Capitolo
ventesimo
The
big bang theory
Katherine
James
Peebles disse che l’essenza della teoria del Big Bang sta
proprio nel fatto che
l’universo si stia espandendo e raffreddando. Non si parla di
un’esplosione, ma
bensì di come il nostro pianeta si evolve, non di come esso
iniziò. Se potessi
in qualche modo paragonare me ed Elena a questa teoria, lo farei. Non
ho la
benché minima intenzione di spiegare come è
iniziato tutto, come si siano
improvvisamente invertite le nostre vite –seppure, ne sono
certa, lei meriti
una qualche spiegazione- ma voglio discutere del fatto che ho bisogno
di
riavere tutto indietro, ho bisogno di spedirla dall’altra
parte di Londra,
dall’altra parte che abbiamo entrambe abbandonato.
Non
capisco un sacco di cose, mi mancano numerosi dettagli per inquadrare
finalmente la nostra situazione, ma quel che ho mi basta, ora come ora.
Ed io
che, fino a poco tempo fa, credevo che i ricordi fossero superflui
tasselli
della nostra intera esistenza (patetico destino).
“Tu
devi
essere Elena”
Lei si
blocca, pare quasi paralizzata, ghiacciata, impossibilitata a muoversi.
Il
colorito olivastro passa ad una gradazione più chiara, quasi
color latte,
mentre le guance rimangono rosee, in netto contrasto con il resto della
sua
pelle.
Abbandona
le chiavi per terra, in un gesto involontario che produce un lieve
tonfo. Il
silenzio è calato da quando ho aperto bocca, lei ha le
labbra appena aperte, ma
cosa dire?
Incrocio
le braccia sotto il petto, avanzando verso di lei, lentamente.
“Come
possiamo essere identiche?”
Credimi,
sto cercando di capirlo
anche io.
La sua
è
una giusta quanto curiosa domanda, posta con un tono che lascia
trasparire la
sua totale mancanza di convinzione.
“Possiamo
passare ad un altro quesito? Non sono ancora in grado di
risponderti.”
Serra le
labbra e sembra pian piano riprendersi, almeno il necessario per
indurire la
mascella e spostare di poco il capo, quasi per non guardarmi,
infastidita dalla
presenza di una totale sconosciuta.
Poi
riporta il suo sguardo su di me, lo fa subito, come se avvertisse la
patetica
necessità di continuare a scrutarmi e capire se siamo davvero identiche, davvero due gocce
d’acqua.
“Senti,
prima che possa formulare altre sciocche domande, sono stupita quanto
te, ma, a
differenza tua, posso chiarirti le idee… almeno un
po’. Hai intenzione di
ascoltarmi?”
“Chi
sei?” ribatte incurante delle mie parole. Testarda. Quasi
quanto me.
“Katerina
Petrova. O Katherine Petrova, se preferisci.”
Sgrana
gli occhi, facendosi un passo indietro e toccando il tavolino nero come
se
fosse l’unico appiglio a tenerla ancora viva di fronte a me.
“Immagino
sia difficile, Elena, ma se ascolti quello che ho da dire sono certa
che l’idea
che questo sia il tuo reale nome non sarà poi
così lontana da credere”
Mi scruta
ancora, sbattendo le lunghe ciglia di tanto in tanto.
“Ti
prego, Elena, sto cercando di
mantenere
la calma” il mio tono
piatto rompe
nuovamente il silenzio che si crea perché lei non risponde a
ciò che dico,
parla solo quando le pare e piace, quando ha la stupida forza di porre
domande
idiote.
“Proviamo
così, allora: puoi scappare ancora, puoi svenire sul
pavimento del mio
appartamento e sappi che in quel caso ti sbatterei fuori da casa mia,
oppure
puoi accomodarti sul mio bellissimo divano, sicura che sarà
di tuo gradimento,
almeno quanto la storia che muori dalla voglia di ascoltare”
Si
inumidisce le labbra e si siede senza che io parli più,
senza nemmeno sfiorarmi
con gli occhi scuri che tanto somigliano ai miei.
“Brava
ragazza”
“Cioccolata
e brownies vanno bene?”
Aggrotta
le sopracciglia e annuisce appena, stendendo le braccia nella mia
direzione,
pronte a prendere la tazza piena di cioccolata calza ed il piattino
sottostante, su cui ho poggiato alcuni dei pasticcini che Stefan
credeva mi
piacessero tanto.
Sorrido
quando capisco che sì, ci ha azzeccato e che
sì, ho azzeccato anche io: ma stiamo pur sempre
parlando di Elena. Ed io
sono Katherine. Lo sono.
“Stavi
parlando di alcuni tuoi ricordi…” mi riprende,
mormorando vaga. Annuisco di
rimando e continuo il discorso iniziato una decina di minuti fa.
“A
dire
il vero non posso affermare con tranquillità di aver
ricordato ogni cosa. Però
questo mi basta, in un certo senso, capisci? E’ stata Vicky a
gettarmi questo
secchio d’acqua gelata addosso, metaforicamente
parlando”
Scrollo
le spalle, persino dimenticandomi della sua esistenza per qualche
attimo.
“Ha
parlato di me, della vita che prima ero cosciente di vivere e di quella
che hai
continuato tu ad insaputa di entrambe, delle mie relazioni e dei miei
colleghi.
E si è accesa una lampadina, la mia lampadina. Io ero
questa. Io sono questa persona. I
ricordi sono
arrivati dopo, dopo la lampadina. Ho iniziato a vedere i dettagli, a
mettere a
fuoco la vista. Sono tornati. Come se nulla fosse mai andato
via.”
“Cosa
ricordi? Prima dello scambio, intendo…”
Beve un
breve sorso e torna a guardarmi con la stessa intensità che
quegli occhi grandi
e scuri possono trasmettere.
“Qualche
pomeriggio passato a studiare a casa, a Mystic Falls, in Virginia.
Quando ho
scritto la lettera di ammissione per il Whitmore, quando ci siamo
trasferiti a
Londra, io, John ed Isobel. Quando ho conosciuto Caroline. Elijah.
Quello che è
successo prima di Las Vegas, la sfuriata in ufficio ed il tragitto in
macchina
con lei…”
“Perché
l’hai chiamata?”
“Chi?”
Alza le
spalle. “Perché hai chiamato Caroline?”
“E’
tutto
quello che ho.”
Scuote il
capo. “Non posso fidarmi di te.”
“Mi
dispiace, Elena, ma non hai altre opzioni”
“Dimmi
perché siamo uguali.”
“Non
so
spiegarmelo.”
“Non
posso fidarmi di te” ribadisce con un sorriso stanco.
Poggia la
tazza sul tavolo basso di fronte al divano, sfrega le mani togliendo da
queste
ogni briciola di brownies rimasta e poi mi guarda, assottigliando lo
sguardo.
“Non
siamo un qualche gioco della natura, una cosa chimica, no? Non
è come “Lo
strano caso del dottor Jekyll e mr. Hyde”, noi siamo
vive.” Ribatte inarcando
le sopracciglia. “Deve esserci un qualcosa, una ragione che
adesso non
notiamo.”
“Perché
sei così calma?”
Ride
appena, con le punte delle labbra verso l’alto.
“Perché, tu non lo sei?”
“Dovresti
odiarmi. Dovresti urlarmi contro qualcosa, dovresti piangere,
sbraitare,
cacciarmi… io sono scoppiata.”
“Beh,
correggimi se sbaglio, ma non sembra affatto”
Inclino
il capo. “Ho detto che l’ho fatto, non che lo
mostro. Non che l’abbia mai
mostrato a qualcuno.”
“Hai
abbandonato tutta la mia
famiglia?”
Il modo
in cui pronuncia quelle parole fa zittire entrambe per un po’.
“Sei
scappata quando l’hai saputo?”
“E’
esattamente il mio modo per dire che sono scoppiata. Cento punti per la
bravura, copia di me stessa”
Mi alzo
improvvisamente, sospirando e cercando un modo per liberare la mente.
“Li
hai
chiamati la tua famiglia. Mi credi, allora?”
“Non
lo
so. Ma è… è come se qui non ci fosse
più posto per me” Elena parla alle mie
spalle, affievolendo il tono di voce.
“Ecco,
volevo parlarti di questo…”
“Non
me
ne andrò sino a quando non avrò
risposte” chiarisce prima che possa continuare
il mio discorso.
“Hai
un
fratello, degli zii fantastici, due amiche strepitose ed un ex futuro
marito
che ti aspettano. Sono scappata, dubito che Stefan abbia parlato con
loro e
dubito ancora più fortemente che qualcuno non abbia notato
la tua assenza. Sei
il loro centro del mondo, Elena, devi andare da loro.”
“Devo
andare
e cosa? Iniziare la mia vita daccapo? Ancora? Lasciando te qui, in
balia delle
persone che mi hanno accompagnato nell’ultimo mese e
mezzo?”
“Io
sono
a casa” puntiglio arrabbiata.
“Non
chiamarmi Elena” ribatte con la stessa furia.
Ci stiamo
guardando, adesso, e non ho neanche idea di cosa fare. Cosa dirle?
Questo è il
mio posto, è la mia casa e lei è di troppo.
“Hai
chiamato i tuoi genitori?” domanda innocentemente, le mani
poggiate sulle cosce
e il volto inclinato verso destra. Mi guarda con una punta di
preoccupazione,
che subito si evolve in consapevolezza.
“Credi
che noi sia-”
“No,
Elena. Non possiamo essere sorelle.”
Ride con
velata ironia, portandosi le mani alle tempie. “Hai qualche
altra idea,
allora?”
Io che
abito a Mystic Falls.
Jeremy
che mi parla di come Elena sia stata concepita lì.
Noi che
siamo identiche.
“So
solo
che non possiamo esserlo, d’accordo? Nulla è
certo. Potranno essere i peggiori
genitori del mondo per come mi hanno cresciuta, ma sai cosa? Loro non
mentirebbero a riguardo. Non su questo, perlomeno. Sanno…
sanno quanto ho
sofferto, okay? Sanno quanto avrei voluto un fratello, una vita
migliore,
frequentare il college più prestigioso
dell’America. Non hanno potuto far
nulla, non sanno prendersi cura di me… ma questo no.
E’ troppo persino per
loro.”
“Loro
tengono a te, sono venuti a trovarmi”
Scuoto la
testa, “Ah, sì? Dopo quante settimane?”
Si alza
dal divano e tentenna un po’, incrociando le braccia e mi fa
paura. Per la
prima volta da quando siamo qui, la osservo. La osservo è
capisco che è me, che
è come me, che siamo fatte della stessa pasta e che i pezzi
si stanno
congiungendo.
Io che
abito a Mystic Falls.
Jeremy
che mi parla di come Elena sia stata concepita lì.
Noi che
siamo identiche.
La nostra
stessa testardaggine.
“Importa
davvero quanto dopo? Sono venuti e basta”
“Sì,
sì
che importa – spalanco le braccia, possibile che non veda
l’evidenza? – Non
hanno saputo crescermi, hanno sempre avuto paura che fossi fragile, che
potessi
spezzarmi con un nulla. Mi hanno allontanata da loro, volendo che fossi
diversa
da entrambi. Io me ne sono accorta: sanno di non essere
granché. Hanno lasciato
che commettessi tutti gli errori possibili, hanno lasciato che Caroline
si
prendesse cura di te. Cosa pensi di questo, Elena?”
“Che
ti
vogliono bene, nonostante tutto e nonostante tutti.”
“Non
mi
hanno mentito. Non possiamo essere sorelle, dimentica ogni cosa. Devi
andartene, ho bisogno della mia vita.”
Il cuore
batte forte, lei rimane immobile, ferma ma diversamente da quando
è entrata a
casa.
“Katherine…”
“E’
stato
bello conoscerti, Elena Gilbert. Vai nella direzione opposta
dell’Alexander
Park. Raggiungi Hampstead
Heath, c’è la tua galleria
nelle vicinanze. Tuo fratello ti troverà,
stanne certa.”
***
Raggiungo
Hyde Park, con la speranza che Caroline abiti ancora lì e
sia rinchiusa in
quell’appartamento piccolo, troppo turbata dalla mia chiamata
e da due ragazze
troppo simili per essere vere per uscire da lì e per darsi
alla pazza gioia (o
forse per buttarsi giù dal Tower Bridge).
Suono con
insistenza il citofono, spingo più e più volte,
però non mi giunge nessun cenno
di vita.
Provo a
chiamarla, a lasciarle un messaggio vocale e rimpinzarla di notifiche
su
WhatsApp.
“Caroline,
so che non è il miglior momento per parlarti… ma
giuro di essere Katherine.
Lascia stare Elena e l’ultimo mese e mezzo trascorso con lei.
Posso spiegarti
quasi tutto se solo rispondessi. Richiamami, ti prego”
Con
insistenza, mi dedico ancora al suo cognome al citofono. Continuo a
suonare, ma
nulla: suono altri nomi ed altri cognomi, nella vana speranza che
qualcuno apra
il dannato portone, anche solo erroneamente, anche solo supponendo che
sia una
stupida postina o una sciocca fioraia.
“Chi
è?”
“Salve!
Sono Forbes del terzo piano, ho dimenticato le chiavi…
potrebbe--”
Ecco il
suono che tanto aspettavo. Sorrido.
“Grazie
mille!”
Raggiungo
subito il suo pianerottolo, e ad ogni passo che compio sento che mi sto
avvicinando sempre più a quella che, un tempo, era la mia
normalità, la mia
quotidianità, il mio presente, la vita che mi appartiene.
Busso.
Nessuno
apre.
Attendo
qualche minuto, fino a che non sento dei passi avvicinarsi
all’uscio della
porta. Abbasso lo sguardo per terra: ce la posso fare.
“Sì?”
“Caroline”
esordisco allora, ma lei sgrana gli occhi e fa per chiudermi la porta
in
faccia.
“No,
aspetta, Barbie” sospiro
“se non vuoi
sentirti in colpa per il resto della tua vita per avermi fatto amputare
una
gamba, apri questa porta e ascoltami parlare”
Lei rimane
così, ferma, la mia gamba bloccata ed il suo sorriso spento
che intravedo
nonostante il buio regni nel suo soggiorno.
“Katherine…”
prende un respiro profondo. Il modo in cui ha pronunciato il mio nome,
in modo
strascicato e stanco, non lascia presagire nulla di buono.
“…dio
solo sa quanto vorrei che fossi tu. E se
lo sei, allora d’accordo, potremo parlare. Ma non
ora” scrolla le spalle,
tirando verso sé la porta e mostrandosi a me, seppure in uno
stato pietoso.
“Ho
bisogno di tempo per metabolizzare il tutto, comprendi? Se quello che
mi hai
detto al telefono è vero allora diamine, sì
che ho bisogno di allontanarmi da te! Ho voluto bene ed aiutato una
sconosciuta, lei mi ha aiutata ed è stata mia amica forse
più di quanto lo sia
stata tu per me prima. Non
è un
rifiuto, non prenderla sul personale… penso che tu debba
prenderti qualche
giorno di ferie da lavoro. Per me, per Damon, per Vicky, per Nik, per
Elijah…
domani dirò loro ogni cosa. Abbiamo solo bisogno di tempo,
non puoi tornare e
fingere che vada tutto bene. Devi reintrodurti pian piano nelle nostre
esistenze e noi dobbiamo psicologicamente esserne pronti.”
Sospira.
“Mi prenderò io cura di Damon.”
Immobile,
lascio scivolare via la mia unica certezza.
Risoluta,
lei chiude ogni contatto con me.
Elena
A: Damon
“Possiamo
vederci?”
Da:
Numero sconosciuto
“Non
so chi tu sia, mi dispiace”
A: Damon
“Sono
Elena”
A: Damon
“Sto
per andare via, Katherine è
ritornata alla sua vita. Non sono pronta a conoscere la mia famiglia.
Ho
bisogno di un volto amico.”
A: Damon
“Ho
detto più di quanto tu ricordi
in quella telefonata. E non potrai mai fare ciò che ti ho
chiesto perché sono
stata troppo codarda per pronunciare quelle parole quando tu
c’eri, l’ho fatto
mentre prendevi uno stupido bicchiere.”
Da:
Numero sconosciuto
“Cosa
stai cercando di dirmi?”
A: Damon
“Ho
imparato il tuo numero di
cellulare a memoria. Volevo che tu mi baciassi. Ero più
vicina a te di quanto
entrambi credessimo. Libero di non credermi, so che non ci rivedremo
più. Sei
una parte di me che non voglio dimenticare. Il presente mi aspetta e tu
non ne
fai parte.”
Sono
divenuta troppo codarda: non riesco a chiamare né a lottare
per la persona che
mi ha resa, seppure non sappia come e quando, quella che sono adesso.
Sono
diventata un cliché e qualcuno facile da modellare, semplice
da buttar giù,
come è successo con Caroline, come è successo con
Katherine e come è successo,
poco meno di un minuto fa, con Damon.
Ed io non
posso semplicemente credere che tutto questo stia accadendo. Tutte le
persone a
cui ho voluto bene nell’ultimo periodo mi hanno dato le
spalle, una sconosciuta
identica a me mi caccia da quella che era ed è la sua vita,
dicendomi che
gliel’ho strappata e che per qualche strana e contraddittoria
coincidenza lei
ha vissuto la mia.
Mi sento
intrappolata in uno stupido gioco, in un incubo: vivo della sola
speranza che
qualcuno mi svegli. Come posso essere andata via quando Katherine me
l’ha
imposto? Perché non sto lottando? Dove dovrei andare? Dove
dovrei essere
adesso?
Importa?
E’
davvero fondamentale conoscere da dove veniamo, per
poter andare avanti? Il passato è solo un tassello della
propria esistenza, è
come l’esempio negli esercizi, che serve unicamente a dare un
imput, un punto
di partenza. Ma cosa conosciamo? Dei ricordi, delle abitudini? E sono
davvero
importanti per sopravvivere? Woody Allen una volta ha detto “Cosa
conosciamo? Cioè cosa siamo sicuri di
conoscere, o sicuri che conosciamo di aver conosciuto, se pure
è conoscibile?
Possiamo conoscere l'universo? Mio Dio, è già
così difficile non perdersi a
Chinatown...”
Ed io
vorrei averlo capito un po’ prima, sono come
Chinatown ed i ricordi si perdono come turisti in un numero
pressoché
spropositato di volte. Mi stringo nel maglione di lana bianco, mentre
getto nell’enorme
scatolone del passato tutti gli errori commessi.
Possiamo
scegliere dove andare solo dal presente in poi.
E
nessuno, per ora, sembra farne parte. Ci sono solo io.
Incoming
call, 18.21
Il nome
di Damon lampeggia assieme al mio cellulare.
Rifiuto
la chiamata.
Incoming
call, 18.21
Damon.
Rifiuto.
Ancora.
Nuovo
messaggio. Da Damon. Ancora.
Dove sei? Recita il
testo di due sole
parole, un punto di domanda e non so quanta preoccupazione alle spalle.
Che
qualcuno ci tenga a me, nonostante io non sia nessuno?
Ammettere
anche solo per un secondo che io abbia un’immensa e
spropositata paura mi
terrorizza più del terrore stesso. Ammettere di non essere
nessuno, di aver
perso identità e affetti in meno di una giornata mi
spaventa. Ammettere di
essere sola, nel freddo di una città che sto imparando a
detestare mi apre un
varco nello stomaco.
Non posso
tornare in quella che l’altra me
giudica casa mia. Non ho idea di come sia fatta la mia vita, ammesso
che ne
avessi mai avuta una.
Non
posso… semplicemente non posso.
Dove sei?
Ti vengo a prendere.
Io ho
paura, Damon.
Ne ho
così tanta da non capire più quale sia la cosa
giusta da fare.
Scoppio
in un pianto liberatorio.
Trafalgar
Sq.
Il mio
cuore batte forte, l’ansia riempie ogni mio punto morto e
vuoto, sono immersa
in lei tanto da sentirmi quasi anestetizzata.
Non
muoverti da lì. Arrivo subito.
Deglutisco.
“Voglio
che rispettiate le mie scelte. E la mia scelta è non parlare
di Katherine, non
nominarla, non pensarla, non averla qui. Ha già fatto troppi
danni.”
Damon
scoppia: “Questo ha fatto
tanti
danni, io li ho fatti, Katherine e te non potete averne fatti. Non
nelle vesti
dell’altra.”
“Non proteggerla solo perché sei innamorato di lei!” sbraito io
Grazie per il supporto datomi!
A presto, un bacio!