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Autore: Carlos Olivera    26/05/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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5

 

 

«Di preciso, quali sistemi hai ripristinato?» domandò Vincent mentre Ulrich non smetteva un attimo di armeggiare ai computer

«Non molti. Ho aperto le porte stagne, ripristinato l’illuminazione fondamentale, e stabilizzato l’atmosfera in tutti i settori della nave.

Immagino di poter fare anche altre cose, ma come mi aspettavo ogni singolo sistema è protetto da un alto numero di firewall. Stavolta, però, non sarà una cosa da poco».

Poi, cercando tra i sistemi più protetti, il giovane trovò qualcosa che riuscì a stupire persino lui.

«Incredibile. Avevano pensato proprio a tutto.»

«Di che parli?».

Senza prendersi la briga di rispondergli, Ulrich chiamò subito Georg via radio.

«Capitano, mi sente?»

«Forte e chiaro, Drassimovic. Parla pure.»

«Ho trovato delle informazioni classificate. Sembra che il Megonia avesse in dotazione dei satelliti d’emergenza per le comunicazioni. Devono averne lanciati alcuni senza successo nel tentativo di lanciare l’SOS, ma ne ho trovato uno ancora operativo.

Se riesco a lanciarlo oltre la zona oscura, potremmo essere in grado di comunicare direttamente con la superficie.»

«Questa è un’ottima notizia. Lo puoi fare davvero?»

«Appena riesco a violare le protezioni. Mi ci vorranno almeno un paio d’ore.»

«Te ne do una.»

«Ricevuto, signore» e Ulrich si rimise immediatamente al lavoro.

«Beh» intervenne Vincent sornione, «Visto che qui non sembro servire a molto, vorrà dire che mi sposterò altrove.

Forse in giro per questo rottame ci sono ancora dei superstiti, e un paio di occhi in più farebbero comodo.»

«Vai pure» rispose Ulrich senza staccare gli occhi dal monitor. «Ho riattivato l’ascensore. Se sali fino al Ponte D e prendi la scala di servizio numero quarantaquattro, dovresti imbatterti in Amanda e Jacob. Sto tracciando la loro posizione sulla mappa usando i segnali radio.»

«Come vuoi. Ma tu non muoverti, mi raccomando. Non vorrei che ti perdessi».

 

Con la ricomparsa della luce, anche se solo in alcune zone, Amanda e Jacob avevano potuto constatare in maniera molto più tangibile la portata del lusso e dello sfarzo dei Ponti Passeggeri che stavano esplorando.

Tutto lì trasudava di buon gusto, e tra statue, pavimenti in marmo, volte affrescate e in alcuni casi placcate in oro, lampadari in cristallo e finti candelabri, tappeti pregiati e quant’altro sembrava di trovarsi nei corridoi del palazzo reale di New Aalborg.

Persa in tutto quello splendore, Amanda stava perfino per dimenticare la paura e l’angoscia che aveva provato fino al momento in cui era stata costretta a camminare nel buio, con la sola luce delle torce e i visori notturni a rischiarare l’ambiente.

«Non distrarti» la ammonì Jacob notando come la sua sottoposta tendesse a guardarsi un po’ troppo attorno. «Non sappiamo cosa ci aspetti.»

«Le chiedo scusa» rispose lei imbarazzata.

Jacob quando voleva sapeva essere davvero spaventoso, con quel suo fare così composto e il perenne silenzio che lo avvolgeva, e Amanda a volte era quasi intimorita dalla sua figura; persino guardarlo negli occhi era impossibile, per colpa di quella frangia generosa che scendeva dalla fronte come le fronde di un albero, così la ragazza non riusciva mai a capire quale fosse la sua reale espressione, lasciata solo intendere dai movimenti della bocca.

Con l’attenzione, però, ritornò anche un po’ di tensione, e Amanda volle provare a calmarla parlando con il suo superiore.

«Mi scusi, posso farle una domanda?»

«Del tipo?».

Amanda parve venir colta da un momento all’altro da una vampata di imbarazzo.

«Ecco…» disse arrossendo, «Il suo pendente è… curioso».

Lui si fermò un momento, tanto che Amanda per poco non gli andò addosso, e fatta scivolare una mano all’interno della corazza esterna della tuta ne trasse fuori il famoso bossolo legato alla catenina.

«La mia trentunesima missione» disse come se si stesse rivolgendo al proprio io. «Quartiere industriale di Otisa. In un cantiere erano comparsi due EDA contemporaneamente.

Ero andato in esplorazione, e uno mi ha attaccato.

Ho sparato tutti i miei colpi, ma lui non moriva. Mi colpì con forza, gettandomi contro un muro. Mi ruppi un braccio e due costole. Stava per uccidermi. Sparai l’ultimo, e finalmente morì».

Detto questo, strinse forte il pugno attorno al bossolo, e anche se non poteva vederli Amanda intuì dovessero esservi delle lacrime a rigare i suoi occhi.

«Allora, è un portafortuna.» disse quasi a voler sdrammatizzare la situazione

«La fortuna non c’entra quando fai questo lavoro. È l’esperienza che conta. Mai usare l’ultimo proiettile del caricatore, a meno che non vi sia reale necessità. Se rimani senza colpi, sei morto».

Amanda restò un attimo basita, conscia dell’importanza di quella lezione, ma anche atterrita dalla severità e dal tono cupo del suo partner.

Stavano per rimettersi a camminare, quando Jacob, fermatosi di colpo un’altra volta, girò lo sguardo alle spalle di Amanda, spingendo anche la ragazza a voltarsi. Il corridoio da cui erano venuti era deserto così come lo avevano trovato, discretamente illuminato, e in lontananza di intravedevano le porte dietro cui vi erano le scale di servizio.

«Che succede?»

«Ho sentito qualcosa».

 

Helen e Joe stavano ancora attraversando l’area passeggeri in prossimità dell’ascensore che conduceva al ponte.

La situazione si era un po’ calmata, grazie anche al ritorno della luce, anche se Joe in particolare non faceva venire meno il proprio autocontrollo seguitando a mantenere un’attenzione elevatissima verso tutto ciò che lo circondava.

Di quando in quando si fermava e si guardava attorno, saggiando il pavimento freddo della nave o cercando qualche suono, o anche qualche odore; qualsiasi cosa i sensi affinati che solo un Ranger possedeva potessero aiutarlo a comprendere la situazione, o a percepire anzitempo potenziali minacce.

Negli ultimi minuti qualcosa sembrava aver destato il suo interesse, ma lui come al solito se ne restava in silenzio senza condividere i propri pensieri con Helen.

«Senza offesa» disse lei con una punta di sarcasmo spazientito quando il suo partner si fermò per l’ennesima volta, «Ma mi sembra di stare lavorando con un cane poliziotto».

Non che Sleeping Beauty disconoscesse o non apprezzasse le capacità dei Ranger, al contrario, ma l’atteggiamento così introverso e incomprensibile di Joe non rendeva facile riuscire a capire cosa passasse nella mente di quel ragazzo.

L’ultima tappa del tragitto prima di raggiungere l’ascensore di servizio era il centro commerciale, una vasta area circolare con una grande piazza centrale dal soffitto a volta dalla quale si dipanavano svariate attività ed esercizi, dai negozi d’alta moda a quelli di gadget e souvenir. Completavano tutto alcune panchine e una piccola isola verde nel mezzo, con al centro una bella fontana.

Vi albergava una luce strana, quasi da discoteca, dall’indubbio effetto scenico ed estetico ma che rendeva la zona parecchio buia, in cui i giochi di ombre e i faretti proiettati in ogni dove servivano solo a creare falsi allarmi.

Ulrich, che aveva collegato il segnale emesso dalle loro trasmittenti alle mappe virtuali della nave, li chiamò per trasmettergli ulteriori istruzioni.

«Ci siete quasi. Superate l’area commerciale, uscite dalla porta sull’altro lato, fate altri trenta metri e troverete l’ingresso all’ascensore di servizio.»

«Sentito? Muoviamoci».

Invece, fatti solo due passi, Joe si immobilizzò, guadagnandosi un’occhiata incredula di Helen.

«E adesso che ti prende?»

«Qui c’è qualcuno.» sussurrò il giovane girando gli occhi in ogni direzione.

Helen ebbe un attimo di smarrimento, recuperando però subito il raziocinio e drizzando a sua volta le antenne nella speranza di avvertire a sua volta i segni che avevano messo in allarme il suo partner.

«Che cos’è?»

«Piccolo. E veloce. Si muove su due gambe. E ci sta tenendo d’occhio».

La ragazza alzò il fucile, mentre Joe ripose il proprio preferendovi invece il suo machete, quindi i due agenti si divisero prendendo direzioni opposte, la camminata silenziosa e il ventre il più vicino possibile a terra.

Helen si avventurò nella boutique, traboccante in ogni dove di abiti d’alta classe, dai vestiti da sera agli eleganti smoking neri per uomini e ragazzi, dove l’articolo più economico non costava meno di alcune centinaia di kylis, e appiattitasi ancora più prese a girare per gli scaffali alla ricerca di una qualunque forma di vita.

Non servì molto perché anche lei si avvedesse del fatto che lì c’era sicuramente qualcuno, qualcuno la cui presenza venne confermata senza ombra di dubbio da Joe, che avventuratosi nel bar trovò il frigo saccheggiato e spazzatura sparsa un po’ ovunque, oltre ad uno stretto pertugio, una specie di nascondiglio improvvisato ricavato da uno stipetto a livello terra il cui contenuto era stato gettato in ogni direzione per fare quanto più posto possibile.

Chiunque fosse non sembrava interessato a passare inosservato, o quantomeno non era capace di farlo, movendosi di continuo e facendo, nonostante la moquette, quel tanto di rumore che bastava da annunciare la sua presenza.

«Forze speciali MAB!» disse Helen nel tentativo di far uscire la misteriosa ombra allo scoperto. «Vieni fuori! Non abbiamo cattive intenzioni!».

Ma il fuggitivo non rispose, e anzi ad un certo punto si azzittì di colpo, fermandosi apparentemente in un punto per non spostarsi più. O si era accorto di stare facendo troppo rumore, o forse era ormai troppo spaventato per fare o dire qualunque altra cosa, con due segugi che gli stavano alle costole.

Di sicuro, chiunque fosse, si trovava lì nella boutique, e tendendo bene l’orecchio Helen riuscì a sentire per un breve istante un respiro affannoso, chiaramente spaventato, ed un lamento come di pianto.

«È qui» sussurrò alla radio rivolta a Joe.

Seguendo quel richiamo, anche se ormai scomparso, la donna varcò prima l’angolo di uno scaffale, quindi si appiattì contro la porta di un camerino.

Ne era sicura; la sua preda era lì. Quasi poteva sentirne il battito.

Trasse un respiro, chiudendo un momento gli occhi, poi, calmate le palpitazioni, fece scivolare la mano verso la maniglia, che aprì di getto catapultandosi all’interno.

Non c’era nessuno.

In compenso, la grata a livello del pavimento, probabilmente un condotto dell’aria, era aperta, e dall’interno giungevano ben distinti rumori metallici che si facevano sempre più lontani.

«Merda! Sospetto in fuga!» strillò.

Joe accorse veloce come un fulmine, e assieme a Helena raggiunse il retrobottega dove sbucava il pertugio, ma intanto il misterioso fuggitivo doveva essersela già data a gambe, perché lì dentro non c’era nessuno.

Il che era ai limiti dell’assurdo, dal momento che esclusa la porta che collegava il negozio con lo stanzino retrostante non vi erano altri punti da cui il fuggitivo potesse essersi dileguato, almeno a prima vista.

«Ma come diavolo ha fatto?».

In un angolo, nei pressi del soffitto, vi era un’altra presa d’aria, ma illuminandola Joe notò che aveva ancora la grata ben inserita ed avvitata, quindi il loro bersaglio doveva trovarsi ancora lì dentro.

«Si può sapere che succede?» domandò Ulrich, che aveva sentito tutto

«Abbiamo un sospetto nel centro commerciale» rispose Helen. «Gli stavamo dietro, ma ora sembra sparito.»

«Amico o nemico?»

«Non lo sappiamo. Non siamo riusciti a vederlo.»

«Continuate a cercarlo. Potrebbe aiutarci a capire cos’è successo su questa nave».

Era una parola. Tra file di attaccapanni con abiti appesi, scatole e contenitori vari c’erano mille e più posti in cui il fuggitivo poteva essersi intrufolato, tenuto conto anche del fatto che doveva trattarsi di qualcuno molto basso.

Lo cercarono per qualche istante, ma poi Joe, che per tutto il tempo non aveva fatto venire meno la sua espressione preoccupata, si avvide prima ancora di Helen di un rumore di passi che giungeva da fuori.

Fu sufficiente per loro guardarsi negli occhi per capire cosa doveva essere successo; erano stati talmente impegnati a frugare nella stanza, da non guardare nemmeno all’interno della grata che collegava le due stanze.

«Maledetto! Prendiamolo!».

Di nuovo lo inseguirono, prima di nuovo nel negozio poi nell’atrio, ma stavolta la distanza da coprire era decisamente troppa, e quando seguendo il rumore riuscirono a recuperare terreno poterono solo vedere le porte dell’ascensore del centro che si chiudevano davanti a loro.

«Dannazione!» strillò Helen battendo i piedi a terra. «Ulrich, è scappato! Ascensore numero quindici del centro commerciale!»

«Ok, ce l’ho! Forse riesco a bloccarlo! Datemi un secondo per entrare nei sistemi di controllo!».

Per fortuna, Amanda e Jacob si trovavano proprio da quelle parti, solo qualche ponte più in basso. Ulrich li chiamò subito.

«Gerth, Keys! C’è un pacco per voi. Ascensore numero quindici, all’ingresso della sala cinema. Ve lo consegnerò già incartato.»

«Ricevuto, ci muoviamo» rispose Jacob.

 

Il cinema, che all’occorrenza poteva diventare anche un teatro o una sala conferenze, era talmente grande che tra la sala vera e propria e le varie attività connesse distribuite attorno all’atrio e alla relativa anticamera occupava da solo quasi un quinto del Ponte C.

L’ascensore 15 segnalato da Ulrich permetteva di spostarsi in un lampo dall’atrio degli acquisti a quello dell’intrattenimento che gli stava subito sotto, e si trovava proprio davanti alle porte che immettevano nella galleria.

Amanda e Jacob stavano cercando di scoprire l’origine del suono che aveva messo in allarme l’Agente Keys, identificato come qualcosa di simile ad un rantolo soffocato, ma alla chiamata di Ulrich raggiunsero velocemente l’area cinema.

«Siamo davanti all’ascensore» comunicò Jacob via radio.

«Giusto in tempo. Ho violato i comandi dell’ascensore. Pacchetto in arrivo tra tre, due, uno… adesso».

Le porte si aprirono, e i due agenti puntarono all’istante le armi innanzi a sé, solo per ritrovarsi a tu per tu con una bimba di forse otto anni che, appiattita contro la parete opposta, li osservava con i denti serrati e gli occhi spalancati per il terrore.

Jacob e Amanda rimasero di sasso.

«Ma… è una bambina…».

La piccola, talmente spaventata da non riuscire a parlare, si raggomitolò a terra con le mani sopra la testa, e a nulla valse l’estremo tentativo da parte dei due agenti di tranquillizzarla abbassando i fucili.

«Che sta succedendo?» domandò Ulrich via radio. «L’avete preso?»

«Falso allarme» lo tranquillizzò Jacob. «È solo una bambina.»

«Una bambina?».

Amanda si sfilò l’arma, mettendosi in ginocchio, e a piccoli passetti si avvicinò lentamente alla bambina, che la guardò con i suoi occhi terrorizzati.

«Come ti chiami?».

Lei non rispose, e anzi si appiattì leggermente di più contro la parete seguitando a tirare su con il naso.

«Io mi chiamo Amanda. E tu invece?»

«H… Hilda» fu, dopo molti secondi, la sua timida risposta. «Hilda Weilmann

«Che bel nome».

Amanda fece qualche altro passo avanti, e stavolta Hilda non si ritrasse.

«Hilda, non devi avere paura. Non siamo cattivi. Siamo qui per aiutarti» quindi allungò la mano verso di lei. «Vieni. Ti portiamo al sicuro».

Seguirono secondi interminabili, persi in un assoluto silenzio; poi, timidamente, Hilda si riscosse, e dopo aver fissato a lungo quella mano protesa, lentamente, la sfiorò, riuscendo a sentirne il calore nonostante il tessuto gommoso che la ricopriva. Un attimo dopo, era stretta addosso ad Amanda, che carezzandola dolcemente dietro ai capelli le sussurrava parole di conforto.

«Capitano, mi sente?» disse Jacob alla radio

«Forte e chiaro, che succede?»

«Abbiamo trovato una superstite. Zona intrattenimento del Ponte C.»

«Ottimo lavoro. Portatela alla navetta di salvataggio. Lì sarà al sicuro.»

«La luce è andata via» disse di colpo Hilda, con il volto ancora nascosto nel seno di Amanda. «Poi sono arrivate quelle… quelle cose.»

«Quali cose?» chiese Amanda

«Assalivano le persone. Le mangiavano. Io cercavo il mio papà, ma mi sono persa. Hanno cercato di mordermi, e sono scappata. Ho strisciato, e strisciato, e strisciato. E sono arrivata in quel negozio. Le porte non si aprivano, e neanche l’ascensore.

Ero da sola.

Mi sono nascosta. Avevo paura».

Dovette fermarsi, perché i singhiozzi erano tali che non le riusciva più neppure di parlare.

«Non parlare, ora va’ tutto bene» la tranquillizzò Amanda. «Ora ci siamo noi con te».

In realtà c’era ben poco da stare tranquilli, e ai due agenti non servì neanche guardarsi negl’occhi o aprire bocca per realizzare di aver avuto la stessa sensazione.

Amanda cercò di calmare ulteriormente Hilda, mentre Jacob non smetteva un momento di guardarsi attorno, e quando quel rumore che aveva sentito poco prima tornò a risuonare, quasi impercettibile, nelle sue orecchie, lo destò, facendogli drizzare tutti i peli del corpo.

«Amanda» sussurrò preoccupato.

Anche lei a quel punto lo sentì, per non parlare di Hilda, che strinse così forte il braccio della ragazza da dare l’idea di volerglielo strappare, chiudendo gli occhi più che poteva.

Il suono si fece sempre più vicino, e stavolta i due agenti non avevano dubbi sulla natura ostile di ciò che si stava avvicinando.

La loro attenzione si focalizzò sulla porta, chiusa, dietro al bancone del bar, probabilmente le cucine, che d’un tratto, lentamente, si aprirono, lasciando entrare nell’atrio un essere che al solo vederlo fece venire ad Amanda conati di vomito.

La pelle era chiara, quasi cadaverica, gli occhi, la bocca e le orecchie erano lordi di sangue nero e coagulato, e tutto il corpo presentava varie ferite, alcune veri e propri squarci, come se quella poveretta fosse stata assalita da un branco di cani randagi.

Una dipendente del cinema, senza dubbio, che movendo la testa ad intermittenza come una bambola rotta portò la sua attenzione dal pavimento ai due agenti, fissandoli con i suoi occhi vuoti, la bocca semiaperta e la lingua a penzoloni.

Amanda esitò, più preoccupata di accertarsi che Hilda fosse ancora vicina a sé che di neutralizzare la potenziale minaccia. Jacob, invece, non ebbe dubbi, e presa la mira fulminò la giovane dritta in mezzo al petto, un colpo degno del miglior tiratore. Quella specie di mostro rantolò, sospinto all’indietro dal rinculo del colpo subito, benché dalla ferita non uscirono che pochi schizzi di sangue, ma incredibilmente, dopo aver dato l’idea di stare per crollare, si ridestò, tornando salda sulle proprie gambe cadaveriche.

E allora, anche Jacob restò palesemente senza parole.

«Ma che diavolo…» e senza esitazioni sparò altri due colpi, che però sortirono il medesimo, scarso effetto.

A quel punto, bersagliata a più riprese, la creatura lanciò un urlo acuto a dir poco assordante, quasi un richiamo, e piegate le ginocchia si esibì in un salto quasi inumano con l’intento di piombare addosso alle sue prede. Jacob la intercettò a mezz’aria, ma stavolta le scaricò addosso una decina di proiettili in automatico, e allora quell’essere, emesso di nuovo il suo rantolo roco, parve finalmente morire, precipitando inerte sul pavimento.

L’Agente Keys attese qualche attimo, quindi, cautamente, si avvicinò, lasciando che i muscoli si distendessero e la concentrazione venisse meno solo quando, tirato un piccolo calcio alla testa della creatura, questa non mostrò alcuna reazione.

«Tranquilla, è finita» disse Amanda rassicurando Hilda, che per tutto il tempo non si era staccata un attimo a lei.

Ma in realtà, anche Amanda era spaventata. E non poco.

«Che storia è questa?» chiese quasi con rabbia. «Da quando in qua resistono alle pallottole?»

«Devo ancora incontrarne uno che si lascia uccidere con un solo colpo» replicò Jacob sostituendo il caricatore, «Anche se devo ammettere che era piuttosto coriaceo.

Sono sicuro di averlo colpito in pieno, e ciò nonostante non è morto.»

«Ti era mai capitata una cosa del genere?»

«Non che io ricordi».

Per sicurezza, Jacob scaricò sul mostro anche tre colpi di pistola, e a quel punto la creatura, come un legno consumato dalla fiamma, si tramutò in cenere, e con essa anche la divisa che indossava. Persino il sangue scomparve, e fu come se quella povera ragazza, chiunque fosse stata prima di diventare così, non fosse mai esistita.

I due agenti, di nuovi, rimasero senza parole.

«Ecco un’altra cosa che non vedi tutti i giorni» mormorò Jacob, che portatosi un dito all’orecchio azionò la radio. «Capitano, mi sente?»

«Che altro c’è, Trigger?»

«Capitano… temo che su questa nave sia in corso un nove-nove ».

Seguirono interminabili secondi di silenzio.

«Come hai detto, prego?».

 

  
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