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Autore: Carlos Olivera    10/06/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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8

 

 

«Rimettere in moto la nave!?» ripeté Georg sentendo le disposizioni ricevute da terra

«È l’unico modo per avere aiuti in tempi rapidi, signore» rispose Ulrich. «Il tempo purtroppo non è dalla nostra parte. È solo una questione di tempo prima che Neos ci attragga a sé, e in queste condizioni il Megonia non può sostenere un atterraggio di emergenza.»

«E come diavolo facciamo a rimetterla in moto?» chiese Klaus spazientito. «Giriamo la chiave o la prendiamo a calci?»

«Teoricamente, sarebbe possibile rimettere in funzione la nave semplicemente riavviando i sistemi dal ponte di comando, ma al momento ci sono diverse anomalie ad alcuni sistemi vitali che renderebbero inutile il riavvio.

È necessario correggere tutte queste anomalie se vogliamo far ripartire il Megonia

«Specifica anomalie.» disse Georg

«Una su tutte, la sala macchine. I motori sono andati in arresto d’emergenza a causa degli urti subiti dallo scafo. Sto provando a riavviarli da qui.»

«D’accordo, tienici aggiornati».

Ulrich fece per rimettersi al lavoro, ma quasi subito la sua attenzione fu attirata da un file comparso apparentemente senza motivo nel mainframe che regolava e smistava le trasmissioni della nave, forse di qualcuno che aveva cercato di comunicare con l’esterno.

Era un file video, piuttosto recente, e visto che l’istinto gli suggeriva trattarsi di qualcosa di importante, messo da parte per un momento il lavoro lo aprì per verificarne il contenuto.

Sul monitor apparve un giovane uomo, lo sguardo sconvolto e i capelli spettinati, il volto segnato di sporco e sudore; un ufficiale, a giudicare dai gradi che svettavano dalla sua uniforme nonostante lo sporco ed il sangue.

Prima di partire Ulrich aveva visionato i profili degli ufficiali in servizio sul Megonia, quindi non ebbe difficoltà a riconoscere in quell’uomo sudicio e sconvolto il Comandante in seconda Alex Shawn; e qualunque cosa gli fosse successa, sembrava più morto che vivo.

«Non riesco a mettermi in contatto in alcun modo con il ponte di comando» disse cercando di mantenere la calma. «Temo siano morti tutti.

Io sono venuto quaggiù per tentare di riavviare i sistemi, ma il nucleo centrale è troppo danneggiato, e anche se lo riparassi non ha abbastanza energie per riuscire a lavorare.

Gli EDA sono comparsi all’improvviso, e in poco tempo hanno infestato l’intera nave. Ora però sono riuscito a chiudere le porte stagne di emergenza; questo dovrebbe tenerli bloccati. So che in questo modo probabilmente condannerò a morte altre persone, ma è l’unico modo per far sì che i superstiti nelle cambuse restino al sicuro.

Abbiamo tentato in tutti i modi di lanciare un segnale di sos, ma la Zona Oscura blocca tutte le trasmissioni. Non so se questo messaggio riuscirà a raggiungere qualcuno, ma abbiamo urgentemente bisogno di aiuto».

L’immagine scomparve, ma ricomparve dopo pochi attimi, forse perché il sistema aveva salvato tanti diversi file in un unico filmato per risparmiare spazio; ora, però, il ViceComandante Shawn appariva se possibile ancora più provato e sofferente di prima, per non parlare del sangue che aveva addosso.

«Ho provato a tornare sul ponte di comando per vedere se riuscivo a fare qualcosa da lì, ma è stato tutto inutile. Appena sono uscito dall’ascensore, sei di quei mostri mi hanno subito attaccato. Per fortuna ho trovato una pistola e sono riuscito a difendermi, ma uno di quei bastardi mi ha morso, e ora sono di nuovo bloccato qui» quindi si fermò, passandosi una mano sui capelli sudati. «Non so più cosa fare. La nostra sola speranza è che qualcuno venga a prenderci.

Possibile che non si siano ancora accorti che siamo spariti? Sono passati già due giorni, dannazione!».

Ulrich chinò il capo, sconfortato e deluso.

«Mi dispiace, amico. Non abbiamo fatto a tempo» quindi, spento il file ormai concluso, si rimise al lavoro.

 

Arrivare alle cambuse rischiava di essere molto più difficile e pericoloso che fare ritorno alla nave da sbarco, ma se come Georg aveva detto via radio Mayu aveva smesso di rispondere, e vi era quindi il rischio concreto che le fosse accaduto qualcosa, per Amanda ed Hilda la sola cosa da fare era imbarcarsi in quella pericolosa traversata.

Attraversare mezzo vascello con ogni singolo ponte infestato da quelle bestie, un’arma con pochi colpi nel caricatore e una bambina appresso era fuori discussione. D’altra parte, però, non si poteva neanche restare fermi ad aspettare aiuto, senza contare che, in quanto Agente, Amanda aveva il dovere di portare Hilda in salvo, in qualunque modo.

Per un po’ Amanda cercò di trovare una strada attraverso i corridoi, confidando nel suo sesto senso e usando degli espedienti per attirare altrove l’attenzione degli EDA che ormai avevano preso il completo controllo della nave, come globi di luce o suoni provocati deliberatamente, ma ogni passo era un rischio, e quegli esseri, malgrado la poca intelligenza, avevano al contrario dei sensi molto sviluppati, in particolare l’udito.

Sfortunatamente, tutti gli ascensori che le due incontrarono lungo la strada erano fuori servizio, e in quella zona non c’erano rampe di scale per poter scendere.

Amanda ben presto si sentì a corto di opzioni, ma cercava di mantenere l’autocontrollo per non spaventare ulteriormente Hilda.

Poi, però, le venne l’idea giusta, quando conversando con la bambina nel tentativo di tenerla calma questa rivelò come avesse fatto a raggiungere il centro commerciale sopravvivendo per quattro giorni.

«Ma certo, i condotti dell’aria» disse spalancando gli occhi.

In fin dei conti le condutture arrivavano dappertutto, ed era improbabile che qualche EDA avesse dimostrato abbastanza ingegno da avere l’idea di entrarci a sua volta; quindi, si trattava di una strada efficace e potenzialmente molto sicura.

«Ulrich, puoi passarmi la mappa delle condutture dell’aria?» chiese via radio.

«Al volo».

La mappa arrivò fulminea sul computer da polso della ragazza, e come previsto grazie ai condotti era possibile raggiungere il Ponte K e le cambuse senza mai doverne uscire.

Localizzata la grata più vicina, in uno stanzino nei pressi della zona ristoranti, Amanda la sollevò, infilandocisi dentro per prima per accertare che non vi fossero pericoli.

«Tutto tranquillo» mormorò tra sé, e sportasi aiutò anche Hilda a salire. «Ora mi raccomando, spostati in silenzio. Qui siamo al sicuro, ma se ci sentono potrebbero cercare di seguirci.»

«Và bene».

Per interminabili minuti procedettero così, strisciando nel buio; Amanda non si fidava ad accendere la luce, nel timore che quei mostri potessero scorgerla attraverso qualche feritoia o piastra a rete, ed accendeva il computer solo di tanto in tanto per accertarsi di essere sulla giusta strada.

Ogni tanto incontrarono dei salti, o delle zone in pendenza, a riprova del fatto che stavano scendendo sempre di più verso i ponti inferiori, verso una sicurezza che diventava sempre più vicina.

«Siamo quasi arrivati» sussurrò finalmente Amanda dopo lungo tempo. «Ancora poche decine di metri e arriveremo proprio sopra le cambuse.

Tutto bene, Hilda

«Sto bene.» rispose lei, apparentemente già riavutasi da quanto accadutole poco prima.

Di tanto in tanto, da sotto di loro, giungevano lamenti e versi inquietanti, a volte in numero considerevole, e allora Amanda e Hilda si fermavano in attesa che cessassero, oppure strisciavano ancor più lentamente per fare meno rumore.

Amanda procedeva alcuni passi avanti a Hilda, saggiando bene ogni singola piastra sopra cui transitavano, e un paio di volte fu necessario trovare altre strade per aggirare punti troppo scoperti o dal basamento non del tutto solido.

Una lastra cedette all’improvviso, proprio mentre Hilda ci stava passando sopra, ma per chissà quale miracolo la bambina riuscì ad aggrapparsi al bordo, strillando nello stesso tempo con tutta la sua voce.

Sotto di lei, attratti dalle urla, comparvero come formiche su di una carcassa un nugolo inestricabile di mani sollevate, bocche spalancate, e volti che facevano rassomigliare quella zona di caldaie e regolatori termici la bocca dell’inferno.

«Hilda!».

Amanda tentò di girarsi, ma quel pertugio era cosi stretto che a malapena riusciva a passarci, ma quando vide che Hilda era sul punto di perdere la presa non ci pensò due volte e si girò violentemente, afferrandola per un polso un istante prima che cadesse in quella fossa di mostri.

«Tranquilla, ti ho preso!»

Una tremenda fitta di dolore le arrivò dalla spalla destra, e non le fu necessario guardarla per capire di essersela lussata, ma stringendo i denti riuscì a tirare su la bambina, riportandola al sicuro.

«Stai bene?»

«Credo di sì.» rispose lei con il fiato corto per lo spavento, prima di girarsi nuovamente e riprendere il percorso, stavolta tenendo Hilda molto più vicina a sé.

La grata, anche se aperta, era troppo in alto perché gli EDA potessero raggiungerla, pur con tutta la loro agilità, ma comunque non era il caso di indugiare lì più del necessario.

«Forza, andiamocene» disse Amanda cercando di ignorare le fitte di dolore. «Ormai ci siamo quasi».

E detto questo ripresero a procedere, mentre sotto di loro quei mostri osservavano, irritati ed incuriositi, quella fessura nel soffitto da cui il loro pranzo era appena scappato.

 

Oltrepassata la zona intrattenimento, Joe ed Helen avevano ormai raggiunto la torre di controllo in cima alla quale si trovava il ponte, e almeno per quanto li riguardava fino a quel momento non avevano ancora incontrato nessun EDA, ma neppure dei superstiti da salvare.

Mancava da percorrere solo l’ultimo corridoio, poi avrebbero trovato l’ascensore che li avrebbe condotti direttamente alla meta.

Ma l’imprevisto era in agguato.

«Desolato di interrompere ancora la vostra missione, ma ho localizzato uno dei problemi accennati poc’anzi» disse d’un tratto Ulrich. «A quanto pare c’è un portello aperto nel condotto di manutenzione numero Cinque, non lontano da dove vi trovate voi.

Deve essere questo che ha fatto scattare i blocchi di sicurezza. Se non lo chiudiamo stabilizzando di nuovo l’atmosfera sarà impossibile far ripartire i motori.»

«Che storia è questa?» protestò Helen. «Ormai siamo praticamente al ponte.»

«Lo so, ma siete anche quelli più vicini. Gli altri ci impiegherebbero troppo, e a questo punto ogni secondo è prezioso.»

«Debois, occupatene tu» ordinò il Capitano. «Tu Helen continua per il ponte.»

«Sissignore.»

«Joe, aspetta» tentò di dire la ragazza, ma nel tempo che impiegò a pronunciare quelle parole Joe era già dalla parte opposta del corridoio, diretto verso la sua nuova destinazione con Ulrich ad impartirgli le direttive per arrivarci. «Capitano, è sicuro che sia una buona idea lasciarlo andare da solo?»

«Se si fosse trattato di chiunque altro, ti avrei detto di no. Ma quel ragazzo prima di essere una recluta è un ranger.

Se non sa cavarsela lui in questa situazione, non so chi potrebbe farlo.

Prosegui nella tua missione, Agente.»

«Agli ordini».

Helen riprese dunque a camminare, e fatti pochi metri la sua marcia si fermò dinnanzi all’ennesima porta bloccata, il cui congegno di apertura però era fortunatamente ancora funzionante.

«Sei arrivata» le disse Ulrich. «Oltre quella porta c’è il basamento della torre. Prendi l’ascensore dall’altra parte della sala, procedi fino al penultimo piano e ci sei».

La ragazza, però, esitava, fissando la porta con sguardo pensieroso. Alla fine, quasi con esitazione, fece scivolare la mano sul meccanismo di riconoscimento, e dal momento che Ulrich aveva già inserito le impronte di ogni membro della squadra nell’archivio di sicurezza le porte si aprirono davanti a lei, rivelando dietro di esse un androne all’apparenza molto grande, ma completamente avvolto da un’oscurità che la luce del corridoio riusciva a malapena a fendere.

Di nuovo, Helen esitò ad entrare, crucciandosi sempre di più, mentre nel buio figure minacciose si lasciavano sfuggire inquietanti lamenti e respiri sommessi, come quelli di un predatore pronto a colpire.

Forse era la paura della luce, fenomeno non nuovo che ad Helen era già capitato di vedere, forse una via di mezzo tra l’istinto e quanto restava della loro intelligenza, che piuttosto di scagliarsi tutti insieme sulla preda esponendosi ad inutili rischi suggeriva loro di aspettare piuttosto che fosse lei a venirgli incontro condannandosi da sola.

Serafica, quasi seccata, Helen sollevò la mano sinistra, sopra la quale si materializzò un globo di luce iridescente dalla consistenza simile a quella di una palla di vetro, con una specie di nucleo azzurro che pulsava nel centro circondato da pulviscolo rosso.

«Andate all’inferno» disse lasciandola cadere.

La sfera rotolò lentamente verso l’interno, illuminando una selva di piedi ed un pavimento chiazzato di sangue, fermandosi dopo aver fatto qualche metro; passò un secondo, e una vera esplosione di luce inondò l’intera stanza con la potenza e i violenti bagliori di una tempesta di fulmini, disperdendo inoltre nell’aria una pioggia di pulviscolo che al contatto con qualunque cosa, materiale ed immateriale, bruciava come il fuoco.

Gli EDA, più di una decina, ringhiarono furiosamente, accecati dalla luce e bruciati da quella dannata polvere, e quando alcuni di loro riuscirono faticosamente a riaprire gli occhi Helen era già in mezzo a loro, la pistola in una mano e l’altra avvolta da una nube color cremisi. I primi due furono abbattuti prima ancora di potersene rendere conto, mentre gli altri si scagliarono all’assalto attaccando da tutte le direzioni, ma Helen prima staccò di netto la testa al più vicino assestandogli un pugno con la mano libera quindi, agile come una libellula, si librò nell’aria sfuggendo all’accerchiamento.

Mentre era ancora in aria sparò alcuni colpi, uccidendone altri tre con tiri alla testa di una precisione quasi chirurgica, quindi tornata coi piedi per terra usò la propria agilità per scivolare nuovamente in mezzo agli EDA ancora confusi, sgambettandone uno con una scivolata sul pavimento liscio e spezzando il collo ad un altro subito dopo essersi rialzata con un colpo di tallone dritto alla base del collo.

Helen danzava come una ballerina, maneggiando le armi e la magia senza mai far venire meno una certa quale eleganza; non un movimento fuori posto, non un affondo che non fosse perfetto: per questo la chiamavano Sleeping Beauty.

Alla fine ne rimase solo uno, l’unico superstite, che dopo aver tentato di assalire la ragazza alle spalle prima ricevette un pugno che gli trapassò il torace da parte a parte, quindi subito dopo, mentre nonostante la ferita tentava furiosamente di assalire la sua preda, si ritrovò la canna della pistola infilata nella bocca aperta, prendendosi l’ultimo proiettile nel caricatore che gli fece scoppiare la nuca come un’anguria.

Quell’ultimo assalitore finì incenerito prima ancora che Helen avesse modo di ritirare il braccio, e a quel punto nella stanza tornò a regnare la calma.

«Devo ricordarmi di non contraddirla mai, signora» scherzò Ulrich dopo aver assistito all’intero scontro grazie al sistema di videosorveglianza che era riuscito finalmente a ripristinare all’ennesimo tentativo. «Quando sarà tutto finito, spero vorrà insegnarmi qualcosa.»

«Forse» rispose lei sorniona salendo sull’ascensore.

 

In quanto Agente operativo, Georg era stato addestrato, e aveva a sua volta addestrato, anche alla custodia dei civili eventualmente coinvolti in operazioni speciali, ma quella era una situazione talmente al limite che era davvero difficile riuscire a mantenere la calma.

Gli animi erano tesi, si vedeva ad occhio nudo, con lo stato di semi-prigionia che accresceva il senso di impotenza, e forse solo la presenza della figura carismatica della MAB, che il Capitano ben incarnava, costituiva la sicura posta su di una valvola che altrimenti rischiava di saltare.

In compenso, per tanta gente terrorizzata, vi era anche chi malgrado tutto cercava di mantenere l’autocontrollo e di aiutare gli altri.

Ashley Thunderscott, prima che una presentatrice televisiva e una cantante di fama mondiale, era stata una studentessa di medicina, e aveva speso gli ultimi giorni ad assistere ininterrottamente chiunque ne avesse avuto bisogno arrangiandosi con quel poco che era riuscita a trovare.

L’anziano signor Gullit, ad esempio, si era procurato una brutta distorsione alla caviglia, tanto da non potersi neppure reggere in piedi, e di quando in quando la ragazza andava a cambiargli la fasciatura usando ora un pezzo della stoffa che copriva qualche cassa ora un brandello del proprio costosissimo vestito.

Tra i due si era instaurato un bel rapporto, e anche quando Ashley non era impegnata a curare il suo attempato compagno di sventura capitava spesso che parlassero insieme, così, per far passare le ore nella speranza che quell’incubo surreale finisse presto.

«Lei mi sembra un po’ troppo anziano per fare il cameriere su una nave da crociera.»

«E lei troppo giovane per fare la cantante in giro per il mondo».

L’interessata rise divertita.

«Ho lasciato casa quando avevo diciassette anni. I miei genitori non volevano che diventassi una cantante, ma d’altra parte era sempre stato il mio sogno.

Così mi sono trasferita a Kyrador, mi sono rimboccata le maniche lavorando dalla mattina ed esibendomi in locali di quinta categoria fino a notte fonda, e finalmente un giorno un produttore ha voluto darmi un’occasione.

Da allora, è stato tutto più facile.»

«E non le manca la sua famiglia?»

«Qualche volta. Ogni tanto mi rifaccio viva, ma mio padre ormai non vuol più saperne nulla di me. Pensi, non è venuto neppure al concerto speciale che ho tenuto al mio paese, e mi hanno detto che non guarda nessuno dei programmi che presento o in cui sono ospite.

E lei invece? Con il lavoro che fa, immagino la vedrà poco la sua famiglia».

Anche l’anziano sorrise, ma il suo era un sorriso di rammarico.

«Io non ce l’ho più una famiglia».

Ashley lo guardò atterrita, mordendosi nel contempo la lingua.

«Mio figlio è morto quando aveva undici anni. Cancro al cervello. Allora non c’erano tutte le tecnologie magico-scientifiche che ci sono oggi. Mia moglie non si è più ripresa. Quanto a me, ho chiuso la mia enoteca e ho iniziato a viaggiare. Mi teneva occupato, e mi aiutava a non pensare.

Un giorno, ho scoperto che mia moglie si era trovata un altro. Ci siamo lasciati, e lei è tornata a Dunglefort. Lei si è risposata, e io ho ripreso a viaggiare. Prima una nave, poi un’altra, poi un’altra ancora.

E alla fine, sono arrivato qui.

Al Megonia

«Mi dispiace… io non volevo, davvero…»

«Non si preoccupi. Gli sbagli che ho fatto sono stati solo miei. Quando tutto questo sarà finito, le suggerirei di provare a ricucire il rapporto con suo padre. I legami famigliari, dopotutto, sono come il vino; se gli lasci il tempo di maturare, possono diventare sopraffini.

D’altronde, la vita scorre troppo rapidamente per perdersi in inutili attriti, perché poi quando si è vecchi si ha un sacco di tempo per rimpiangere ciò che si sarebbe potuto fare, e non si è fatto».

La ragazza tergiversò, fissando il pavimento su cui erano seduti, poi nei suoi occhi parve accendersi un filo di luce.

Stava quasi per ringraziare quel gentile signore che con delle semplici parole era stato in grado di farla sentire un po’ meglio, quando un rumore strano e metallico, che sembrava provenire direttamente da dentro la parete alle sue spalle, le fece rizzare i capelli per la paura.

«Aiuto!».

Come una mandria di pecore spaventate dalla vista dai lupi tutti fecero il vuoto attorno a quel punto, e solo la presenza autoritaria del Capitano riuscì a mantenere la calma.

«Non vi agitate!» ordinò Georg, quindi sia lui che Klaus raggiunsero di corsa la grata di metallo contro la quale Ashley si era inconsapevolmente seduta, da cui seguitavano a giungere quei rumori misteriosi.

«Non sparate, siamo amici!» si udì poi provenire dal buio del condotto.

I due agenti sgranarono gli occhi, fissandosi allibiti.

«Amanda!?» disse Klaus.

Qualche attimo dopo, il volto amichevole di Amanda faceva capolino dal buco.

«Chiedo scusa per l’attesa, Capitano. Ho preferito prendere una strada alternativa.»

«Pienamente scusata, Agente Gerth.» sorrise il Capitano.

Subito dopo di lei, dal condotto uscì anche la piccola Hilda, e come la vide Johanna le corse incontro abbracciandola più forte che poteva.

«Hilda! Grazie a Dio sei salva!».

La bambina però non ricambiò in alcun modo la stretta, seguitando a rimanere immobile, senza espressione, come una bambola.

«Il papà non c’è più.» furono le sue uniche parole.

Atterrita, la donna guardò Amanda, che abbassò lo sguardo facendo un cenno con il capo.

«Mi spiace. Non ho potuto fare niente».

Ma il dolore di Johanna, pur incommensurabile, era in parte mitigato dal sollievo per aver ritrovato quella figliastra con cui, fino a quattro giorni prima, non aveva mai fatto altro che litigare, ma che ora invece stringeva come fosse stato il suo più grande tesoro.

«Vieni, tesoro. Hai fame? Vediamo cosa c’è da mangiare».

Johanna portò Hilda in un altro punto della stanza, ma la bambina nonostante tutte le attenzioni e l’affetto ricevuto continuò a mantenere un atteggiamento scostante, lo stesso che aveva caratterizzato da sempre il suo rapporto con la matrigna.

Nel mentre Amanda, seduta in terra con l’espressione sofferente, faceva rapporto al Capitano, mentre Klaus le rimetteva a posto la spalla provocandole ulteriore dolore.

«Qual è la situazione nel resto della nave?» chiese Georg

«Ci sono EDA dappertutto. Soprattutto nei ponti superiori.»

«Superstiti?»

«Nessuno a parte Hilda. E neanche dei corpi. Ma ogni volta che qualcuno di loro muore, si incenerisce nel giro di pochi secondi. Forse succede la stessa cosa anche alle loro vittime, per questo non abbiamo trovato corpi».

Poco dopo Hilda si avvicinò nuovamente a loro.

«Mi dispiace. È stata colpa mia».

Amanda le sorrise gentilmente.

«Tranquilla, non è successo niente.»

«Ti fa molto male?» chiese preoccupata.

«Un pochino, ma ho applicato un incantesimo lenitivo. Presto non sentirò più nulla».

Hilda posò quindi la sua attenzione sull’omone nero che aveva accanto, tanto alto da sembrare un gigante.

«Hilda, lui è il mio superiore. Il Capitano Klopfer

«Piacere, signorina».

Vedere un sorriso su di un volto simile era la cosa più buffa che Hilda potesse immaginarsi, tanto che non riuscì a non farsi scappare una risatina. Persino da inginocchiato riusciva ad essere più alto di lei.

«Mi dispiace per il tuo papà. Ma ti prometto che ti porteremo al sicuro, qualunque cosa accada.

Vero, Agente Gerth

«Sicuramente.»

«Lo farete davvero?»

«Parola di soldato.» sorrise ancora lui.

Di fronte ad un così impacciato ma rassicurante tentativo di apparire bonario e affettuoso Hilda sentì rinascere la speranza, proprio come era accaduto quando aveva toccato la mano di Amanda, tanto che, nonostante tutto, la piccola riuscì a ritrovare dopo molto tempo la forza di sorridere.

All’improvviso, un rumore metallico attraversò tutta la nave, ed un violento rollio minacciò di mandare tutti gambe all’aria. Il tutto, per fortuna, durò solo pochi istante, almeno nella sua fase più violenta, ma era come se una mano ciclopica si stesse divertendo a sballottare la nave da una parta all’altra come un giocattolo, fomentando ulteriormente il panico.

«E adesso che altro c’è?» esclamò Georg.

 

  
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