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«Rimettere in moto la
nave!?» ripeté Georg sentendo le disposizioni ricevute da terra
«È
l’unico modo per avere aiuti in tempi rapidi, signore» rispose Ulrich. «Il tempo purtroppo non è dalla nostra parte. È
solo una questione di tempo prima che Neos ci
attragga a sé, e in queste condizioni il Megonia non
può sostenere un atterraggio di emergenza.»
«E come
diavolo facciamo a rimetterla in moto?» chiese Klaus spazientito. «Giriamo la
chiave o la prendiamo a calci?»
«Teoricamente,
sarebbe possibile rimettere in funzione la nave semplicemente riavviando i
sistemi dal ponte di comando, ma al momento ci sono diverse anomalie ad alcuni
sistemi vitali che renderebbero inutile il riavvio.
È necessario
correggere tutte queste anomalie se vogliamo far ripartire il Megonia.»
«Specifica
anomalie.» disse Georg
«Una su
tutte, la sala macchine. I motori sono andati in arresto d’emergenza a causa
degli urti subiti dallo scafo. Sto provando a riavviarli da qui.»
«D’accordo,
tienici aggiornati».
Ulrich fece
per rimettersi al lavoro, ma quasi subito la sua attenzione fu attirata da un
file comparso apparentemente senza motivo nel mainframe che regolava e smistava
le trasmissioni della nave, forse di qualcuno che aveva cercato di comunicare
con l’esterno.
Era un
file video, piuttosto recente, e visto che l’istinto gli suggeriva trattarsi di
qualcosa di importante, messo da parte per un momento il lavoro lo aprì per
verificarne il contenuto.
Sul
monitor apparve un giovane uomo, lo sguardo sconvolto e i capelli spettinati,
il volto segnato di sporco e sudore; un ufficiale, a giudicare dai gradi che
svettavano dalla sua uniforme nonostante lo sporco ed il sangue.
Prima di
partire Ulrich aveva visionato i profili degli
ufficiali in servizio sul Megonia, quindi non ebbe
difficoltà a riconoscere in quell’uomo sudicio e sconvolto il Comandante in
seconda Alex Shawn; e qualunque cosa gli fosse
successa, sembrava più morto che vivo.
«Non
riesco a mettermi in contatto in alcun modo con il ponte di comando» disse
cercando di mantenere la calma. «Temo siano morti tutti.
Io sono
venuto quaggiù per tentare di riavviare i sistemi, ma il nucleo centrale è
troppo danneggiato, e anche se lo riparassi non ha abbastanza energie per
riuscire a lavorare.
Gli EDA
sono comparsi all’improvviso, e in poco tempo hanno infestato l’intera nave.
Ora però sono riuscito a chiudere le porte stagne di emergenza; questo dovrebbe
tenerli bloccati. So che in questo modo probabilmente condannerò a morte altre
persone, ma è l’unico modo per far sì che i superstiti nelle cambuse restino al
sicuro.
Abbiamo
tentato in tutti i modi di lanciare un segnale di sos,
ma la Zona Oscura blocca tutte le trasmissioni. Non so se questo messaggio
riuscirà a raggiungere qualcuno, ma abbiamo urgentemente bisogno di aiuto».
L’immagine
scomparve, ma ricomparve dopo pochi attimi, forse perché il sistema aveva
salvato tanti diversi file in un unico filmato per risparmiare spazio; ora,
però, il ViceComandante Shawn
appariva se possibile ancora più provato e sofferente di prima, per non parlare
del sangue che aveva addosso.
«Ho
provato a tornare sul ponte di comando per vedere se riuscivo a fare qualcosa
da lì, ma è stato tutto inutile. Appena sono uscito dall’ascensore, sei di quei
mostri mi hanno subito attaccato. Per fortuna ho trovato una pistola e sono
riuscito a difendermi, ma uno di quei bastardi mi ha morso, e ora sono di nuovo
bloccato qui» quindi si fermò, passandosi una mano sui capelli sudati. «Non so
più cosa fare. La nostra sola speranza è che qualcuno venga a prenderci.
Possibile
che non si siano ancora accorti che siamo spariti? Sono passati già due giorni,
dannazione!».
Ulrich chinò
il capo, sconfortato e deluso.
«Mi
dispiace, amico. Non abbiamo fatto a tempo» quindi, spento il file ormai
concluso, si rimise al lavoro.
Arrivare alle cambuse
rischiava di essere molto più difficile e pericoloso che fare ritorno alla nave
da sbarco, ma se come Georg aveva detto via radio Mayu
aveva smesso di rispondere, e vi era quindi il rischio concreto che le fosse
accaduto qualcosa, per Amanda ed Hilda la sola cosa
da fare era imbarcarsi in quella pericolosa traversata.
Attraversare
mezzo vascello con ogni singolo ponte infestato da quelle bestie, un’arma con
pochi colpi nel caricatore e una bambina appresso era fuori discussione.
D’altra parte, però, non si poteva neanche restare fermi ad aspettare aiuto,
senza contare che, in quanto Agente, Amanda aveva il dovere di portare Hilda in salvo, in qualunque modo.
Per un
po’ Amanda cercò di trovare una strada attraverso i corridoi, confidando nel
suo sesto senso e usando degli espedienti per attirare altrove l’attenzione
degli EDA che ormai avevano preso il completo controllo della nave, come globi
di luce o suoni provocati deliberatamente, ma ogni passo era un rischio, e
quegli esseri, malgrado la poca intelligenza, avevano al contrario dei sensi
molto sviluppati, in particolare l’udito.
Sfortunatamente,
tutti gli ascensori che le due incontrarono lungo la strada erano fuori
servizio, e in quella zona non c’erano rampe di scale per poter scendere.
Amanda
ben presto si sentì a corto di opzioni, ma cercava di mantenere l’autocontrollo
per non spaventare ulteriormente Hilda.
Poi,
però, le venne l’idea giusta, quando conversando con la bambina nel tentativo
di tenerla calma questa rivelò come avesse fatto a raggiungere il centro
commerciale sopravvivendo per quattro giorni.
«Ma
certo, i condotti dell’aria» disse spalancando gli occhi.
In fin
dei conti le condutture arrivavano dappertutto, ed era improbabile che qualche
EDA avesse dimostrato abbastanza ingegno da avere l’idea di entrarci a sua
volta; quindi, si trattava di una strada efficace e potenzialmente molto
sicura.
«Ulrich, puoi passarmi la mappa delle condutture dell’aria?»
chiese via radio.
«Al
volo».
La mappa
arrivò fulminea sul computer da polso della ragazza, e come previsto grazie ai
condotti era possibile raggiungere il Ponte K e le cambuse senza mai doverne
uscire.
Localizzata
la grata più vicina, in uno stanzino nei pressi della zona ristoranti, Amanda
la sollevò, infilandocisi dentro per prima per
accertare che non vi fossero pericoli.
«Tutto
tranquillo» mormorò tra sé, e sportasi aiutò anche Hilda
a salire. «Ora mi raccomando, spostati in silenzio. Qui siamo al sicuro, ma se
ci sentono potrebbero cercare di seguirci.»
«Và
bene».
Per
interminabili minuti procedettero così, strisciando nel buio; Amanda non si
fidava ad accendere la luce, nel timore che quei mostri potessero scorgerla
attraverso qualche feritoia o piastra a rete, ed accendeva il computer solo di
tanto in tanto per accertarsi di essere sulla giusta strada.
Ogni
tanto incontrarono dei salti, o delle zone in pendenza, a riprova del fatto che
stavano scendendo sempre di più verso i ponti inferiori, verso una sicurezza
che diventava sempre più vicina.
«Siamo
quasi arrivati» sussurrò finalmente Amanda dopo lungo tempo. «Ancora poche
decine di metri e arriveremo proprio sopra le cambuse.
Tutto
bene, Hilda?»
«Sto
bene.» rispose lei, apparentemente già riavutasi da quanto accadutole poco
prima.
Di tanto
in tanto, da sotto di loro, giungevano lamenti e versi inquietanti, a volte in
numero considerevole, e allora Amanda e Hilda si
fermavano in attesa che cessassero, oppure strisciavano ancor più lentamente
per fare meno rumore.
Amanda
procedeva alcuni passi avanti a Hilda, saggiando bene
ogni singola piastra sopra cui transitavano, e un paio di volte fu necessario
trovare altre strade per aggirare punti troppo scoperti o dal basamento non del
tutto solido.
Una
lastra cedette all’improvviso, proprio mentre Hilda
ci stava passando sopra, ma per chissà quale miracolo la bambina riuscì ad
aggrapparsi al bordo, strillando nello stesso tempo con tutta la sua voce.
Sotto di
lei, attratti dalle urla, comparvero come formiche su di una carcassa un nugolo
inestricabile di mani sollevate, bocche spalancate, e volti che facevano
rassomigliare quella zona di caldaie e regolatori termici la bocca
dell’inferno.
«Hilda!».
Amanda
tentò di girarsi, ma quel pertugio era cosi stretto che a malapena riusciva a
passarci, ma quando vide che Hilda era sul punto di
perdere la presa non ci pensò due volte e si girò violentemente, afferrandola
per un polso un istante prima che cadesse in quella fossa di mostri.
«Tranquilla,
ti ho preso!»
Una
tremenda fitta di dolore le arrivò dalla spalla destra, e non le fu necessario
guardarla per capire di essersela lussata, ma stringendo i denti riuscì a
tirare su la bambina, riportandola al sicuro.
«Stai
bene?»
«Credo
di sì.» rispose lei con il fiato corto per lo spavento, prima di girarsi
nuovamente e riprendere il percorso, stavolta tenendo Hilda
molto più vicina a sé.
La
grata, anche se aperta, era troppo in alto perché gli EDA potessero
raggiungerla, pur con tutta la loro agilità, ma comunque non era il caso di
indugiare lì più del necessario.
«Forza,
andiamocene» disse Amanda cercando di ignorare le fitte di dolore. «Ormai ci
siamo quasi».
E detto
questo ripresero a procedere, mentre sotto di loro quei mostri osservavano,
irritati ed incuriositi, quella fessura nel soffitto da cui il loro pranzo era
appena scappato.
Oltrepassata la zona
intrattenimento, Joe ed Helen avevano ormai raggiunto la torre di controllo in
cima alla quale si trovava il ponte, e almeno per quanto li riguardava fino a
quel momento non avevano ancora incontrato nessun EDA, ma neppure dei
superstiti da salvare.
Mancava
da percorrere solo l’ultimo corridoio, poi avrebbero trovato l’ascensore che li
avrebbe condotti direttamente alla meta.
Ma
l’imprevisto era in agguato.
«Desolato
di interrompere ancora la vostra missione, ma ho localizzato uno dei problemi
accennati poc’anzi» disse d’un tratto Ulrich. «A
quanto pare c’è un portello aperto nel condotto di manutenzione numero Cinque,
non lontano da dove vi trovate voi.
Deve
essere questo che ha fatto scattare i blocchi di sicurezza. Se non lo chiudiamo
stabilizzando di nuovo l’atmosfera sarà impossibile far ripartire i motori.»
«Che
storia è questa?» protestò Helen. «Ormai siamo praticamente al ponte.»
«Lo so,
ma siete anche quelli più vicini. Gli altri ci impiegherebbero troppo, e a
questo punto ogni secondo è prezioso.»
«Debois, occupatene tu» ordinò il Capitano. «Tu Helen
continua per il ponte.»
«Sissignore.»
«Joe,
aspetta» tentò di dire la ragazza, ma nel tempo che impiegò a pronunciare
quelle parole Joe era già dalla parte opposta del corridoio, diretto verso la
sua nuova destinazione con Ulrich ad impartirgli le
direttive per arrivarci. «Capitano, è sicuro che sia una buona idea lasciarlo
andare da solo?»
«Se si
fosse trattato di chiunque altro, ti avrei detto di no. Ma quel ragazzo prima
di essere una recluta è un ranger.
Se non
sa cavarsela lui in questa situazione, non so chi potrebbe farlo.
Prosegui
nella tua missione, Agente.»
«Agli
ordini».
Helen
riprese dunque a camminare, e fatti pochi metri la sua marcia si fermò dinnanzi
all’ennesima porta bloccata, il cui congegno di apertura però era
fortunatamente ancora funzionante.
«Sei
arrivata» le disse Ulrich. «Oltre quella porta c’è il
basamento della torre. Prendi l’ascensore dall’altra parte della sala, procedi
fino al penultimo piano e ci sei».
La
ragazza, però, esitava, fissando la porta con sguardo pensieroso. Alla fine,
quasi con esitazione, fece scivolare la mano sul meccanismo di riconoscimento,
e dal momento che Ulrich aveva già inserito le
impronte di ogni membro della squadra nell’archivio di sicurezza le porte si
aprirono davanti a lei, rivelando dietro di esse un androne all’apparenza molto
grande, ma completamente avvolto da un’oscurità che la luce del corridoio
riusciva a malapena a fendere.
Di
nuovo, Helen esitò ad entrare, crucciandosi sempre di più, mentre nel buio
figure minacciose si lasciavano sfuggire inquietanti lamenti e respiri sommessi,
come quelli di un predatore pronto a colpire.
Forse
era la paura della luce, fenomeno non nuovo che ad Helen era già capitato di
vedere, forse una via di mezzo tra l’istinto e quanto restava della loro
intelligenza, che piuttosto di scagliarsi tutti insieme sulla preda esponendosi
ad inutili rischi suggeriva loro di aspettare piuttosto che fosse lei a
venirgli incontro condannandosi da sola.
Serafica,
quasi seccata, Helen sollevò la mano sinistra, sopra la quale si materializzò
un globo di luce iridescente dalla consistenza simile a quella di una palla di
vetro, con una specie di nucleo azzurro che pulsava nel centro circondato da
pulviscolo rosso.
«Andate
all’inferno» disse lasciandola cadere.
La sfera
rotolò lentamente verso l’interno, illuminando una selva di piedi ed un
pavimento chiazzato di sangue, fermandosi dopo aver fatto qualche metro; passò
un secondo, e una vera esplosione di luce inondò l’intera stanza con la potenza
e i violenti bagliori di una tempesta di fulmini, disperdendo inoltre nell’aria
una pioggia di pulviscolo che al contatto con qualunque cosa, materiale ed
immateriale, bruciava come il fuoco.
Gli EDA,
più di una decina, ringhiarono furiosamente, accecati dalla luce e bruciati da
quella dannata polvere, e quando alcuni di loro riuscirono faticosamente a
riaprire gli occhi Helen era già in mezzo a loro, la pistola in una mano e
l’altra avvolta da una nube color cremisi. I primi due furono abbattuti prima
ancora di potersene rendere conto, mentre gli altri si scagliarono all’assalto
attaccando da tutte le direzioni, ma Helen prima staccò di netto la testa al
più vicino assestandogli un pugno con la mano libera quindi, agile come una
libellula, si librò nell’aria sfuggendo all’accerchiamento.
Mentre
era ancora in aria sparò alcuni colpi, uccidendone altri tre con tiri alla
testa di una precisione quasi chirurgica, quindi tornata coi piedi per terra
usò la propria agilità per scivolare nuovamente in mezzo agli EDA ancora
confusi, sgambettandone uno con una scivolata sul pavimento liscio e spezzando
il collo ad un altro subito dopo essersi rialzata con un colpo di tallone
dritto alla base del collo.
Helen
danzava come una ballerina, maneggiando le armi e la magia senza mai far venire
meno una certa quale eleganza; non un movimento fuori posto, non un affondo che
non fosse perfetto: per questo la chiamavano Sleeping Beauty.
Alla
fine ne rimase solo uno, l’unico superstite, che dopo aver tentato di assalire
la ragazza alle spalle prima ricevette un pugno che gli trapassò il torace da parte
a parte, quindi subito dopo, mentre nonostante la ferita tentava furiosamente
di assalire la sua preda, si ritrovò la canna della pistola infilata nella
bocca aperta, prendendosi l’ultimo proiettile nel caricatore che gli fece
scoppiare la nuca come un’anguria.
Quell’ultimo
assalitore finì incenerito prima ancora che Helen avesse modo di ritirare il
braccio, e a quel punto nella stanza tornò a regnare la calma.
«Devo
ricordarmi di non contraddirla mai, signora» scherzò Ulrich
dopo aver assistito all’intero scontro grazie al sistema di videosorveglianza
che era riuscito finalmente a ripristinare all’ennesimo tentativo. «Quando sarà
tutto finito, spero vorrà insegnarmi qualcosa.»
«Forse»
rispose lei sorniona salendo sull’ascensore.
In quanto Agente operativo,
Georg era stato addestrato, e aveva a sua volta addestrato, anche alla custodia
dei civili eventualmente coinvolti in operazioni speciali, ma quella era una
situazione talmente al limite che era davvero difficile riuscire a mantenere la
calma.
Gli animi
erano tesi, si vedeva ad occhio nudo, con lo stato di semi-prigionia che
accresceva il senso di impotenza, e forse solo la presenza della figura
carismatica della MAB, che il Capitano ben incarnava, costituiva la sicura
posta su di una valvola che altrimenti rischiava di saltare.
In
compenso, per tanta gente terrorizzata, vi era anche chi malgrado tutto cercava
di mantenere l’autocontrollo e di aiutare gli altri.
Ashley Thunderscott, prima che una presentatrice televisiva e una
cantante di fama mondiale, era stata una studentessa di medicina, e aveva speso
gli ultimi giorni ad assistere ininterrottamente chiunque ne avesse avuto
bisogno arrangiandosi con quel poco che era riuscita a trovare.
L’anziano
signor Gullit, ad esempio, si era procurato una brutta distorsione alla
caviglia, tanto da non potersi neppure reggere in piedi, e di quando in quando
la ragazza andava a cambiargli la fasciatura usando ora un pezzo della stoffa
che copriva qualche cassa ora un brandello del proprio costosissimo vestito.
Tra i
due si era instaurato un bel rapporto, e anche quando Ashley non era impegnata
a curare il suo attempato compagno di sventura capitava spesso che parlassero
insieme, così, per far passare le ore nella speranza che quell’incubo surreale
finisse presto.
«Lei mi
sembra un po’ troppo anziano per fare il cameriere su una nave da crociera.»
«E lei
troppo giovane per fare la cantante in giro per il mondo».
L’interessata
rise divertita.
«Ho
lasciato casa quando avevo diciassette anni. I miei genitori non volevano che
diventassi una cantante, ma d’altra parte era sempre stato il mio sogno.
Così mi
sono trasferita a Kyrador, mi sono rimboccata le
maniche lavorando dalla mattina ed esibendomi in locali di quinta categoria
fino a notte fonda, e finalmente un giorno un produttore ha voluto darmi
un’occasione.
Da
allora, è stato tutto più facile.»
«E non
le manca la sua famiglia?»
«Qualche
volta. Ogni tanto mi rifaccio viva, ma mio padre ormai non vuol più saperne
nulla di me. Pensi, non è venuto neppure al concerto speciale che ho tenuto al
mio paese, e mi hanno detto che non guarda nessuno dei programmi che presento o
in cui sono ospite.
E lei
invece? Con il lavoro che fa, immagino la vedrà poco la sua famiglia».
Anche
l’anziano sorrise, ma il suo era un sorriso di rammarico.
«Io non
ce l’ho più una famiglia».
Ashley
lo guardò atterrita, mordendosi nel contempo la lingua.
«Mio
figlio è morto quando aveva undici anni. Cancro al cervello. Allora non c’erano
tutte le tecnologie magico-scientifiche che ci sono
oggi. Mia moglie non si è più ripresa. Quanto a me, ho chiuso la mia enoteca e
ho iniziato a viaggiare. Mi teneva occupato, e mi aiutava a non pensare.
Un
giorno, ho scoperto che mia moglie si era trovata un altro. Ci siamo lasciati,
e lei è tornata a Dunglefort. Lei si è risposata, e
io ho ripreso a viaggiare. Prima una nave, poi un’altra, poi un’altra ancora.
E alla
fine, sono arrivato qui.
Al Megonia.»
«Mi dispiace… io non volevo, davvero…»
«Non si
preoccupi. Gli sbagli che ho fatto sono stati solo miei. Quando tutto questo
sarà finito, le suggerirei di provare a ricucire il rapporto con suo padre. I
legami famigliari, dopotutto, sono come il vino; se gli lasci il tempo di
maturare, possono diventare sopraffini.
D’altronde,
la vita scorre troppo rapidamente per perdersi in inutili attriti, perché poi
quando si è vecchi si ha un sacco di tempo per rimpiangere ciò che si sarebbe
potuto fare, e non si è fatto».
La
ragazza tergiversò, fissando il pavimento su cui erano seduti, poi nei suoi
occhi parve accendersi un filo di luce.
Stava
quasi per ringraziare quel gentile signore che con delle semplici parole era
stato in grado di farla sentire un po’ meglio, quando un rumore strano e
metallico, che sembrava provenire direttamente da dentro la parete alle sue
spalle, le fece rizzare i capelli per la paura.
«Aiuto!».
Come una
mandria di pecore spaventate dalla vista dai lupi tutti fecero il vuoto attorno
a quel punto, e solo la presenza autoritaria del Capitano riuscì a mantenere la
calma.
«Non vi
agitate!» ordinò Georg, quindi sia lui che Klaus raggiunsero di corsa la grata
di metallo contro la quale Ashley si era inconsapevolmente seduta, da cui
seguitavano a giungere quei rumori misteriosi.
«Non
sparate, siamo amici!» si udì poi provenire dal buio del condotto.
I due
agenti sgranarono gli occhi, fissandosi allibiti.
«Amanda!?»
disse Klaus.
Qualche
attimo dopo, il volto amichevole di Amanda faceva capolino dal buco.
«Chiedo
scusa per l’attesa, Capitano. Ho preferito prendere una strada alternativa.»
«Pienamente
scusata, Agente Gerth.» sorrise il Capitano.
Subito
dopo di lei, dal condotto uscì anche la piccola Hilda,
e come la vide Johanna le corse incontro
abbracciandola più forte che poteva.
«Hilda! Grazie a Dio sei salva!».
La
bambina però non ricambiò in alcun modo la stretta, seguitando a rimanere
immobile, senza espressione, come una bambola.
«Il papà
non c’è più.» furono le sue uniche parole.
Atterrita,
la donna guardò Amanda, che abbassò lo sguardo facendo un cenno con il capo.
«Mi
spiace. Non ho potuto fare niente».
Ma il
dolore di Johanna, pur incommensurabile, era in parte
mitigato dal sollievo per aver ritrovato quella figliastra con cui, fino a
quattro giorni prima, non aveva mai fatto altro che litigare, ma che ora invece
stringeva come fosse stato il suo più grande tesoro.
«Vieni,
tesoro. Hai fame? Vediamo cosa c’è da mangiare».
Johanna portò
Hilda in un altro punto della stanza, ma la bambina
nonostante tutte le attenzioni e l’affetto ricevuto continuò a mantenere un
atteggiamento scostante, lo stesso che aveva caratterizzato da sempre il suo
rapporto con la matrigna.
Nel
mentre Amanda, seduta in terra con l’espressione sofferente, faceva rapporto al
Capitano, mentre Klaus le rimetteva a posto la spalla provocandole ulteriore
dolore.
«Qual è
la situazione nel resto della nave?» chiese Georg
«Ci sono
EDA dappertutto. Soprattutto nei ponti superiori.»
«Superstiti?»
«Nessuno
a parte Hilda. E neanche dei corpi. Ma ogni volta che
qualcuno di loro muore, si incenerisce nel giro di pochi secondi. Forse succede
la stessa cosa anche alle loro vittime, per questo non abbiamo trovato corpi».
Poco
dopo Hilda si avvicinò nuovamente a loro.
«Mi
dispiace. È stata colpa mia».
Amanda
le sorrise gentilmente.
«Tranquilla,
non è successo niente.»
«Ti fa
molto male?» chiese preoccupata.
«Un
pochino, ma ho applicato un incantesimo lenitivo. Presto non sentirò più
nulla».
Hilda posò
quindi la sua attenzione sull’omone nero che aveva accanto, tanto alto da
sembrare un gigante.
«Hilda, lui è il mio superiore. Il Capitano Klopfer.»
«Piacere,
signorina».
Vedere
un sorriso su di un volto simile era la cosa più buffa che Hilda
potesse immaginarsi, tanto che non riuscì a non farsi scappare una risatina.
Persino da inginocchiato riusciva ad essere più alto di lei.
«Mi
dispiace per il tuo papà. Ma ti prometto che ti porteremo al sicuro, qualunque
cosa accada.
Vero, Agente
Gerth?»
«Sicuramente.»
«Lo
farete davvero?»
«Parola
di soldato.» sorrise ancora lui.
Di
fronte ad un così impacciato ma rassicurante tentativo di apparire bonario e
affettuoso Hilda sentì rinascere la speranza, proprio
come era accaduto quando aveva toccato la mano di Amanda, tanto che, nonostante
tutto, la piccola riuscì a ritrovare dopo molto tempo la forza di sorridere.
All’improvviso,
un rumore metallico attraversò tutta la nave, ed un violento rollio minacciò di
mandare tutti gambe all’aria. Il tutto, per fortuna, durò solo pochi istante,
almeno nella sua fase più violenta, ma era come se una mano ciclopica si stesse
divertendo a sballottare la nave da una parta all’altra come un giocattolo,
fomentando ulteriormente il panico.
«E
adesso che altro c’è?» esclamò Georg.