Volevo aspettare che finisse la serie per non
sentirmi condizionata, ma … alla fine …
Ci tenevo a ringraziare tutti coloro che
hanno recensito il capitolo precedente e quello prima ancora. Davvero vi
adoro, ogni vostra recensione mi riempie
il cuore di gioia, anche perché dite cose troppo dolci e poco veritiere.
Il titolo è sempre tratto dalla genesi, si
non è un granché, ma è quello …
Allora il capitolo presenta una scena Slash,
la prima che scrivo e quindi prendetela con le pinze, non che con la scena Het
me la sia cavata meglio, dovrei tornare a scrivere di morti ammazzati, mi viene
molto, molto, meglio.
E questo capitolo doveva avere molto
Verrocchio, ma mi faceva troppo male scrivere di lui, rimedierò con il prossimo
D: O ANDREA PERCHÉ? * Va a piangere in un angolino*
Buona Lettura, RLandH
Ps- Ha vinto Lorenzo!
Sono forse il guardiano di mio fratello?
Atto III: Che
hai fatto?
(1471)
Si sentiva così incredibilmente piccola in
quelle stanze. Gli appartamenti cardinalizi erano antichi, finalmente decorati
con opere di incredibile bellezza e raffinatezza, molto più eleganti di quanto
era mai state le sue camere. Ed erano meravigliose, da lasciarla con l’aria
spezzata in gola. Era vestita di tutto punto, con l’avvento dell’inverno e
l’arrivo della celebrazione del natale, aveva commissionato alle sarte abiti
precisi, curati e magnifici. Era quell’anno speciale, era finalmente venuto il loro
momento. Una serva le aveva portato del vino caldo speziato con estrema
reverenza, s’era accomodata lei su una poltrona di velluto rosso ed aveva
aspettato con ansia la porta. Non vedeva l’ora che i suoi fratelli
arrivassero, erano passati solo pochi
mesi dal loro ultimo incontro, ma lei parevano anni. Si ricordava ancora quel
giorno, nel giardino, quando sua madre le aveva promesso che se si sarebbe
presa cura dei suoi fratelli un giorno loro avrebbero fatto lo stesso. Ed ora
erano grandi, erano forti, e lei si sentiva il cuore colmo di fierezza per
loro. Era già passato il tempo in cui solo lei si occupava di loro, ma in quel
particolare giorno, aveva come la sensazione di liberarsi d’una trave infuocata
dal petto. Il primo ad arrivare fu il
minore, ed era un uomo, con un filo di barba ed i capelli scuri, portati lunghi
fino alle spalle e disordinati, ma lei lo vedeva come un bambino con le dita
insozzate di miele. Sorrise nel vederlo, si sollevò, lasciando cadere la coppa
di vino disinteressata, correndo verso di lui, stringendosi in quelle braccia
forti che non avevano più nulla delle molli carni del piccolo arto che si
tendeva verso di lei. “Non trovi, mi doni questo colore?” aveva domandato con
orgoglio, esibendo soddisfatto, la lunga veste carminia. Lei annui, sentendo
premere sulle palpebre lacrime di gioia e d’orgoglio.
(1479)
“Alla fine ho vinto io” ruggì
Lorenzo, baciandoli le labbra, poi passò alla mascella e scese lungo il collo,
fermandosi un attimo alla clavicola, “Sei stato più convincente” aveva concesso
l’altro, mentre il più piccolo ricominciava la sua discesa di baci lungo il
petto nudo, assicurandosi di lasciare anche qualche morso, arrivato al cavallo
era tornato su. “Ho piegato dunque alla mia volontà Leonardo Da Vinci” aveva
detto con voce grossa, posandoli un altro bacio umido sulle labbra, quello
aveva ghignato, prima di ribaltare le posizioni, rotolandosi tra le lenzuola,
ponendosi poi sopra, “Ora, giovane Lorenzo, non esagererei” aveva commentato,
baciandolo con foga, infilandoli le mani tra i capelli. Il più piccolo s’era
allontanato, sorridendo sornione, prima che con uno slancio ribaltasse ancora
le posizioni e nella loro ruzzolata quasi non erano caduti giù dal letto di Di
Credi, “Ha comandato per due notti di fila lei, maestro” notò il ragazzo,
posandoli una dito sulle labbra, prima d’avvicinarsi al lobo e succhiarlo, “Ora
comando io” soffiò suadente. “Non ti facevo così attivo” commento smaliziato Leonardo. Lorenzo rise fresco e
cristallino, “Sono un artista io, devo essere versatile” aggiunse,
mettendosi a cavalcioni e strusciando il suo bacino su quello dell’altro. Da
Vinci rise compiaciuto, mentre sentiva ancora le labbra di quello sul suo
corpo, “Ma devi sapere …” gli disse, sollevandoli appena il viso, “Che io non
amo i limiti” aveva sussurrato, sollevandosi e portando evidentemente anche
l’altro a fare lo stesso. Lorenzo si credi si morse le labbra in maniera pudica
ed innocente, per quanto un ragazzo nudo con un accenno d’erezione potesse
esserlo, “O maestro, non l’avevo notato” scherzò.
S’era svegliato dal suo torpore,
con ancora la luna alta nel cielo, aveva sentito il respiro di qualcuno sul suo
collo, aveva voltato lo sguardo,
osservando le labbra di Lorenzo non distanti dalla sua clavicola, aveva un
espressione serena d’un sogno che doveva piacergli molto o forse il ricordo di
ciò che era appena avvenuto. Ed una visione così candida, fu quasi inevitabile
ricordargli chi di candido non lo era, vide Lucrezia Donati sorridere in quella
maniera sbarazzina, maliziosa ed intrigante, che amava. Avrebbe voluto toccarsi
il collo e sentire il suo pegno, ma sarebbe stato forse troppo doloroso. La
odiava e l’amava insieme, l’avrebbe voluta stringere tra le sue braccia e
soffocare il suo fiato con le sue stesse mani. Non vedeva Lucrezia da più di un
anno, non ne aveva avuto alcuna sua notizia, sarebbe potuta essere morta … E
no! Non era così, se lo fosse stato, lui l’avrebbe saputo in qualche modo, nel profondo. “Leonardo” la voce del Turco venne
improvvisa, come d’una folata d’aria gelata in una calda estate, si era voltato
ed ancora una volta se era trovato steso in un luogo diverso rispetto il letto,
sulla nuda terra, circondando da alte pareti di pietra bianca, deturpate da rampicanti
appassite. Il Turco era davanti a lui, con un candela, altre mille ombre si
muovevano nella notte. “Dove?” domandò, sperando che questa volta non fosse quando la risposta, “Nel labirinto”
aveva spiegato con voce calma Al-Rhaim, il fuoco era ondulato, come scosso da
un forte vento, ma non un solo filo d’aria animava il luogo. “Seguimi, Leonardo” disse, allungando verso
di lui la cera. L’artista s’era sollevata dalla posizione supina e s’era messo
in piedi, trovando il Turco porgerli ancora la candela. La prese un attimo,
sentendo sui polpastrelli un gelo inspiegabile. “Il Libro delle Lamine è qui?”
domandò Leonardo, affiancando il Turco, “Non ne abbiamo cognizione” aveva
risposto l’uomo, svoltando in un corridoio che lo aveva inghiottito in un
oscurità così profonda da sembrare una tela, Leonardo lo seguì, non
trovandolo, rischiando di precipitare
giù, lui era sull’orlo d’un precipizio, che s’apriva sulla montagna della
Volta. Lui era tornato nel Nuovo Mondo? “Oh mio sognatore” aveva sentito Ima
chiamarlo, ma non aveva avuto il coraggio di voltarsi, aveva sentito il respiro
della donna sul collo, “Ci hai uccisi tutti” la sua voce era bassa, velenosa,
le sue mani si erano posate sulla sua schiena e l’avevano spinto giù, con una
forza inumana.
Era rotolato sul suolo, aveva
sentito un dolore allo sterno e alle costole, sulla superficie cui era
atterrato, s’era steso con la schiena al suolo ed aveva provata a respirare,
trovandolo incredibilmente faticoso. “Spesso è complicato tenere separati i
luoghi ed i tempi” aveva sussurrato una voce, Leonardo l’aveva cercata, intorno
a lui, cominciava a disegnarsi una struttura e quando con fatica si era
sistemato sulle ginocchia, aveva notato trovarsi in un lungo corridoio, sia a
destra che a sinistra c’erano sbarre, era in una prigione, o almeno l’aveva
pensato all’inizio, si era poi reso conto fossero gabbie. Adatte agli animali,
non agli uomini. “Chi ha parlato?” domandò, la fiamma della candela sembrò
farsi più vibrante, più maestosa e per un attimo, Leonardò ebbe l’impressione
di vedere tutti quelli che erano nascosti nelle gabbie, era salito anche un
vociare, ombre che s’erano rifuggiate per nascondersi dalla luce. “La tua sete
di conoscenza ragazzo è forte” la voce che aveva parlato era stata la stessa di
prima, l’aveva seguito e s’era avvicinato ad una gabbia, dove una figura sotto
un manto nero era emersa, “Ma la Luce non appartiene a questo luogo” aveva
sussurrato, la fiamma s’era assopita, diventato nulla più che una scintilla, ed
allora la figura s’era avvicinata alle sbarre, non era che un vecchio, come
tanti altri, con i capelli canuti ed i solchi sul viso. La schiena era curva,
causa la piccolezza della gabbia. Leonardo aveva cominciato a cercare una
serratura da poter scassinare, ma si era accorto, poi, fosse assente. “Sono
sbarre di ignoranza ed oscurità” era stato l’amaro commento dell’uomo, “Non hai
ancora la sapienza per spezzarle” aveva spiegato calmo il vecchio. L’artista
l’aveva guardato, “Non posso aiutarti?” aveva domandato il giovane, l’uomo
aveva mosso il capo in segno di diniego, prima di sorridere vagamente
amichevole, “Non ora, almeno” aveva tentato di rassicurarlo, ma la cosa non
aiutò, anche l’abissino l’aveva rassicurato, dicendogli che l’avrebbe salvato,
eppure non era stato così. Non voleva che succedesse ancora, non voleva che i
suoi limiti costassero la vita a qualcun altro.
“Quello che ti sta per accadere
giovane, è ciò che ne sarà il tuo destino” aveva ripreso l’uomo, “In passato
hai dovuto scegliere tra la Volta e Firenze” aveva ripreso l’anziano, Leonardo
aveva annuito, quella volta, lui aveva cambiato il destino, era riuscito ad
ottenere entrambe le cose, sia la Volta sia Firenze. Nessuno lo aveva predetto,
ma Leonardo era riuscito a torcere il suo futuro, come aveva ampiamente capito
i figli di Mitra erano in grado di convertire il tempo al loro piacere e poi,
quando era entrato nel regno dei morti, il suo alterego li aveva fatto
promettere di farlo ancora, di cambiare ancora il destino e non fallire.
Leonardo annuì, “Ci salverai tutti, giovane, puoi star tranquillo” aveva
sussurrato l’uomo, con un sorriso, “Devi però trovare il libro” aveva spiegato
con voce distante, “E questo deve essere la tua sola ragione di vita” aveva
ripreso, l’artista aveva annuito, “Senza quel sapere, neanche la tua
intelligenza potrà essere luce nel labirinto” aveva spiegato. Il labirinto, a quella parola, Leonardo
tremò, nel labirinto risiedevano i
nemici dell’uomo, quelli che mai avrebbero dovuto trovare il libro, sembrò per
un attimo vedere una creatura amorfa, ma scomparve nel buio. “Come …?” provò a
parlare, ma il vecchio lo mise a tacere, “La Cripta è il prossimo passo. Trova
la Cripta, trova il libro, affronta il labirinto” aveva detto l’uomo, “Spezza
le catene dell’ignoranza” aveva aggiunto, “Il
tempo delle titubanze è cessato” la voce dell’uomo sembrò perdersi, la
fiamma della candela si illuminò come raggi del sole, tanto da costringerlo a
chiudere gli occhi. Quando si riprese era in un giardino.
Vide la stessa donna del sogno
precedente, era una ragazzina, aggrappata alla corteccia d’un albero, con le
unghia scarnificate, i suoi capelli erano annodati, pendii di foglie ed il viso
era sporco di terra bruna e sangue, il suo viso era segnato da una profonda
disperazione, “Fermatevi” aveva urlato, con lacrime salate a stritolarle le
guance arrossate, raschiava il tronco continuando a ferirsi. Da Vinci cercò con
lo sguardo ciò che stava implorando finisse, ma non trovò che il Turco nello
stesso luogo dove l’aveva conosciuto la prima volta. Aveva ripreso la candela e
la fiamma s’era aizzata un'altra volta, “Da quando sei uscito dalla Volta, il
tempo è furioso” aveva detto
spettrale, prima di condurrò lungo il corridoio coperto d’erba marcia, fino ad
incontrare un bivio: alla sua sinistra c’era un corridoio lugubre spettrale, ma
ciò che Leonardo scorgeva nel fondo era l’interno della cripta in cui era
stato; alla sua destra c’era una prigione ed una donna dietro essa, aveva ricci
castani e mani strette sulle sbarre, “Lucrezia” aveva sussurrato.
Il tempo delle titubanze è cessato.
Quando aveva aperto gli occhi,
Leonardo s’era accorto d’esser nudo in solitudine sul letto di Credi, Lorenzo
era sorprendentemente sveglio, che nudo dalla cintola in su, era seduto su uno
sgabello di legno e disegnava su una tela, con quello che sembrava un tratto
leggero di grafite. “Ben sveglio, maestro” disse con una risata allegra, “Hai
trovato un soggetto?” domandò Leonardo sollevandosi dalla posizione supina, il
ragazzo sorrise appena, tornando alla sua arte. I suoi occhi ardevano più di
passione in quel momento, di quanto non fosse stato nelle notti precedenti, se
Da Vinci definiva se stesso un artista ed un inventore, Di Credi doveva
annoverarsi solo nella prima categoria. Leonardo dovette combattere l’impulso
di arraffare un foglio e ritrarlo in quello stato, era d’una bellezza
sopraffina, ampiamente più bello di
chiunque altro avesse visto nella vita,
forse più di Lucrezia. Ed il pensiero di quella fanciulla, lo fece ripiombare
nei sogni.
Si alzò, baciandoli la nuca, tra
i capelli, sentì il ragazzo ridacchiare,
“Oggi mi accompagnerai al Cane Abbaiante?” domandò, Lorenzo si voltò, i suoi
occhi sembravano essersi spenti del fuoco della passione, ma animati da altro,
“Certo Maestro” disse mesto, sorridendo in maniera innocente, Leonardo sorrise,
accarezzò il ragazzo tra i capelli, sotto l’orecchio, si chinò e diede un altro
bacio, osservando il quadro, sulla tela vi erano tre figure senza dettagli,
tratti distintivi. Il vecchio aveva ragione:
il tempo delle titubanze era cessato, aveva imboccato la strada a sinistra,
nonostante il suo cuore puntasse a destra, aveva come l’impressione che questa
volta non sarebbe riuscita a salvare tutti. “Cos’è?” domandò, “L’ho sognato
questa notte” rispose il più piccolo divertito, “Hai anche trovato il tempo di
sognare?” lo prese in giro il più grande scompigliandoli i capelli, confinando
in un angolo della testa la sua esperienza onirica, “Devo solo trovare un viso,
per la mia signora” aveva ripreso con
una certa inquietudine, “Se fosse donna, sarebbe lei, maestro” aggiunse.
Leonardo sorrise un ultima volta, prima di raccattare i suoi vestiti sparsi per
la stanza ed uscire. Adesso aveva da fare alcune cose decisamente più
importanti che godersi la gentile compagnia di Lorenzo, prima tra queste
scoprire perché Vespucci, Yana e Verrocchio non avessero detto nulla della
moneta.
Dall’ultima volta che aveva visto
Carola Norsa, Girolamo Riario era cosciente fossero passati troppi anni, perché
potesse esserci anche solo un accenno di memoria in quel viso. La donna era
piccola, delicata, più giovane di lui, aveva la carnagione chiara come la
polvere di luna, un fisico così esile da sembrare cristallo, aveva capelli
castani, con una scriminatura nel mezzo, che scendeva lungo le spalle fino alle
anche, sul petto si mostrava una spilla dalla forma d’una stella di Davide. Li
accolse lì in un silenzio tombale, aveva occhi verdi d’un morto, vacui, senza
espressione. Vestita d’un abito morbido, non pregiato, d’uno spettrale pallido,
era sembrata nulla più d’uno spirito dietro la porta di legno, aveva guardato
Girolamo come se non lo vedesse veramente, il Conte s’era goduto solo metà di
quel viso, Carola aveva meccanicamente spostato lo sguardo verso l’abissina.
Aveva poi aperto la porta e s’era fatta da parte lasciandoli entrare.
Girolamo e Zita s’erano
allontanati dal Palazzo Orsini, un ora prima che sorgesse il sole. L’avevano
fatto stretti in cappe scure, con cappucci che ne coprivano il capo, a piedi,
premunendosi di non farsi scoprire dai due cugini cardinali di Girolamo,
Giuliano e Raffaele. Non c’era stata nessuna guardia con loro, non che Riario ne avesse avuto bisogno,
avrebbe potuto eliminare qualsiasi uomo avesse intralciato il suo cammino.
Avevano attraversato Roma con la costante paura d’esser seguiti, tormentati
dalle più indicibili timori, avevano percorso le vie più malfamate, con
nient’altro che coltellacci nascosti sotto i vestiti ed un vaso antico, con dei
fiori tra le mani. Fino al Ghetto la strada non era stata difficile, ma come da
anni a quella parte, nei quartieri giudei Girolamo aveva sentito la vertigine
nel percorrere quelle strade ed un forte senso di disgusto, aveva fatto salire
la bile fino a percepirne il sapore sulla lingua, ma aveva tirato dritto fino
alla casa dove erano diretti, quella dove viveva Carola Norsa, dove giusto un
paio di giorni prima aveva accolto la sua serva. Così in quella dimora, erano
stati ricevuti dalla fanciulla, la signora e seconda moglie del padrone della
casa, noto come l’uomo che erano venuti ad incontrare. .
Forse era stato proprio il
signore che dovevano incontrare, un buon decennio prima, a dirgli che Carola
Norsa non parlava, non che Girolamo fosse mai stato particolarmente interessato
a qualsivoglia donna ebrea, ma era rimasto ugualmente inquietato dal silenzio
che aleggiava per il corridoio dalle pareti di legno rovinato, lungo le scale scricchiolanti. Riario era stato abituato alle
urla, ai singhiozzi, non c’era nulla che lo inquietasse più del silenzio. Forse
perché la così tanta abitudine, l’aveva portato a soffocarsene. Forse perché lo faceva sentire morto e gli
ricordava quanto Dio fosse armai sordo ai suoi appelli. Guardò ancora la donna,
tra Carola ed un morto, v’era il respiro come differenza. Zita aveva allungato
la mano ed aveva afferrato la sua, Girolamo l’aveva guardata e senza
controllarlo un sorriso era sorto sul viso. Carola aveva bussato delicatamente
ad una porta di legno scheggiato, dopo aver sentito il permesso d’entrare,
l’aveva aperta, dopo aver voltato lo sguardo ancora una volta verso Girolamo,
s’era fatto da parte. Riario era entrato, Zita aveva provato a seguirlo, ma Carola aveva posto il braccio delicatamente
sul ventre di Zita, quasi ad invitarla di non procedere. “Tranquilla” le disse
lapidario, guardandole la gonna, dove la schiava teneva un coltello per
necessità, poi entrò, sentendo la porta chiudersi alle spalle.
Carola Norsa era la seconda
moglie d’un uomo, che era stato figlio d’un allibratore, non era però mai stato tanto bravo – differentemente
dal padre – in tale ignobile lavoro, ciò era stato purtroppo la condanna del
vecchio che s’era ritrovato unicamente lui tra tutti i suoi figli a veder un
età maggior a dispetto da quella della fanciullezza. Ed era tale uomo un
grand’amante d’oggetti misterici o talvolta semplicemente singolari. Non
servivano monete per comprare il suo tempo, per certe questioni. Un ebreo fuori
dalle righe, Girolamo non faticava ad ammetterlo. L’uomo lo guardò, aveva una
carnagione bronzea e capelli remeggianti, vestiva di blu scuro e se ne stava
chino su una sedia, mentre leggeva un libro con estremo interesse. “Eliseo”
disse richiamandolo dai suoi comodi, l’uomo sollevò gli occhi e guardò l’uomo,
nelle iridi scure scintillava qualcosa di perverso che l’aveva sempre
caratterizzato anche da bambino. “Conte!” esclamò con voce carica d’affetto,
che non nascondeva una menzogna all’apparenza. Sollevandosi per accoglierlo
come si deve, sul farsetto blu, scintillava cucita in argento una piccola
effige d’un fiore. Eliseo non fece commenti sul tale motivo per cui Girolamo si
fosse presentato due giorni dopo la data concordata con l’abissina, perché
Riario sapeva, l’uomo conoscerlo bene.
Girolamo non disse nulla, allungò
all’uomo il vaso che s’era portato dietro dalle sue stanze, un anfora antica,
dipinta con l’accurata scena d’una battaglia antica, ricolma di terra, cui
uscivano due fiori dagli ampi petali bianchi ed un bocciolo giallo dal centro;
erano fiori che aveva trovato nel Nuovo Mondo. Eliseo sembrò studiarli un po’,
decisamente colpito, mordendosi un labbro, “Grazie del pensiero” aveva aggiunto
raggiante, cogliendo il vaso dalle mani dell’uomo e sistemandolo su un tavolo
di legno e ferro dipinto d’oro, assieme ad altri di quel genere. Eliseo era
l’unico ebreo che avesse mai conosciuto che non provava interesse nell’oro ed
era così da quando erano ragazzi, dopo aver lasciato Savona a quindici anni,
l’uomo che aveva al suo fianco era stata la prima persona che avesse conosciuto
a Roma e senza di lui non avrebbe mai scoperto dove erano le due chiavi.
“Un giorno mi racconterai dove
l’hai trovata?” domandò, carezzando i petali pallidi dei fiori, “No” rispose
secco Girolamo, non aveva voglia di far sapere al mondo del suo fallimento nel
trovare il libro delle Lamine, l’uomo lo guardò con quella verve di cattiveria
e malizia che il Conte aveva imparato ad ignorare. Eliseo aveva fatto strada
attraverso il ciarpame fino ad una scrivania di legno scheggiato, cui erano
presenti due sedie ai lati opposti ed una serie di registri con molti numeri ed
una candela ormai usurata. Era lì che s’occupava di prestiti e pegni l’ebreo,
nello stesso posto in cui lo aveva fatto suo padre prima di lui e Girolamo
ricordava ancora il giorno in cui avesse di fatto conosciuto l’allibratore,
erano già quattro anni che conosceva Eliseo, ma non era mai entrato in casa sua
ne mai aveva pensato l’avrebbe fatto, per quale ragione di fatto un signorino
cristiano sarebbe mai dovuto entrare nella casa d’un ebreo allibratore? Ma era
abitudine di Violante non stare alle
regole e quando le aveva chiesto di recarsi con lei dall’uomo per una sua
necessità, s’era sentito in dovere – quasi costretto – ad accettare. Aveva
solamente diciannove anni e non ricordava poi molto di quel momento, se non che
l’uomo aveva sorriso, dietro folti baffi sale e pepe e l’aveva invitato a
restare fuori, assieme ad Eliseo, dove ora sostavano Zita e Carola. “La tua
deliziosa serva l’altro giorno, mi ha riferito dei sogni che ti tormentano” aveva cominciato Eliseo, spostando con
accuratezza le carte da lavoro, in una zona ai margini del tavolo, assieme ad
altri vecchi registri impolverati. “Si,
sei l’unica persona che conosco che pratica arti occulte” disse il conte
rigido, quasi sputando quell’ultima parola, l’altro sorrise arcigno, “Certo in
qualità di nipote del papa, temerebbero tutti una condanna al rogo” aveva detto
sfrontato. Eliseo era sicuro, certo d’aver quella sua pellaccia ebra sicura, ma
doveva ricordarsi di non giocar troppo con il fuoco, di non esser così
indispensabile o il rogo l’avrebbe visto lo stesso, solo che invece della
piazza legata ad un palo, Girolamo si sarebbe assicurato di bruciarlo nel suo
stesso letto, con la sua donna muta e tutta quella paccottiglia di misterici
oggetti.
Eliseo aveva aperto un cassetto,
ed aveva estratto un oggetto di ferro da un cassetto, aveva quatro piedi che
culminavano in un anello, c’erano delle foglie finamente lavorate in rame a
decorarlo, lo aveva posato su un piatto di terra cotta, cui vi era l’immagine
d’una tauromachia. Aveva infilato le mani nel farsetto e ne aveva estratto una
chiave, pallida come le ossa, era semplice l’unga, con due denti ed un anello a
fondo, aveva mosso alcuni oggetti sinistri dal tavolo, poi aveva pigiato le
mani fino a spostare un quadrato di legno, da questo aveva visto una zona di
pietra, con una fessura, sistemata la chiave, la pietra s’era sollevata da
sola, mostrando una scatola, Girolamo era stupefatto come nella stessa Volta,
Eliseo aveva rimosso il coperchio e ne aveva estratto una candela cocciniglia,
che aveva sistemato nel quattropiedi, aveva accesso un fiammifero ed aveva
donato alla cera la fiamma. Non era una candela come le altre, Girolamo l’aveva
capito subito, c’era qualcosa di profondamente conturbante nell’ondulato
movimento del fuoco, per un attimo lì
parve di vedere due ombre nere accucciate parlare. “Raccontami cosa hai
sognato, amico mio” disse amichevole Eliseo. Ed il conte raccontò tutto.
“Il giardino rappresenta la
stabilità e la fertilità in una donna” aveva spiegato l’ebreo, “Ma un giardino
tetro ed incolto, l’esatto opposto, la confusione” aveva aggiunto, “Dunque o tu
sei molto confuso o presto avremo piccoli Riario scorrazzare per il Palazzo
Orsini” aveva scherzato Eliseo forse per alleggerire la tensione dopo il
racconto di Girolamo. Il conte quasi si sentì male all’idea di esser padre e
che una donna come Caterina potesse avere un loro figlio di lì a poco o in un
prossimo futuro, ma poi pensò a Zita e si chiese se non avesse potuto
inconsapevolmente avere un bastardo in ventre e quel pensiero lo fece
sorridere. “Non ricordi come era il giardino?” chiese Eliseo, ma ottenne una
negazione, per quanto si fosse sforzato di ricordare i più minimi dettagli,
anche scrivendoli, il sogno era scemato poco a poco dalla sua memoria. L’ebreo
andò oltre, “L’essere inseguiti, vuol dire invece la consapevolezza della fuga”
aveva continuato, “Nel tuo passato c’è
qualcosa che devi risolvere, qualcosa che ti sta opprimendo” aveva aggiunto.
C’erano così tante cose che avrebbero dovuto soffocarlo per quanto si sforzasse
di nasconderle, vedeva il sorriso perverso d’Eliseo ed era conosco che lui
sapeva. Perché una creatura maligna come lui sapeva sempre, forse era stato il
diavolo a prenderlo da bambino, quando
una volta a sedici anni aveva raccontato che da infante aveva rischiato di
morir d’un male senza nome, forse per la sua salute il demonio s’era preso lui.
“Trovarsi un nemico di fronte, rappresenta l’immediato pericolo” aveva aggiunto
Eliseo, “Temi per la tua vita?” aveva domandato, guardando il rosso fuoco
ballare. “La donna urlante?” domandò Girolamo, “Non è ovvio?” aveva chiesto
divertito l’ebreo, “Esiste una donna da qualche parte cui tu desideri
l’assoluzione” aveva detto, con occhi malefici. Troppi visi erano comparsi.
“Con onesta, Girolamo, i sogni
sono solo sogni” aveva detto Eliseo, “La gente che viene qui, spera che nei
suoi sogni ci sia il futuro” aveva aggiunto, “Ma per lo più cercano solo ciò
che vogliono o solo ciò che temono” aveva bisbigliato, con un sorriso di sfinge
sul viso, “Forse sei solo preoccupato per il tuo passato, sai di dover fare
qualcosa e questo minaccia il tuo futuro” aveva bisbigliato, posandosi su un
palmo su una guancia e pressando il peso su un gomito. Girolamo aveva annuito,
“Ma a volte le cose non vanno così” aveva bisbigliato, “Nel momento in cui mi
hai detto che desideravi trovare Il Libro delle Lamine, Girolamo” aveva
bisbigliato Eliseo, “Ho capito che il mondo degli uomini non ti bastava più”
aveva esposto. Per un attimo Girolamo
s’era ritrovato adolescente, quando per la prima volta Francesco Della Rovere –
quand’era ancora cardinale – aveva parlato del libro delle Lamine. Ricordava
quanto aveva fremuto Giuliano, ma era stato Riario a farne la sua ragione di
vita. “Quindi?” chiese Girolamo, “Da Vinci è la domanda e la risposta” aveva
detto enigmatico Eliseo, spegnendo la candela con un fiato. Il Conte aveva annuito, mentre
osservava l’ebreo con movimenti misurati rimuovere la candela, ma invece di
inserirla di nuovo nel meccanismo l’aveva allungata a quello, “Una luce
nell’oscurità serve sempre” aveva detto amichevole. Girolamo aveva preso la
candela sospettoso.
S’era alzato dalla sedia e
diretto alla porta, “Sei stato seguito” aveva detto Eliseo, bloccandolo con la
mano sul pomello della porta, Girolamo l’aveva guardato, “Da un nemico
prossimo” aveva spiegato disinteressato, con quel sorriso malato e perverso, il
conte aveva forzato un sorriso, “Un giorno t’aprirò un sorriso da orecchio ad
orecchio” disse divertito, pensato che sarebbe stato l’unico sorriso che avesse
tollerato ancora su quel viso. “No” aveva risposto l’ebreo, “Io posso vedere molte cose, ti
ricordo” aveva cantilenato. Girolamo s’era voltato verso di lui, perché non
dire le cose tutte insieme divertiva troppo l’uomo e dopo anni, Riario aveva
imparato il gioco, “C’è altro che desideri dirmi?” aveva domandato sospettoso,
Eliseo aveva passato la mano sul tavolo con estremo divertimento, “Questa
scrivania nasconde molti misteri” aveva commentato, “L’ha progettata e
costruita una donna che tornava da una terra lontana” aveva detto divertito,
battendo tre dita sul legno. La madre di
Leonardo! Era stato il suo primo pensiero, “L’ha costruita per mio padre in
cambio d’un libro e d’un nome” aveva risposto con voce seria, “Non ricordo il
titolo del libro” aveva commentato con voce tetra, quasi disgustato dal suo
fallimento, “Ma ti consiglierei d’andare dal Macellaio fuori dalle porte del
ghetto, il buon Bartolo, ha un tale apprendista che potrebbe sapere qualcosa”
aveva commentato divertito. Girolamo rimase per un attimo senza fiato, un
apprendista d’un macellaio vicino il ghetto? Giuliano! L’amante! Uscì di fretta
dalla stanza, afferrando Zita per un polso e trascinandola da via, da qualche
parte nei suoi ricordi una donna urlava, con il viso arso dalle lacrime.
Filippa aveva versato l’ultimo
secchio d’acqua nel catino, mentre osservava con sguardo imbarazzato la sua
madonna spogliarsi degli abiti maschili che aveva portato tutta la giornata,
senza particolare vergogna, sebbene la serva sapesse la donna non usasse mai
farsi vedere nuda, se non da messer Antonio e Betta, una delle cameriere
impiegate nel servizio della dimora da più anni, Filippa aveva sentito fosse
venuta al servizio di quella casata assieme alla madonna quando aveva sposato
il signore. La greca rimase senza fiato, quando la madonna si voltò verso di
lei, il ventre con un filo di grasso, era attraversato da una linea bianca, che
risaltava mortalmente tra la pelle bronzata, da sotto il seno all’ombelico. I
capelli neri erano ondulanti lungo la schiena, anziché lisci come la seta,
dovuti alla treccia che aveva portato negli ultimi giorni. Lo fissò con gli occhi scuri, neri come
quelli d’un satanasso, duri e levigati come le pietre focaie. Aveva sempre
sospettato la sua signora non stesse a nessuna regola. Ma ora non poteva che
chiedersi, nonostante le fosse stato insegnato a non farlo, cosa nascondesse
veramente: le cicatrici, le arti combattive, la segretezza del viaggio ed i figli di Mitra. Il pensiero di questi ultimi, le fecero
correre brividi lungo la schiena, suo padre non aveva mai avuto buone parole
per i membri di quella setta, ma uno degli ultimi discorsi con sua madre erano
virati per quella direzione, le aveva sempre detto di starci lontana. E lei lo
aveva fatto, fino a che la sua stessa
signora, di cui aveva imparato a non discutere mai ordine, la aveva condotta
proprio da loro.
A svegliarla fu il rumore
dell’acqua spostata e voltandosi aveva trovato la donna, con le ginocchia al
petto dentro il catino, Filippa aveva preso il sapone e con delicatezza dopo
averlo bagnato aveva cominciato a passarlo sulle braccia della signora. Aclima
aveva gli occhi serrati, quasi fosse in uno stato di dormiveglia; la serva
s’accorse che tra i seni spiccava la croce argentata l’unico oggetto che si era
lasciato, quando era passata con il sapone lì.
Era passata alla schiena, poi quando la donna s’era sollevata aveva
insaponato le gambe ed il basso ventre, cercando di non distrarsi nel guardare
la cicatrice, poi quando era tornata nella posizione accucciata, aveva passato
oli profumati tra i capelli scuri. Riempito un'altra bacinella d’acqua e
rovesciato sul capo della donna che da sola s’era massaggiata la cute. “Ti stai
chiedendo della cicatrice, vero?” aveva domandato la signora, posando la
schiena sulla superficie ed i gomiti
sull’orlo laterale, con un sorriso sardonico sul viso, con gli occhi
scuri pieni di rabbia. Filippa mosse il capo in senso di negazione, “Non
mettermi” aveva detto sterile la donna, “Avevi la stessa espressione di Antonio
quando m’ha veduta gnuda alla prima istanza” aveva risposto con voce piena di
rammarico. Che nessun’altra persona avesse visionato la nudità della signora
oltre lei, Antonio e Betta? Che dietro quella cicatrice vi fosse altro? “Puoi
uscire Ippa, finisco da sola” disse la madonna poi, dopo un lungo sospiro.
Filippa annui ed eseguì il comando, quasi priva d’una sua volontà.
Uscì dalla sala da bagno, ma
s’arresto appena fuori l’uscio, posando la schiena sul legno della porta,
timorosa di compiere i passi che mancavano alla loro camera, con le vertigine
alle gambe, perché una cameriera doveva sempre essere a disposizione della sua
signora. Alzò lo sguardo e trovò Lele, con gli indisciplinati capelli scuri
lunghi fino alle spalle, lasciati liberi, privo del soliti abiti scuri o
dell’armatura grigio salgemma, ma con null’altro che una maglia morbida chiara
di lino ed i calzoni scuri , era un uomo alto, impostato, dai muscoli marcati,
dalla mascella marcata, coperta da peluria, e gli occhi caldi, sebbene una
cicatrice attraversasse il viso e lo sfregiasse, aveva sui quarant’anni, il
doppio di quelli di Filippa, eppure era a modo suo attraente. Era sistemato
dall’altro lato del corridoio rispetto lei, aveva la schiena contro il muro, le braccia conserte al petto, il piede destro
era piantato sul legno del pavimento, il sinistro sulla calce del muro. Il viso
era costretto in un espressione boriosa e gli occhi a mezza palpebra, aveva
l’aria assente ma se qualcuno si fosse lanciato contro di loro con un
coltellaccio, avrebbe perso la mano prima che Filippa avesse trovato la voce
nella sua gola per urlare. “Mi piace Firenze, Ippa, sai?” disse gentile,
cogliendola anche un po’ di sorpresa, con quella voce cavernosa che lo
contraddistingueva, “Voluttuosa, libertina e peccaminosa” aveva ripreso, con un
sorriso di sufficienza sulle labbra, “Eppure mi sembra autentica”” aveva
bisbigliato, eppure sembrava parlasse d’altro. Filippa annui, con un sorriso divertenti,
eppure contemporaneamente amaro di consapevolezza. O certo che era vera!
Firenze non si nascondeva! Non era marcia, come il luogo dove vivevano loro,
dove uomini e donne nascondevano la loro ipocrisia dietro polveri, ori, oli e
merletti. Dove si elogiava la purezza ed il candore, ma i piaceri del corpo
erano sovrani. L’Urbe quello era,
l’ossimoro per eccellenza. “Da quanto tempo vivi a Roma, Lele?” aveva chiesto,
osando per la prima volta dar sfogo alle sue curiosità, sentendosi frizzante e
vagamente divertita da quella trasgressione;certo Lele non era un nobile, ne un
padrone, era una guardia, un servitore, nulla di diverso da lei infondo. L’uomo
sollevò gli occhi castani, stupito dal fato che lei avesse formulato una
questione, abituato ai suoi lunghi silenzi, “Due decadi” rispose, incrociando
le braccia al petto, “Venti lunghissimi anni” aveva aggiunto seccato, “Da dove
vieni?” aveva continuato lei, elettrizzata da tutta quella confidenza che
nessuno le aveva mai permesso, Lele poi alla fine non era neanche un signore,
era concesso far domande, “Da un paesino di montagna, m’ero stufato di far il
montanaro a vent’anni sono venuto a Roma per veder i miei servigi” aveva
commentato con voce triste. Filippa sorrise, “Non hai una famiglia da qualche
parte?” chiese innocente, osando forse troppo, Lele sembrò bruciarla con gli
occhi. “Un fratello” aveva risposto, “È rimasto a fare il pecoraio” aveva
risposto, “Se sposato con una donna riccioluta ed hanno una figlia poco più
grande di te” confesso gentile, sorridendo, con gli occhi lucidi a quel
pensiero. Forse aver fatto la guardia non doveva esser stato ciò che aveva
sempre desideravo, forse s’era pentito di non esser rimasto sulle montagne e
non averla sposata lui la donna riccioluta.
“Tu?” aveva domandato Lele, “Da
dove vieni?” aveva chiesto, Filippa aveva sentito i brividi lungo la schiena,
rendendosi conto che per la prima volta da tanto tempo qualcuno le aveva chiesto qualcosa di lei,
era capitato che il Signor Antonio, le chiedesse se per caso conoscesse qualche
preghiera, perché ne era profondamente divertito dalle culture straniere. “Sono
nata a Zacinto” aveva confessato, cercando di ricordare qualcosa di quella
terra lontana, ricordava il tavolo di legno d’acero su cui sua madre sbucciava
le pere, la capretta che avevano, che le mordicchiava sempre i riccioli, quando
da bambina lei s’appendeva alle orecchie flosce e la spiaggia, chiara, da cui
s’estendeva una distanza d’azzurro brillante, che per quanto spingesse gli
occhi lontani, Filippa non distingueva il mare dal cielo. “Ma quando avevo
sette anni siamo andati via” aveva aggiunto, malinconica. L’immagine di quel
grande mare s’era liquefatto nella sua mente, come la neve al primo sole. Non ricordava
nulla dell’ultimo giorno a Zacinto, ricordava le lacrime sulle guance. Nessuna
tomba e nessun resto era rimasto per celebrare e ricordare coloro che non
c’erano più, sua madre aveva portato via lei ed i suoi fratelli più grandi,
dopo la morte di suo padre e del fratello maggiore. Represse un singhiozzò, avrebbe volentieri
voluto continuare a parlare della sua vita, perché finalmente potesse parlare
con qualcuno, ma il pianto che l’era venuto, aveva lasciato intendere a Lele
che non ne avrebbe mai avuto la forza.
Taciuti i singhiozzi, Filippa
aveva omesso gran parte della sua vita, aveva rivelato fosse venuta solo un
lustro prima con uno solo dei suoi fratelli nella penisola italica. “Io e mio fratello ci vediamo spesso, anche
lui viveva a Roma” aveva spiegato, sfregando il polso sugli occhi per fermare
le lacrime, prima di sorridere,
rassicurata a quel pensiero, che almeno avesse ancora qualcuno, qualcuno che
respirava, che aveva calore, sangue e vita, non solo un pezzo di legno marcito
ed un dipinto sbiadito. Quasi rise, con una punta d’isteria “Sono sicura mi
nasconda un segreto” aveva detto con un sorriso, cercando di divertirsi ai
segretucci amorosi o meno che suo fratello potesse gelosamente seguire e a quel
sorriso sbarazzino che adorava, quando si vedevano per occupare le giornate
assieme. Vide il viso di Lele crucciarsi, quasi volesse chiedere altro, ma la
voce della loro signora li aveva distratti dalla loro chiacchierata, la Madonna aveva chiesto a Filippa di entrare
per aiutarla a prepararsi per la notte.
Sandro Botticelli non s’era mai
innamorato, aveva di tanto in tanto sfogato le pulsioni del corpo, questo si,
ma l’amore, quell’idea di completezza, era stato un sentimento che aveva
provato solo par la sua arte. Non poteva semplicemente concepire che Da Vinci
fosse più bravo di lui, un uomo sempre distratto, disorganizzando, irrazionale
e folle, metodico si, ma che non s’era
mai preso un solo minuti per guardare il proprio operato o quello altrui con
occhi innamorati. Sapeva d’esser migliore di Leonardo, perché l’arte era la sua
unica ragione di vita. Ma questo non lì impediva di temere Lorenzo di Credi e
le sue pennellate pignoli, maniacali e curate.
Era stato due giorni a dipingere, cercando di richiamare alla sua mente
l’ormai trapassato volto di Simonetta Vespucci, la cugina di quell’otre
ambulante di Amerigo, una donna davvero incantevole, che la tisi s’era presa
troppo presto. Sandro non aveva mai amato nessuno – uomo o donna – come aveva
amato la sua arte, ma Simonetta aveva il viso d’un serafino ed i capelli d’oro,
quando sorrideva era bella come la primavera, ma con l’espressione crucciata
era sublime, come Venere dalle acque. Botticelli aveva sfiorato la sua pelle
poche volte, per posizionarle il viso, l’aveva fatto come un innocente, davanti
la Vergine Maria, senza un solo briciolo di malizia o lussuria nel suo
atteggiamento. Eppure a distanza di quattro anni, non sapeva spiegarsi perchè
continuasse a sentire quel malore nel petto, peggiorato, quando impegnandosi nel
dipingere il volto di Simonetta si faceva più distante. La vedeva ridere, ispirando l’odore d’una zalea con gli occhi
castani brillanti. E se non avesse ricordato quel viso, la madonna dai capelli
di rame, avrebbe scelto Lorenzo per il suo ritratto. E Sandro se ne rendeva
conto, quel viso non era il viso di Simonetta, non era una dea che andava
immortalata, era pallida come una candela, ma non candida, aveva capelli vivi e
rossi, come il ferro, come la battaglia,
i ricci di Vespucci erano imbevuti del sidro del sole e quel viso,
Sandro fremeva nel pensarci. L’aveva veduta nuda tante volte, che era un
ragazzino e si chiese se l’avesse vista in quel momento, che era uomo, avrebbe vinto l’amore per l’arte o l’amore
per Simonetta.
Yana la straniera, lo guardava da
uno sgabello lontano, aveva il vestito del giorno prima, i capelli sciolti ed
il corpetto allacciato alla buona ed il fiero aspetto d’una belva della
foresta. Il pomeriggio prima, dopo l’arrivo di Filippa, era stata più di un’ora
con Amerigo ed il Maestro chiusi dentro l’ufficio a discutere su qualcosa,
Sandro e Lorenzo avevano provato ad origliare, ma Benedetto gli aveva
trascinati via tirandoli per un orecchio. Dopo ancora agitata la straniera se
n’era andata con Vespucci sottobraccio ed era stata fuori l’intera notte, era
tornata solo alle prime luci dell’alba ed era stata nella medesima posizioni da
ore, come d’una belva che su un alto piano, spia la zona cercando la sua preda.
E Sandro aveva cercato di ignorarla per concentrarsi solo sulla sua arte, che
l’aveva tenuto sveglio tutta la notte, mentre si impegnava a riempire le figure
di colore, cercando di richiamare alla memoria la sua musa e cercava al
contrario di soffocare le grida di quel sodomita di Lorenzo, che s’era
assicurato che per la terza notte di fila chiunque nella bottega sapesse cosa
avesse fatto, particolarmente Sandro, la cui stanza era a sole due porte di
distanza.
“Leonardo!” strillò Yana,
sollevandosi dallo sgabello e tirandosi su la gonna, mostrando le gambe senza
vergogna, correndo proprio nella direzione dove era comparso Da Vinci, di tutta
fretta, rifilando la maglia morbida, “Qualcuno mi deve delle spiegazioni”
ruggì, l’amato prodigio di Verrocchio e Sandro stabilì che se avesse ascoltato
la sua voce per altro tempo ancora avrebbe battuto ripetutamente la testa al
muro di proposito, perché anche impegnandosi non riusciva minimente a tollerare
tale oscenità di uomo. Lasciò perdere il quadro recuperò la sua bisaccia ed
uscì dalla bottega, inventando ad un ragazzo che stava cercando di plasmare un
busto di dire al Maestro che andava a comprare degli ingredienti per un colore.
Mandò giù la bile che era salita, odiava che Da Vinci fosse così schifosamente
geniale, eccelso e talentuoso, la sua arte era sì un’abilità innata, ma che Sandro
aveva coltivato, con il sudore ed il tempo, dipingendo ogni giorni, fino a che
non v’erano stati altro che calli sulle sue dita e non riuscisse a stendere il
palmo senza provare dolore.
Andò alla fine davvero al
mercato, cercando davvero qualche componente da poter sciogliere per cercare un
colore più brillanti, gli sarebbe davvero piaciuto trovare un oro così intenso
da non poter esser guardato, come la luce del sole, così da poter permettere al
mondo che non l’aveva mai veduta la grandiosità che Simonetta era stata. Ma
tutto ciò che trovò fu il castano scuro, come di tronchi d’albero, composto nei
riccioli indomabili della greca. Mentre osservava un vaso finemente disegnato
d’una tauromachia, con la coda dell’occhio aveva veduto la donna che era stata
il giorno prima alla bottega. Indossava un abito prugna, lungo fino ai piedi,
le maniche strette, il corpetto aderente, senza una sola organza o ghirigoro,
tremendamente semplice, come d’altronde Filippa Demopulo si presentava al
mondo, un viso di donna, senza particolare beltà, due occhi, una naso e labbra
fine, l’unica cosa che sembrava renderla diversa era la matassa di ricci
informi, da sembrare un gomitolo di spaghi. Teneva tra le braccia un cesto
colmo di viveri vari, tra cui della frutta. Sandro la stava guardando quando
era caduta, ma forse era stato per la sinuosità dei capelli, che s’era
distratto e non aveva capito come, se era inciampata nell’orlo dell’abito o
qualcuno l’aveva maldestramente spinta. La cesta s’era rovesciata ed il
contenuto era rovinosamente rotolato per terra, Filippa s’era fatta svelta nel
raccoglierlo e quando una mela era arrivata fino ai piedi di Sandro, lui s’era
chinato e l’aveva aiutata.
“Signora”
aveva detto, posando la mela e quanti altri viveri avesse raccolto lungo la
strada che li divideva nel cestino riposto sulla strada, “Non c’è giovane
motivo per chiamarmi così” aveva detto allegra Filippa, prima di ringraziare,
senza aver il coraggio di sollevar però lo sguardo, “Filippa Demopulo, vero?”
aveva bisbigliato Sandro, cercando conferma, non che ne avesse bisogno, non
aveva mai saputo perché, ma ogni immagine che vedesse nella sua vita, rimaneva
impressa nella sua memoria come fosse stato un dipinto e Filippa non era stata
un eccezione. La Greca aveva sollevato il viso, incrociando il suo volto, “Ma
lei … lei è …” aveva bisbigliato, poi la bocca s’era aperta in un sorriso,
“Maestro Alessandro” strillò, quasi avesse avuto davanti a lei la santa trinità con santi annessi e connessi.
Sandro s’era sollevato dalla posizione genuflessa tenendo la cesta tra il
braccio sinistro ed il fianco ed aveva allungato la mano libera alla donna, che
s’era aggrappata, usandola come leva per sollevarsi. Filippa lo guardava
adulante, come se al suo posto ci fosse stato un quadro del Brunelleschi e dopo
tempo, Sandro sentì una sorta di calore al petto, ricordando quando la Greca
aveva esclamato d’amare i suoi quadri.
“Avete detto
a Leonardo Da Vinci il messaggio?” aveva domandato Filippa poi, mentre tirava
la cesta via dalle mani di Botticelli, la bontà di Sandrò s’era impiccata, “Io
di certo no” aveva detto infastidito, “Del Maestro, Yana e Vespucci non ne ho
idea” aveva aggiunto, ma poteva immaginare che Leonardo allontanarsi furioso e
la straniera inseguirlo potessero essere una prova del loro silenzio, forse,
“Ma sono sicuro che tra un “Più forte”
e “Si Maestro!” Lorenzo avrà avuto
modo di dirlo” aveva aggiunto cattivo, incrociando le braccia al petto. Gli
occhi di Filippa s’erano spalancati sconvolti e solo dopo aver realizzato ciò
che aveva detto Sandro s’era sentito mortificato della sua lingua lunga, più
per Di Credi che per Da Vinci. “Sodomita?”
aveva domandato abbastanza confusa, fissando il cesto di viveri che teneva tra
le sue mani, “È stato anche processato per questo” aveva continuato, tanto
aveva già fatto danno, non poteva tornare indietro e poi era noto anche ai
sassi che Da Vinci aveva certe usanze, come mezza Fiorenza in fin dei conti,
lui compreso. “Non credo questo cambi le cose” aveva detto dopo averci meditato
un poco , la fanciulla dai riccioli scuri, tornando a fissare Sandro, prima di
sorridere in maniera amichevole, aveva
distolto lo sguardo per ammirare il vociare di Firenze. Filippa annui, poi
disse: “Aclima” – il modo in cui pronunciò il nome fu strano
– “ha bisogno di lui a prescindere”
aveva, prima di perdersi in altri pensieri. “Siete un’amante dell’arte,
Filippa?” domandò allora, Sandro per spezzare il silenzio che s’era venuto a
creare tra i due, a quella domanda la greca aveva sollevato lo sguardo, tornando
a guardarlo, “Si” aveva mormorato, con le gote un po’ arrossate.
La carrozza si fermò davanti un
vicolo, come era stato concordato. Lorenzo attese che il cocchiere scendesse
per aprire l’anta, per un attimo ricordo quando quella meretrice e traditrice
di Lucrezia lo incontrava. Quando la figura ammantata era entrata, per un
attimo, il Magnifico aveva davvero pensato di veder scivolare fuori dal
cappuccio scuro dei riccioli castani. Ma quando aveva visto quel viso, s’era
rivelato una figura posata, matura, dalla chioma biondo incandescente. Un
sorriso malandrino e vagamente cattivo. “Vita mia” aveva sussurrato Ipolita
Sforza, prima d’aver chiuso le dita affusolate delle sue mani sulle gote
dell’uomo e chiudendo le sue labbra con un bacio fremente. “Ero così animato
quando mi è arrivato il tuo messaggio” aveva detto Lorenzo, approfondendo il
contatto, stringendo le dita sul
corpetto della milanese, “Quanto mi sei mancato vita mia” aveva sussurrato
Ipolita, arpionando con le dita il colletto e spingendolo su di lui, cercando
di sollevar la gonna e di stringere il bacino dell’uomo con le gambe. “Non vuoi
un posto più comodo, amore mio” sussurrò Lorenzo. Ma il sorriso voglioso di
Ippolita non lasciava dubbio alcuno, infilando le dita tra i capelli, dandogli
un altro bacio. “Ho giaciuto troppo allungo con Alfonso, riprenditi ciò che è
tuo” aveva sussurrato la Regina di Napoli, prendendo una mano dell’uomo e
spostandola dal seno alla sua femminilità.
Era stato come tornare ragazzini,
impacciati e scomodi, ritmati da movimenti scoordinati. Ma ugualmente
meraviglioso, come di quelle volte vicino al fiume, con i capelli di Ippolita
biondi come l’oro, sparsi sull’erba fresca e fiori di campo a profumarla. Il
modo in cui anche dopo aver fatto l’amore, nuda come la terra, si copriva la
bocca con la mano per trattenere una risata scomposta e le gote rosse. E si
sentiva come un ragazzino a guardarla in quel momento che cercava di ricomporsi
e rivestirsi dopo l’atto consumato, con quei capelli d’orati, così diversi dai
riccioli neri di Clarice. Scacciò di forza il pensiero del viso severo di sua
moglie, ma che con il tempo era venuto ad apprezzare, c’erano volte in cui si
chiedeva se provasse solo affetto per lei o amore e se amasse Ippolita o se
fosse lussuria, a volte dubitava d’averla amata davvero, almeno una volta, da
fanciulli.
“Cosa hai detto a tuo marito?”
aveva domandato Lorenzo, infilando i bottoni d’oro nella fessura della camicia
rossa, “Di essere ad Imola da mia nipote Caterina” rispose Ippolita,
trafficando con i lacci del corpetto con movimenti calmi e misurati. Il
Magnifico annui, ricordando vagamente la nipote in questione, era la figlia
bastarda dell’ormai defunto Duca Sforza, il suo pingue maiale preferito, che
aveva segnato con la sua morte la fine dell’equilibrio con Roma. Caterina dai
capelli rugginosi, l’ultima volta che l’aveva vista era una bambina assai più
giovane di sua figlia Maddalena. Qualche anno prima s’era maritata non ancora
fanciulla con quella serpe di Girolamo Riario. “Alfonso non sarà così stupido
d’avvicinarsi alle terre del Conte Riario senza un valido permesso” aveva detto
con disinvoltura la donna, prima di sorridere, “E son sicura che non
dubiterebbe mai con il conte della buona parola della sua mogliettina” aveva
aggiunto con voce solare. Lorenzo aveva ridacchiato davanti quel sorriso
scanzonato ed un po’ folle; la baciò ancora.
Ippolita gli accarezzò il viso,
“Ma per quanto rivederti, vita mia, sia stato il mio primo pensiero” sussurrò
la milanese, avvicinandosi a Lorenzo, “Ero davvero ad Imola da mia nipote”
aveva mormorato, “Qualche mese fa è fuggita da Roma” aveva spiegato con voce
raschiata, Lorenzo le passò una mano tra i capelli, “Ora è qui” aveva risposto
con voce insicura. De Medici s’era fatto di pietra, pensando al fatto che nella
sua bella repubblica si fosse insidiata una serpe come la nipote putativa di
Sisto, “Hanno provato ad ucciderla” aveva spiegato Ippolita, “Ed il sicario
veniva da Fiorenza” aveva spiegato, “Mia nipote ha avuto l’idea di sbarazzarsi
del committente” aveva detto la madonna con un sorriso d’approvazione sulle
labbra.
Note
varie, di dubbio gusto:
Ordine Cronologico: Girolamo Riario ed il suo simpatico amico, il giorno precedente. Leonardo e Filippa si svolgono nello stesso tempo invece, durante la notte
ambe-due, Sandro invece è metà mattina, così come Lorenzo Il Magnifico è nel pomeriggio.
Ippolita
è un personaggio difficile da spiegare, è una nobildonna, ma è una stratega ed
è inquietante e pazza, forse anche un po’ sadica ed ossessiva-possessiva,
probabilmente anche parecchio infoiata. Tutte caratteristiche che vi assicuro
condivide con quella gioia della nipote, che è meno esagerata per certi versi
più per altri. Sono sicura sia comunque OOC. Comunque sia nella storia non ha
mai avuto il Titolo di Regina di Napoli, ma visto che nella serie lo è … E poi
su era famosa per essere fedele e pudica, abbiamo accettato tutti che questa
Ippolita non è quella storica.
Aclima
è una donna dai molti segreti(?), quello che vi posso assicurare è
che non è una madonna qualsiasi.
Sandro,
il suo pezzo è dannatamente inutile, l’ho scritto per inerzia, per
divertimento, perché se fossi una sceneggiatrice o produttrice di DVD darei
molte più parti a Sandro Botticelli. Che per inciso se Zoroastro si farebbe il
mondo, Leonardo le persone belle e Lorenzo Leonardo (poverino è Leonardosessuale),
Sandro ama l’arte e solamente l’arte. L’amore che prov(av)a per Simonetta è una questione puramente
artistica, era la sua Venere e la sua Primavera. Giusto per l’appunto, Simonetta Vespucci era
la cugina dell’inimitabile Amerigo
(che si ha passato la notte con Yana), è morta nel ’74 e se fosse stata viva
non sarebbe stato necessario introdurre nella storia nessuna Vanessa Moschella, visto che Simonetta
Vespucci era l’amante di Giuliano.
Si,
Caterina Sforza ha spudoratamente mentito a Girolamo (e ad Alfonso), lui se ne va in giro per il
ghetto a risolvere misteri, lei per Firenze a commettere omicidi. Dio li fa, il
Diavoli li accoppia! (In questo caso Il Diavolo in questione lo conosceremo
bene)
Il fiore che Girolamo porta ad Eliseo,
è un fiore di patata, sono davvero belli. Detto ciò il motivo per cui Eliseo è
così tranquillo ed irriverente con Girolamo è perché si conoscono da ragazzini,
non crede possa seriamente fargli del male, oltre i suoi poteri che da questo capitolo non si capisce bene in cosa
consistono. Si Carola è inquietante.
L’interpretazione del sonno è alla buona, non
ho mai fatto psicologia ed odio il signor Freud (unico filosofo che ho studiato
parlasse dei sogni) quindi forse sono solo boiate, ma non sono importanti alla
fine. Eliseo l’ho dice, forse Girolamo era solo molto minacciato o forse il suo
sogno ha qualcosa di più. Tipo l’essersi incontrato con Leonardo. Ed Eliseo ha
parlato d’un nemico … mmm …
Filippa
è sfigatissima, la sua storia non è finita, così come quella di Lele. Lei potrebbe essere attratta da Messer Antonio
così come da Lele ma non essere innamorata di nessuno.
Come si è notato le descrizioni cambiano da
persona a persona. Filippa è delicata per Lorenzo e Niente di Che per Sandro,
così come La Madonna del Drago Serpente.