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Autore: Carlos Olivera    21/05/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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4

 

 

I membri della squadra si guardarono attorno, non riuscendo a capacitarsi di ciò che avevano dinnanzi agli occhi.

Il Megonia, la nave più esclusiva che si fosse mai vista, sembrava essersi trasformata in un vascello fantasma, svuotato di tutti quegli industriali, conti, magnanti e altri pezzi grossi che sborsando cifre improponibili per i comuni mortali si erano voluti regalare quel viaggio da sogno.

Nessuno, neppure Georg, sapeva cosa pensare, e la situazione divenne ancor più angosciante quando Vincent, avventuratosi nel cuore della stanza per cercare di capire meglio cosa avesse provocato quella baraonda, trovò in terra una macchia rossa dall’origine inequivocabile.

«Qui c’è del sangue» disse tastandolo.

Fu come il suono di un allarme, che, semmai ve ne fosse stato bisogno, fece salire ulteriormente la tensione.

Una dopo l’altra, a ben cercare, non fu difficile localizzare altre pozze più o meno grandi in vari punti della sala.

«Mio Dio, c’è sangue dappertutto» mormorò Ulrich.

Georg sentì nuovamente quel brivido.

A questo punto, la teoria dell’attacco pirata non appariva più così campata per aria; ma se questa era la verità, che ne era stato dei corpi?

Perché dei pirati, interessati solo a fare soldi e scappare a tutta velocità prima dell’arrivo di qualche pattuglia, avrebbero dovuto prendersi il disturbo di fare una strage tra i passeggeri, e fare oltretutto sparire i cadaveri?

La cosa si stava facendo paradossale, e tra i giovani il nervosismo era evidente.

«Ma si può sapere che diavolo è successo qui?» si domandò Klaus «Dove sono spariti tutti?»

«È una cosa senza senso.» disse Amanda «Niente corpi, solo sangue.»

«Datevi una calmata!» ordinò perentoriamente Georg. «È proprio per scoprire cosa è successo che ci hanno mandati qui, ricordate?

Se voi signorine vi lasciate impressionare da così poco non sopravvivrete cinque minuti. Quindi ora mente sgombra, culo stretto e sangue freddo, mi sono spiegato?»

«Sissignore.» risposero i cadetti, ma nessuno con vera convinzione

«Bene» replicò Georg fingendosi soddisfatto. «Come prima cosa, cerchiamo di capire se questa bagnarola può ancora funzionare. Dobbiamo tirarla fuori da questo cono oscuro, così potremo ripristinare il contatto con Celestis.

Drassimovic e Trenton, alla sala di controllo. Debois e Castaldi, ponte di comando. Keys e Gerth, salone principale e ponti passeggeri. Io e Krietzmann esploreremo i livelli inferiori e la stiva.

Tutto chiaro?»

«Sissignore!» dissero tutti in coro

«E allora forza, chiappe in spalla! E teniamoci in contatto radio!».

 

Quasi ogni punto della nave poteva essere raggiunto attraverso varie rampe di scale, alcune pubbliche altre riservate al personale, ma vi erano zone, soprattutto quelle di alta sicurezza, accessibili solo tramite ascensori a riconoscimento.

Tra queste zone vi era la sala di controllo, a cui si accedeva per mezzo di un ascensore che scendeva direttamente al Ponte H. Teoricamente questi ascensori “sensibili” dovevano poter funzionare anche in caso di guasto all’alimentazione principale, ma visto come erano ridotti i sistemi del Megonia, Ulrich e Vincent non nutrivano grandi speranze di trovarlo ancora attivo.

Ma la fortuna, una volta tanto, aveva voluto essere dalla loro, e raggiunte le porte sul Ponte B i due agenti si avvidero che l’ascensore, incredibilmente, funzionava ancora.

C’era solo un piccolo problema.

«Sarà anche in grado di muoversi, ma come lo usiamo?» mugugnò Vincent indicando il pannello di sicurezza. «Senza una di quelle carte di riconoscimento questo affare non si muove, e non so tu ma io non ne ho nessuna sottomano.»

«Non serve la carta.» rispose Ulrich collegando il suo terminale e prendendo subito a lavorare.

Nel giro di quindici secondi, il sistema fu bypassato, e le porte dell’ascensore si aprirono placidamente davanti a loro lasciando Vincent con gli occhi sul fondo del naso.

«Basta un buon computer.»

«Ora capisco perché il Capitano ti ha voluto per questa missione» sorrise Hawk Eye «Forza, dentro».

Con l’ascensore scesero fino al ponte desiderato, ma anche qui trovarono ad attenderli solo oscurità, silenzio e nessun’anima viva.

«Qui diventa sempre più inquietante.» osservò Vincent, che con il mirino ad infrarosso del suo fucile cercò di fendere l’oscurità meglio di quanto non facessero le torce.

Lungo il corridoio, come previsto, non vi era nessuno, ed in lontananza si poteva scorgere la porta della sala controllo.

«Via libera, procediamo».

A rigor di logica, anche quella porta avrebbe dovuto essere saldamente chiusa. Ma piuttosto del fatto di trovarla allentata quanto bastava da poterne aprire manualmente le ante a colpire i due agenti furono più che altro le condizioni in cui era ridotta: accatastati in un angolo vi erano una mazza, uno scalpello di fortuna e vari altri attrezzi da scasso, e le due ante della porta erano state visibilmente percosse con una certa violenza, tanto che la chiusura ermetica alla fine doveva aver ceduto sotto il peso di tutti quei colpi.

Inoltre, il lettore di tessere sembrava disattivato, il che probabilmente era ciò che aveva spinto chicchessia a tentare quella misura disperata.

Vincent buttò un occhio all’interno, e il vedere scintille che sprizzavano di quando in quando da una fonte non meglio identificata fu come la prova evidente che lì dentro doveva essere accaduto qualcosa di serio.

«Non promette nulla di buono. Prudenza».

Ulrich si appoggiò al muro, e ricevuto il via libera dal partner aprì fulmineo la porta permettendogli di entrare per poi varcare la soglia a sua volta; fecero irruzione fucili alla mano, già pronti a rispondere a qualunque minaccia, ma tutto ciò che trovarono fu il nucleo centrale con la parete protettiva divelta e apparentemente in pieno corto circuito, oltre ad una quantità abnorme di sangue che come un tappeto rosso ricopriva non solo il pavimento, ma anche e soprattutto la console di comando.

«E questo cos’è?» domandò Vincent, che pure era abituato a spettacoli di quel genere. «Il mattatoio della nave?».

Per nulla impressionato da quella scena cosi macabra Ulrich mosse una mano sopra le pozze di sangue, facendole scomparire nel nulla sia dal nucleo di memoria che dalla console.

«Allora non sei solo un nerd da computer, dopotutto.» rise Vincent, che poi rivolse la sua attenzione sul nucleo. «Sembra conciato piuttosto male. Ora mi spiego perché qui è andato tutto all’aria.

Pensi di poterlo aggiustare?»

«Non con i mezzi che abbiamo» rispose il giovane, già intento ad armeggiare con i computer. «Ma forse posso ripristinare alcune funzioni isolando le zone danneggiate del sistema operativo.»

«Ah, capisco» rispose Hawk Eye, che in realtà non ci aveva capito niente.

Come Ulrich provò ad avviare il computer, però, tutti gli schermi si illuminarono di rosso.

«Che succede?»

«Accidenti. Sembra che tutti i firewall siano attivi. Qualcuno deve aver provato a forzare l’accesso.»

«Probabilmente la stessa persona che ha fatto il diavolo a quattro per entrare qui dentro, dovunque sia finita.»

«Ci vorrà un po’ per riuscire a violarli tutti. Tu intanto mettiti comodo.»

«Certo, come no? Mi farò un pisolino. Tanto qui non sta succedendo niente di che, giusto?».

 

Di tutti i cadetti che aveva avuto occasione di conoscere e addestrare nelle tecniche di infiltrazione e contrasto silenzioso in cui era maestra, Joe Debois era certamente quello dal quale Helen era rimasta maggiormente colpita.

Le sue abilità erano molto al di sopra della media degli altri agenti operativi, avvicinandolo al livello dei professionisti navigati, al punto che Sleeping Beauty quasi non riusciva a spiegarsi perché qualcuno avesse voluto inserirlo in quel corso invece di promuoverlo direttamente Agente scelto, o addirittura caposquadra.

Poi, leggendo il suo stato di servizio e la relativa scheda, aveva cominciato a capire.

Quel ragazzo era speciale.

«Ho letto la tua scheda» disse d’un tratto così, per rompere il silenzio e allentare un po’ la tensione. «Tu sei un Ranger».

Se Celestis e le sue città, per non dire le sue intere nazioni, avevano potuto vedere la luce, lo dovevano in egual misura alla volontà ferrea dei suoi coloni e all’operato indispensabile dei Ranger.

Quando i primi terrestri avevano deciso di avventurarsi al di fuori dei primi insediamenti dando via all’opera di colonizzazione vera e propria, come subito dopo l’arrivo sul pianeta, avevano trovato ad attenderli territori inesplorati ed una natura alle volte ostile.

Tra i troll della montagna, i worrold delle foreste e gli anuk delle praterie, Celestis abbondava di specie più o meno pericolose, senza contare le conoscenze indispensabili per garantire la sopravvivenza di una comunità, conoscenze che i coloni alle volte non possedevano.

I Ranger erano nati come corpo volontario puramente civile, ma nel giro di pochi anni erano diventati prima una unità paramilitare vera e propria e poi, in seguito, un corpo scelto di molte nazioni che grazie a loro erano riuscite a sorgere, e a cui avevano affidato la custodia degli insediamenti più distanti ed inaccessibili nell’attesa di dare vita a più efficaci vie di comunicazione e collegamento.

Le loro competenze spaziavano dall’esplorazione alla caccia, fino alla cura del bestiame e alla salvaguardia di quella natura da cui, alle volte, erano chiamati a difendere gli esseri umani; inoltre impedivano fenomeni come il brigantaggio, le ruberie e le scorribande dei predoni, tutti problemi che stando ai libri di storia erano stati tutt’altro che sporadici nei primi cinquant’anni di colonizzazione.

E in quanto a retaggio famigliare, Joe aveva di che vantarsi per generazioni.

I suoi antenati avevano aperto la strada ai coloni che nell’anno 12 avevano fondato Eldkin, la terza città di Caldesia, inoltre avevano avuto un ruolo fondamentale nella salvaguardia delle molte realtà minori nate tutto attorno alla zona metropolitana, come Pondrith, Olster e Amadar.

Negli anni, però, molte cose erano cambiate.

Con la fine del periodo coloniale i Ranger avevano visto ridursi notevolmente le proprie mansioni operative, e la pacificazione portata dall’istituzione di apposite forze di polizia aveva reso superfluo anche il loro ruolo di garanti della legge. E se in alcune parti del mondo, ad esempio ad Eyban, dove le notevoli dimensioni territoriali punteggiate da piccoli borghi molti distanti tra loro permettevano ai Ranger di risultare ancora la forza di ordine pubblico maggiormente diffusa, ciò non accadeva sicuramente nel caso di Caldesia, dove ormai quello dei Ranger era diventato un corpo assegnato quasi esclusivamente alla salvaguardia forestale, con incarichi che andavano dal contrasto al bracconaggio alla supervisione all’opera di inserimento delle specie animali terrestri nell’ecosistema di Celestis, a buon punto ma ancora non del tutto compiuta.

La regione di Eldkin era stata una delle ultime a revocare ai Ranger la qualifica di garanti dell’ordine pubblico, senza contare che la natura particolarmente impervia del territorio faceva dei Ranger di quella regione delle guide montane molto esperte, e forse era per questo che quel patrimonio di conoscenze e di abilità di sopravvivenza, nel caso di Joe, non erano andate perdute.

L’interessato non rispose, preservando quel suo apparire così cupo, e per certi versi minaccioso; un vero Ranger, insomma, come quelli di cui si leggeva nei racconti popolari e nelle favole per bambini.

Per arrivare al ponte di comando occorreva prendere l’ascensore di servizio che partiva dal Ponte A e saliva lungo la torre, accessibile dal salone principale, ma quanto raggiunsero il monumentale fiore all’occhiello del Megonia Helen e Joe trovarono ad attenderli una brutta sorpresa.

Forse a causa di uno dei tanti urti che la nave doveva aver subito coi detriti spaziali, parte della scala che collegava tra loro le varie balconate era crollata, e in particolar modo la porzione che andava dal Ponte C al Ponte A.

«Ecco, questa non ci voleva» disse contrariata Helen, rivolgendosi poi all’imperturbabile Joe. «Se non sbaglio tu non sei dotato di poteri magici, e le capacità della tua tuta non ti permettono certo di compiere salti di questo genere» quindi sospirò. «Poco male. Vorrà dire che ci inventeremo qualcosa.

Alla peggio, faremo il giro più largo».

Non ebbe neanche il tempo di girare nuovamente lo sguardo che Joe, presa una piccola rincorsa, iniziò a saltare da un detrito all’altro con l’agilità di una scimmia e la grazia di un felino, balzando sospeso nel vuoto senza la minima esitazione, e prima che Helen potesse dire o fare alcunché il suo compagno era già sulla balconata più alta che la guardava con fare quasi sornione.

«Ma sei proprio sicuro di non essere uno stregone?» domandò ironicamente lasciandosi trasportare da una corrente invisibile sempre più in alto, fino a raggiungerlo. «Forza, andiamo».

 

Klaus seguiva Georg, standogli qualche passo indietro, con il fare e l’entusiasmo di un alunno che segue il professore verso l’ufficio del preside, e anche se non poteva vederlo il Capitano sapeva quasi per certo quale dovesse essere la sua espressione.

«Perché mi ha voluto per questa missione?» domandò ad un certo punto il giovane sottufficiale. «Tanto ha già deciso di buttarmi fuori.»

«In verità non lo so neppure io» replicò Georg dopo un lungo silenzio, e seguitando a camminare verso il cuore della stiva. «Forse voglio illudermi che per te ci sia ancora speranza.»

«Drassimovic fa lo spaccone dalla mattina alla sera, e attacca briga quanto se non più di me, però è bastata un’azione da macho di quel damerino azzimato per guadagnarsi la sua stima.

Di me, invece, lei vede solo i difetti».

Ce ne voleva di coraggio per rivolgersi ad un ufficiale superiore in simili termini, soprattutto se si era la metà di lui sia in termini di gradi che di stazza fisica, ma l’avventatezza, e Georg lo sapeva bene, era una inseparabile compagna di Klaus Krietzmann.

Anche per questo Georg un po’ lo ammirava, ma certo non poteva passare sopra ad una cosa del genere, anche se detta in preda all’impeto.

«Allora non hai proprio capito» disse inchiodando e girandosi a guardarlo con occhi infuocati. «Non è una questione di una, due, o cento risse. Non me ne frega niente se Ulrich è un maledetto snob tronfio e pieno di sé. Ne incontrerai a pacchi ovunque andrai, e quasi tutti saranno in una posizione tale che tu non potrai fare altro che ingoiare e far finta di niente.

Credi non mi sia capitato di avere a che fare con gente simile? Se avessi dovuto riempire di botte tutti i maledetti figli di papà che mi è capitato di conoscere nella MAB sarei già finito davanti alla corte marziale.

Tu sei un soldato, e un caposquadra. Il tuo compito è essere sempre calmo, freddo, razionale. Tu non devi farti sopraffare dalle tue emozioni, né permettere di venire condizionato.

Ulrich sarà anche un maledetto snob, ma il suo compito ha dimostrato di saperlo fare fin troppo bene, e cosa più importante tiene ben separate le questioni personali da quelle professionali.

La tua squadra conta su di te, sei la loro guida. Credi sul serio che Gerth e Debois si sentirebbero del tutto al sicuro nel mettere la loro vita nelle tue mani?

Ma più di ogni altra cosa, in quanto soldato e Agente della MAB, il tuo compito è aiutare e assistere gli abitanti di questo pianeta, in qualunque circostanza.

Tra incidenti occasionali e quelli dovuti alla stupidità di qualcuno, non passa quasi giorno senza che vi siano delle persone in pericolo, e quasi sempre siamo noi a dover impedire che degli innocenti ci rimettano la vita».

Klaus rimase di sasso, la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati; il Capitano gli si fece incontro, sovrastandolo con fare sempre più minaccioso ed autoritario.

«Ora, guardami negli occhi e dimmi sinceramente. Sei davvero convinto di poterti assumere tutte queste responsabilità? Sei sicuro di poterci riuscire?».

Questa volta, fu Klaus a rimanere in silenzio.

«E con questo, la discussione è chiusa» sentenziò Georg vedendo che l’interessato era rimasto chiaramente senza obiezioni. «Andiamo.»

«Sissignore» rispose il giovane con un tono che sapeva di sconfitta.

La marcia però durò poco, fermandosi per l’ennesima volta davanti ad una porta stagna sprangata.

«È già la terza che troviamo» si lamentò Georg portando la mano alla radio infilata nell’orecchio. «Drassimovic, mi ricevi?»

«Forte e chiaro, Capitano. Cosa posso fare per lei?»

«Stiamo incontrando un passaggio sprangato dietro l’altro, ma stavolta temo sia impossibile girarci attorno.

Puoi fare qualcosa?»

«Mi dia un attimo, controllo subito».

Nel mentre Ulrich aveva ormai violato quasi tutti i firewall a protezione della memoria centrale, e quando finalmente anche l’ultimo lucchetto saltò via non riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione.

«Sono entrato!» esclamò svegliando Vincent, che effettivamente si era appisolato sull’altra poltroncina abbracciato al suo fucile.

Purtroppo, anche così la situazione non si presentava idilliaca, e bastò un istante perché quel sorriso si tramutasse in una smorfia di disappunto.

«Maledizione, è come sospettavo.»

«Che altro c’è?»

«Il nucleo di memoria non è così danneggiato come potrebbe sembrare, ma il corto circuito ha fritto sia i generatori che i collegamenti con le batterie al combustibile.»

«Insomma, non c’è energia» concluse Georg, che ascoltava via radio.

«Appena quanto basta per tenere in piedi i sistemi fondamentali, ma il generatore di emergenza ha una capienza veramente minima.»

«Si può fare qualcosa?» chiese Vincent

«Poco o nulla. Bisognerebbe effettuare delle riparazioni, ma non abbiamo né le attrezzature né le conoscenze necessarie per farlo».

Poi però, come un fulmine a ciel sereno, il ragazzo ebbe l’illuminazione.

«A meno che…» e immediatamente riprese a lavorare.

Quando poi vide ricompare sul volto del partner quello stesso sorriso, Vincent si sentì rinascere a sua volta.

«Lo sapevo. Dopotutto, questa era pur sempre una nave da guerra.»

«Che hai trovato?»

«Stia a vedere, Capitano. La sorprenderò».

 

Mayu aveva la brutta abitudine di lasciarsi prendere dal proprio lavoro, immergendovisi ad un livello tale da perdere il contatto con la realtà.

Così, le capitava spesso di fare le ore piccole, salvo poi ritrovarsi con addosso una stanchezza cronica non appena la concentrazione veniva meno e subentravano le inevitabili necessità fisiologiche.

Quella notte la ragazza l’aveva spesa quasi per intero ad armeggiare con il motore della navetta, e la comparsa indesiderata di quella missione le aveva impedito di concedersi qualche ora di sonno.

Così, appena i suoi compagni se n’erano andati, si era lasciata immediatamente andare sullo schienale della sua poltrona in cabina di pilotaggio, forse non comodissima ma sicuramente soffice, senza contare che ormai ci aveva fatto l’abitudine a dormire là sopra.

Probabilmente avrebbe continuato a ronfare senza sosta per molte ore, se improvvisamente uno strano e per certi versi inquietante stridio non l’avesse fatta trasalire.

«Che è stato!?» domandò balzando in piedi.

Rimessi gli occhiali, senza i quali si vantava lei stessa di essere cieca come un pipistrello, quello che vide fu una specie di enorme tentacolo metallico scivolare lungo la fusoliera della navetta appena oltre il finestrino.

Non era da solo. Almeno una decina di altri suoi simili erano sbucati da un momento all’altro da delle botole nel pavimento dell’hangar, e come i tentacoli di una gigantesca piovra avevano iniziato ad avvilupparsi attorno alla navetta quasi a volerla stritolare. E da come lo scafo scricchiolava sotto la forza e la pressione, non era da escludersi che ciò potesse effettivamente accadere.

Mayu, pur con tutta la sua esperienza di meccanico, non aveva mai visto niente del genere, e il vedere tutte le apparecchiature lampeggiare come impazzite non la aiutava certo a calmarsi.

«Ma che diavolo sta succedendo!?».

Poi, una voce giunse gracchiante dalla radio di bordo.

«Signorina Mayu, mi sente?»

«Ulrich!?»

«Mi dica, per caso sta accadendo qualcosa attorno alla navetta?»

«Direi proprio di sì! Questa dannata nave la sta stritolando! Ancora poco e farà la fine di una vongola!».

Nella sala di controllo, invece che preoccuparsi, Ulrich sorrise compiaciuto.

«Non si preoccupi, è tutto a posto.»

«A posto!? Col cavolo che è a posto!»

«Stia calma, sono stato io.»

«Tu!? Si può sapere che significa?»

«Ancora qualche istante, e lo vedrà con i suoi occhi».

In uno dei tanti monitor della sala comparve una barra di caricamento, che come Ulrich digitò un nuovo comando prese rapidamente a riempirsi, mentre finalmente i tentacoli che avviluppavano la navetta smettevano di muoversi e prendevano a circondarsi di una strana luce azzurrata.

Passarono pochi secondi, e non solo nell’hangar o in sala di controllo, ma in tutta della nave Georg e il resto della squadra videro le luci accendersi come per incanto, le porte automatiche aprirsi, e persino i monitor di servizio tornare a funzionare.

Georg e Klaus, in particolare, videro spalancarsi dinnanzi a loro la porta stagna che li aveva bloccati, rivelando dietro di sé l’ultima rampa di scale che conduceva al livello più basso dei ponti stiva.

«Ma come accidenti hai fatto!?» disse attonito Victor

«Protocollo Vulcan. Le navi da guerra amalteche sono dotate di un meccanismo di alimentazione d’emergenza che permette loro, in caso di bisogno, di legarsi ad un’altra fonte di energia per compensare eventuali ammanchi.»

«Aspetta, fammi capire» disse Mayu visibilmente inalberata. «Tu stai parassitando la mia nave?!»

«Non sarà il modo più elegante per dirlo, però effettivamente è così.»

«Non me ne frega niente dell’eleganza! La mia nave non si tocca!»

«Dacci un taglio, Mayu» la interruppe via radio Georg. «Ben fatto, Drassimovic. Ci sarà di sicuro molto utile» e imbracciato il fucile riprese a camminare.

Mayu invece non era per nulla soddisfatta della piega che aveva preso la situazione, e appena chiusa la comunicazione radio si buttò imbronciata sul sedile, ma ormai il sonno le era passato.

Per cercare di calmarsi volle scendere a controllare di persona l’entità dei danni, ma questo non fece altro che aumentare il suo livello di stress.

«La mia povera carrozzeria!» esclamò notando qua e là segni di graffio provocati dalle lamelle dei cavi. «Quel damerino finirà sepolto di compiti supplementari per un mese, parola mia!».

La rabbia però non precludeva le sue abilità di Agente, infatti dopo poco ebbe la netta sensazione di non essere più sola all’interno di quell’hangar sconfinato; la prova gliela diede un rumore sordo, di qualcosa che cadeva, accompagnato da quelli che sembravano passi di corsa.

Si volse, fulminea. Tutto attorno, era solo calma e silenzio. Ma era certa di non essersi sbagliata.

«Chi c’è?» domandò avventurandosi, lentamente, in un intricato dedalo di cunicoli alti e stretti formato dalle centinaia di casse ammassate in un angolo della stanza. «C’è qualcuno?».

Nessuno rispose, ma quel rumore continuò a presentarsi a intervalli irregolari; era come se qualcuno si stesse divertendo a girarle velocemente attorno, cercando di rimanere in silenzio senza però riuscirci del tutto.

«Victor, se è uno dei tuoi scherzi, sappi che non è divertente!» urlò quasi a volersi auto convincere che fosse l’ennesima bravata dell’amico.

Ma Victor non era sicuramente lì, e poi neanche uno come lui si sarebbe messo a scherzare in una situazione simile; sempre più in ansia, Mayu mise mano alla pistola, e movendo un piede per volta prese a camminare all’indietro per cavarsi da quella situazione così rischiosa, dove il pericolo poteva sbucare fuori da ogni angolo.

Ad un rumore se ne aggiunse un altro, ed un altro; nessuna voce, solo un respiro affannoso, che di quando in quando si faceva sentire facendo gelare il sangue di Mayu, che pur essendo solo un semplice meccanico aveva già affrontato situazioni di quel genere in passato.

Poi, d’un tratto, il silenzio. Di nuovo; assoluto.

Mayu pensò per un solo istante che tutto fosse finito, ma prima ancora che un nuovo rumore, assai più vicino e minaccioso, giungesse alle sue orecchie, l’istinto le disse di girarsi, anche se quanto restava del suo raziocinio le diceva che forse era già troppo tardi.

Un urlo fortissimo, una specie di ruggito, squarciò il silenzio, e assieme ad esso se ne levò un altro, acuto e terrorizzato, cui fece seguito il fragore di due spari in successione.

Poi, più niente.

 

  
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