Salve a tutti!
Mi dispiace per non
aver aggiornato prima, ma non ho potuto farlo per due
motivi importanti.
1.
LA SCUOLA. Mi sta
uccidendo. Sembra che i professori si
siano svegliati solo adesso e abbiano tutti fretta di interrogarci o di
fare
compiti in classe. Ho fatto sei compiti in una settimana e, come poche
volte
nella mia vita, sono seria.
2.
IL CAPITOLO
È STATO UN PARTO. Anche qui, non scherzo.
Proprio non voleva essere scritto. Ma la fine… *-* Ok, ok,
non dico niente. *si
tappa la bocca*.
Ultima cosa: spero che
le foto vi piacciano, da ora in poi le metterò
accanto ad ogni “Pov”.
Have a good day.
<3
~ Cruel
Heart.
***
Birdy - People Help The People [Originally
performed by
Cherry Ghost]
***
Napanee,
Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001
Avril's pov
Non
credevo di essermi mai sentita così.
No,
non
intendevo la classica sensazione che provi quando hai la bocca
impastata
dall’alcool o quando cerchi di pronunciare delle parole senza
senso.
Così,
mi
ci ero sentita tante volte, e quella non poteva essere di certo
l’ultima.
Invece,
mi riferivo ad un’altra e strana sensazione.
Quella di essere felice, mentre
avevi la perfetta consapevolezza che una tristezza infinita ti
avvolgeva fin
dentro.
Ecco,
era un po’ così che mi sentivo, mentre
attraversavo l’ennesima soglia
dell’ennesimo bar, in cerca degli ennesimi cinque dollari da
poter buttare via
per un ennesimo drink.
«Ehi,
ho
già detto ennesimo?» biascicai, sorridendo ad un
barista biondino che stava
asciugando un bicchiere. O forse due baristi biondini, non ne ero molto
certa.
«Se
ti
riferisci alla frase “Ehi, chi sarà questo
ennesimo figo che mi ritrovo davanti?”,
allora sì.» mi rispose, guardandomi con un
sorrisino ebete. Un suo collega –
anche la parola “armadio” andava bene, talmente era
alto e grosso –, che lo
stava aiutando, alzò gli occhi al cielo.
Misi
a
fuoco la sua figura. No, adesso ero certa che si trattasse di un solo
barista.
Aveva
i
capelli biondi e due occhi color ghiaccio, mentre, scendendo un
po’ con lo
sguardo, potevo vedere il suo fisico asciutto sotto la maglietta nera
aderente.
«Mmh,
mi
piaci, Evan D.» Mi
sedetti sullo
sgabello di fronte alla sua postazione, incuriosita dal nome sulla sua
divisa
da barman. «O preferisci che ti chiami “ebete
supermontato”?» Il ragazzo
accanto a lui emise un grugnito divertito, ma il biondino lo
fulminò con lo
sguardo e lui se ne andò, mormorandogli un
«Scusa» davvero molto poco
convincente e alzando le spalle, ancora sorridente.
«Allora…
cosa vuoi che ti porti?» disse, sbuffando e voltandosi verso
gli analcolici.
«Long
Island.» gli risposi, con finta noncuranza. Il Long Island
era un cocktail
alcolico a base di vodka, gin, tequila, rum bianco e triple sec.
[N.d.A. Il
triple sec è un liquore aromatizzato all’arancia.]
Una bomba, insomma.
Nonostante la mia ubriachezza, mi ricordavo ancora che quel drink era
vietato
ai minori di 21 anni. Sperai che non mi chiedesse documenti o rogne del
genere.
«Ehi,
non sarai troppo piccola per questo tipo di cose?» “Come non detto…”
«E
tu
non sarai troppo grande per non farti i cazzi tuoi?»
replicai, un po’ più
lucida.
«Mmh.»
disse, rivolgendomi un’occhiata di sufficienza e prendendo le
bottiglie.
Decisi
che la tattica migliore era quella di cambiare argomento, nel caso
avesse avuto
ancora qualcosa da ridire.
«Dimmi,
per cosa sta quella D? David Letterman?» [N.d.A. Famoso
conduttore americano.]
L’”armadio”
ripassò dalle nostre parti e grugnì di nuovo,
mentre veniva ancora fulminato.
Mi sembrava un déjà
vu.
«Aspetta,
com’era? Ah, già… Tu
non sarai troppo grande per non farti i
cazzi tuoi?» mi rispose, imitando la mia voce. In
altri momenti avrei anche
potuto ridere, ma non sapevo se fosse l’alcool o
l’irritazione nel sentire la
sua voce a trattenermi.
«E
anche
per non essere simpatica, aggiungerei, ma non voglio offendere
un’esponente
dell’altro sesso.» Poi, come se nulla fosse, mi
porse il mio drink e riprese a
pulire bicchieri.
«Mai
pensato che potresti appena averlo fatto?» dissi, sbattendo
il mio bicchiere
sul bancone e avvicinandomi ai suoi occhi di ghiaccio.
Posò
lo
strofinaccio vicino al mio bicchiere, avvicinò le sue mani
alle mie sul bancone
e mi fissò, di rimando, con intensità.
«Mai pensato che potrebbe non fregarmene
un cazzo?»
«Deficiente.»
ribattei, riprendendomi il drink e andandolo a sorseggiare ad un tavolo
libero.
«Stronza.»
sussurrò, riprendendo a pulire.
«Ti
ho
sentito!» gli urlai, mentre mi sedevo distante da lui.
Stando
attenta a non versare il liquido per il mio scarso equilibrio, mi
sistemai
meglio, per trovare una posizione comoda su quello sgabello alto.
O
forse,
il problema era proprio che fosse troppo
alto.
Non
che
ci volesse molto, comunque.
Non
nascondevo di essere una tappetta di centocinquantotto centimetri,
accettati da
me con grande dignità e menefreghismo.
Certo,
fino all’anno scorso.
Infatti,
durante tutti i miei primi quindici anni di vita, non avevo fatto altro
che
lamentarmi di quanto Madre Natura fosse stata un po’ bastarda
con la
sottoscritta.
“Alle
galline vanno tette e culo, alle intelligenti cervello e
lungimiranza.”
recitava la maglietta che indossavo quella sera.
Altro che solidarietà
femminile…
Ma,
comunque, venivo prontamente consolata.
“Tutte
le ragazze più graziose sono basse, amore.”
“Già,
facile a dirsi, quando tua madre è più alta di te
di venti centimetri.” le
rispondevo stizzita ogni volta.
Risi
amaramente e abbassai lo sguardo, fissando il Long Island e girandolo
con una
cannuccia.
Forse
non era proprio il momento di pensare a mia madre.
Né
a
lei, né al comportamento che avevo assunto oggi pomeriggio
nei suoi confronti.
Mi
resi
conto che stavo piangendo solo quando vidi delle goccioline
d’acqua spuntare
dalla superficie liscia e patinata del tavolo.
Le
lasciai cadere. Era una bella sensazione sentire due rivoli di lacrime
freschi
sul viso accaldato.
Un’ora
di pensieri sulla mia infanzia dopo, sospirai ed ebbi la raffinata
eleganza di
dire:«Che serata di merda.»
«Che
c’è,
signorina, non gradisce la compagnia di un barman gentile come
me?»
***
Evan's pov
“Dio,
che mal di testa…” pensai, mentre il
chiacchiericcio di sottofondo del Sabato
sera mi riempiva le orecchie.
Guardai
la sala e scoprii che il locale era pieno, come al solito.
Mi
soffermai con lo sguardo su ogni uomo o donna che stava seduto ai
tavolini.
Potevo distinguere a vista d’occhio per quale motivo erano
venuti qui. S’imparava
a riconoscerli, col tempo.
C’erano
le persone sole, che non avevano
nessun
altro con cui passare il tempo se non un bicchiere di vodka.
C’erano
le persone tristi, che piangevano
in
silenzio, perché la loro vita non meritava neanche un
po’ di rumore.
C’erano
le persone deboli, che
consideravano
questo bar come la loro casa, perché non potevano o non
volevano tornarci.
E
poi, c’erano
le persone sorridenti. Quelle erano
le più pericolose, perché riuscivo a vedere la
menzogna e l’illusione trasudare
dai loro occhi. Non potevi mai essere felice se sceglievi di ubriacarti.
Tutte
volevano
dimenticare qualcosa.
Tutte
sembravano dei tramonti che morivano lentamente sulla cresta del mare.
Poi,
però, mi ricordai che anch’io avevo qualcosa da
dimenticare.
Così,
preso dalla frustrazione, iniziai a strofinare un bicchiere di vetro
sempre più
velocemente.
Al
solo
pensiero di quello che mi aspettava domani, avrei voluto lanciarlo
sulla parete
e vederlo rompersi in mille pezzi.
Kevin
mi
aveva avvisato che a casa ci sarebbero stati ospiti e che mio padre
aveva già
fatto preparare le stanze migliori.
“Vedrai,
tu e Evan andrete d’accordo con le nuove arrivate.”
gli aveva detto.
Avevo
analizzato questa frase svariate volte e avevo scoperto che contenevano
tre
fattori importanti che mi mandavano letteralmente in bestia.
Punto primo: Perché bisognava
andare per
forza d’accordo con le persone che s’incontravano
per la prima volta?
Per
perbenismo?
Per
buona educazione?
E
dov’erano il perbenismo e la buona educazione quando la gente
si mandava a
fanculo, alle Hawaii?
Io
adoravo
quando mi mancavano di rispetto, perché così
potevo essere maleducato e cafone
quanto volevo.
Punto secondo: Se anche avessi provato ad
andarci d’accordo, sarebbe andata a finire male.
L’imminente
urgenza di mio padre di far trovare la villa pulita e ordinata, peggio
di una pubblicità
di prodotti per casalinghe, mi induceva a pensare che questi
“ospiti” si
sarebbero fermati per molto tempo.
Come
diceva quel vecchio detto?
L’ospite è
come il pesce; dopo
tre giorni, puzza.
E
cosa
si faceva col pesce che puzzava? Lo si buttava.
Per
cui,
avevo già in mente un paio di modi per far spaventare e far
fuggire queste
povere malcapitate.
Punto terzo: Già, malcapitate. Mio
padre
aveva usato il femminile. Quindi, se anche non fossero fuggite di loro
volontà,
le avrei defenestrate ben volentieri io.
Avere
la
casa invasa da lucidalabbra e da riviste di gossip era inammissibile e
assolutamente inaccettabile.
I
miei
pensieri furono bruscamente bloccati dalla vista della ragazza bionda
di prima.
Un
secondo prima rideva, un secondo dopo eccola lì che lasciava
cadere le sue
lacrime.
Bipolare?
Forse.
O
forse
aveva grossi problemi alle spalle.
Era
sicuramente una ragazza sola e debole, e anche la tristezza, che
lasciava
scivolare sulle sue guance, sottoforma di lacrime, era chiaramente
visibile.
Però…
prima, quando avevamo scambiato civilmente
le nostre opinioni, non aveva dato tanti segni di malessere.
Rientrava
in tutte le quattro categorie che avevo stilato nel corso degli anni.
Per
non
parlare, poi, del fatto che fosse terribilmente acida e arrogante.
“È
proprio il tipo di persona con cui mi dovrei distrarre.”
decisi.
Mi
avvicinai piano, stando attento a non spaventarla, e arrivai giusto in
tempo
per sentire la sua bocca pronunciare la frase “Che serata di
merda.”
«Che
c’è, signorina, non gradisce la compagnia di un
barman gentile come me?» le
chiesi.
Alzò
lo
sguardo, quasi impaurita, e mi guardò con dei grandissimi
occhi azzurri. Non me
ne ero accorto prima.
Tentò
di
asciugarsi le lacrime con una mano, ma fece cadere la cannuccia sul
pavimento.
Cercai
di soffocare una risata, mentre gliene porgevo un’altra da un
tavolo vicino.
Tutta
la
sua sicurezza di poco prima era sparita. Sembrava… buffa.
«Ecco,
tieni. »
«Grazie.»
mi rispose imbronciata, iniziando a bere piano il drink e distogliendo
lo sguardo
dal mio.
Aspettai
un secondo, poi dieci, poi venti, fino a quando, scrollando le spalle,
le
dissi: «Va bene, visto che non m’inviti tu a
sedermi, lo farò io.»
Impostando
la voce per renderla simile alla sua, dissi:«Ehi, vuoi
sederti?»
Poi,
risposi alla mia stessa domanda con il mio tono di voce:«Ma
certo, affascinante
sconosciuta che non ho mai visto prima.»
E
così,
con una disinvoltura – e la modestia – degna di un
grande attore di Hollywood,
mi sedetti sullo sgabello accanto al suo.
La
osservai attentamente, in cerca di una qualche crepa nella maschera di
indifferenza che si era creata. Niente. Possibile che quella ragazza
non
ridesse mai?
Arricciò
leggermente le labbra e, come se fosse disgustata, si
allontanò leggermente da
me.
Alzai
un
sopracciglio, stranito. «Cosa c’è,
adesso? Perché mi guardi così?»
Mi
fulminò con lo sguardo, ma almeno era tornata a guardarmi.
Era già qualcosa. «È
soltanto una curiosità. Sei venuto a parlare con me e a fare
questa bella
scenetta perché non ci sono altre tipe da
rimorchiare?»
Mmh,
vediamo… cosa potevo dedurre da questa domanda?
Sicuramente,
aveva una bassa autostima, se pensava di essere la seconda scelta in
fatto di
ragazze.
Increspai
le sopracciglia e incrociai le mani sul tavolino. «Il fatto
che io ti abbia
rivolto la parola non implica assolutamente il fatto che ti voglia
rimorchiare.
A meno che io non sia un gancio e tu una macchina. Ma, tralasciando
questa
improbabile trasformazione in Transformer, sono convinto che la
solitudine sia
venuta a bussare troppe volte alla tua porta. E nessuno merita mai di
stare da
solo, in qualsiasi circostanza. Per cui…» dissi,
allargando le braccia. «Eccomi
qua.»
«Dio,
se
mi avessero detto che avrei trovato un barman rompicoglioni, allora
sarei
andata da un’altre parte.» mi rispose, alzando le
sopracciglia e continuando a
bere.
«Desolato
di aver tradito le tue aspettative. Comunque, ti va se ci presentiamo,
come
farebbero due persone normali? »
«Tu
non
sei una persona normale.»
«Solo
perché sono venuto a parlare con una ragazza che beve il suo
drink tutta sola?»
Le porsi la mano destra, ma lei continuava a squadrarmi con diffidenza.
«Andiamo,
non mordo mica.»
Roteò
gli occhi, ma alla fine me la strinse.
«Il
mio
nome, come puoi notare dalla mia splendida targhetta, è
Evan. Il tuo?»
Un
lampo
di divertimento passò per i suoi occhi.
«Ramona.» mi rispose.
Sollevai
un sopracciglio, ancora. Non rientrava di certo nei nomi che mi ero
immaginato.
«Ramona?»
«Ramona.»
confermò e scoppiò a ridere per dieci minuti
buoni.
«Puoi
smetterla di ridere soltanto per un secondo, dannazione?»
«S-sì…
scusa.» disse, asciugandosi le lacrime che le erano uscite.
«Bene.
Ora che hai ripreso il quasi
controllo di te stessa, potresti parlarmi seriamente?»
«Perché
dovrei farlo? Era una bellissima serata, fino a quando sei arrivato tu,
e io
voglio continuare a divertirmi.»
«Tu
lo
chiami divertimento, questo? Sveglia, non sei al Luna Park. E poi,
dovresti
farlo perché voglio darti una mano con il tuo
problema.» ribattei.
Il
sorriso che stava cercando di bloccare se ne andò al solo
sentire della mia
voce. «Problemi? Io non ho problemi.»
sussurrò.
Risi
di
gusto. «Cosa? Oh, andiamo. Pensavo che la tua maglietta
avesse ragione riguardo
alla tua intelligenza e lungimiranza.» Feci un cenno
alla sua
T-shirt e mi strinsi nelle spalle. «Qui tutti hanno problemi,
Ramona, e sono
problemi che un Long Island non può risolvere. Ma, forse,
una semplice
chiacchierata potrebbe farlo.»
«Beh,
non capisco perché dovrei discuterne proprio con
te.»
«Le persone si aiutano
di solito,
non te l’ha mai detto nessuno?»
Mi
guardò un attimo, sorpresa. L’avevo presa in
contropiede. «Ma… potresti essere
un maniaco sessuale… o un assassino psicopatico.»
Le
sorrisi. «Beh, c’è sempre quella
possibilità. Ma non approfitterei mai di una
ragazza ubriaca. Che razza di barman gentile sarei?» La
guardai, serio. «Coraggio,
sfogati.»
«Beh,
vede, signor David Letterman…» mi rispose, mentre
io m’infastidivo sempre di
più. «L’alcool è una delle
poche cose che rendono felici le persone. Soldi?
Innamoramenti? Amicizie? Solo stronzate… l’alcool
è l’unica cosa che resta.» Fu
interrotta da un singhiozzo, ma poi riprese. «Ho bisogno
dell’alcool nelle
vene….perché… i pensieri si fanno meno
fitti… e… mi sento meglio. Capisci cosa
intendo?» mi chiese, dopo aver fatto una grande sorsata.
«Sì.
L’alcool, per quanto strano possa
sembrarti, ti schiarisce le idee, e così sei più
lucida da ubriaca, invece che
da sobria. Tutto qui.»
Annuì leggermente.
Mi
raccontò tutto: la vita che conducevano qui, il nuovo lavoro
della madre e la
loro litigata.
E
pensare, però, che la Pennsylvania non era così
male, dopotutto.
Dopo
che
ebbe finito il suo racconto, incrociai le mani sul tavolino e la
guardai,
dritto negli occhi. «La cosa migliore che tu possa fare in
questo momento, è
lasciare quel fottuto drink e andartene.»
Sembrò
non notare il mio tono da rimprovero, anzi, se ne fregò
altamente di quello che
avevo appena detto e bevve quel poco di liquido che restava nel
bicchiere.
«E
perché dovrei farlo?» mi chiese, ridendo.
Incrociai
le braccia e strinsi i pugni, forte. Non me la potevo prendere con una
ragazza
sbronza. «Devi fare pace con tua madre, ecco
perché.»
Scoppiò
in una risata sguaiata. «Ah, sì? E come ci arrivo
a casa, se non sono neanche
capace di reggermi in piedi?»
Come
se
volesse darmi la prova che stesse dicendo la verità, prese
uno slancio
esagerato e saltò dallo sgabello. Spinto dalla
consapevolezza del suo precario
equilibrio, della forza di gravità e del pavimento, scesi
dal mio e la afferrai
per le spalle, giusto un attimo prima che si potesse fare male.
Sentii
le sue mani piccole aggrapparsi alle mie braccia e una fulminea
sensazione di
piacere mi avvolse, giusto il tempo di vederla allontanarsi da me e
sussurrare,
con gli occhi bassi per la vergogna, un «Grazie.»
Capii
immediatamente cosa c’era bisogno di fare.
Mi
allontanai di qualche metro, a passo di carica. Non sapevo per quale
motivo, ma
sentivo solamente rabbia dentro di me. Poi, improvvisamente, mi bloccai
e mi
morsi il labbro. Forse dopo avrei dovuto pentirmene, ma non ci pensai
molto
quando le chiesi:«Se ti dico di aspettare qui, al tavolino,
mentre vado a
parlare con il mio capo, lo faresti?»
Venne
verso di me, barcollando un po’, e scosse la testa.
Emisi
uno sbuffo, infastidito, e roteai gli occhi. «Ovviamente
no.» sussurrai a me
stesso.
«Che
cosa stai facendo?» mi chiese.
«Cerco
di darti una mano.» le risposi.
Lei
mi
seguì e io mi avvicinai all’ufficio del signor
Barrington, il proprietario, e
le sussurrai:«Mi raccomando, stai dietro di me.»
Annuì
in
silenzio. Poi, bussai allo stipite: la porta era aperta.
«Scusi signore, posso
parlarle?»
Alzò
lo
sguardo dalle scartoffie che stava firmando. «Oh, Evan. Ma
certo, dimmi pure.»
Era
quasi inquietante il modo in cui quell’uomo dai capelli
castani poteva metterti
in soggezione; noi lo chiamavamo il “Generale
D’Armata”.
Mi
sistemai ancora un po’ verso sinistra, per coprigli, almeno
in parte, la
visuale di Ramona.
«Vorrei
avere il suo permesso per allontanarmi dal locale, giusto per una
mezz’ora.
Sempre se per lei non è un problema.»
«Con
lei?» mi chiese, facendo un cenno proprio allo spazio che
stavo cercando di
coprire.
Annuii
soltanto. Sapevo come la pensava il mio capo su queste cose e strinsi
forte i
pugni, nella speranza che ci lasciasse andare in fretta.
«E
questa chi è, Taubenfeld? La tua nuova ragazza?»
replicò invece lui.
La
sentii trattenere il fiato, ma non disse niente.
Ecco
perché volevo che, prima, rimanesse accanto al tavolo. Il
signor Barrington era
particolarmente incline a non farsi mai i cazzi propri. Sospirai.
«No, signore,
non è la mia ragazza.»
«Beh,
è
davvero un peccato. Un gran bel peccato.» Si accese una
sigaretta e, aspirando,
continuò a squadrarla.
Diventai
irrequieto. Non mi piaceva quando usava quello sguardo sulle ragazze.
Mi
schiarii la voce. «Non mi ha risposto, signore.» Lo
guardai ancora più
intensamente, dritto in quei suoi occhi color marrone chiaro.
«Posso andare?»
Non
distoglieva lo sguardo da Ramona e tutto ciò cominciava a
darmi sui nervi.
Poteva fare di tutto, era vero. Poteva chiamare mio padre e dirgli che
mi aveva
buttato fuori a calci, o peggio, dirgli che avevo boicottato la visita
delle
“ospiti” per aiutare una ragazza che avevo
conosciuto da appena un’ora e mezza.
Riflettei su quell’ultima frase e scoprii che no, il pensiero
del boicottaggio
non mi dispiaceva affatto.
Si
strinse nelle spalle. «Va bene, fa’ come vuoi,
l’importante è che torni qui
vivo.» Poi, strinse gli occhi. «Non voglio avere
rogne.»
“Con
mio
padre.” stavo per aggiungere io, ma non lo feci. Mi era
andata bene e non
volevo fargli cambiare idea.
Lo
ringraziai con un cenno del capo e, dopo essermi infilato giubbotto e
sciarpa,
trascinai Ramona per un braccio fuori dal locale.
«Ehi,
piano, piano, mi stai facendo male.» mi disse.
«Sarò anche sbronza, ma la mia
percezione del dolore funziona ancora bene.»
Allentai
un po’ la presa, ma non la lasciai andare del tutto.
Raggiungemmo
la mia moto e le lanciai il casco, dopo aver allacciato il mio.
«Tieni,
prendilo. Salta su e andiamo.»
«Perché
dovrei ascoltarti?» mi chiese brusca.
«Perché
lo dico io. Forza.» la incitai, mentre mettevo in moto.
Roteò
gli occhi e allargò le braccia. Sembrava infastidita.
«Sai che c’è? Io non
voglio venire con te.» Se non fosse stato per il fatto che
stesse gridando, il
doppio senso sarebbe stato divertente. Prima ti comporti come un
coglione, poi
mi vieni a parlare e fai tutto il carino e adesso vuoi che io
obbedisca.
Potresti essere davvero un assassino psicopatico. Sei
lunatico!»
Sgranai
gli occhi, furioso. «Ah, sarei io quello lunatico?»
«Sì!»
Dio
santo, quella ragazza era incredibile. «Beh... allora tu sei
un’ingrata. Lo
sai, il mio capo potrebbe denunciarmi per assenza sul posto di lavoro,
e tu che
fai? Ti lamenti perché non vuoi tornare a casa e non vuoi
fare pace con tua
madre.» Scossi la testa, ridendo istericamente.
«Assurdo.»
«Assurdo?
E perché sarebbe assurdo, sentiamo! Tu non mi conosci, non
sai niente di me e
io non ti devo nessuna spiegazione.»
«Già,
è
vero. Io non ti conosco e non voglio entrare nella tua vita. Ma sai
perché ho
lasciato il bar e perché sto rischiando che quello stronzo
mi denunci, eh?»
Sentivo
una miscela di rabbia e delusione montarmi dentro. Non sapevo neppure
che
sentimento fosse davvero; sapevo solo che ce n’era tanto e
che avrei voluto
tirarle uno schiaffo dritto in faccia per la chance che stava buttando
all’aria.
«Perché
non voglio che sprechi la possibilità di riconciliarti con
tua madre!»
Feci
un
profondo respiro, rendendomi conto di quanto la stessi spaventando.
«Almeno tu,
ne hai una.» sussurrai.
Non
sapevo nemmeno io se mi stessi riferendo alla madre o alla
possibilità. In
tutti e due i casi, a me non erano state concesse.
«Ma
hai
ragione, sono stato un coglione. Va’ pure dentro ad
ubriacarti, vedrai che tua
madre sarà fiera di te.» finii, freddo.
Chi
ero
io per immischiarmi nella sua vita? Nessuno.
E,
pertanto, come Nessuno dovevo essere trattato.
Avvicinai
le mani per slacciare il casco, ma sentii la sue piccole dita toccarmi
sulla
spalla sinistra.
Stavolta
non si ritrasse e assaporai quella sensazione per un attimo.
«Aspetta.»
mi disse, bloccandomi. «Vengo con te.»
Poi
montò sulla moto e partimmo per il buio.
Ricordavo
poco del viaggio: la via dove abitava, le sue braccia strette alla mia
vita e
il suo naso che si strofinava sulla mia maglietta, prima che mi
dicesse: «Comunque,
sei uno stronzo. Però hai un buon profumo.»
Alla
fine costeggiai accanto ad una villetta. Aveva i classici tetti
spioventi rossi
per la neve ed un giardino non molto curato all’esterno.
La
finestra al piano terra era rotta, ma nel complesso
l’abitazione non sembrava
malridotta.
Non
era
grande come la mia, certo.
Nessuna
casa lo era.
La
chiamai, girandomi un po’ verso di lei:
«Ramona.»
Nessuna
risposta.
«Ramona!»
dissi, più forte.
Niente.
Sentivo soltanto i grilli frinire per coprire il silenzio circostante.
A
quel
punto, scesi dalla moto con un balzo e, mentre mi toglievo il casco, mi
girai,
per gridarle contro.
Mi
stava
facendo perdere tempo e Barrington mi aveva concesso solo
mezz’ora.
Ma
poi,
mi accorsi che era accaduto il peggio.
Si era addormentata.
Per
due
minuti non feci altro che imprecare.
Me
ne
stavo lì, sul ciglio della strada, immobile, e vomitavo
parolacce su parolacce.
Lei
emise un gemito, appena percettibile, ma fu abbastanza per farmi
scuotere e
riprendere.
Le
tolsi
il casco e sistemai tutti i capelli biondi che le ricadevano sul viso.
Poi, la
presi in braccio e la sentii inspirare sul mio collo, mentre mi
avvicinavo alla
porta della casa.
«Ramona.»
sussurrai. «Svegliati.»
Sussultò,
ma solo per un attimo. «Non ora, mamma… altri
cinque minuti e poi vado scuola.»
farfugliò.
Risi.
La
situazione diventava ogni secondo più tragica.
«No, non sono tua madre.»
Aprì
un
poco gli occhi e sembrò mettermi a fuoco. «Chi
sei, Evan?»
Annuii.
«Bingo.
Devo portarti dentro casa. Che faccio, suono?»
Scosse
la testa, confusa. «No, c’è…
c’è mia madre, sta dormendo… non la
voglio
svegliare.»
«Non
hai
le chiavi?» Scosse ancora quella piccola testolina bacata che
si ritrovava. «Sei
incredibile. In senso negativo, ovviamente.»
Mi
squadrò, offesa. «E tu sei poco pratico. Ho
già pensato ad un’idea.»
«Che
sarebbe?»
Invece
di rispondermi, si morse il labbro e abbassò lo sguardo.
Alzai
la
voce e ripetei:«Che sarebbe?»
Mi
fissò,
con aria di sfida, e mi rispose:«Passare attraverso la
finestra, salire le
scale e portarmi in camera mia senza che mia madre si accorga di
niente.»
Incrociò le braccia. «Ecco, te l’ho
detto.»
Per
poco
non la lasciai cadere sull’asfalto dalla sorpresa.
«COSA?!» gridai. «Non ho
ancora il potere di trasformarmi in fantasma e di attraversare i muri,
in caso
non l’avessi notato.»
«Peccato,
forse te ne saresti un po’ più zitto. Non quella
del primo piano, cretino.
Quella del piano terra. È rotta, vedi?»
«Sì,
vedo, ma… come faccio a saltarci con te in
braccio?»
Si
strinse nelle spalle, come se non fossero fatti suoi. «Hai i
muscoli, no? Beh,
usali.»
Era
stupefacente come riuscisse a farmi imprecare più volta in
soli cinque minuti.
Non
so
neanch’io come feci, ma presi lo slancio adatto e riuscimmo
ad entrare.
Mi
graffai soltanto un po’ sulla mano destra, ma non aveva
importanza.
«Dovreste
farla riparare. In questo modo potrebbe intrufolarsi chiunque e voi non
ve ne
accorgereste neppure.» sussurrai.
«Tante
grazie, Capitan Ovvio.»
Sospirai,
mentre iniziavo a salire le scale. «Dimmi, sei
così acida con tutte?»
Mi
fece
la linguaccia. «Solo con chi mi sta antipatico.»
Scossi
la testa, sorridendo. Avevo fatto tutto questo per lei e guarda un
po’ come
venivo ripagato…
«Ecco,
adesso svolta a destra e ci sei.»
Mi
ritrovai di fronte ad una porta mezza socchiusa. La aprii senza troppe
cerimonie e, facendo attenzione, appoggiai con delicatezza Ramona sul
letto.
«Beh,
credo di meritarmi appena un...»
Si
alzò
sulle ginocchia e mi baciò sulla guancia. Poi, mi
sussurrò:«G-grazie.»
Notai
che stava tremando e le diedi la mia sciarpa. «Non posso
darti il mio
giubbotto, quello mi serve, ma credo che questa andrà bene
lo stesso.»
Se
la
mise intorno al collo e inspirò l’aria per un
attimo.
«Allora...
ciao.» dissi, sorridendole.
Le
voltai le spalle e feci per uscire dalla camera, ma la sua voce
arrivò flebile alle
mie orecchie. «Ci rivedremo?»
Pensai
a
tutto quello che mi aspettava domani: alle valigie che dovevo ancora
preparare,
al viaggio, al rivedere mio padre e Kevin.
«Credo
di no.» le sussurrai. Poi, tornai indietro, le posai un bacio
sui capelli
biondi e feci al contrario il percorso di prima.
Uscii
all’aria fresca, sfregandomi le mani, e saltai in sella alla
mia moto.
“’Notte.” pensai.
Mi
rinfilai il casco e ripartii, mentre sentivo, per la seconda volta in
quella
sera, i grilli che popolavano la notte.
***
God
knows what is
hiding, in that world of little consequence.
Behind
the tears, inside the lies,
a
thousand
slowly dying sunsets.
God
knows what is hiding in those weak and
drunken hearts.
I
guess the loneliness came knocking.
No
one needs to be alone. Oh, save me.
People
help the people,
and
if your homesick, give me your hand,
and I'll hold it.
People
help the people,
and
nothing will drag you down.
Dio sa cosa quel mondo di poca
importanza nasconde.
Dietro le lacrime, dentro le bugie,
un migliaio di tramonti lenti che
muoiono.
Dio sa cosa quei cuori deboli e
ubriachi nascondono.
Immagino che la solitudine venga a
bussare.
Nessuno merita di stare da solo.
Salvami.
Le persone si aiutano,
e se hai nostalgia di casa, dammi
la tua mano, e io la
stringerò.
Le persone si aiutano,
e niente ti trascinerà
verso il basso.
~ Birdy – People
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