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«Di preciso, quali sistemi
hai ripristinato?» domandò Vincent mentre Ulrich non
smetteva un attimo di armeggiare ai computer
«Non
molti. Ho aperto le porte stagne, ripristinato l’illuminazione fondamentale, e
stabilizzato l’atmosfera in tutti i settori della nave.
Immagino
di poter fare anche altre cose, ma come mi aspettavo ogni singolo sistema è
protetto da un alto numero di firewall. Stavolta, però, non sarà una cosa da
poco».
Poi,
cercando tra i sistemi più protetti, il giovane trovò qualcosa che riuscì a
stupire persino lui.
«Incredibile.
Avevano pensato proprio a tutto.»
«Di che
parli?».
Senza
prendersi la briga di rispondergli, Ulrich chiamò
subito Georg via radio.
«Capitano,
mi sente?»
«Forte e
chiaro, Drassimovic. Parla pure.»
«Ho
trovato delle informazioni classificate. Sembra che il Megonia
avesse in dotazione dei satelliti d’emergenza per le comunicazioni. Devono
averne lanciati alcuni senza successo nel tentativo di lanciare l’SOS, ma ne ho
trovato uno ancora operativo.
Se
riesco a lanciarlo oltre la zona oscura, potremmo essere in grado di comunicare
direttamente con la superficie.»
«Questa
è un’ottima notizia. Lo puoi fare davvero?»
«Appena
riesco a violare le protezioni. Mi ci vorranno almeno un paio d’ore.»
«Te ne
do una.»
«Ricevuto,
signore» e Ulrich si rimise immediatamente al lavoro.
«Beh»
intervenne Vincent sornione, «Visto che qui non sembro servire a molto, vorrà
dire che mi sposterò altrove.
Forse in
giro per questo rottame ci sono ancora dei superstiti, e un paio di occhi in
più farebbero comodo.»
«Vai pure»
rispose Ulrich senza staccare gli occhi dal monitor.
«Ho riattivato l’ascensore. Se sali fino al Ponte D e prendi la scala di
servizio numero quarantaquattro, dovresti imbatterti in Amanda e Jacob. Sto
tracciando la loro posizione sulla mappa usando i segnali radio.»
«Come
vuoi. Ma tu non muoverti, mi raccomando. Non vorrei che ti perdessi».
Con la ricomparsa della
luce, anche se solo in alcune zone, Amanda e Jacob avevano potuto constatare in
maniera molto più tangibile la portata del lusso e dello sfarzo dei Ponti
Passeggeri che stavano esplorando.
Tutto lì
trasudava di buon gusto, e tra statue, pavimenti in marmo, volte affrescate e
in alcuni casi placcate in oro, lampadari in cristallo e finti candelabri,
tappeti pregiati e quant’altro sembrava di trovarsi nei corridoi del palazzo
reale di New Aalborg.
Persa in
tutto quello splendore, Amanda stava perfino per dimenticare la paura e
l’angoscia che aveva provato fino al momento in cui era stata costretta a
camminare nel buio, con la sola luce delle torce e i visori notturni a
rischiarare l’ambiente.
«Non
distrarti» la ammonì Jacob notando come la sua sottoposta tendesse a guardarsi
un po’ troppo attorno. «Non sappiamo cosa ci aspetti.»
«Le
chiedo scusa» rispose lei imbarazzata.
Jacob
quando voleva sapeva essere davvero spaventoso, con quel suo fare così composto
e il perenne silenzio che lo avvolgeva, e Amanda a volte era quasi intimorita
dalla sua figura; persino guardarlo negli occhi era impossibile, per colpa di
quella frangia generosa che scendeva dalla fronte come le fronde di un albero,
così la ragazza non riusciva mai a capire quale fosse la sua reale espressione,
lasciata solo intendere dai movimenti della bocca.
Con
l’attenzione, però, ritornò anche un po’ di tensione, e Amanda volle provare a calmarla
parlando con il suo superiore.
«Mi
scusi, posso farle una domanda?»
«Del
tipo?».
Amanda
parve venir colta da un momento all’altro da una vampata di imbarazzo.
«Ecco…» disse arrossendo, «Il suo pendente è… curioso».
Lui si
fermò un momento, tanto che Amanda per poco non gli andò addosso, e fatta
scivolare una mano all’interno della corazza esterna della tuta ne trasse fuori
il famoso bossolo legato alla catenina.
«La mia
trentunesima missione» disse come se si stesse rivolgendo al proprio io.
«Quartiere industriale di Otisa. In un cantiere erano
comparsi due EDA contemporaneamente.
Ero
andato in esplorazione, e uno mi ha attaccato.
Ho
sparato tutti i miei colpi, ma lui non moriva. Mi colpì con forza, gettandomi
contro un muro. Mi ruppi un braccio e due costole. Stava per uccidermi. Sparai
l’ultimo, e finalmente morì».
Detto
questo, strinse forte il pugno attorno al bossolo, e anche se non poteva
vederli Amanda intuì dovessero esservi delle lacrime a rigare i suoi occhi.
«Allora,
è un portafortuna.» disse quasi a voler sdrammatizzare la situazione
«La
fortuna non c’entra quando fai questo lavoro. È l’esperienza che conta. Mai
usare l’ultimo proiettile del caricatore, a meno che non vi sia reale
necessità. Se rimani senza colpi, sei morto».
Amanda
restò un attimo basita, conscia dell’importanza di quella lezione, ma anche
atterrita dalla severità e dal tono cupo del suo partner.
Stavano
per rimettersi a camminare, quando Jacob, fermatosi di colpo un’altra volta,
girò lo sguardo alle spalle di Amanda, spingendo anche la ragazza a voltarsi.
Il corridoio da cui erano venuti era deserto così come lo avevano trovato,
discretamente illuminato, e in lontananza di intravedevano le porte dietro cui
vi erano le scale di servizio.
«Che
succede?»
«Ho
sentito qualcosa».
Helen e Joe stavano ancora
attraversando l’area passeggeri in prossimità dell’ascensore che conduceva al
ponte.
La
situazione si era un po’ calmata, grazie anche al ritorno della luce, anche se
Joe in particolare non faceva venire meno il proprio autocontrollo seguitando a
mantenere un’attenzione elevatissima verso tutto ciò che lo circondava.
Di
quando in quando si fermava e si guardava attorno, saggiando il pavimento
freddo della nave o cercando qualche suono, o anche qualche odore; qualsiasi
cosa i sensi affinati che solo un Ranger possedeva potessero aiutarlo a
comprendere la situazione, o a percepire anzitempo potenziali minacce.
Negli
ultimi minuti qualcosa sembrava aver destato il suo interesse, ma lui come al
solito se ne restava in silenzio senza condividere i propri pensieri con Helen.
«Senza
offesa» disse lei con una punta di sarcasmo spazientito quando il suo partner
si fermò per l’ennesima volta, «Ma mi sembra di stare lavorando con un cane
poliziotto».
Non che
Sleeping Beauty disconoscesse o non apprezzasse le capacità dei Ranger, al
contrario, ma l’atteggiamento così introverso e incomprensibile di Joe non
rendeva facile riuscire a capire cosa passasse nella mente di quel ragazzo.
L’ultima
tappa del tragitto prima di raggiungere l’ascensore di servizio era il centro
commerciale, una vasta area circolare con una grande piazza centrale dal
soffitto a volta dalla quale si dipanavano svariate attività ed esercizi, dai
negozi d’alta moda a quelli di gadget e souvenir. Completavano tutto alcune
panchine e una piccola isola verde nel mezzo, con al centro una bella fontana.
Vi
albergava una luce strana, quasi da discoteca, dall’indubbio effetto scenico ed
estetico ma che rendeva la zona parecchio buia, in cui i giochi di ombre e i
faretti proiettati in ogni dove servivano solo a creare falsi allarmi.
Ulrich, che
aveva collegato il segnale emesso dalle loro trasmittenti alle mappe virtuali
della nave, li chiamò per trasmettergli ulteriori istruzioni.
«Ci
siete quasi. Superate l’area commerciale, uscite dalla porta sull’altro lato,
fate altri trenta metri e troverete l’ingresso all’ascensore di servizio.»
«Sentito?
Muoviamoci».
Invece,
fatti solo due passi, Joe si immobilizzò, guadagnandosi un’occhiata incredula
di Helen.
«E
adesso che ti prende?»
«Qui c’è
qualcuno.» sussurrò il giovane girando gli occhi in ogni direzione.
Helen
ebbe un attimo di smarrimento, recuperando però subito il raziocinio e
drizzando a sua volta le antenne nella speranza di avvertire a sua volta i
segni che avevano messo in allarme il suo partner.
«Che
cos’è?»
«Piccolo.
E veloce. Si muove su due gambe. E ci sta tenendo d’occhio».
La
ragazza alzò il fucile, mentre Joe ripose il proprio preferendovi invece il suo
machete, quindi i due agenti si divisero prendendo direzioni opposte, la
camminata silenziosa e il ventre il più vicino possibile a terra.
Helen si
avventurò nella boutique, traboccante in ogni dove di abiti d’alta classe, dai
vestiti da sera agli eleganti smoking neri per uomini e ragazzi, dove
l’articolo più economico non costava meno di alcune centinaia di kylis, e appiattitasi ancora più prese a girare per gli
scaffali alla ricerca di una qualunque forma di vita.
Non
servì molto perché anche lei si avvedesse del fatto che lì c’era sicuramente
qualcuno, qualcuno la cui presenza venne confermata senza ombra di dubbio da
Joe, che avventuratosi nel bar trovò il frigo saccheggiato e spazzatura sparsa
un po’ ovunque, oltre ad uno stretto pertugio, una specie di nascondiglio
improvvisato ricavato da uno stipetto a livello terra il cui contenuto era
stato gettato in ogni direzione per fare quanto più posto possibile.
Chiunque
fosse non sembrava interessato a passare inosservato, o quantomeno non era
capace di farlo, movendosi di continuo e facendo, nonostante la moquette, quel
tanto di rumore che bastava da annunciare la sua presenza.
«Forze
speciali MAB!» disse Helen nel tentativo di far uscire la misteriosa ombra allo
scoperto. «Vieni fuori! Non abbiamo cattive intenzioni!».
Ma il
fuggitivo non rispose, e anzi ad un certo punto si azzittì di colpo, fermandosi
apparentemente in un punto per non spostarsi più. O si era accorto di stare
facendo troppo rumore, o forse era ormai troppo spaventato per fare o dire
qualunque altra cosa, con due segugi che gli stavano alle costole.
Di
sicuro, chiunque fosse, si trovava lì nella boutique, e tendendo bene
l’orecchio Helen riuscì a sentire per un breve istante un respiro affannoso,
chiaramente spaventato, ed un lamento come di pianto.
«È qui»
sussurrò alla radio rivolta a Joe.
Seguendo
quel richiamo, anche se ormai scomparso, la donna varcò prima l’angolo di uno
scaffale, quindi si appiattì contro la porta di un camerino.
Ne era
sicura; la sua preda era lì. Quasi poteva sentirne il battito.
Trasse
un respiro, chiudendo un momento gli occhi, poi, calmate le palpitazioni, fece
scivolare la mano verso la maniglia, che aprì di getto catapultandosi
all’interno.
Non
c’era nessuno.
In
compenso, la grata a livello del pavimento, probabilmente un condotto
dell’aria, era aperta, e dall’interno giungevano ben distinti rumori metallici
che si facevano sempre più lontani.
«Merda!
Sospetto in fuga!» strillò.
Joe
accorse veloce come un fulmine, e assieme a Helena raggiunse il retrobottega
dove sbucava il pertugio, ma intanto il misterioso fuggitivo doveva essersela
già data a gambe, perché lì dentro non c’era nessuno.
Il che
era ai limiti dell’assurdo, dal momento che esclusa la porta che collegava il
negozio con lo stanzino retrostante non vi erano altri punti da cui il
fuggitivo potesse essersi dileguato, almeno a prima vista.
«Ma come
diavolo ha fatto?».
In un
angolo, nei pressi del soffitto, vi era un’altra presa d’aria, ma illuminandola
Joe notò che aveva ancora la grata ben inserita ed avvitata, quindi il loro
bersaglio doveva trovarsi ancora lì dentro.
«Si può
sapere che succede?» domandò Ulrich, che aveva
sentito tutto
«Abbiamo
un sospetto nel centro commerciale» rispose Helen. «Gli stavamo dietro, ma ora
sembra sparito.»
«Amico o
nemico?»
«Non lo
sappiamo. Non siamo riusciti a vederlo.»
«Continuate
a cercarlo. Potrebbe aiutarci a capire cos’è successo su questa nave».
Era una
parola. Tra file di attaccapanni con abiti appesi, scatole e contenitori vari
c’erano mille e più posti in cui il fuggitivo poteva essersi intrufolato,
tenuto conto anche del fatto che doveva trattarsi di qualcuno molto basso.
Lo
cercarono per qualche istante, ma poi Joe, che per tutto il tempo non aveva
fatto venire meno la sua espressione preoccupata, si avvide prima ancora di
Helen di un rumore di passi che giungeva da fuori.
Fu
sufficiente per loro guardarsi negli occhi per capire cosa doveva essere
successo; erano stati talmente impegnati a frugare nella stanza, da non
guardare nemmeno all’interno della grata che collegava le due stanze.
«Maledetto!
Prendiamolo!».
Di nuovo
lo inseguirono, prima di nuovo nel negozio poi nell’atrio, ma stavolta la
distanza da coprire era decisamente troppa, e quando seguendo il rumore
riuscirono a recuperare terreno poterono solo vedere le porte dell’ascensore
del centro che si chiudevano davanti a loro.
«Dannazione!»
strillò Helen battendo i piedi a terra. «Ulrich, è
scappato! Ascensore numero quindici del centro commerciale!»
«Ok, ce
l’ho! Forse riesco a bloccarlo! Datemi un secondo per entrare nei sistemi di
controllo!».
Per
fortuna, Amanda e Jacob si trovavano proprio da quelle parti, solo qualche
ponte più in basso. Ulrich li chiamò subito.
«Gerth, Keys! C’è un pacco per voi. Ascensore numero quindici,
all’ingresso della sala cinema. Ve lo consegnerò già incartato.»
«Ricevuto,
ci muoviamo» rispose Jacob.
Il cinema, che
all’occorrenza poteva diventare anche un teatro o una sala conferenze, era
talmente grande che tra la sala vera e propria e le varie attività connesse
distribuite attorno all’atrio e alla relativa anticamera occupava da solo quasi
un quinto del Ponte C.
L’ascensore
15 segnalato da Ulrich permetteva di spostarsi in un
lampo dall’atrio degli acquisti a quello dell’intrattenimento che gli stava subito
sotto, e si trovava proprio davanti alle porte che immettevano nella galleria.
Amanda e
Jacob stavano cercando di scoprire l’origine del suono che aveva messo in
allarme l’Agente Keys, identificato come qualcosa di simile ad un rantolo
soffocato, ma alla chiamata di Ulrich raggiunsero
velocemente l’area cinema.
«Siamo
davanti all’ascensore» comunicò Jacob via radio.
«Giusto
in tempo. Ho violato i comandi dell’ascensore. Pacchetto in arrivo tra tre,
due, uno… adesso».
Le porte
si aprirono, e i due agenti puntarono all’istante le armi innanzi a sé, solo
per ritrovarsi a tu per tu con una bimba di forse otto anni che, appiattita
contro la parete opposta, li osservava con i denti serrati e gli occhi
spalancati per il terrore.
Jacob e
Amanda rimasero di sasso.
«Ma… è una bambina…».
La
piccola, talmente spaventata da non riuscire a parlare, si raggomitolò a terra
con le mani sopra la testa, e a nulla valse l’estremo tentativo da parte dei
due agenti di tranquillizzarla abbassando i fucili.
«Che sta
succedendo?» domandò Ulrich via radio. «L’avete
preso?»
«Falso
allarme» lo tranquillizzò Jacob. «È solo una bambina.»
«Una
bambina?».
Amanda
si sfilò l’arma, mettendosi in ginocchio, e a piccoli passetti si avvicinò
lentamente alla bambina, che la guardò con i suoi occhi terrorizzati.
«Come ti
chiami?».
Lei non
rispose, e anzi si appiattì leggermente di più contro la parete seguitando a
tirare su con il naso.
«Io mi
chiamo Amanda. E tu invece?»
«H… Hilda» fu, dopo molti secondi,
la sua timida risposta. «Hilda Weilmann.»
«Che bel
nome».
Amanda
fece qualche altro passo avanti, e stavolta Hilda non
si ritrasse.
«Hilda, non devi avere paura. Non siamo cattivi. Siamo qui
per aiutarti» quindi allungò la mano verso di lei. «Vieni. Ti portiamo al
sicuro».
Seguirono
secondi interminabili, persi in un assoluto silenzio; poi, timidamente, Hilda si riscosse, e dopo aver fissato a lungo quella mano
protesa, lentamente, la sfiorò, riuscendo a sentirne il calore nonostante il
tessuto gommoso che la ricopriva. Un attimo dopo, era stretta addosso ad
Amanda, che carezzandola dolcemente dietro ai capelli le sussurrava parole di
conforto.
«Capitano,
mi sente?» disse Jacob alla radio
«Forte e
chiaro, che succede?»
«Abbiamo
trovato una superstite. Zona intrattenimento del Ponte C.»
«Ottimo
lavoro. Portatela alla navetta di salvataggio. Lì sarà al sicuro.»
«La luce
è andata via» disse di colpo Hilda, con il volto
ancora nascosto nel seno di Amanda. «Poi sono arrivate quelle…
quelle cose.»
«Quali
cose?» chiese Amanda
«Assalivano
le persone. Le mangiavano. Io cercavo il mio papà, ma mi sono persa. Hanno
cercato di mordermi, e sono scappata. Ho strisciato, e strisciato, e
strisciato. E sono arrivata in quel negozio. Le porte non si aprivano, e
neanche l’ascensore.
Ero da
sola.
Mi sono
nascosta. Avevo paura».
Dovette
fermarsi, perché i singhiozzi erano tali che non le riusciva più neppure di
parlare.
«Non
parlare, ora va’ tutto bene» la tranquillizzò Amanda. «Ora ci siamo noi con
te».
In
realtà c’era ben poco da stare tranquilli, e ai due agenti non servì neanche
guardarsi negl’occhi o aprire bocca per realizzare di aver avuto la stessa
sensazione.
Amanda
cercò di calmare ulteriormente Hilda, mentre Jacob
non smetteva un momento di guardarsi attorno, e quando quel rumore che aveva
sentito poco prima tornò a risuonare, quasi impercettibile, nelle sue orecchie,
lo destò, facendogli drizzare tutti i peli del corpo.
«Amanda»
sussurrò preoccupato.
Anche
lei a quel punto lo sentì, per non parlare di Hilda,
che strinse così forte il braccio della ragazza da dare l’idea di volerglielo
strappare, chiudendo gli occhi più che poteva.
Il suono
si fece sempre più vicino, e stavolta i due agenti non avevano dubbi sulla
natura ostile di ciò che si stava avvicinando.
La loro
attenzione si focalizzò sulla porta, chiusa, dietro al bancone del bar,
probabilmente le cucine, che d’un tratto, lentamente, si aprirono, lasciando
entrare nell’atrio un essere che al solo vederlo fece venire ad Amanda conati
di vomito.
La pelle
era chiara, quasi cadaverica, gli occhi, la bocca e le orecchie erano lordi di
sangue nero e coagulato, e tutto il corpo presentava varie ferite, alcune veri
e propri squarci, come se quella poveretta fosse stata assalita da un branco di
cani randagi.
Una
dipendente del cinema, senza dubbio, che movendo la testa ad intermittenza come
una bambola rotta portò la sua attenzione dal pavimento ai due agenti,
fissandoli con i suoi occhi vuoti, la bocca semiaperta e la lingua a penzoloni.
Amanda
esitò, più preoccupata di accertarsi che Hilda fosse
ancora vicina a sé che di neutralizzare la potenziale minaccia. Jacob, invece,
non ebbe dubbi, e presa la mira fulminò la giovane dritta in mezzo al petto, un
colpo degno del miglior tiratore. Quella specie di mostro rantolò, sospinto
all’indietro dal rinculo del colpo subito, benché dalla ferita non uscirono che
pochi schizzi di sangue, ma incredibilmente, dopo aver dato l’idea di stare per
crollare, si ridestò, tornando salda sulle proprie gambe cadaveriche.
E
allora, anche Jacob restò palesemente senza parole.
«Ma che diavolo…» e senza esitazioni sparò altri due colpi, che
però sortirono il medesimo, scarso effetto.
A quel
punto, bersagliata a più riprese, la creatura lanciò un urlo acuto a dir poco
assordante, quasi un richiamo, e piegate le ginocchia si esibì in un salto
quasi inumano con l’intento di piombare addosso alle sue prede. Jacob la
intercettò a mezz’aria, ma stavolta le scaricò addosso una decina di proiettili
in automatico, e allora quell’essere, emesso di nuovo il suo rantolo roco,
parve finalmente morire, precipitando inerte sul pavimento.
L’Agente
Keys attese qualche attimo, quindi, cautamente, si avvicinò, lasciando che i
muscoli si distendessero e la concentrazione venisse meno solo quando, tirato
un piccolo calcio alla testa della creatura, questa non mostrò alcuna reazione.
«Tranquilla,
è finita» disse Amanda rassicurando Hilda, che per
tutto il tempo non si era staccata un attimo a lei.
Ma in
realtà, anche Amanda era spaventata. E non poco.
«Che
storia è questa?» chiese quasi con rabbia. «Da quando in qua resistono alle
pallottole?»
«Devo
ancora incontrarne uno che si lascia uccidere con un solo colpo» replicò Jacob
sostituendo il caricatore, «Anche se devo ammettere che era piuttosto coriaceo.
Sono
sicuro di averlo colpito in pieno, e ciò nonostante non è morto.»
«Ti era
mai capitata una cosa del genere?»
«Non che
io ricordi».
Per
sicurezza, Jacob scaricò sul mostro anche tre colpi di pistola, e a quel punto
la creatura, come un legno consumato dalla fiamma, si tramutò in cenere, e con
essa anche la divisa che indossava. Persino il sangue scomparve, e fu come se
quella povera ragazza, chiunque fosse stata prima di diventare così, non fosse
mai esistita.
I due
agenti, di nuovi, rimasero senza parole.
«Ecco
un’altra cosa che non vedi tutti i giorni» mormorò Jacob, che portatosi un dito
all’orecchio azionò la radio. «Capitano, mi sente?»
«Che
altro c’è, Trigger?»
«Capitano… temo che su questa nave sia in corso un nove-nove ».
Seguirono
interminabili secondi di silenzio.
«Come
hai detto, prego?».