Remember when
Mi svegliai
avvolta in un tenero abbraccio. Sorrisi
quando aprii gli occhi e mi ritrovai davanti a Luke, che dormiva. Le
parole
della sera precedente echeggiavano ancora nelle mie orecchie e non
sembravano
intenzionate ad andarsene. Per fortuna, perché non intendevo
lasciarle andare
facilmente.
Tentai di
svegliarlo con un piccolo bacio sulla
fronte. A dire il vero, ci misi un po’ di più,
tanto che per un attimo
considerai l’idea di lasciarlo dormire in pace. Guardai
l’orologio, erano le
sette e mezza. Mezz’ora dopo sarei dovuta essere al lavoro,
dopo tanto tempo,
così mi alzai, facendo attenzione a non svegliarlo. Di
solito riuscivo subito,
quindi, se non si svegliava, significava che era davvero stremato. Mi
vestii in
fretta e scesi al piano di sotto, dove trovai Manuela e Carol
già in piedi, che
sorseggiavano caffè. “Giorno!” dissi,
mentre mi avvicinavo al ripiano di marmo,
dove la sera prima avevo lasciato in infusione il mio tè di
karkadè. “Io l’ho
sempre detto, che sei una vampira!” mi disse Carol quando mi
vide bere il
liquido rosso. Ridacchiai, mentre cercavo i miei biscotti, e sottolineo
miei. Sentii dei passi sulle scale e
Luke fece la sua entrata in cucina, assonnato. “E tu che ci
fai qui?!” esclamò
Manuela, attonita. Io e lui ci mettemmo a ridere. “Ho dormito
qui, siamo
tornati tardi ed eravate già a letto”
spiegò. “Si spiega tutto” disse Carol
con
un risolino. Io mi fiondai fra le sue braccia. “Ciao,
amore!” mi sussurrò.
“Amore?! What?!”
fece Carol. “Ok, ne
parliamo dopo!” liquidai in fretta la sua domanda. Andammo in
sala, dove
potevamo stare da soli. Lo baciai dolcemente, ancora avvolta fra le sue
braccia.
“Perché in piedi così in
fretta?”
“Dobbiamo
andare al lavoro.”
“Me ne
ero dimenticato” mi disse.
Circa
un’ora dopo, eravamo in negozio. Luke ci aveva
lasciato da sole, dicendo di avere un impegno. In effetti, era meglio,
per la
mia attività: non mi sarei concentrata, con lui.
Accesi il
computer, dato che non avevo niente da fare,
e inserii la chiavetta che mi portavo sempre dietro. Iniziai a
curiosare nelle
foto, trovandone molte che non ricordavo nemmeno di avere. Ad un certo
punto,
trasalii: avevo trovato una foto di me ed Emma da piccole. Avevo dieci
anni,
lei tredici, ed eravamo al parco, dove ci divertivamo a fare ghirlande
di
fiori. Subito dopo quella foto, un video di lei che, utilizzando un
filo
d’erba, fischiava e poi scoppiava a ridere. Mi vennero le
lacrime agli occhi.
Feci scorrere le foto in fretta, mentre i ricordi mi invadevano. Mi
scappò un
singhiozzo. “Dio, Emma, mi manchi…”
dissi con voce rotta. Sentii il campanello
e mi asciugai in fretta le lacrime. Era Luke. “Ciao piccola,
come… Coco, perché
piangi?” mi chiese subito. “Niente,
tranquillo” feci, senza crederci davvero.
Lui aggirò il bancone, in tempo per vedere una foto recente
di Emmaline.
“Aspetta un momento, chi è lei?!” mi
chiese. “Emmaline, perché?” domandai
confusa. Lui sgranò gli occhi e imprecò.
“Luke?” feci di nuovo.
“C’è un
problema” disse, preoccupato. “Cosa
succede?” chiesi di nuovo.
“È… in città.
L’ho vista prima.” Io mi sentii morire.
“Sei sicuro?!” chiesi. Lui annuì.
“Era
lei, davvero” rispose. Io schizzai in piedi. Senza pensarci,
uscii dal negozio.
“Coco, aspetta!” urlò Luke dietro di me.
Io non lo sentii, ero troppo impegnata
a cercare Emmaline. La gente si scansava al mio passaggio, spesso
urlandomi
dietro. Io continuavo a prendermi storte sui tacchi, nonostante essi
fossero
bassi.
Improvvisamente,
mi fermai, sdrucciolando sul
marciapiede.
Ero incoerente.
Prima scappavo da Emmaline e da tutto
quello che mi legava a lei, rifiutandomi di leggere le sue lettere e di
scriverle, o chiamarla. Cercavo di tagliare tutti i contatti con quella
sorella
che di simile a me aveva solo gli occhi azzurri e i capelli biondi.
E in quel
momento, correvo a cercarla, come se da
questo dipendesse la mia vita.
“Ma
che sto facendo?” mi chiesi presa dallo sconforto.
Mi guardai attorno, notando di essere a due passi da casa mia. Il mio
cervello
era completamente spento, quindi i miei piedi mi avevano riportato a
casa. In
quel momento, li ringraziai.
Mi diressi verso
casa mia, entrai e mi chiusi la porta
alle spalle. Poi, attratta da quella forza che mi aveva fatto correre
fino a
quel momento, mi sdraiai a terra. non avevo saputo resistere,
così come non
seppi resistere alle lacrime. Iniziai a singhiozzare, singhiozzi tanto
insensato quanto inarrestabili. E non sapevo nemmeno perché
piangevo.
Improvvisamente,
il mio sguardo finì su di loro. Sulle
tre lettere di Emma. Quanto tempo ero scappata da quelle parole? Quanto
mi
sembravano insormontabili?
Eppure era
l’unico modo per sapere cosa stava
succedendo. Perché Emmaline era in città? Non
capivo.
“Oh,
al diavolo!” esclamai, alzandomi di scatto e
prendendo le lettere. Mi asciugai le lacrime con il bordo della manica,
per non
rischiare di bagnare le pagine, e aprii la più vecchia.
Presi un gran respiro.
Mesi di fuga, per poi ridurmi a quel punto. Ormai non potevo
più tirarmi
indietro. Riconobbi subito la sua scrittura rotondeggiante e
disordinata.
Scriveva ancora in stampatello, come quando elaboravamo le nostre
storie
insieme.
Ciao
Coco,
Come
stai?
Lo so, è una domanda stupida. Eppure la mia psicanalista
dice che è normale
iniziare così, e dato che sto cercando di tornare una
persona normale, non so.
Mi sembrava sensato, anche se adesso mi rendo conto che mi sbagliavo.
Come
sto
io? Uno schifo. Perché circa un’ora fa sono uscita
dalla mia ennesima crisi e
mi sono ricordata quello che è successo. Tu sei entrata
nella mia camera, nella
mia prigione d’oro, con Manuela e Carol e… e io
non ti ho riconosciuto. Ti ho
urlato contro, gridando di andare via, e ho visto le lacrime nei tuoi
occhi.
Come se ti avessi spezzato il cuore. È andata
così, vero? Non è solo un’altra
delle mie visioni, vero?
Non
so
distinguere la realtà dalle visioni. Tutti dicono che sto
migliorando, ma non
ci credo nemmeno io.
Mi
sento un
mostro, un fenomeno da baraccone. E la cosa peggiore è che
ti ho allontanato.
Ho paura che tu mi odi. Che tu non voglia più vedermi.
Ho
bisogno
di te, Coralie. Anche se forse non posso essere considerata
più una sorella,
per tutto quello che ho fatto… ti prego, ti scongiuro in
ginocchio, non escludermi
dalla tua vita. Non lo sopporterei. Mi sento così
male… la psicanalista dice
che non è colpa mia, ma non riesco a pensare ad altro che al
tuo sguardo.
Compare nelle mie visioni, nei miei sogni, dappertutto. E non riesco
più a
sopportare la consapevolezza di averti fatto del male.
Ti
ricordi
quando eravamo bambine, che andavamo sempre al parco dietro casa? Tu
eri
piccola, avevi cinque anni, quindi probabilmente non ti ricordi cosa
è
successo, ma io sì. Il giorno prima aveva piovuto e
c’era del fango. Tu sei
inciampata e sei finita in una pozza, con la tua tigre di pezza, che si
è
graffiata e sporcata, e tu eri disperata, pensavi solo a lei, senza
capire che
eri tu quella più sporca e graffiata, con le mani e le
ginocchia sbucciate. Sei
andata alla fontana e hai lavato la tua tigre, Daina, fino a quando non
è
tornata quasi come nuova, tranne quel graffio che dopo mamma ha
ricucito. E tu
eri felice, mentre abbracciavi quel pupazzo fradicio e con una zampa
graffiata,
perché sapevi di aver fatto il possibile per farlo tornare
come prima, e sapevi
anche che nonostante tutti i lavaggi o tutte le volte che
l’avresti ricucito
quell’episodio sarebbe rimasto, ma non ti importava. Eri
felice di quello che
avevi raggiunto con le tue forze. Avevi lavorato tanto per guarire quel
tigrotto bianco, e dopo averlo lavato hai continuato a giocarci,
felice, ed io
non capivo, perché tu eri ancora sporca di fango, ma non te
ne importava.
Ora
invece
credo di aver capito, e spero di non sembrare presuntuosa se provo a
paragonare
quella tigre a te e la Coralie bambina a me. Ci ho gettate nel fango,
ma non mi
importa di me. Voglio solo ripulire te di quello che ti ho lasciato,
anche se
so che ti ricorderai per sempre, perché il cuore si
può guarire, mentre i
ricordi rimangono. Spero solo che tu mi possa perdonare se ti ho tirato
nel
fango con me. Voglio fare tutto perché almeno tu possa
uscirne, perché sei
troppo importante, troppo pura, per affondare con me.
Perdonami,
Emmaline.
Quando finii di
leggere, le lacrime avevano invaso di
nuovo il mio viso. Accarezzai quelle pagine, come se potessero
riavvicinarmi
alla sorella che avevo deciso di perdere. Ricordavo
quell’episodio, marchiato a
fuoco nella mia mente come lo possono essere solamente gli episodi
insensati,
quelli che anni dopo ti fanno chiedere: “Perché
ricordo questo e non qualcosa
di importante?” per poi renderti conto che sono quei ricordi,
quelli
importanti, da conservare, e che nonostante tu non voglia essi
rimangano. Aprii
la seconda lettera.
Ciao
Coco,
Dato
che
non hai risposto alla mia lettera, ho pensato di inviarti questa,
sperando che
tu non abbia ricevuto la prima, o che l’abbia letta senza
rispondermi. Non
riesco a pensare che tu possa averla ignorata… non ci
riesco. È più forte di
me.
Ricomincio.
Come stai? Te lo chiedo sempre per via della psicanalista, che sta
cercando di
insegnarmi a tornare nel mondo normale. Sai, ormai sono una preclusa da
anni.
Precisamente, 1248 giorni. Lo so, sono pazza solo a contare i giorni
che sono
qui, ma così come i carcerati contano i giorni che mancano
alla scarcerazione,
io conto i giorni che mancano alla libertà. Questo posto non
è tanto diverso da
una prigione. Ho anche l’ora d’aria, sai? Da domani
potrò uscire. Mi porteranno
al parco. Sai, mi manca il guinzaglio e sono il cagnolino perfetto.
L’altra
volta ti ho raccontato di quella volta al parco. So che forse fare un
tuffo nel
passato con me non ti importa, ma i ricordi fino ai quattordici anni
sono le
uniche cose che non mi tradiscono. Non sono alterati dalle visioni, e
parlarne
mi aiuta a concentrarmi sull’argomento senza divagare e
perdermi nei miei
pensieri. Come facevo nei temi.
Ti
ricordi,
quante volte la prof mi ha fatto rifare i temi? O quante volte tu mi
riprendevi, mentre scrivevamo, perché perdevo di vista
l’obiettivo? Ti ricordi
quando volevamo diventare grandi scrittrici? Avevamo tante idee e ci
divertivamo a svilupparle nei modi più strani.
Mi
ricordo
che tu odiavi quando proponevo di far separare una coppia. Mi dicevi
ogni volta
che l’amore vero è per sempre, e ti rifiutavi di
far avere solo semplici
storielle ai protagonisti. Volevi che comunque avessero qualcuno su cui
contare, sempre. E io ridevo, dicendoti che indossavi ancora gli
occhiali rosa,
e tu non capivi. Te li ricordi, gli occhiali rosa? Quelli che fanno
vedere
tutto il mondo come un posto stupendo, dove l’amore trionfa
sempre e non
esistono le cose brutte. Quegli occhiali che hanno tutti i bambini, con
gli
occhi pieni di sogni e il cuore pieno di speranze.
D’altronde, eri tu stessa
una bambina, a undici anni.
Volevo
dirti che ho finito di leggere “Look into my eyes”.
È davvero stupendo, e
comunque i tuoi personaggi non si separano. Sei sempre tu, in qualsiasi
cosa
fai. Non sei mai cambiata e, ti prego, non farlo mai. Sei
già perfetta così.
Look
into
my eyes… come te. Mi ricordo che ti bastava uno sguardo per
capire come stavo,
così come a me bastava leggere le tue parole per capire il
tuo stato d’animo.
Eravamo speciali, da piccole credevamo di avere i superpoteri. Se ci
penso mi
viene da sorridere.
Ti
prego,
permettimi di dimostrarti che non sono cambiata. Che in fondo, sono
ancora io,
che la malattia non mi ha trasformata, che la vera me esiste ancora.
Ti
prego,
io sono ancora qui.
Emmaline.
Leggendo, mi
venne da piangere ancora di più. Mi
sentivo terribilmente in colpa per non aver dato una
possibilità ad Emmaline.
Mi resi conto solo in quel momento quanto mi fosse mancata. Aprii la
terza
lettera, incapace di mantenere le lacrime. Sarei esplosa da un momento
all’altro.
Ciao
Coco,
Dato
che
non hai risposto alle prime due lettere, credo che non ti importi
più di me. Ti
capisco, davvero. Eppure, non riesco a smettere di scriverti,
è più forte di
me. Ti prego di sopportarmi ancora per questa lettera, poi
smetterò.
Non
m’importa di iniziare con il “come stai?”
che ho usato ultimamente. Ormai non
voglio più fingere, sono malata e basta. Ci sono
novità, però.
Ti
ricordi
quando sei stata male, a dodici anni? Avevi la febbre alta ed eri
sempre giù di
morale. Stavi sempre chiusa in casa, avevi male ovunque e non volevi
farti
vedere in giro. Poi ti ho obbligato ad uscire e sei guarita. Era solo
l’aria
fresca, che ti mancava. È stato questo a guarirti, ricordi?
Bene,
lo
stesso vale per me. La mia psicanalista ha notato che sono migliorata,
dopo
diverse uscite in mezzo alla natura. Le visioni sono diminuite, o
comunque ho
iniziato a rendermi conto quando potrebbero essere, appunto, visioni,
oppure
no. Quindi, hanno deciso di fare una prova. Mi fanno uscire, per un
mese, ma
dato che non saprebbero dove mandarmi, ho chiesto di poter venire da
te.
Anche
se
non ti importa più niente di me, vorrei solo poterti vedere
un’ultima volta,
per potermi scusare. Poi troverò qualcosa da fare,
probabilmente tornerò
all’ospedale psichiatrico, eppure sto facendo carte false per
poterti vedere.
Sono patetica, ma ne ho bisogno, un bisogno vitale. Anche se tu, forse,
non
vuoi sentirmelo dire, sei mia sorella, e voglio dimostrare che sei
importante
per me. Vorrei tenerti lontano dai miei problemi, ma non posso fare a
meno di
aver bisogno di te. Ti prego, permettimi solo di dimostrare tutto
quello che ho
scritto, altrimenti sarebbero solo parole su tre fogli di carta.
Ti
voglio
bene,
Emmaline.
Quello fu
ciò che mi fece esplodere. Ti
voglio bene, aveva scritto. Era
tanto, che non lo sentivo da lei, nonostante le sue parole. Scoppiai a
piangere, mentre le mie lacrime bagnavano i fogli. Notai solo in quel
momento
altri segni di lacrime, che non avevo causato io.
“Emma…” sussurrai in mezzo
alle lacrime. Iniziai a singhiozzare, senza potermi trattenere.
Mi alzai e il
mio sguardo si posò sullo specchio. Il
mio riflesso era l’immagine di una ragazza distrutta, scossa
dai singhiozzi,
con gli occhi gonfi di lacrime e il viso paonazzo. Nei miei occhi si
leggeva un
sentimento strano, rimpianto e disperazione al tempo stesso,
e…
Un momento.
Io non ero mai
stata capace di leggere nei miei occhi.
Mi fiondai sullo
specchio. “Emma”, dissi solo. Volevo
premere i tasti neri del pianoforte nei miei occhi. Le iridi si
accesero per un
attimo, che mi bastò a capire.
Non ero
arrabbiata con Emmaline, o delusa. Ero col
cuore spezzato, certo, perché lei non mi aveva riconosciuta.
Ma non era colpa
dell’odio, o del rancore, se mi ero
tenuta lontana da lei.
Era solo colpa
della paura, paura che potesse non
riconoscermi di nuovo.
Paura,
perché le volevo troppo bene per mettere di
nuovo in gioco il mio cuore.
Mi strappai le
lacrime dal viso con uno scatto.
Ripensai alle lettere di Emmaline, a tutte le sue parole.
Dovevo trovarla.
Dieci minuti
dopo, ero in città, che cercavo mia
sorella. Eppure la città era grande, dove avrei dovuto
cercarla? Decisi di
provare con il parco, dati i suoi continui riferimenti alla natura.
Avevo
ragione: in lontananza, vidi i suoi capelli chiari. La sua figura era
inconfondibile e mi resi conto quanto fosse vivo in me il suo ricordo.
Anche se
non me ne ero mai resa conto, Emmaline aveva occupato i miei pensieri e
il mio
cuore tutto quel tempo.
Forse fu a causa
del mio sguardo fisso su di lei, che
mia sorella si voltò. I nostri sguardi si incrociarono e in
due secondi fu come
se avessimo recuperato tutto quello che avevamo lasciato in sospeso.
Era come
un discorso interrotto, che poi viene ripreso con un: “Dove
eravamo rimasti?”
Trattenendo un
singhiozzo, corsi verso di lei.
Affondai fra le sue braccia, inspirando il suo profumo così
famigliare.
Era mia sorella
e lo sarebbe sempre stata.
“Mi
sei mancata” sussurrai con voce rotta.
La sentii tirare
su col naso e sussurrare: “Anche tu,
sorellina.”