Anime & Manga > Inazuma Eleven
Segui la storia  |       
Autore: hirondelle_    11/06/2014    2 recensioni
[Sostituzione de "Il Re dei Ladri"] [linguaggio volgare] [tematiche carine e coccolose (?)]
Ember cercò con lo sguardo tra i letti e si fermò appena trovò Silver. Chino su un corpo, come sempre ad accarezzargli i capelli castani. – Ti reggi ancora in piedi, Sakuma?
Silver si voltò di scatto, scrutandolo con astio. Da quella volta che l’aveva scoperto nel secondo reparto ed era stato rimproverato, sembrava volerlo sfidare. Non si sarebbe allontanato dal malato –il ragazzo steso da giorni in perenne sofferenza, il ragazzo che non parlava, il ragazzo di cui era innamorato, Genda si chiamava, prima ancora di Belva, Genda dell’oltreoceano – per niente al mondo. Davvero.
- Te l’ho detto mille volte che sei da primo reparto.
- Te l’ho detto mille volte di non impicciarti.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Paranormal'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
NOTE DI INIZIO CAPITOLO
Queste note sono messe all’inizio per scusarmi per l’increscioso ritardo, e per fare un piccolo appunto sull’ultima parte della fic.
È infatti una parte estremamente delicata. Io stessa mi sono dovuta fermare più volte da quanto la immaginavo con chiarezza. Credo sia abbastanza forte per la sensibilità di alcune persone, e quindi vorrei solo scusarmi nel caso non possa piacere.
… Beh, c’è anche da dire che io in genere non sono brava con le parti toccanti e può anche darsi che non faccia il minimo effetto. Però era solo un piccolo avvertimento—
Mi scuso ancora per il ritardo durato praticamente otto mesi, ma la scuola ha occupato gran parte del mio tempo e soprattutto l’ispirazione tardava ad arrivare. Oggi stesso ho scritto ben due pagine e mezzo e di questo vado fierissima, quindi spero che il mio lavoro non sia vano c:
Il titolo è cambiato per ragioni che verranno a galla solo alla fine. Scusate tutti per il disagio!
Auguro a tutti buona lettura!!
Fay
 
Death Mask
 
 
Solo confusione, un gran mal di testa. A Moon parve come un miraggio, quella figura chiara che si chinava su di lui per un bacio ammaliatore. Capelli biondi a sfiorargli la pelle. Braccia forti a sorreggerlo. Piume bianche cadevano insanguinate nell’aria ventosa di un inverno freddo. Una risata sulle labbra diafane, occhi rossi che “Davvero?” dicevano. “Ma non mi dire”.
“Ah, sì. Ci sarà un’altra estate.”
 
 
- Ma è stata lei a soccorrerti, non è vero?
- Questo non è rilevante.
- Ora dimmi: ha una quarta vero?
Hera fissò attentamente il ragazzo davanti a lui, per quanto si potesse fissare una maschera inespressiva quale era quella di Masquerade. Appoggiò il bicchiere d’acqua sul tavolo e gli rivolse la sfumatura di un’espressione alquanto sconcertata – Sul serio, è la prima cosa che ti viene da pensare?
- È importante. – confermò quello annuendo vigorosamente. Ubriaco, come tutti gli altri. – Tumn non se l’è mai scopata nessuno. Siamo tutti curiosi.
- Il fatto che mi abbia soccorso non significa che abbiamo scopato. – si accigliò Hera, e arricciò il naso. – Siete davvero dei morti di figa.
Venus rise da dietro la tazza del famoso liquido latteo che tanto sembrava piacergli, guardandolo di sottecchi. Era un tipo che in genere si dimostrava piuttosto pacato e tranquillo, ma il Nettare in quei momenti di riposo gli dava un po’ della sua carica sensuale, che lo tramutava quasi istantaneamente in un perfetto ragazzaccio malizioso. – Lo sanno tutti che le Sirene sono intoccabili, non si fanno avvicinare facilmente.
- Ah, allora è per questo che siete tutti gay. – borbottò Moon rivolgendo loro uno sguardo piccato.
Lava lo osservò in tralice ridendo sommessamente. Era il ragazzo di Venus. O almeno così aveva capito da quei pochi giorni di convivenza: li aveva sorpresi a scopare almeno un paio di volte, e stava giusto pensando di chiedere un’altra camera. Ma in fondo lì si scopava un po’ frequentemente, da quanto aveva potuto capire, e quindi si era già convinto da solo a rinunciare in partenza. - Siamo, vorrai dire. – soggiunse il blu con una punta di malizia, e il suo riso si trasformò più in un ghigno. – Lo sappiamo tutti che ci provi con Donnola.
Moon fece per protestare, ribattendo che era il biondo a stargli sempre attorno e che la sua unica colpa era stata quella di naufragare in quel postaccio. Niente da fare. Nessuno sembrava voler ascoltarlo. Così si rese conto che probabilmente quella storia era in circolo da giorni e probabilmente era già sulla bocca dell’intera isola…
- Non credere, non te lo darà mai.
- Non ti permetterà nemmeno di sfiorarlo con un dito.
- Le conseguenze poi sarebbero terribili.
- Dicono che se provi solo a sfiorarlo muori.
- Meglio per te se gli stai lontano.
Moon sospirò e si lasciò scivolare rassegnato sullo schienale della sedia. – Guardate che è lui quello interessato… vi sembra il caso di fare questi gossip da donnicciole?
- È assolutamente necessario, sì! – rise Masquerade, visibilmente brillo, cingendogli le spalle con un braccio. - È solo che nemmeno Donnola se l’è mai scopato nessuno.
Ne parlavano sempre, quando Donnola se ne andava per i fatti suoi. Una sorta di dio, così lo definivano, alcuni pensavano che fosse proprio lui il creatore dell’Isola. Ma no, è venuto dopo Night. E allora che? Allora niente. Vi sfido a stuprarlo. Ma neanche per sogno. Lo sanno tutti che la sua pelle è stregata, se no perché la nasconde. Voi siete pazzi. No, davvero, ci hanno rimesso la pelle. E chi. Boh, un po’ tutti.
Comunque a Moon questo non poteva di certo interessare. Non al momento, almeno. Le sue uniche preoccupazioni al momento erano le voci che, come acqua, continuavano a spargersi lungo le strade dell’isola senza che lui potesse farci nulla. O meglio, non tanto le voci in sé quanto la concezione che ora i ragazzi avevano di lui: buffo come anche in circostanze del genere si ritrovasse a cercare un po’ del se stesso rimasto oltreoceano.
Donnola entrò in quell’esatto momento, facendolo sussultare. Era appena tornato da un luogo segreto che non aveva confessato a nessuno e nel quale passava la maggior parte del suo tempo. In tanti immaginavano si spogliasse finalmente di quelle vesti ingombranti e camminasse così, nudo, incurante di poter essere scoperto - o forse estremamente sicuro di non poterlo essere. Credenze popolari. Mostri che forse neanche c’erano. E però rimaneva il dubbio…
Il capobanda si fermò un attimo sulla soglia a fissarli. Sorrise candidamente prendendo a raccogliersi i capelli umidi di sale: - Buongiorno tesori. Moon, ti senti meglio? Oh, avete già finito il Nettare?
In risposta un Soldier già ubriaco sventolò in sua direzione l’ennesima bottiglia vuota. Donnola non si arrabbiò e prese a ridere di gusto, un suono lieve che si sparse per la stanza nelle prime luci del mattino. Disse che ne avrebbero chiesto un altro po’ al Traghettatore. Anche le sigarette? Anche le sigarette. E i preservativi. Lacci per le scarpe. Oh, sì, anche un paio di pantaloncini in più, sono finiti. Finiti, sì.
Una persona completamente differente dagli ultimi giorni, chiara e semplice come uno specchio limpido, senza nessun mistero enigmatico alle spalle. Moon lo fissò impassibile. Si soffermò sul suo profilo allampanato illuminato leggermente dai pochi raggi solari che strisciavano nella stanza da appannate e sudice finestre. Era bellissimo, anche con quel maglione a collo alto e i jeans a fasciargli le gambe snelle.
Venerato e temuto, divinità immortale propagatrice di ferite e morte, sembrava non accorgersi dell’ombra che scivolava rapida via da lui come una foglia trasportata dal vento. Ed era così, si trattò di un istante, che nessuno notò perché troppo presi dalla loro incosciente follia.
Hera la vide benissimo.
Perché lui, del Nettare, non voleva saperne.
 
 
L’ennesima sigaretta. Come morire, pensò Free, come consumarsi da dentro. Mille incontri educativi di una vita estranea e passata buttati nel dimenticatoio, tutte stronzate. A Free piaceva morire così, il pensiero che da qualche parte lo aspettasse questa morte, questo destino. E probabilmente sarebbe morto prima, Alto, ucciso da uno dei Bambini Perduti, e nessuno si sarebbe più ricordato di lui. Questo pensava freneticamente nel tentativo disperato di accendersi quella sigaretta. Aveva bisogno di un’altra boccata, gli sarebbe bastata solo una boccata, il tempo l’attimo il dolore dell’ennesima sigaretta, e però non si accendeva, non si accendeva cazzo, dall’accendino non usciva una fiammella che fosse una, e forse c’era troppo vento o forse era semplicemente finita, finita, aveva consumato tutti gli accendini tutti. Il pensiero lo terrorizzò. Non aveva ancora consumato se stesso.
- Hai un accendino?
Fiamma lo stava guardando da minuti interi, seduto su quel letto che puzzava di fumo, di morte e di sesso. – Sì. – commentò con un ghigno. Se l’era appena scopato a fondo e l’unica cosa che aveva da dire era “Sì”, come se non se ne fosse accorto che si stava praticamente distruggendo. Fiamma provava piacere nel vederlo distruggersi.  Forse perché normalmente non faceva neanche una piega.
Free si allungò verso i jeans dell’altro e prese l’oggetto direttamente dalla tasca anteriore. Lo fissò truce e solo quando ebbe inspirato da quell’infernale tubicino di carta si rilassò contro le lenzuola sfatte.
- Ti sta divorando. – sghignazzò Fiamma sovrastandolo. Era ubriaco. Perdeva sempre la testa da ubriaco.
“Fottiti da solo, puttana” pensò Free, ma si lasciò prendere senza fare storie, giusto un lamento, per fargli capire che a fare sesso si è almeno in due e che avrebbe dovuto andarci piano, che era una notte intera che stavano lì fregandosene del turno e forse forse forse sarebbe stato meglio smetterla, così, tanto per, ci sarebbero state altre notti per pensare a quello, che in fondo il loro non era amore e potevano gestirlo come volevano-
La sigaretta si consumò tra le sue dita senza il minimo rumore. E Fiamma intanto lo riempiva, lo sovrastava e si faceva desiderare, la sua pelle bruna si scontrava con la propria, lattea come il marmo, e quasi sembrava volercisi perdere e fondere, come una macchia di caffè va a macchiare una maglietta bianca che poi non è bianca, non proprio, ma questo gli bastava. Gli bastava davvero.
I graffi diventarono morsi, i miagolii urla. E come sempre l’amplesso si tramutò in sangue e lacrime amare, che sapevano di debolezza, ma c’era anche qualcosa di estremamente dolce in tutto quel semplice respirare l’uno il corpo dell’altro.  I loro nomi, ad esempio. Quelli veri, non quelli dell’Isola, ma i nomi che erano rimasti dall’altra parte dell’oceano. Non si potevano dire, non a voce alta, e allora l’uno tentava di soffocare l’altro nel tentativo assurdo di fermarlo, e il sesso allora si trasformava in una lotta, un certamio nel quale nessuno sarebbe mai uscito vincitore, non davvero, perché alla fine l’uno il nome dell’altro lo mormoravano sempre, e questo rimaneva tra quelle quattro mura e ritornava nei loro cuori come se non fosse successo nulla. Nulla, davvero, era successo.
Perdersi completamente. Questo era il loro sesso. Era uno di quei momenti in cui non si riusciva a capire se il Sogno del Dio stesse per finire. O cominciare. Finire e cominciare, dove il mare sfumava e i confini si disperdevano in nuvole: quello era l’inizio, quella la fine di tutto. Free lo sognava, qualche volta, quando il cielo era limpido e le stelle si completavano nel tempo della mezzanotte.
- Shuuya… Shuuya, per favore, piano.
Un ringhio coprì la sua richiesta. Una nube passò davanti alla luna, oscurando i loro volti e spegnendo i pensieri.
 
 
Ember camminava in silenzio per le vie acciottolate e abbandonate a sé stesse, infestate da fantasmi morenti, o il più delle volte da Allucinazioni che, però, non si manifestavano con una certa regolarità nemmeno agli abitanti del luogo. Red lo precedeva, cercando di mantenere una certa distanza, giusto per non mostrare la sua espressione che Ember sapeva preoccupata. Era difficile in fatti che Red riuscisse a contenere le proprie emozioni: non era affatto conosciuto per la sua impassibilità.
Il rosso si accese una sigaretta, scrutandolo da dietro come se avesse potuto effettivamente vederlo in viso. Ma era saggio che Red non gli stesse alla calcagna, principalmente per il fatto che nessuno dei due si fidava completamente dell’altro. Tra bande nemiche, del resto, non ci si poteva aspettare di più. L’unica cosa che avrebbe potuto fermare Red dal pugnalarlo alle spalle sarebbe stato il pensiero che Ember gli serviva.
- Sono aumentati dall’ultima volta? – la sigaretta sparse il suo veleno nell’aria.
- Non lo so. – rispose Red, calmo, senza voltarsi. – Abbiamo ordinato a tutti gli appestati di raggiungere autonomamente il magazzino. Chi non ha voluto ci è stato trascinato. Quindi non saprei fare una stima precisa. Forse più di venti.
- Più di venti… - si ripeté assorto Ember, ricordando perfettamente che l’ultima volta che era entrato in quel luogo di morte stesi nelle brande ce n’erano appena una decina. – Notevole.
- I sani preferiscono non addentrarsi a prendere i morti. A volte se li trascinano fuori da soli o rimangono là. Quindi non sarà un bello spettacolo.
- Capisco.
Un tremito delle spalle sotto la mantellina e già Red si era voltato, gli occhi iniettati di sangue come se non dormisse da giorni. Aveva un modo inquietante di guardare la gente, Red. Qualcosa che nessuno mai aveva capito fino in fondo. Una paura incontrollata per qualcosa di cui si conosceva solo il nome.
Traghettatore.
- No, in realtà non capisci. Non capisci un emerito cazzo. Qui la gente muore e tu il massimo che sai fare è sputare sentenze di morte. – lo aggredì ringhiando, prima di voltarsi di nuovo e procedere più velocemente per le canalette che portavano al porticciolo. Ember preferì non replicare, perché nonostante il suo animo orgoglioso si stesse scaldando, punto sul vivo, una parte di sé non poteva far altro che ammettere l’amara realtà.
Perché Ember, semplicemente, non era un medico. Aveva solo gli strumenti della cassetta del pronto soccorso e giocava al piccolo chimico.
Un bastardo.
 
Il portone era stato chiuso a doppia mandata, e i due ragazzi riuscirono ad aprirlo non dopo poche difficoltà. Ma appena riuscirono a creare uno spazio sufficiente per far passare Ember, Red indietreggiò per sfuggire all’odore nauseante della putrefazione. – Io non entro. Mi trovi al palazzo. Raggiungimi appena finisci.
- Oh certo. Sempre agli altri il lavoro sporco. – commentò cinico Ember, indossando la solita mascherina da chirurgo più per l’odore che per vera igiene. In realtà comprendeva benissimo le ragioni del capobanda. – Ci metterò qualche ora, giusto per controllare la situazione. Ti chiedo solo il favore di aiutarmi un secondo, devo fasciarmi le mani e le braccia.
Red annuì e appena ebbero finito Ember sparì dentro il magazzino. L’altro risalì lentamente le vie dell’abitato per scomparire tra le vecchie case decadenti.
L’enorme casolare era stato adibito per ospitare gli infetti, anche i minimi. C’erano tre reparti, in ordine di gravità, ma Ember preferiva sempre iniziare da quello meno grave. Lì c’era ancora chi riusciva a spicciare parola e addirittura ad alzarsi.
Nell’ultimo si sistemavano i morenti. Ed era sempre maledettamente più grande.
- Ohi. – salutò i nuovi arrivati, alzando la mano fasciata. – Vengo in pace. – scherzò un po’, ma nessuno aveva più la forza di ridere. – Mi servirebbe un volontario per aiutarmi a sistemare un po’ di gente. Vieni tu? Ma che bravo. Come ti chiami? Demonio? No, il vero nome. Ah, Demonio? Sul serio? Bene, ti visiterò per primo.
Demonio camminava e per la verità già bastava, non sarebbe servita la visita: probabilmente sarebbe rimasto lì dov’era. Ember aveva in genere un modo molto semplice di catalogare la gravità dell’infezione: chi non camminava o addirittura non riusciva a stare in piedi passava al secondo reparto. Chi non riusciva proprio a muoversi finiva al terzo, e lì si fermava per sempre.
Non aveva una cura, e chiunque si ritrovasse lì dentro capiva bene che non sarebbe più uscito. Meglio così, forse, meglio non illudersi.
- Avanti, tutti in piedi. Ho detto in piedi, non fatemelo ripetere. Che pazienza ci vuole con voi.
In realtà spesso l’infezione arrivava fino al viso, ostruendo funzioni vitali abbastanza importanti: orecchie, occhi, bocca, naso. Molti non si alzavano perché non sentivano, ed erano i compagni di morte a sollevarli. A sorreggerli, se fosse necessario, cercando di nascondere l’evidenza.
Ember li passò in rassegna uno per uno, esaminando le piaghe, disinfettandole e valutando il ritmo della propagazione. A spanne, in realtà, perché erano appena arrivati e non si poteva fare una stima precisa. Controllò la febbre e alla fine prese da parte tre ragazzi, che già zoppicavano malamente, per condurli nel secondo reparto.
Poteva vedere le lacrime negli occhi di ognuno di loro. La disperazione e la riluttanza. Ma essi non protestarono, e fu abbastanza semplice per lui e Demonio condurli dall’altra parte.
L’estate non era eterna.
Nel secondo reparto nessuno parlava. Rimanevano immobili, in attesa, di tanto in tanto chiedevano un bicchiere d’acqua a chi, del primo reparto, aveva la pietà di portarglielo. Si abbandonavano alla fame, prima ancora che alla malattia. Nessuno entrava nel magazzino se non per portare pochi avanzi della mensa comune.
Ember cercò con lo sguardo tra i letti e si fermò appena trovò Silver. Chino su un corpo, come sempre ad accarezzargli i capelli castani. – Ti reggi ancora in piedi, Sakuma?
Silver si voltò di scatto, scrutandolo con astio. Da quella volta che l’aveva scoperto nel secondo reparto ed era stato rimproverato, sembrava volerlo sfidare. Non si sarebbe allontanato dal malato –il ragazzo steso da giorni in perenne sofferenza, il ragazzo che non parlava, il ragazzo di cui era innamorato, Genda si chiamava, prima ancora di Belva, Genda dell’oltreoceano – per niente al mondo. Davvero.
- Te l’ho detto mille volte che sei da primo reparto.
- Te l’ho detto mille volte di non impicciarti.
Ember alzò le spalle. Cocciuto. – Sgombera il tuo letto allora, che ne abbiamo tre.
- Dormo con lui ormai. – replicò freddo l’altro.
- Mi vuoi forse dire che non c’è posto?
- No.
Ember si passò una mano tra i capelli fulvi, maledicendosi. Ordinò a Demonio di stendere i malati per terra, andando a prendere poche coperte dal ripostiglio. C’era bisogno di altri letti, ma chi si sarebbe premurato di aiutarlo a trasportarli dentro?
I nuovi arrivati si disposero per terra senza fare storie, premendosi l’uno contro l’altro per farsi forza. Chiusero gli occhi, e Ember li lasciò stare. Si rivolse a Sakuma, che per la verità stava in ginocchio accanto al ragazzo e non dava cenno di volersi muovere. – Riesci a camminare un po’? Mi aiuti?
Silver in realtà non era più da primo reparto. Ma aveva braccia ancora forti da poterlo aiutare con il terzo. Non protestò.
La visita agli infetti del secondo reparto fu più lunga e più complicata. C’era da controllare le piaghe, disinfettarle (con acqua fresca, a detta di molti, perché in realtà i suoi interventi non servivano poi a molto), cambiare le bende e controllare lo stato fisico del malato. Già lì, nel secondo reparto, si perdevano pezzi. Piedi, dita o mani. C’era da amputare. Prendere il seghetto e tapparsi le orecchie alla buona, con del cotone, per non sentir urlare. Trattenere le lacrime per non crollare.
- Questo è da terzo reparto. – mormorò quando arrivò a Genda, e guardò negli occhi Silver. – Te la senti? – Lui non replicò.
Trasportare i malati al terzo reparto era un altro paio di maniche. Perché in un certo senso il terzo reparto era solo una sala d’attesa. In cui si andava a recuperare i morti e la cosa finiva lì.
Si protestava, questa volta, vivamente. Si urlava, cercando di farsi capire con i suoni strascicati che si riusciva a produrre. Ci si agitava debolmente, forse con la poca forza della disperazione che si aveva ancora in corpo. Si doveva essere in due per tenerli fermi e trascinarli di peso, cercando di urlare più forte di loro, attraversare la tenda che separava il terzo dal primo e secondo, buttarli sul letto, mollare un paio di ceffoni se necessario. Ember per la precisione picchiava forte quando non riusciva a farsi ascoltare. Urlava e diceva: “Sì, ora resti qui, torniamo a prenderti”, e in realtà nessuno arrivava più a portarlo di là.
Anche stavolta Genda lanciò un lamento, ma in verità era troppo debole pure per agitarsi. Lo stesero per terra, provvisoriamente, per controllare che ci fosse qualche letto libero. Sakuma si inginocchiò vicino al morente e non si mosse di lì. Ember procedette tra le file di letti e stuoie alla ricerca di cadaveri. Ne trovò cinque.
Cambiarono le coperte e trascinarono fuori i morti. I letti vennero subito riempiti e addirittura si dovette aggiungere un’altra stuoia.
Ember non visitò nessuno di loro, controllandoli solo con lo sguardo. Mummie. Non c’era parte di pelle integra. Non si riconoscevano più l’uno dall’altro.
- Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a portare in spiaggia i cadaveri. – esordì guardando Demonio negli occhi. Quello annuì, rassegnato. Finché c’era da muoversi, si viveva.
Sakuma rimase fermo, neanche si degnò di guardarlo. Non sarebbe tornato nel secondo reparto, Ember già lo sapeva, e tuttavia lo lasciò stare. – Brutta cosa, l’amore. – si limitò a pensare ad alta voce, prima di sparire dalla porta sul retro.
 
C’era da lavare via lo sporco della morte. Il sangue delle ferite, il pus delle infezioni, l’odore della putrefazione. Ember invitò Demonio a tornare dentro il magazzino e poi si immerse nell’acqua gelida del mare. Nessuno si avvicinava quasi più, al mare, ritenuto la causa dell’origine dell’infezione, e quindi non trovò parecchi problemi a spogliarsi e lavarsi con l’acqua stessa e con un po’ di sabbia.
Bruciò i vestiti e ne prese altri, una volta che si fu asciugato al sole cocente, seduto sui pochi scogli piatti che si trovavano poco distante. Rimirò i con sguardo fermo i corpi allineati sulla spiaggia, in attesa della grazia del Traghettatore. Ma lui non arrivava, e se arrivava non prendeva che uno solo di loro. Il resto lo lasciava a marcire al solleone, e presto avrebbero dovuto seppellire quella decina di morti. Bruciarli, forse. Il fuoco poteva essere la soluzione a molte cose.
Lo disse anche a Red, quel giorno. Così, testualmente, “Il fuoco può essere la soluzione a molte cose”. Bruciare il magazzino, impensabile tra i Figli del Traghettatore.
Red chiuse gli occhi e guardò fuori. Anche da lì, la struttura di morte brillava come un miraggio. – Non intendo farlo. – commentò solo. – So che non dovrei, ma mi fido di te.
Ember sospirò. Lo guardò negli occhi e disse, piano: – Sono più di una trentina.
Red chiuse gli occhi. Black era accanto a lui, come sempre, ma molto più serio di quanto ricordasse. Era seduto sul bracciolo della poltrona e gli accarezzava i rasta con le sue dita bianche e lunghe. – E Sakuma? Dov’è Sakuma?
- Terzo reparto.
A quelle parole Red sembrò come colpito al cuore. Chiuse gli occhi violentemente e respirò a fondo, mentre la presa di Black si faceva più forte. Ember aveva notato fin da subito queste reazioni quando si parlava di quello che un tempo era stato il loro compagno. Mormorii e frasi che lui non riusciva a captare, smorfie di un dolore indicibile.
Non aveva intenzione, dunque, di comunicare la ragione delle folli gesta del malato.
Un amante indesiderato andava tenuto nascosto.
 
Brutta storia, l’amore.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inazuma Eleven / Vai alla pagina dell'autore: hirondelle_