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Codice identificativo 9-9.
Un
codice che gli agenti della MAB, e le squadre speciali di sicurezza in
particolar modo, ben conoscevano.
«Ne sei
proprio sicuro, Jaocob?» chiese ancora Georg
«Ne
abbiamo appena abbattuto uno, Capitano. Classe Pedone. Nonostante ciò ci sono
voluti parecchi colpi per riuscire ad abbatterlo».
A quel
punto, non vi erano quasi più dubbi su cosa doveva essere accaduto a bordo di
quella nave; l’ipotesi peggiore, quella che nessuno avrebbe voluto prendere in
considerazione.
«Capitano»
disse Jacob traendo un respiro. «Abbiamo un’emergenza EDA in atto».
EDA.
Ovvero, Extreme Dna Alteration. Il lato
spiacevole della magia.
La magia
era come un fiume, una turbinio di energia che scorreva ininterrottamente
all’interno di tutti gli esseri viventi tramite il dna, ma che solo una
percentuale ancora molto ristretta di persone, gli stregoni appunto, era in
grado di maneggiare per influenzare e trasformare la materia.
Ma il
dna, e l’M-Code in particolare che permetteva agli stregoni di esercitare la
magia, era delicato, e quando qualcuno era talmente folle o imprudente da spingersi
oltre i propri limiti, l’esito era un corto circuito nel fragile equilibrio di
energie che regolavano il corpo umano, con il risultato, nel peggiore dei casi,
di dare vita a creature mostruose e terribilmente aggressive.
Smarrita
ogni traccia di raziocinio, questi mostri avevano l’unico scopo di assorbire
quanta più energia possibile, al fine di preservare quel nucleo impazzito che
come una batteria costituiva la fonte della loro vita, ma che i gravi danni
provocati dalla mutazione portava ad esaurirsi rapidamente; e in quanto un
possesso di un M-Code tra i più sviluppati del regno animale, gli esseri umani
costituivano la preda favorita degli EDA, che come bestie feroci assalivano e
sbranavano qualsiasi malcapitato capitasse loro a tiro, oltre a sfogare la
propria furia distruttiva su qualunque cosa i loro sensi deviati indicassero
come una potenziale minaccia.
Fino a
pochi anni prima il problema relativo agli EDA aveva riguardato solo coloro in
grado di maneggiare la stregoneria, ma con la diffusione di apparecchiature
atte a permetterne un controllo rudimentale anche da parte degli esseri umani
gli incidenti erano sensibilmente aumentati, e in fin dei conti era proprio per
questo che era stato istituito quel corso speciale per la formazione di unità
specializzate a contrastare la minaccia.
Gli EDA
erano suddivisi in cinque classi, Pedone, Cavallo, Torre, Alfiere e Regina, cui
venivano assegnati in base alla violenza della mutazione e alla loro
pericolosità relativa. Il Pedone era la classe più bassa, e teoricamente quella
meno pericolosa, ma il problema in quel caso non era tanto nella pericolosità
del nemico, quanto nel numero.
E Jacob
non mancò di parlarne al Capitano.
«La
ragazzina ha parlato di un alto numero di assalitori. Siamo chiaramente di
fronte ad un nove-nove-zero».
Georg si
sentì gelare il sangue, e non per il freddo che attraversava i locali della
stiva.
Nove-nove-zero.
Il peggior codice identificativo che si potesse immaginare.
Nove-nove era
già di per sé una brutta cosa, perché indicava una manifestazione multipla di
più EDA contemporaneamente, fatto raro ma non impossibile, ma lo Zero
significava chiaramente la natura indeterminata ed indeterminabile del numero
esatto di potenziali nemici.
«Drassimovic, come va’ con quel satellite?» domandò allora
Georg, che Klaus non ricordava di aver mai visto così preoccupato
«Ci sto
ancora lavorando, Capitano. Ci sono un sacco di protezioni.»
«Muovi
il culo. Chiama subito la stazione. Ci serve supporto immediato.»
«Mi
rimetto subito al lavoro, signore.»
«Trigger,
Gerth. Voi portate la ragazzina alla nave ed
aspettate lì. Meno gente c’è in giro per questi maledetti corridoi e meglio mi
sentirò.»
«Ricevuto,
Capitano. Ci muoviamo subito».
Chiusa
la conversazione, Jacob e Amanda si prepararono a muovere per fare ritorno
all’hangar, ma come fecero per percorrere il tragitto inverso altri rumori
presero a giungere, minacciosi e sempre più vicini, dalla porta chiusa da cui
erano venuti, lasciando entrambi impietriti.
Di
nuovo, Hilda si bloccò per la paura nascondendosi
dietro ad Amanda, che cercava di farsi forza se non altro per non spaventare
ulteriormente la bambina.
«Ulrich» sussurrò Jacob alla radio. «Ci sono altre vie per
uscire da qui?»
«C’è una
porta di servizio tra l’atrio e l’ingresso dal cinema, e un’altra che porta
alla balconata e alla cabina di proiezione.»
«Qual è
la più breve per arrivare alla nave?»
«La
porta di servizio. Proseguite lungo il corridoio che troverete fino alla scala
dell’equipaggio trentatre, scendete fino al ponte K, procedete dritti e ci
siete.»
«Muoviamoci,
Gerth».
Non
riuscirono neanche a muovere un passo, che all’improvviso le porte vennero
letteralmente sfondate, e un vero esercito di EDA simili a quella che avevano
abbattuto fece irruzione nel salone strillando e lanciando assordanti stridii.
Indossavano
abiti da sera, vestaglie da notte della migliore fattura, ma anche uniformi da
mozzi, camerieri e inservienti.
«Fuoco!».
Amanda
non aveva mai sparato, non contro bersagli mobili, e la sua mira era piuttosto
imprecisa, e contro una simile ora di nemici non c’era molto che Jacob da solo
potesse fare, pur con tutto il suo talento.
Purtroppo,
quello del mostro-cameriera non si stava rivelando un caso isolato; quelle
dannate bestie erano terribilmente coriacee, e neanche una scarica in pieno
petto bastava a fermarli; inoltre, quei pochi che morivano, come la prima che i
due agenti avevano abbattuto finivano in polvere subito dopo essere spirati, il
che era quantomeno insolito.
Se c’era
una cosa che gli EDA non facevano mai, questa era senza dubbio l’assomigliarsi
tra loro, eccezion fatta ovviamente per il comportamento aggressivo e l’istinto
di nutrirsi; gli EDA erano un po’ come gli umani, simili ed insieme diversi.
Ognuno aveva un proprio aspetto e delle proprie capacità che seguitavano a
rimanere anche dopo la trasformazione, ma non esisteva che manifestassero gli
stessi poteri, non in numero così elevato e tutti insieme.
Poi, per caso, accadde qualcosa; esaurito
l’ennesimo caricatore, Jacob ne infilò un altro, e alzata velocemente l’arma
centrò d’istinto il mostro più vicino proprio in mezzo alla fronte. Di solito
fronte e testa non erano bersagli appetibili quando si aveva a che fare con
un’EDA, ma quello invece rimase morto per terra subito dopo aver preso il
colpo, incenerendosi.
«La testa…» mormorò, ed un secondo colpo piazzato allo stesso
modo gli confermò di aver capito. «Amanda, tira alla testa!».
La
ragazza puntò un nemico, cercando di controllare il tremore della mano, prese
la mira, e sparò; non un colpo preciso come quello del suo superiore, ma
l’anziana donna in abito nero che riuscì a trapassare poco sopra l’occhio seguì
la stessa sorte di tutti gli altri.
Purtroppo,
anche così, la situazione rimaneva drammatica.
Per
tentare di arrestare l’avanzata dei nemici Amanda usò la sua magia per
materializzare una serie di pareti invisibili alte e strette, che come enormi
tessere del domino svettavano qua e là costringendo gli assalitori a lunghi
giri che li rendevano dei facili bersagli; un mago di classe elevata avrebbe
semplicemente eretto un unico, grande muro per creare una difesa assoluta, ma
lei purtroppo non era ancora così brava da realizzare un simile incantesimo
protettivo.
Il
problema restava raggiungere le porte del cinema, da cui non uscivano nemici ma
che si trovavano dalla parte opposta della sala, impresa tutt’altro che facile
con tutti quegli EDA che non smettevano di arrivare.
Jacob
esitò, mordendosi le labbra, ma Amanda era preda a tal punto dell’ansia e
dell’istinto incontrollabile di continuare a sparare che non se ne accorse.
«Amanda,
ora ascoltami!» le urlò con tono di ordine. «Al mio segnale, prendi la bambina
e corri verso l’uscita! Io ti coprirò la fuga!»
«Che
cosa!?»
«Non
temere, non ti inseguiranno! Questi animali attaccano sempre per primo chi ritengono
più pericoloso! Non sparare e ti lasceranno scappare!»
«E tu
cosa farai?» domandò lei guardandolo atterrita
«Non
temere, me la caverò! Sono uscito da situazioni peggiori di questa!»
«Non
puoi chiedermi di abbandonarti!»
«Questa
non è una richiesta, è un ordine di un tuo superiore!» le sbraitò contro Jacob
quasi spaventandola. «Quindi piantala di fare l’eroina e ubbidisci! La salvezza
dei civili viene prima di tutto!».
Amanda
si bloccò, fulminata dall’ultima frase.
Era un
concetto quello che fin dal giorno in cui aveva indossato la divisa per la
prima volta le era stato ripetuto fino alla noia, ma di cui solo in quel
momento iniziò a capire il vero significato.
Salvezza
dei civili spesso, per non dire sempre, significava rischio personale.
Ma
Jacob, si risolse a pensare la ragazza, aveva ragione.
Non le
piaceva l’idea di abbandonarlo, ma d’altronde la vita di Hilda
aveva la priorità, come quella di qualunque altro civile che avessero
eventualmente incontrato da lì in avanti.
«D’accordo»
disse risoluta, ricevendo in risposta un sorriso soddisfatto.
Gli EDA
potevano pure essere poco più che animali, ma non erano immuni ad alcune delle
debolezze tipiche degli esseri umani. Così, quando Jacob fece esplodere in
mezzo a loro una granata stordente dopo averla fatta rotolare sul pavimento i
mostri, storditi dal fumo, dal frastuono assordante e dalla forte luce,
rimasero disorientati, raggomitolandosi a terra con le mani sulla testa.
«Vai!».
Amanda
afferrò Hilda, e assieme a lei riuscì a passare in
mezzo a quelle creature senza che queste quasi se ne accorgessero, e quando la
situazione si fu acquietata nella stanza, come potenziale preda, gli EDA
trovarono solo Jacob, che li fissava sornione con il mitra sollevato.
«Certo
che è stata proprio una gran bella idea».
Le
pareti magiche erano ancora attive, ma ora che la loro creatrice se n’era
andata erano destinate a sparire in breve tempo.
In ogni
caso, Jacob non aveva alcuna intenzione di fare il martire; fino a che fosse
stato possibile, avrebbe fatto quanto era in suo potere per riportare a casa la
pelle e garantirsi un altro giorno di vita.
Provò a
raggiungere la sala cinema, ma trovatosi la strada bloccata dall’arrivo di un
nuovo gruppo di nemici non ebbe altra scelta che rifugiarsi dietro al bancone
del bar, da dove prese a scaricare sugli EDA tutto quello che aveva facendone
strage.
Sfortunatamente,
per quanti ne uccidesse, continuavano ad arrivarne, e ogni volta che ne
abbatteva uno la reazione degli altri si faceva sempre più rabbiosa. Oltretutto
vista la loro agilità colpirli era parecchio complicato, e con la testa come
unico punto vulnerabile persino un tiratore esperto come “trigger” aveva le sue
belle difficoltà ad andare a segno.
Come
ultima linea di difesa, Jacob ripiegò verso la porta da cui era uscito il primo
EDA, confidando nella strettoia così creatasi per impostare una resistenza che
si faceva disperata; sperava che gli assalitori, notando la grande potenza di
fuoco e pericolosità della loro preda, finissero per desistere, o che lì dentro
vi fosse una grata, uno spiraglio, una buca per cani da cui sgattaiolare via,
ma quando, infilata una mano nella borsa, si trovò ad inserire il suo ultimo
caricatore per il fucile d’assalto, cominciò a temere che quella fosse davvero
la fine.
Oltretutto,
poco prima che riuscisse a rifugiarsi in quello stanzino, uno di quei mostri lo
aveva morso ad un braccio, riuscendo ad azzannargli la pelle nonostante la tuta
protettiva, una ferita non seria ma che rendeva le cose ancor più complicate.
«Di bene
in meglio».
Di certo
non sarebbe caduto senza combattere; nella peggiore delle ipotesi poteva fare
ricorso al machete, oppure alla granata ad alta frammentazione, l’arma per i
casi di emergenza assoluta, ma così potente che in un ambiente tanto ristretto
e pieno di sostanze infiammabili probabilmente avrebbe polverizzato anche lui.
Di certo, non si sarebbe lasciato mangiare.
Aveva
infilato il caricatore, ed era pronto a sparare, quando l’EDA che era sul punto
di irrompere nella cucina alla testa del gruppo cadde a terra centrato alle
spalle in piena nuca. Altri lo seguirono, colpiti con letale precisione, e
alzato lo sguardo oltre la porta Jacob poté scorgere, con sua grande gioia, una
figura amica in piedi sulla balconata.
«Serve
aiuto?» domandò Vincent ammiccandogli, per poi infilare nuovamente l’occhio nel
mirino del suo fucile e riprendere a mietere avversari.
Sotto il
fuoco incrociato dei due agenti gli EDA fecero la fine dei topi in trappola, e
complice anche una granata piazzata nel punto giusto dopo pochi minuti non ne
rimase nemmeno uno; Vincent a quel punto saltò giù dalla balconata, riunendosi
all’amico nel centro dell’atrio.
«E con
questa, direi che siamo pari. Ora la smetterai di rinfacciarmi quella volta
nella vecchia fabbrica al porto, voglio sperare.»
«Può
darsi» replicò Jacob ricordando l’incidente in questione. «Non dovevi essere
con Drassimovic?»
«Il
piccolo nerd se la caverà anche da solo. E poi, con l’ascensore bloccato e le
porte sprangate, laggiù è più al sicuro che in una fortezza.»
«Guarda
che ti ho sentito.» disse l’interessato via radio
«Com’è
la situazione?»
«Da
schifo. La nave è infestata di quei cosi. È solo per un mezzo miracolo che sono
arrivato qui senza rimetterci la pelle.»
«Avresti
anche renderci partecipi di questa tua scoperta.»
«Lo
avrei fatto, ma il mio primo incontro con questi bastardi è stato piuttosto… ravvicinato.
Per
fortuna ci ho rimesso solo la radio, invece dell’orecchio.»
«Ulrich, puoi fare qualcosa per noi?»
«Appena
sarò riuscito a lanciare il satellite, proverò a ripristinare il sistema di
videosorveglianza. In questo modo avremo un’idea chiara di quali siano i
settori compromessi.»
«Una
cosa è certa, di quei cosi ce ne sono in giro a centinaia.» disse Vincent
«Comincio a pensare che su questa nave non ci sia più nessuno vivo.»
«Non
direi» replicò Ulrich. «Ho appena ricevuto un
segnale. Sembrava una richiesta di aiuto. Proviene dall’infermeria. Potrebbe
esserci qualcuno ancora vivo laggiù».
I due
agenti si guardarono tra di loro.
«L’infermeria,
dici?» disse Jacob. «E dove si trova?»
«Ponte C,
zona centrale.»
«Non
sarà un viaggio da poco» commentò Vincent. «Sarà anche a questo livello, ma si
tratta di attraversare quasi metà della nave.»
«Beh»
replicò Jacob facendo scattare la rotaia del fucile. «È il nostro lavoro.»
«Ben
detto» e i due si avviarono insieme.
Seguendo le indicazioni di Ulrich, e cercando di non guardarsi indietro, Amanda
raggiunse la rampa di scale.
Hilda
camminava accanto a lei, tenendole forte la mano, anche se la paura di poco
prima sembrava essere passata, messa a tacere dall’apparente coraggio e forza
di volontà della sua salvatrice.
«Non
temere» continuava a dirle Amanda. «Ci sono io qui con te. Ti porterò in
salvo».
Purtroppo,
scese fino al primo ponte stiva, dovettero bloccarsi, perché da più in basso,
anche senza tendere l’orecchio, presero a giungere rumori inquietanti.
Amanda
mise per scrupolo una mano sulla bocca di Hilda e
gettò silenziosamente uno sguardo nella tromba, scorgendo nitidamente alcune
ombre che si movevano nei livelli inferiori.
Probabilmente
non le avevano viste né sentite, ma scendere ancora di più era troppo
rischioso.
«E
adesso cosa facciamo?» domandò Hilda, tesa ma non per
questo spaventata.
Per
trovare una risposta, Amanda si collegò con Ulrich.
«Ulrich, siamo all’ingresso del Ponte G» sussurrò. «La scala
è compromessa. Ci serve un’altra strada.»
«Da dove
vi trovate ora, potete uscire sul ponte e usare un’altra scala di servizio.
Purtroppo, gli ascensori di quella zona sono tutti fuori uso».
Amanda
provò a spingere la pesante porta blindata che immetteva al corridoio del
ponte, ma questa non si mosse.
«È
chiusa dall’altro lato.»
«Puoi
sempre far scattare la serratura con la magia.»
«Sbloccare
la serratura!? Ma non l’ho mai fatto.»
«C’è
sempre una prima volta. Del resto, non hai altra scelta».
Hilda, nel
mentre, si guardava attorno, e quando si avvide della presenza di una grata
proprio accanto alla porta le sue labbra si piegarono in un sorriso divertito.
«Lasciate
fare a me» disse, e prima che Amanda potesse fermarla la bambina si era già
infilata nel condotto.
«Hilda, torna subito qui. È pericoloso.»
«Non ti
preoccupare, so badare a me stessa» rispose lei con ritrovato coraggio.
Strisciando
nello stretto pertugio la ragazzina riuscì a scavalcare l’ostacolo, ed
accertatasi, sbirciando oltre la rete, che nel corridoio oltre la porta non vi
fosse alcuna minaccia, sbucò all’esterno, scrollandosi la polvere dai vestiti.
«Amanda.
Sono dall’altra parte. Adesso ti apro.»
«Sbrigati.
Potrebbe essere pericoloso».
Hilda era sul
punto di aprire, quando un rumore proveniente dal buio del corridoio attirò la
sua attenzione, come se qualcosa, o qualcuno, venisse trascinato rumorosamente
sul pavimento metallico, molto diverso da quello elegante e soffice dei ponti
superiori.
«Hilda, che succede?» disse Amanda vedendo che la bambina
esitava ad aprire.
L’attenzione
della piccola, infatti, era stata catturata tutta da quello strano rumore, al
punto che, dando un calcio a tutto il resto, iniziò a farsi strada nella
semi-oscurità per capire da dove provenisse.
Non
aveva paura; anche se si fosse trattato di uno di quei mostri, dal modo in cui
si trascinava doveva essere ridotto in uno stato pietoso, e all’occorrenza
sarebbe sempre potuta scappare.
Ad un
certo punto, una figura iniziò a stagliarsi in lontananza, riversa al suolo
sulla pancia, apparentemente morta.
Sembrava
umana, perché non emetteva gli stessi gemiti di quelle creature, ma a giudicare
dal suo essere immobile, chiunque fosse, doveva essere già morto, o comunque
molto malridotto.
Hilda
continuò ad avvicinarsi, pronta a scattare all’indietro al minimo segno di
vita, ma quando riconobbe in quella figura senza vita apparente una rada
capigliatura castana, un naso un po’ pronunciato, e soprattutto un anello d’argento
con un rubino all’anulare, nei suoi occhi, al posto della curiosità, apparve
nuovamente la paura.
«Papà!»
esclamò.
Istintivamente
corse verso di lui, inginocchiandosi nel tentativo di aiutarlo, ma appena lo
toccò lo sentì freddo, e duro come la pietra; le gambe, poi, erano ridotte in
uno stato pietoso, completamente disarticolate: doveva essersele rotte cadendo
da qualche scala. Inoltre, i vestiti erano insanguinati in più punti.
Hilda lo
scosse, violentemente, ma lui non si mosse, e allora gli occhi della piccola si
riempirono di lacrime.
«Papà…».
Poi
però, come per incanto, ebbe la sensazione che le palpebre si fossero mosse, e
il suo cuore per un attimo tornò a sperare. Una speranza che si infranse come
un cristallo quando il conte Balthus Weilmann, spalancati i suoi occhi bianchissimi e lanciando
un gemito agghiacciante, allungò violentemente un braccio verso Hilda, che terrorizzata d’istinto si buttò all’indietro
riuscendo a non farsi afferrare.
Nel
mentre, Amanda era ancora dietro la porta, sempre più preoccupata, ma quando
all’improvviso dalla parte opposta giunse un grido di terrore il cuore quasi le
si fermò in petto.
«Hilda! Hilda!».
I
mostri, di sotto, la sentirono, e come lupi attratti dal sangue presero a
salire rapidamente le scale, dritti verso la preda.
La
ragazza guardò la serratura, che sembrava quasi volerla sfidare, quindi vi
appoggiò lentamente sopra una mano, che appena entrata a contatto con il freddo
metallo si circondò di luce.
«Resisti,
piccola! Sto arrivando!».
Hilda si fece
indietro, sconvolta nel vedere il proprio genitore che, non potendo alzarsi per
le gambe rotte, le si faceva incontro strisciando a terra come moribondo.
«Papà!»
piangeva. «Sono io! Sono Hilda!».
Il suo
gattonare stentato si concluse inevitabilmente contro la parete, contro la
quale rimase bloccata, immobile per il terrore, i denti serrati e gli occhi
spalancati in direzione di quella cosa che continuava ad avvicinarsi.
L’EDA,
forse odorando la paura della sua preda, usò le poche forze residue per
compiere un piccolo balzo, riuscendo ad afferrare una gamba della bambina, che
prese a tirare verso di sé.
«Papà,
smettila!» urlò Hilda afferrandosi ad un tubo e
tirando calci nel tentativo di liberarsi. «Ti prego! Non farlo!».
Ogni
urlo che giungeva dall’altra parte era per Amanda come un colpo al cuore, così
come il rumore sempre più vicino degli EDA lungo la scala, ma fece
l’impossibile perché quella situazione non pregiudicasse il suo lavoro.
Come i
tentacoli di una piovra, filamenti di luce si incunearono in tutti gli angoli
della serratura, afferrarono il meccanismo, e, dopo qualche tentativo,
riuscirono a farlo saltare.
Amanda
si gettò oltre la porta, ricordandosi istintivamente di chiuderla giusto in
tempo per non venire travolta dai mostri, e accortasi di quello che stava
succedendo corse senza esitazioni incontro ad Hilda
con la pistola già in mano.
«Lasciala!»
urlò allontanando l’aggressore con un calcio che lo scaraventò lontano.
Quello,
già provato, accusò pesantemente il colpo; ma ci voleva ben altro per
ucciderlo, e senza esitazioni Amanda puntò l’arma contro di lui, venendo però
incredibilmente bloccata proprio da Hilda.
«Non
farlo!» pianse la bambina afferrandole il braccio «Quello è il mio papà!».
Sconvolta,
Amanda esitò per un istante, ma quando il mostro, ripresosi, tentò di aggredire
tutte e due, la ragazza sparò un po’ per istinto e un po’ per volontà propria,
realizzando uno dei suoi centri migliori che non lasciò scampo all’EDA.
«Papà!».
Amanda
bloccò Hilda, nel timore che quella cosa maledetta
non fosse realmente morta, ma anche dopo che l’EDA come gli altri si fu
incenerito la bambina seguitò a piangere e dimenarsi, urlando alla ragazza di
avere ucciso il suo papà.
«Hilda ascoltami. Ascoltami!».
Lei,
scossa, la guardò con gli occhi lucidi e l’espressione stupita.
«Hilda. Quello non era più il tuo papà. Il tuo papà è morto,
e al suo posto è nato quel mostro».
Dentro
di sé la bambina lo sapeva, perché altrimenti l’istinto non le avrebbe permesso
di sopravvivere; ma d’altro canto, accettarlo non era facile. Prima aveva visto
morire la sua mamma, e ora anche il suo papà.
Era
sola.
E
allora, non riuscì a non lasciarsi sopraffare dal pianto, abbandonandosi di
nuovo sul seno di Amanda, la prima cosa calda ed amorevole che le riusciva di
sentire da quattro giorni a quella parte.
«Mi
dispiace, piccola. Ma ti prometto che quando tutto questo sarà finito,
costruiremo insieme una tomba per il tuo papà».
Poi,
Amanda si avvide che l’anello, a differenza dei vestiti, era sopravvissuto,
forse perché l’argento era notoriamente un materiale molto sensibile alla
magia, ed immune a molti dei suoi effetti più nocivi. Lo raccolse, infilandovi
dentro un pezzetto del filo universale che aveva con sé, e sotto lo sguardo
incredulo di Hilda glielo mise al collo.
«E
comunque, in qualche modo, il tuo papà, quello vero, sarà sempre con te.»
«Tu… lo credi davvero?» disse Hilda
sorpresa e smettendo di piangere.
«Ne sono
sicura. Ora forza. Presto sarà tutto finito».
Presesi
per mano, ripresero a correre.
Se avesse saputo che la
cosa avrebbe assunto dei contorni così drammatici, Georg ci avrebbe pensato due
volte prima di portare i ragazzi della scuola a bordo di quella nave maledetta.
Contrastare
gli EDA e affrontare situazioni pericolose era ciò per cui li stava
addestrando, ma quello era un caso di alta emergenza, oltre che anomalo, per il
quale persino lui non era certo di essere pronto.
Klaus
dal canto suo cercava di mostrarsi forte e risoluto, ma si vedeva che anche lui
era nervoso.
«Nervi
saldi, ragazzo» gli disse vedendolo guardarsi attorno con l’arma sempre pronta
a sparare. «Quei cosi saranno anche tanti, ma sono anche stupidi. Li sentiremo
arrivare.»
«Non
riesco a capire. Perché non li abbiamo visti arrivando? Abbiamo attraversato
mezza nave senza incontrarli.»
«Perché
probabilmente erano stati isolati con la chiusura delle porte di sicurezza.
Aprendole, senza volerlo li abbiamo liberati.»
«Mi
dispiace, signore.» disse Ulrich via radio «È colpa
mia.»
«Niente
affatto. Ho dato io l’autorizzazione.»
«Un
momento» intervenne Klaus. «Se davvero qualcuno ha cercato di isolarli…»
«Esatto.
È probabile che a bordo di sia qualcun altro oltre a quella ragazzina».
Il
cammino dei due agenti proseguì fino ad una biforcazione a T, con il loro
corridoio che proseguiva verso il fondo della nave ed un altro che invece,
stando ai cartelli, conduceva alle cambuse e alle zone di stoccaggio delle
merci.
Georg e
Klaus fecero per tirare dritto, se non che nell’istante in cui ebbero il
corridoio diretto alle cambuse alla propria sinistra dal buio il Capitano vide
sbucare, dritta sull’orecchio di Klaus, la luce rossa di un mirino al laser.
«Attento!».
Si buttarono
entrambi a terra, giusto in tempo per evitare una fucilata e le raffiche di
almeno due armi automatiche, schiacciandosi contro le pareti.
«Cessate
il fuoco! Siamo amici!».
Seguirono
attimi di interminabile silenzio, poi una voce giunse dal buio.
«Siete
della MAB, vero?».