazione.
E in quanto
a retaggio famigliare, Joe aveva di che vantarsi per generazioni.
I suoi
antenati avevano aperto la strada ai coloni che nell’anno 12 avevano fondato Eldkin, la terza città di Caldesia,
inoltre avevano avuto un ruolo fondamentale nella salvaguardia delle molte
realtà minori nate tutto attorno alla zona metropolitana, come Pondrith, Olster e Amadar.
Negli
anni, però, molte cose erano cambiate.
Con la
fine del periodo coloniale i Ranger avevano visto ridursi notevolmente le
proprie mansioni operative, e la pacificazione portata dall’istituzione di
apposite forze di polizia aveva reso superfluo anche il loro ruolo di garanti
della legge. E se in alcune parti del mondo, ad esempio ad Eyban,
dove le notevoli dimensioni territoriali punteggiate da piccoli borghi molti
distanti tra loro permettevano ai Ranger di risultare ancora la forza di ordine
pubblico maggiormente diffusa, ciò non accadeva sicuramente nel caso di Caldesia, dove ormai quello dei Ranger era diventato un
corpo assegnato quasi esclusivamente alla salvaguardia forestale, con incarichi
che andavano dal contrasto al bracconaggio alla supervisione all’opera di
inserimento delle specie animali terrestri nell’ecosistema di Celestis, a buon punto ma ancora non del tutto compiuta.
La
regione di Eldkin era stata una delle ultime a
revocare ai Ranger la qualifica di garanti dell’ordine pubblico, senza contare
che la natura particolarmente impervia del territorio faceva dei Ranger di
quella regione delle guide montane molto esperte, e forse era per questo che
quel patrimonio di conoscenze e di abilità di sopravvivenza, nel caso di Joe,
non erano andate perdute.
L’interessato
non rispose, preservando quel suo apparire così cupo, e per certi versi
minaccioso; un vero Ranger, insomma, come quelli di cui si leggeva nei racconti
popolari e nelle favole per bambini.
Per
arrivare al ponte di comando occorreva prendere l’ascensore di servizio che
partiva dal Ponte A e saliva lungo la torre, accessibile dal salone principale,
ma quanto raggiunsero il monumentale fiore all’occhiello del Megonia Helen e Joe trovarono ad attenderli una brutta
sorpresa.
Forse a
causa di uno dei tanti urti che la nave doveva aver subito coi detriti
spaziali, parte della scala che collegava tra loro le varie balconate era
crollata, e in particolar modo la porzione che andava dal Ponte C al Ponte A.
«Ecco,
questa non ci voleva» disse contrariata Helen, rivolgendosi poi
all’imperturbabile Joe. «Se non sbaglio tu non sei dotato di poteri magici, e
le capacità della tua tuta non ti permettono certo di compiere salti di questo
genere» quindi sospirò. «Poco male. Vorrà dire che ci inventeremo qualcosa.
Alla
peggio, faremo il giro più largo».
Non ebbe
neanche il tempo di girare nuovamente lo sguardo che Joe, presa una piccola
rincorsa, iniziò a saltare da un detrito all’altro con l’agilità di una scimmia
e la grazia di un felino, balzando sospeso nel vuoto senza la minima
esitazione, e prima che Helen potesse dire o fare alcunché il suo compagno era
già sulla balconata più alta che la guardava con fare quasi sornione.
«Ma sei
proprio sicuro di non essere uno stregone?» domandò ironicamente lasciandosi
trasportare da una corrente invisibile sempre più in alto, fino a raggiungerlo.
«Forza, andiamo».
Klaus seguiva Georg,
standogli qualche passo indietro, con il fare e l’entusiasmo di un alunno che
segue il professore verso l’ufficio del preside, e anche se non poteva vederlo
il Capitano sapeva quasi per certo quale dovesse essere la sua espressione.
«Perché
mi ha voluto per questa missione?» domandò ad un certo punto il giovane
sottufficiale. «Tanto ha già deciso di buttarmi fuori.»
«In
verità non lo so neppure io» replicò Georg dopo un lungo silenzio, e seguitando
a camminare verso il cuore della stiva. «Forse voglio illudermi che per te ci
sia ancora speranza.»
«Drassimovic fa lo spaccone dalla mattina alla sera, e
attacca briga quanto se non più di me, però è bastata un’azione da macho di
quel damerino azzimato per guadagnarsi la sua stima.
Di me,
invece, lei vede solo i difetti».
Ce ne
voleva di coraggio per rivolgersi ad un ufficiale superiore in simili termini,
soprattutto se si era la metà di lui sia in termini di gradi che di stazza
fisica, ma l’avventatezza, e Georg lo sapeva bene, era una inseparabile
compagna di Klaus Krietzmann.
Anche
per questo Georg un po’ lo ammirava, ma certo non poteva passare sopra ad una
cosa del genere, anche se detta in preda all’impeto.
«Allora
non hai proprio capito» disse inchiodando e girandosi a guardarlo con occhi
infuocati. «Non è una questione di una, due, o cento risse. Non me ne frega
niente se Ulrich è un maledetto snob tronfio e pieno
di sé. Ne incontrerai a pacchi ovunque andrai, e quasi tutti saranno in una
posizione tale che tu non potrai fare altro che ingoiare e far finta di niente.
Credi
non mi sia capitato di avere a che fare con gente simile? Se avessi dovuto
riempire di botte tutti i maledetti figli di papà che mi è capitato di
conoscere nella MAB sarei già finito davanti alla corte marziale.
Tu sei
un soldato, e un caposquadra. Il tuo compito è essere sempre calmo, freddo,
razionale. Tu non devi farti sopraffare dalle tue emozioni, né permettere di
venire condizionato.
Ulrich sarà
anche un maledetto snob, ma il suo compito ha dimostrato di saperlo fare fin
troppo bene, e cosa più importante tiene ben separate le questioni personali da
quelle professionali.
La tua
squadra conta su di te, sei la loro guida. Credi sul serio che Gerth e Debois si sentirebbero
del tutto al sicuro nel mettere la loro vita nelle tue mani?
Ma più
di ogni altra cosa, in quanto soldato e Agente della MAB, il tuo compito è
aiutare e assistere gli abitanti di questo pianeta, in qualunque circostanza.
Tra
incidenti occasionali e quelli dovuti alla stupidità di qualcuno, non passa
quasi giorno senza che vi siano delle persone in pericolo, e quasi sempre siamo
noi a dover impedire che degli innocenti ci rimettano la vita».
Klaus
rimase di sasso, la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati; il Capitano gli si
fece incontro, sovrastandolo con fare sempre più minaccioso ed autoritario.
«Ora,
guardami negli occhi e dimmi sinceramente. Sei davvero convinto di poterti
assumere tutte queste responsabilità? Sei sicuro di poterci riuscire?».
Questa
volta, fu Klaus a rimanere in silenzio.
«E con
questo, la discussione è chiusa» sentenziò Georg vedendo che l’interessato era
rimasto chiaramente senza obiezioni. «Andiamo.»
«Sissignore»
rispose il giovane con un tono che sapeva di sconfitta.
La
marcia però durò poco, fermandosi per l’ennesima volta davanti ad una porta
stagna sprangata.
«È già
la terza che troviamo» si lamentò Georg portando la mano alla radio infilata
nell’orecchio. «Drassimovic, mi ricevi?»
«Forte e
chiaro, Capitano. Cosa posso fare per lei?»
«Stiamo
incontrando un passaggio sprangato dietro l’altro, ma stavolta temo sia
impossibile girarci attorno.
Puoi
fare qualcosa?»
«Mi dia
un attimo, controllo subito».
Nel
mentre Ulrich aveva ormai violato quasi tutti i
firewall a protezione della memoria centrale, e quando finalmente anche
l’ultimo lucchetto saltò via non riuscì a trattenere un sorriso di
soddisfazione.
«Sono
entrato!» esclamò svegliando Vincent, che effettivamente si era appisolato
sull’altra poltroncina abbracciato al suo fucile.
Purtroppo,
anche così la situazione non si presentava idilliaca, e bastò un istante perché
quel sorriso si tramutasse in una smorfia di disappunto.
«Maledizione,
è come sospettavo.»
«Che
altro c’è?»
«Il
nucleo di memoria non è così danneggiato come potrebbe sembrare, ma il corto
circuito ha fritto sia i generatori che i collegamenti con le batterie al
combustibile.»
«Insomma,
non c’è energia» concluse Georg, che ascoltava via radio.
«Appena
quanto basta per tenere in piedi i sistemi fondamentali, ma il generatore di
emergenza ha una capienza veramente minima.»
«Si può
fare qualcosa?» chiese Vincent
«Poco o
nulla. Bisognerebbe effettuare delle riparazioni, ma non abbiamo né le
attrezzature né le conoscenze necessarie per farlo».
Poi
però, come un fulmine a ciel sereno, il ragazzo ebbe l’illuminazione.
«A meno che…» e immediatamente riprese a lavorare.
Quando
poi vide ricompare sul volto del partner quello stesso sorriso, Vincent si
sentì rinascere a sua volta.
«Lo
sapevo. Dopotutto, questa era pur sempre una nave da guerra.»
«Che hai
trovato?»
«Stia a
vedere, Capitano. La sorprenderò».
Mayu aveva la brutta abitudine di lasciarsi
prendere dal proprio lavoro, immergendovisi ad un livello tale da perdere il
contatto con la realtà.
Così, le
capitava spesso di fare le ore piccole, salvo poi ritrovarsi con addosso una
stanchezza cronica non appena la concentrazione veniva meno e subentravano le
inevitabili necessità fisiologiche.
Quella
notte la ragazza l’aveva spesa quasi per intero ad armeggiare con il motore
della navetta, e la comparsa indesiderata di quella missione le aveva impedito
di concedersi qualche ora di sonno.
Così,
appena i suoi compagni se n’erano andati, si era lasciata immediatamente andare
sullo schienale della sua poltrona in cabina di pilotaggio, forse non
comodissima ma sicuramente soffice, senza contare che ormai ci aveva fatto
l’abitudine a dormire là sopra.
Probabilmente
avrebbe continuato a ronfare senza sosta per molte ore, se improvvisamente uno
strano e per certi versi inquietante stridio non l’avesse fatta trasalire.
«Che è
stato!?» domandò balzando in piedi.
Rimessi
gli occhiali, senza i quali si vantava lei stessa di essere cieca come un
pipistrello, quello che vide fu una specie di enorme tentacolo metallico
scivolare lungo la fusoliera della navetta appena oltre il finestrino.
Non era
da solo. Almeno una decina di altri suoi simili erano sbucati da un momento
all’altro da delle botole nel pavimento dell’hangar, e come i tentacoli di una
gigantesca piovra avevano iniziato ad avvilupparsi attorno alla navetta quasi a
volerla stritolare. E da come lo scafo scricchiolava sotto la forza e la
pressione, non era da escludersi che ciò potesse effettivamente accadere.
Mayu, pur con
tutta la sua esperienza di meccanico, non aveva mai visto niente del genere, e
il vedere tutte le apparecchiature lampeggiare come impazzite non la aiutava
certo a calmarsi.
«Ma che
diavolo sta succedendo!?».
Poi, una
voce giunse gracchiante dalla radio di bordo.
«Signorina
Mayu, mi sente?»
«Ulrich!?»
«Mi
dica, per caso sta accadendo qualcosa attorno alla navetta?»
«Direi
proprio di sì! Questa dannata nave la sta stritolando! Ancora poco e farà la
fine di una vongola!».
Nella
sala di controllo, invece che preoccuparsi, Ulrich
sorrise compiaciuto.
«Non si
preoccupi, è tutto a posto.»
«A
posto!? Col cavolo che è a posto!»
«Stia
calma, sono stato io.»
«Tu!? Si
può sapere che significa?»
«Ancora
qualche istante, e lo vedrà con i suoi occhi».
In uno
dei tanti monitor della sala comparve una barra di caricamento, che come Ulrich digitò un nuovo comando prese rapidamente a
riempirsi, mentre finalmente i tentacoli che avviluppavano la navetta
smettevano di muoversi e prendevano a circondarsi di una strana luce azzurrata.
Passarono
pochi secondi, e non solo nell’hangar o in sala di controllo, ma in tutta della
nave Georg e il resto della squadra videro le luci accendersi come per incanto,
le porte automatiche aprirsi, e persino i monitor di servizio tornare a
funzionare.
Georg e
Klaus, in particolare, videro spalancarsi dinnanzi a loro la porta stagna che
li aveva bloccati, rivelando dietro di sé l’ultima rampa di scale che conduceva
al livello più basso dei ponti stiva.
«Ma come
accidenti hai fatto!?» disse attonito Victor
«Protocollo
Vulcan. Le navi da guerra amalteche
sono dotate di un meccanismo di alimentazione d’emergenza che permette loro, in
caso di bisogno, di legarsi ad un’altra fonte di energia per compensare
eventuali ammanchi.»
«Aspetta,
fammi capire» disse Mayu visibilmente inalberata. «Tu
stai parassitando la mia nave?!»
«Non
sarà il modo più elegante per dirlo, però effettivamente è così.»
«Non me
ne frega niente dell’eleganza! La mia nave non si tocca!»
«Dacci
un taglio, Mayu» la interruppe via radio Georg. «Ben
fatto, Drassimovic. Ci sarà di sicuro molto utile» e
imbracciato il fucile riprese a camminare.
Mayu invece
non era per nulla soddisfatta della piega che aveva preso la situazione, e
appena chiusa la comunicazione radio si buttò imbronciata sul sedile, ma ormai
il sonno le era passato.
Per
cercare di calmarsi volle scendere a controllare di persona l’entità dei danni,
ma questo non fece altro che aumentare il suo livello di stress.
«La mia
povera carrozzeria!» esclamò notando qua e là segni di graffio provocati dalle
lamelle dei cavi. «Quel damerino finirà sepolto di compiti supplementari per un
mese, parola mia!».
La
rabbia però non precludeva le sue abilità di Agente, infatti dopo poco ebbe la
netta sensazione di non essere più sola all’interno di quell’hangar sconfinato;
la prova gliela diede un rumore sordo, di qualcosa che cadeva, accompagnato da
quelli che sembravano passi di corsa.
Si
volse, fulminea. Tutto attorno, era solo calma e silenzio. Ma era certa di non
essersi sbagliata.
«Chi
c’è?» domandò avventurandosi, lentamente, in un intricato dedalo di cunicoli
alti e stretti formato dalle centinaia di casse ammassate in un angolo della
stanza. «C’è qualcuno?».
Nessuno
rispose, ma quel rumore continuò a presentarsi a intervalli irregolari; era
come se qualcuno si stesse divertendo a girarle velocemente attorno, cercando
di rimanere in silenzio senza però riuscirci del tutto.
«Victor,
se è uno dei tuoi scherzi, sappi che non è divertente!» urlò quasi a volersi
auto convincere che fosse l’ennesima bravata dell’amico.
Ma
Victor non era sicuramente lì, e poi neanche uno come lui si sarebbe messo a
scherzare in una situazione simile; sempre più in ansia, Mayu
mise mano alla pistola, e movendo un piede per volta prese a camminare
all’indietro per cavarsi da quella situazione così rischiosa, dove il pericolo
poteva sbucare fuori da ogni angolo.
Ad un
rumore se ne aggiunse un altro, ed un altro; nessuna voce, solo un respiro
affannoso, che di quando in quando si faceva sentire facendo gelare il sangue
di Mayu, che pur essendo solo un semplice meccanico
aveva già affrontato situazioni di quel genere in passato.
Poi,
d’un tratto, il silenzio. Di nuovo; assoluto.
Mayu pensò
per un solo istante che tutto fosse finito, ma prima ancora che un nuovo
rumore, assai più vicino e minaccioso, giungesse alle sue orecchie, l’istinto
le disse di girarsi, anche se quanto restava del suo raziocinio le diceva che
forse era già troppo tardi.
Un urlo
fortissimo, una specie di ruggito, squarciò il silenzio, e assieme ad esso se
ne levò un altro, acuto e terrorizzato, cui fece seguito il fragore di due
spari in successione.
Poi, più
niente.