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Autore: Carlos Olivera    30/05/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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6

 

 

Codice identificativo 9-9.

Un codice che gli agenti della MAB, e le squadre speciali di sicurezza in particolar modo, ben conoscevano.

«Ne sei proprio sicuro, Jaocob?» chiese ancora Georg

«Ne abbiamo appena abbattuto uno, Capitano. Classe Pedone. Nonostante ciò ci sono voluti parecchi colpi per riuscire ad abbatterlo».

A quel punto, non vi erano quasi più dubbi su cosa doveva essere accaduto a bordo di quella nave; l’ipotesi peggiore, quella che nessuno avrebbe voluto prendere in considerazione.

«Capitano» disse Jacob traendo un respiro. «Abbiamo un’emergenza EDA in atto».

EDA.

Ovvero, Extreme Dna Alteration. Il lato spiacevole della magia.

La magia era come un fiume, una turbinio di energia che scorreva ininterrottamente all’interno di tutti gli esseri viventi tramite il dna, ma che solo una percentuale ancora molto ristretta di persone, gli stregoni appunto, era in grado di maneggiare per influenzare e trasformare la materia.

Ma il dna, e l’M-Code in particolare che permetteva agli stregoni di esercitare la magia, era delicato, e quando qualcuno era talmente folle o imprudente da spingersi oltre i propri limiti, l’esito era un corto circuito nel fragile equilibrio di energie che regolavano il corpo umano, con il risultato, nel peggiore dei casi, di dare vita a creature mostruose e terribilmente aggressive.

Smarrita ogni traccia di raziocinio, questi mostri avevano l’unico scopo di assorbire quanta più energia possibile, al fine di preservare quel nucleo impazzito che come una batteria costituiva la fonte della loro vita, ma che i gravi danni provocati dalla mutazione portava ad esaurirsi rapidamente; e in quanto un possesso di un M-Code tra i più sviluppati del regno animale, gli esseri umani costituivano la preda favorita degli EDA, che come bestie feroci assalivano e sbranavano qualsiasi malcapitato capitasse loro a tiro, oltre a sfogare la propria furia distruttiva su qualunque cosa i loro sensi deviati indicassero come una potenziale minaccia.

Fino a pochi anni prima il problema relativo agli EDA aveva riguardato solo coloro in grado di maneggiare la stregoneria, ma con la diffusione di apparecchiature atte a permetterne un controllo rudimentale anche da parte degli esseri umani gli incidenti erano sensibilmente aumentati, e in fin dei conti era proprio per questo che era stato istituito quel corso speciale per la formazione di unità specializzate a contrastare la minaccia.

Gli EDA erano suddivisi in cinque classi, Pedone, Cavallo, Torre, Alfiere e Regina, cui venivano assegnati in base alla violenza della mutazione e alla loro pericolosità relativa. Il Pedone era la classe più bassa, e teoricamente quella meno pericolosa, ma il problema in quel caso non era tanto nella pericolosità del nemico, quanto nel numero.

E Jacob non mancò di parlarne al Capitano.

«La ragazzina ha parlato di un alto numero di assalitori. Siamo chiaramente di fronte ad un nove-nove-zero».

Georg si sentì gelare il sangue, e non per il freddo che attraversava i locali della stiva.

Nove-nove-zero. Il peggior codice identificativo che si potesse immaginare.

Nove-nove era già di per sé una brutta cosa, perché indicava una manifestazione multipla di più EDA contemporaneamente, fatto raro ma non impossibile, ma lo Zero significava chiaramente la natura indeterminata ed indeterminabile del numero esatto di potenziali nemici.

«Drassimovic, come va’ con quel satellite?» domandò allora Georg, che Klaus non ricordava di aver mai visto così preoccupato

«Ci sto ancora lavorando, Capitano. Ci sono un sacco di protezioni.»

«Muovi il culo. Chiama subito la stazione. Ci serve supporto immediato.»

«Mi rimetto subito al lavoro, signore.»

«Trigger, Gerth. Voi portate la ragazzina alla nave ed aspettate lì. Meno gente c’è in giro per questi maledetti corridoi e meglio mi sentirò.»

«Ricevuto, Capitano. Ci muoviamo subito».

Chiusa la conversazione, Jacob e Amanda si prepararono a muovere per fare ritorno all’hangar, ma come fecero per percorrere il tragitto inverso altri rumori presero a giungere, minacciosi e sempre più vicini, dalla porta chiusa da cui erano venuti, lasciando entrambi impietriti.

Di nuovo, Hilda si bloccò per la paura nascondendosi dietro ad Amanda, che cercava di farsi forza se non altro per non spaventare ulteriormente la bambina.

«Ulrich» sussurrò Jacob alla radio. «Ci sono altre vie per uscire da qui?»

«C’è una porta di servizio tra l’atrio e l’ingresso dal cinema, e un’altra che porta alla balconata e alla cabina di proiezione.»

«Qual è la più breve per arrivare alla nave?»

«La porta di servizio. Proseguite lungo il corridoio che troverete fino alla scala dell’equipaggio trentatre, scendete fino al ponte K, procedete dritti e ci siete.»

«Muoviamoci, Gerth».

Non riuscirono neanche a muovere un passo, che all’improvviso le porte vennero letteralmente sfondate, e un vero esercito di EDA simili a quella che avevano abbattuto fece irruzione nel salone strillando e lanciando assordanti stridii.

Indossavano abiti da sera, vestaglie da notte della migliore fattura, ma anche uniformi da mozzi, camerieri e inservienti.

«Fuoco!».

Amanda non aveva mai sparato, non contro bersagli mobili, e la sua mira era piuttosto imprecisa, e contro una simile ora di nemici non c’era molto che Jacob da solo potesse fare, pur con tutto il suo talento.

Purtroppo, quello del mostro-cameriera non si stava rivelando un caso isolato; quelle dannate bestie erano terribilmente coriacee, e neanche una scarica in pieno petto bastava a fermarli; inoltre, quei pochi che morivano, come la prima che i due agenti avevano abbattuto finivano in polvere subito dopo essere spirati, il che era quantomeno insolito.

Se c’era una cosa che gli EDA non facevano mai, questa era senza dubbio l’assomigliarsi tra loro, eccezion fatta ovviamente per il comportamento aggressivo e l’istinto di nutrirsi; gli EDA erano un po’ come gli umani, simili ed insieme diversi. Ognuno aveva un proprio aspetto e delle proprie capacità che seguitavano a rimanere anche dopo la trasformazione, ma non esisteva che manifestassero gli stessi poteri, non in numero così elevato e tutti insieme.

Poi,  per caso, accadde qualcosa; esaurito l’ennesimo caricatore, Jacob ne infilò un altro, e alzata velocemente l’arma centrò d’istinto il mostro più vicino proprio in mezzo alla fronte. Di solito fronte e testa non erano bersagli appetibili quando si aveva a che fare con un’EDA, ma quello invece rimase morto per terra subito dopo aver preso il colpo, incenerendosi.

«La testa…» mormorò, ed un secondo colpo piazzato allo stesso modo gli confermò di aver capito. «Amanda, tira alla testa!».

La ragazza puntò un nemico, cercando di controllare il tremore della mano, prese la mira, e sparò; non un colpo preciso come quello del suo superiore, ma l’anziana donna in abito nero che riuscì a trapassare poco sopra l’occhio seguì la stessa sorte di tutti gli altri.

Purtroppo, anche così, la situazione rimaneva drammatica.

Per tentare di arrestare l’avanzata dei nemici Amanda usò la sua magia per materializzare una serie di pareti invisibili alte e strette, che come enormi tessere del domino svettavano qua e là costringendo gli assalitori a lunghi giri che li rendevano dei facili bersagli; un mago di classe elevata avrebbe semplicemente eretto un unico, grande muro per creare una difesa assoluta, ma lei purtroppo non era ancora così brava da realizzare un simile incantesimo protettivo.

Il problema restava raggiungere le porte del cinema, da cui non uscivano nemici ma che si trovavano dalla parte opposta della sala, impresa tutt’altro che facile con tutti quegli EDA che non smettevano di arrivare.

Jacob esitò, mordendosi le labbra, ma Amanda era preda a tal punto dell’ansia e dell’istinto incontrollabile di continuare a sparare che non se ne accorse.

«Amanda, ora ascoltami!» le urlò con tono di ordine. «Al mio segnale, prendi la bambina e corri verso l’uscita! Io ti coprirò la fuga!»

«Che cosa!?»

«Non temere, non ti inseguiranno! Questi animali attaccano sempre per primo chi ritengono più pericoloso! Non sparare e ti lasceranno scappare!»

«E tu cosa farai?» domandò lei guardandolo atterrita

«Non temere, me la caverò! Sono uscito da situazioni peggiori di questa!»

«Non puoi chiedermi di abbandonarti!»

«Questa non è una richiesta, è un ordine di un tuo superiore!» le sbraitò contro Jacob quasi spaventandola. «Quindi piantala di fare l’eroina e ubbidisci! La salvezza dei civili viene prima di tutto!».

Amanda si bloccò, fulminata dall’ultima frase.

Era un concetto quello che fin dal giorno in cui aveva indossato la divisa per la prima volta le era stato ripetuto fino alla noia, ma di cui solo in quel momento iniziò a capire il vero significato.

Salvezza dei civili spesso, per non dire sempre, significava rischio personale.

Ma Jacob, si risolse a pensare la ragazza, aveva ragione.

Non le piaceva l’idea di abbandonarlo, ma d’altronde la vita di Hilda aveva la priorità, come quella di qualunque altro civile che avessero eventualmente incontrato da lì in avanti.

«D’accordo» disse risoluta, ricevendo in risposta un sorriso soddisfatto.

Gli EDA potevano pure essere poco più che animali, ma non erano immuni ad alcune delle debolezze tipiche degli esseri umani. Così, quando Jacob fece esplodere in mezzo a loro una granata stordente dopo averla fatta rotolare sul pavimento i mostri, storditi dal fumo, dal frastuono assordante e dalla forte luce, rimasero disorientati, raggomitolandosi a terra con le mani sulla testa.

«Vai!».

Amanda afferrò Hilda, e assieme a lei riuscì a passare in mezzo a quelle creature senza che queste quasi se ne accorgessero, e quando la situazione si fu acquietata nella stanza, come potenziale preda, gli EDA trovarono solo Jacob, che li fissava sornione con il mitra sollevato.

«Certo che è stata proprio una gran bella idea».

Le pareti magiche erano ancora attive, ma ora che la loro creatrice se n’era andata erano destinate a sparire in breve tempo.

In ogni caso, Jacob non aveva alcuna intenzione di fare il martire; fino a che fosse stato possibile, avrebbe fatto quanto era in suo potere per riportare a casa la pelle e garantirsi un altro giorno di vita.

Provò a raggiungere la sala cinema, ma trovatosi la strada bloccata dall’arrivo di un nuovo gruppo di nemici non ebbe altra scelta che rifugiarsi dietro al bancone del bar, da dove prese a scaricare sugli EDA tutto quello che aveva facendone strage.

Sfortunatamente, per quanti ne uccidesse, continuavano ad arrivarne, e ogni volta che ne abbatteva uno la reazione degli altri si faceva sempre più rabbiosa. Oltretutto vista la loro agilità colpirli era parecchio complicato, e con la testa come unico punto vulnerabile persino un tiratore esperto come “trigger” aveva le sue belle difficoltà ad andare a segno.

Come ultima linea di difesa, Jacob ripiegò verso la porta da cui era uscito il primo EDA, confidando nella strettoia così creatasi per impostare una resistenza che si faceva disperata; sperava che gli assalitori, notando la grande potenza di fuoco e pericolosità della loro preda, finissero per desistere, o che lì dentro vi fosse una grata, uno spiraglio, una buca per cani da cui sgattaiolare via, ma quando, infilata una mano nella borsa, si trovò ad inserire il suo ultimo caricatore per il fucile d’assalto, cominciò a temere che quella fosse davvero la fine.

Oltretutto, poco prima che riuscisse a rifugiarsi in quello stanzino, uno di quei mostri lo aveva morso ad un braccio, riuscendo ad azzannargli la pelle nonostante la tuta protettiva, una ferita non seria ma che rendeva le cose ancor più complicate.

«Di bene in meglio».

Di certo non sarebbe caduto senza combattere; nella peggiore delle ipotesi poteva fare ricorso al machete, oppure alla granata ad alta frammentazione, l’arma per i casi di emergenza assoluta, ma così potente che in un ambiente tanto ristretto e pieno di sostanze infiammabili probabilmente avrebbe polverizzato anche lui. Di certo, non si sarebbe lasciato mangiare.

Aveva infilato il caricatore, ed era pronto a sparare, quando l’EDA che era sul punto di irrompere nella cucina alla testa del gruppo cadde a terra centrato alle spalle in piena nuca. Altri lo seguirono, colpiti con letale precisione, e alzato lo sguardo oltre la porta Jacob poté scorgere, con sua grande gioia, una figura amica in piedi sulla balconata.

«Serve aiuto?» domandò Vincent ammiccandogli, per poi infilare nuovamente l’occhio nel mirino del suo fucile e riprendere a mietere avversari.

Sotto il fuoco incrociato dei due agenti gli EDA fecero la fine dei topi in trappola, e complice anche una granata piazzata nel punto giusto dopo pochi minuti non ne rimase nemmeno uno; Vincent a quel punto saltò giù dalla balconata, riunendosi all’amico nel centro dell’atrio.

«E con questa, direi che siamo pari. Ora la smetterai di rinfacciarmi quella volta nella vecchia fabbrica al porto, voglio sperare.»

«Può darsi» replicò Jacob ricordando l’incidente in questione. «Non dovevi essere con Drassimovic

«Il piccolo nerd se la caverà anche da solo. E poi, con l’ascensore bloccato e le porte sprangate, laggiù è più al sicuro che in una fortezza.»

«Guarda che ti ho sentito.» disse l’interessato via radio

«Com’è la situazione?»

«Da schifo. La nave è infestata di quei cosi. È solo per un mezzo miracolo che sono arrivato qui senza rimetterci la pelle.»

«Avresti anche renderci partecipi di questa tua scoperta.»

«Lo avrei fatto, ma il mio primo incontro con questi bastardi è stato piuttosto… ravvicinato.

Per fortuna ci ho rimesso solo la radio, invece dell’orecchio.»

«Ulrich, puoi fare qualcosa per noi?»

«Appena sarò riuscito a lanciare il satellite, proverò a ripristinare il sistema di videosorveglianza. In questo modo avremo un’idea chiara di quali siano i settori compromessi.»

«Una cosa è certa, di quei cosi ce ne sono in giro a centinaia.» disse Vincent «Comincio a pensare che su questa nave non ci sia più nessuno vivo.»

«Non direi» replicò Ulrich. «Ho appena ricevuto un segnale. Sembrava una richiesta di aiuto. Proviene dall’infermeria. Potrebbe esserci qualcuno ancora vivo laggiù».

I due agenti si guardarono tra di loro.

«L’infermeria, dici?» disse Jacob. «E dove si trova?»

«Ponte C, zona centrale.»

«Non sarà un viaggio da poco» commentò Vincent. «Sarà anche a questo livello, ma si tratta di attraversare quasi metà della nave.»

«Beh» replicò Jacob facendo scattare la rotaia del fucile. «È il nostro lavoro.»

«Ben detto» e i due si avviarono insieme.

 

Seguendo le indicazioni di Ulrich, e cercando di non guardarsi indietro, Amanda raggiunse la rampa di scale.

Hilda camminava accanto a lei, tenendole forte la mano, anche se la paura di poco prima sembrava essere passata, messa a tacere dall’apparente coraggio e forza di volontà della sua salvatrice.

«Non temere» continuava a dirle Amanda. «Ci sono io qui con te. Ti porterò in salvo».

Purtroppo, scese fino al primo ponte stiva, dovettero bloccarsi, perché da più in basso, anche senza tendere l’orecchio, presero a giungere rumori inquietanti.

Amanda mise per scrupolo una mano sulla bocca di Hilda e gettò silenziosamente uno sguardo nella tromba, scorgendo nitidamente alcune ombre che si movevano nei livelli inferiori.

Probabilmente non le avevano viste né sentite, ma scendere ancora di più era troppo rischioso.

«E adesso cosa facciamo?» domandò Hilda, tesa ma non per questo spaventata.

Per trovare una risposta, Amanda si collegò con Ulrich.

«Ulrich, siamo all’ingresso del Ponte G» sussurrò. «La scala è compromessa. Ci serve un’altra strada.»

«Da dove vi trovate ora, potete uscire sul ponte e usare un’altra scala di servizio. Purtroppo, gli ascensori di quella zona sono tutti fuori uso».

Amanda provò a spingere la pesante porta blindata che immetteva al corridoio del ponte, ma questa non si mosse.

«È chiusa dall’altro lato.»

«Puoi sempre far scattare la serratura con la magia.»

«Sbloccare la serratura!? Ma non l’ho mai fatto.»

«C’è sempre una prima volta. Del resto, non hai altra scelta».

Hilda, nel mentre, si guardava attorno, e quando si avvide della presenza di una grata proprio accanto alla porta le sue labbra si piegarono in un sorriso divertito.

«Lasciate fare a me» disse, e prima che Amanda potesse fermarla la bambina si era già infilata nel condotto.

«Hilda, torna subito qui. È pericoloso.»

«Non ti preoccupare, so badare a me stessa» rispose lei con ritrovato coraggio.

Strisciando nello stretto pertugio la ragazzina riuscì a scavalcare l’ostacolo, ed accertatasi, sbirciando oltre la rete, che nel corridoio oltre la porta non vi fosse alcuna minaccia, sbucò all’esterno, scrollandosi la polvere dai vestiti.

«Amanda. Sono dall’altra parte. Adesso ti apro.»

«Sbrigati. Potrebbe essere pericoloso».

Hilda era sul punto di aprire, quando un rumore proveniente dal buio del corridoio attirò la sua attenzione, come se qualcosa, o qualcuno, venisse trascinato rumorosamente sul pavimento metallico, molto diverso da quello elegante e soffice dei ponti superiori.

«Hilda, che succede?» disse Amanda vedendo che la bambina esitava ad aprire.

L’attenzione della piccola, infatti, era stata catturata tutta da quello strano rumore, al punto che, dando un calcio a tutto il resto, iniziò a farsi strada nella semi-oscurità per capire da dove provenisse.

Non aveva paura; anche se si fosse trattato di uno di quei mostri, dal modo in cui si trascinava doveva essere ridotto in uno stato pietoso, e all’occorrenza sarebbe sempre potuta scappare.

Ad un certo punto, una figura iniziò a stagliarsi in lontananza, riversa al suolo sulla pancia, apparentemente morta.

Sembrava umana, perché non emetteva gli stessi gemiti di quelle creature, ma a giudicare dal suo essere immobile, chiunque fosse, doveva essere già morto, o comunque molto malridotto.

Hilda continuò ad avvicinarsi, pronta a scattare all’indietro al minimo segno di vita, ma quando riconobbe in quella figura senza vita apparente una rada capigliatura castana, un naso un po’ pronunciato, e soprattutto un anello d’argento con un rubino all’anulare, nei suoi occhi, al posto della curiosità, apparve nuovamente la paura.

«Papà!» esclamò.

Istintivamente corse verso di lui, inginocchiandosi nel tentativo di aiutarlo, ma appena lo toccò lo sentì freddo, e duro come la pietra; le gambe, poi, erano ridotte in uno stato pietoso, completamente disarticolate: doveva essersele rotte cadendo da qualche scala. Inoltre, i vestiti erano insanguinati in più punti.

Hilda lo scosse, violentemente, ma lui non si mosse, e allora gli occhi della piccola si riempirono di lacrime.

«Papà…».

Poi però, come per incanto, ebbe la sensazione che le palpebre si fossero mosse, e il suo cuore per un attimo tornò a sperare. Una speranza che si infranse come un cristallo quando il conte Balthus Weilmann, spalancati i suoi occhi bianchissimi e lanciando un gemito agghiacciante, allungò violentemente un braccio verso Hilda, che terrorizzata d’istinto si buttò all’indietro riuscendo a non farsi afferrare.

Nel mentre, Amanda era ancora dietro la porta, sempre più preoccupata, ma quando all’improvviso dalla parte opposta giunse un grido di terrore il cuore quasi le si fermò in petto.

«Hilda! Hilda!».

I mostri, di sotto, la sentirono, e come lupi attratti dal sangue presero a salire rapidamente le scale, dritti verso la preda.

La ragazza guardò la serratura, che sembrava quasi volerla sfidare, quindi vi appoggiò lentamente sopra una mano, che appena entrata a contatto con il freddo metallo si circondò di luce.

«Resisti, piccola! Sto arrivando!».

Hilda si fece indietro, sconvolta nel vedere il proprio genitore che, non potendo alzarsi per le gambe rotte, le si faceva incontro strisciando a terra come moribondo.

«Papà!» piangeva. «Sono io! Sono Hilda!».

Il suo gattonare stentato si concluse inevitabilmente contro la parete, contro la quale rimase bloccata, immobile per il terrore, i denti serrati e gli occhi spalancati in direzione di quella cosa che continuava ad avvicinarsi.

L’EDA, forse odorando la paura della sua preda, usò le poche forze residue per compiere un piccolo balzo, riuscendo ad afferrare una gamba della bambina, che prese a tirare verso di sé.

«Papà, smettila!» urlò Hilda afferrandosi ad un tubo e tirando calci nel tentativo di liberarsi. «Ti prego! Non farlo!».

Ogni urlo che giungeva dall’altra parte era per Amanda come un colpo al cuore, così come il rumore sempre più vicino degli EDA lungo la scala, ma fece l’impossibile perché quella situazione non pregiudicasse il suo lavoro.

Come i tentacoli di una piovra, filamenti di luce si incunearono in tutti gli angoli della serratura, afferrarono il meccanismo, e, dopo qualche tentativo, riuscirono a farlo saltare.

Amanda si gettò oltre la porta, ricordandosi istintivamente di chiuderla giusto in tempo per non venire travolta dai mostri, e accortasi di quello che stava succedendo corse senza esitazioni incontro ad Hilda con la pistola già in mano.

«Lasciala!» urlò allontanando l’aggressore con un calcio che lo scaraventò lontano.

Quello, già provato, accusò pesantemente il colpo; ma ci voleva ben altro per ucciderlo, e senza esitazioni Amanda puntò l’arma contro di lui, venendo però incredibilmente bloccata proprio da Hilda.

«Non farlo!» pianse la bambina afferrandole il braccio «Quello è il mio papà!».

Sconvolta, Amanda esitò per un istante, ma quando il mostro, ripresosi, tentò di aggredire tutte e due, la ragazza sparò un po’ per istinto e un po’ per volontà propria, realizzando uno dei suoi centri migliori che non lasciò scampo all’EDA.

«Papà!».

Amanda bloccò Hilda, nel timore che quella cosa maledetta non fosse realmente morta, ma anche dopo che l’EDA come gli altri si fu incenerito la bambina seguitò a piangere e dimenarsi, urlando alla ragazza di avere ucciso il suo papà.

«Hilda ascoltami. Ascoltami!».

Lei, scossa, la guardò con gli occhi lucidi e l’espressione stupita.

«Hilda. Quello non era più il tuo papà. Il tuo papà è morto, e al suo posto è nato quel mostro».

Dentro di sé la bambina lo sapeva, perché altrimenti l’istinto non le avrebbe permesso di sopravvivere; ma d’altro canto, accettarlo non era facile. Prima aveva visto morire la sua mamma, e ora anche il suo papà.

Era sola.

E allora, non riuscì a non lasciarsi sopraffare dal pianto, abbandonandosi di nuovo sul seno di Amanda, la prima cosa calda ed amorevole che le riusciva di sentire da quattro giorni a quella parte.

«Mi dispiace, piccola. Ma ti prometto che quando tutto questo sarà finito, costruiremo insieme una tomba per il tuo papà».

Poi, Amanda si avvide che l’anello, a differenza dei vestiti, era sopravvissuto, forse perché l’argento era notoriamente un materiale molto sensibile alla magia, ed immune a molti dei suoi effetti più nocivi. Lo raccolse, infilandovi dentro un pezzetto del filo universale che aveva con sé, e sotto lo sguardo incredulo di Hilda glielo mise al collo.

«E comunque, in qualche modo, il tuo papà, quello vero, sarà sempre con te.»

«Tu… lo credi davvero?» disse Hilda sorpresa e smettendo di piangere.

«Ne sono sicura. Ora forza. Presto sarà tutto finito».

Presesi per mano, ripresero a correre.

 

Se avesse saputo che la cosa avrebbe assunto dei contorni così drammatici, Georg ci avrebbe pensato due volte prima di portare i ragazzi della scuola a bordo di quella nave maledetta.

Contrastare gli EDA e affrontare situazioni pericolose era ciò per cui li stava addestrando, ma quello era un caso di alta emergenza, oltre che anomalo, per il quale persino lui non era certo di essere pronto.

Klaus dal canto suo cercava di mostrarsi forte e risoluto, ma si vedeva che anche lui era nervoso.

«Nervi saldi, ragazzo» gli disse vedendolo guardarsi attorno con l’arma sempre pronta a sparare. «Quei cosi saranno anche tanti, ma sono anche stupidi. Li sentiremo arrivare.»

«Non riesco a capire. Perché non li abbiamo visti arrivando? Abbiamo attraversato mezza nave senza incontrarli.»

«Perché probabilmente erano stati isolati con la chiusura delle porte di sicurezza. Aprendole, senza volerlo li abbiamo liberati.»

«Mi dispiace, signore.» disse Ulrich via radio «È colpa mia.»

«Niente affatto. Ho dato io l’autorizzazione.»

«Un momento» intervenne Klaus. «Se davvero qualcuno ha cercato di isolarli…»

«Esatto. È probabile che a bordo di sia qualcun altro oltre a quella ragazzina».

Il cammino dei due agenti proseguì fino ad una biforcazione a T, con il loro corridoio che proseguiva verso il fondo della nave ed un altro che invece, stando ai cartelli, conduceva alle cambuse e alle zone di stoccaggio delle merci.

Georg e Klaus fecero per tirare dritto, se non che nell’istante in cui ebbero il corridoio diretto alle cambuse alla propria sinistra dal buio il Capitano vide sbucare, dritta sull’orecchio di Klaus, la luce rossa di un mirino al laser.

«Attento!».

Si buttarono entrambi a terra, giusto in tempo per evitare una fucilata e le raffiche di almeno due armi automatiche, schiacciandosi contro le pareti.

«Cessate il fuoco! Siamo amici!».

Seguirono attimi di interminabile silenzio, poi una voce giunse dal buio.

«Siete della MAB, vero?».

 

  
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