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Autore: Ayr    12/06/2014    6 recensioni
Quando Matisse incontra Zefiro, un ragazzo affascinante ma misterioso, la sua vita tranquilla viene completamente sconvolta: il ragazzo infatti le rivela che lei è la principessa perduta, la legittima erede al trono di Heaven. Inizia così per lei un viaggio in compagnia di Zefiro, il cui silenzio pare nascondere un grande segreto, che la porterà dal tranquillo villaggio in cui vive alla caverna di Procne, una potentissima maga che aiuterà Matisse ad affrontare quello che le aspetta: non si tratta solo di sedere su un trono e di prendere sulle spalle tutte le responsabilità che esso comporta, Matisse infatti, dovrà prepararsi anche per una guerra perchè non è l'unica che ambisce a quel trono e c'è già chi trama nell'ombra per strapparglielo via.
Preparatevi ad accompagnare Matisse in questo viaggio tra maghi, battaglie, segreti, elfi e misteri. Siete pronti a partire?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Matisse, accucciata davanti alla porta della cucina, cercava di capire cosa stessero dicendo i due. Confabulavano chiusi lì dentro da molto tempo e la cosa aveva incuriosito la ragazza, la quale era stata esclusa dalla conversazione.
Con l’orecchio appoggiato alla porta sentì Corniolo annunciare preoccupato che il regno era in pericolo, la regina era molto malata e le sue condizioni peggioravano di giorno in giorno, come quelle del regno: la barriera pian piano si stava indebolendo e le regioni sul confine avevano già subito incursioni di goblin ed Elfi Neri. Matisse sussultò, non aveva mai sentito parlare di Elfi Neri e da come li descriveva Corniolo erano violenti, sanguinari, subdoli, ingannatori e crudeli, ben diversi da quelli che conosceva lei. In quel momento la ragazza sentì la voce di Ortensia rispondere demoralizzata che non si poteva fare nulla e Corniolo sbottare che non era vero, che qualcosa si poteva fare prima che la situazione degenerasse ma Ortensia aveva pacatamente replicato che il corso del destino non si poteva modificare e che ciò che era stato già deciso non si poteva cambiare, Corniolo allora era andato su tutte le furie e aveva urlato che Ortensia sapeva benissimo ciò che sarebbe successo ma non aveva la minima intenzione di fermarlo perché in realtà aveva paura, anche Ortensia si era infuriata e aveva replicato che non aveva alcuna paura ma che considerava un’inutile spreco di energie agire in quel momento, quando ancora il tempo propizio non era giunto e aveva accusato Corniolo di essere impulsivo e privo di senno.
«Mi stai dando dello stupido?» si infiammò Corniolo.
«No, ti sto solo dando dell’imprudente e dell’avventato» replicò Ortensia.
«Sei veramente cocciuta a volte» commentò Corniolo con voce rassegnata «legata come sei al tuo stupidissimo “momento propizio” sei diventata cieca e ti rifiuti di capire che se non si agisce subito per arginare il problema, questo si aggraverà e sarà sempre più difficile risolverlo.»
«Ma è anche vero che è inutile tentare di arginarlo sapendo bene che il lavoro risulterà vano».
«Allora cosa mi consigli di fare?» domandò Corniolo esasperato «di stare seduto a fare niente, guardando il regno mentre va allo sfascio?»
«Sarebbe un’idea» rispose pacatamente la donna.
«Ma va alla malora» borbottò Corniolo marciando verso la porta «Quando ti accorgerai di aver sbagliato a non agire adesso sarà ormai troppo tardi e ci ritroveremo tutti in qualche miniera del Nord, schiavi degli Elfi Neri».
Matisse riuscì a spostarsi dalla porta appena in tempo per non venire investita dalla furia di Corniolo che uscì a passo di marcia dalla casa senza salutare nessuno.
Matisse entrò cautamente nella cucina e trovò Ortensia seduta al tavolo, con la testa tra le mani, che pareva più stanca e vecchia del solito, come se tutti i suoi anni le fossero improvvisamente piombati sulle spalle.
«Vado a stendermi un attimo, sono molto stanca, non preparare nulla per me, non credo che mangerò» disse con voce flebile, prima di alzarsi a fatica e uscire dalla stanza con aria piuttosto abbattuta. Matisse rimase qualche momento a fissare la porta da cui la donna era appena uscita, in tanti anni in cui era vissuta con lei non l’aveva mai vista così.
Ortensia non era sua nonna, come molti al villaggio credevano, ma neanche una sua lontanissima parente, era una Veggente che si era presa cura di Matisse fin da quando la ragazza aveva memoria e l’aveva cresciuta come se fosse stata figlia sua. Matisse sapeva di essere stata adottata ma la cosa non l’aveva sconvolta più di tanto, era circondata da bambini che venivano abbandonati e adottati soprattutto da Veggenti o altri Maghi per farne i loro apprendisti. Ciò che non riusciva davvero a capire era perché Ortensia si rifiutasse di dirle chi erano i suoi genitori, ogni volta che aveva provato a chiedere qualcosa a riguardo la donna aveva finto di non sentire la domanda o di non sapere la risposta, nonostante facesse intendere il contrario.
Con un sospiro Matisse riempì una pentola d’acqua.
 
L’unica stanza proibita a Matisse era la camera di Ortensia. Quando era più piccola le piaceva fantasticare sul contenuto di quella stanza, ma una volta cresciuta aveva decretato che se Ortensia non la voleva nella sua stanza era per un buon motivo e aveva sempre rispettato l’ordine. Ora si trovava di fronte alla porta proibita reggendo un vassoio su cui aveva sistemato una tazza di tè al gelsomino, il preferito di Ortensia, e qualche biscotto. Aveva pensato che avrebbe fatto bene alla donna, con lei, almeno, aveva sempre funzionato. Ora, però, aveva un po’ di soggezione per quella porta di legno scuro ed esitava a sfiorarla con le nocche e bussare. Fece un respiro profondo e, titubante, diede un leggero colpo alla porta. Per qualche secondo non sentì risposta e sperò con tutto il cuore che Ortensia non la cacciasse via in malo modo o la sgridasse anche solo per aver osato avvicinarsi alla porta. In realtà non accadde niente di tutto questo, ma dopo i primi momenti di silenzio la voce di Ortensia, con grande sorpresa della ragazza, la invitò gentilmente ad entrare.
La stanza di Ortensia era avvolta nella penombra e i colori dominanti erano il nero e il viola: d’ebano erano le librerie che occupavano i tre quarti delle pareti della stanza, stipate di libri tutti con la copertina nera, pesanti tende viola nascondevano il letto su cui era distesa supina Ortensia. A colpire l’attenzione di Matisse, però, fu un enorme calderone che troneggiava nel mezzo della sala: era fatto di vetro e alla debole luce della stanza mandava riflessi ametista e violetti, era sorretto da un trespolo in argento dai delicati e intricati decori floreali che salivano fino al calderone e lo avvolgevano di foglie, bacche e fiori .
«Sapevo che prima o poi saresti entrata in questa stanza» sospirò Ortensia «sono contenta che tu l’abbia fatta su mio invito e non per tua iniziativa, significa che sei una ragazza capace di autocontrollo».
O che è stata talmente spaventata dalle minacce di una vecchia irascibile da non osare nemmeno avvicinarsi alla porta pensò Matisse.
«Le ho portato un po’ di tè, ho pensato che le avrebbe fatto bene» disse.
«E cosa ti ha fatto pensare che ne avessi bisogno» replicò Ortensia, Matisse rimase interdetta, non era la risposta che si aspettava.
«Non ha voluto cenare e dopo che Corniolo se n’è andato ho visto che era molto stanca e abbattuta» cercò di spiegare la ragazza.
La vecchia donna si mise a sedere e sorrise «Sei un’attenta osservatrice, un’ottima dote a mio parere, inoltre sei anche gentile, generosa e premurosa, qualità molto difficili da trovare soprattutto in una stessa persona.» Matisse si chiese per quale motivo le stesse dicendo queste cose.
«Ti ringrazio molto per il pensiero, appoggia pure il vassoio su quel tavolino, ma attenta a non far cadere la sfera, è molto fragile» continuò la donna, la ragazza obbedì e appoggiò il vassoio su un tavolino rotondo in legno scuro su cui era appoggiata una sfera di cristallo in cui vorticava una nebbiolina violacea che si avvolgeva in spirali effimere e affascinanti. Non appena si avvicinò, la nebbiolina nella sfera parve condensarsi e prendere le fattezze di un viso dai profondi e schivi occhi blu e incorniciato da lunghi capelli neri. La ragazza rimase a fissarlo incantata chiedendosi chi fosse.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Ortensia e la voce della donna bastò a riscuotere la ragazza.
«No nulla» rispose Matisse gettando un’altra occhiata alla sfera, ma il viso era sparito e al suo posto era tornata la nebbia indistinta.
«A cosa serve quella sfera?» domandò la ragazza.
«A vedere il futuro. Basta che ti avvicini di poco e ti mostra il tuo futuro, ma quasi sempre ciò che mostra è incomprensibile e ambiguo e ci vuole una maga esperta per riuscire a decifrarlo. Perché me lo chiedi?»
«Curiosità. Non sono mai stata nella sua camera e devo ammettere che ci sono una sacco di cose interessanti» rispose Matisse.
«Dalla maggior parte delle quali dovrai stare lontana, sono molto pericolose, soprattutto nelle mani di una ragazzina inesperta» la ammonì Ortensia. Matisse annuì chiedendosi cosa potesse mai esserci di pericoloso in vecchi volumi polverosi o cosa si nascondesse dietro le pesanti tende di velluto viola del baldacchino.
«Ora ti prego di uscire, ma ho veramente bisogno di riposare, sono molto stanca. Ti ringrazio ancora molto per il tè» disse Ortensia e la ragazza capì che era un modo gentile ed educato per dirle di andare fuori dai piedi. Obbedì ma chiudendosi la porta alle spalle si ripromise che sarebbe tornata in quella stanza per scoprire il segreto che nascondeva, perché ne era sicura, quella stanza nascondeva un segreto.
 
Lo avrebbero raggiunto, ne era sicuro. Nonostante fosse abituato a correre per i boschi lo avrebbero raggiunto. Era agile, veloce ma era ferito e stanco e questo li dava un enorme vantaggio. Presto, sfinito per la stanchezza non avrebbe visto una radice, si sarebbe inciampato, sarebbe caduto e sarebbe stata la fine per lui. Ma fino a quel momento non doveva mollare, non poteva: la salvezza del regno dipendeva anche da lui. Procne aveva previsto la fine del regno già da molto tempo ma nessuno le aveva dato ascolto, le avevano dato della vecchia pazza visionaria e dell’uccello del malaugurio e ora ne pagavano le conseguenze. Saltò una radice, consapevole del fatto che avrebbe potuto mancare la prossima. Ma doveva completare la missione ed era questa responsabilità che gli gravava sulle spalle a spronarlo ad andare avanti, avrebbe voluto abbandonarsi sul morbido muschio del sottobosco e lasciare che lo raggiungessero e ponessero fine alle sue sofferenze. Ma non poteva permetterselo: aveva fatto una promessa e le promesse le aveva sempre mantenute, a tutti i costi.
Il petto gli inviò una fitta atroce: aveva perso molto sangue, se non fosse stata la stanchezza ad ucciderlo ci avrebbe pensato lo squarcio che gli si apriva sul petto.
Osservò la mano che lo aveva stretto fino adesso, brillava di sangue sotto i pochi raggi della luna che riuscivano ad attraversare il fitto fogliame. Si sentì male. Si ripeté che non doveva mollare, che la sua meta era vicina, ma si accorse che ormai non ci credeva più ed era solo una vana speranza per costringersi ad andare avanti.
Poi improvvisamente notò che gli alberi diventavano sempre più radi fino a scomparire del tutto e a lasciare posto a delle casupole di legno. Ce l’aveva fatta, all’interno del villaggio non l’avrebbero seguito, ora non gli restava che trovare la casa e sperare di non aver sbagliato villaggio.
 
Matisse si svegliò di soprassalto, aveva sentito un colpo provenire dal salotto, come se qualcuno stesse bussando alla porta. Il rumore si ripeté e Matisse fu sicura che non si trattasse di un sogno. Si alzò chiedendosi chi mai fosse a quell’ora. Guidata dalla luce della luna che filtrava dalle finestre raggiunse la porta, stupita che Ortensia non avesse sentito nulla, nonostante avesse un udito finissimo.
Il rumore si ripeté di nuovo e la ragazza titubante, dopo aver trafficato con il chiavistello, aprì la porta e venne investita da un’indistinta macchia nera che le franò addosso, facendola cadere.
«Cosa è tutta questa confusione?» imprecò Ortensia facendo il suo ingresso nel salotto avvolta in una svolazzante vestaglia viola. «Oh cielo! Cosa è successo?» esclamò correndo a soccorrere Matisse, sommersa dalla macchia nera. Con l’aiuto di Ortensia riuscì a rialzarsi e scoprì che la macchia nera non era altro che una persona avvolta in un mantello nero. Il cappuccio scivolò via scoprendo una cascata di lisci capelli corvini.
«Aiutami a metterlo sul divano» disse Ortensia «poi chiudi la porta, io intanto vedo se riesco a fare un po’ di luce». Matisse obbedì e dopo che la stanza venne rischiarata dalla luce di qualche candela, la ragazza vide che era un ragazzo piuttosto giovane dai tratti del viso armoniosi e dolci, era malconcio, sporco di terra e sangue.
«E’ ferito» esclamò Matisse notando una macchia scura che si allargava sul petto del ragazzo macchiandogli la giubba.
«Vai a prendere gli strumenti» le ordinò Ortensia e quando la ragazza ritornò con le braccia cariche di unguenti e bende vide che la donna gli aveva già tolto il mantello, la giubba e la camicia, lasciandolo a torso nudo. La ragazza rimase incantata alla vista del petto muscoloso del ragazzo e dalla pelle chiarissima segnata da molte cicatrici, e lacerata da uno squarcio orrendo che la fece rabbrividire. Fu Ortensia ad occuparsi della ferita sul petto mentre a Matisse fu dato il compito di ripulire quelle più piccole e meno gravi delle braccia e del viso. Man mano che lo ripuliva dal sangue scopriva un nuovo tratto del suo volto: il naso perfetto, le labbra morbide che parevano invitare ad essere baciate e si chiese di che colore fossero i suoi occhi. Quasi rispondendo alla sua muta domanda, il ragazzo li aprì rivelando due iridi di un blu intenso paragonabile solo a quello del cielo. Matisse strozzò un grido di sorpresa: il ragazzo che aveva davanti era lo stesso che aveva visto nella sfera!
«Dove sono?» chiese con voce flebile il ragazzo.
«A Verderamo, nella casa della Veggente Ortensia» rispose Matisse.
«Ho sentito molto parlare di lei, ma la descrivevano più vecchia» disse il ragazzo, Matisse scoppiò a ridere «Io non sono Ortensia, sono solo la sua apprendista»
«Sei hai finito di conversare con il ferito, potresti andare a prendermi altre bende pulite, per favore» la interruppe Ortensia.
«Ecco Ortensia è lei» gli sussurrò Matisse mentre si alzava.
«Ecco qua» disse Ortensia qualche momento dopo, stringendo il nodo «sei stato fortunato che non si sia infettata».
Il ragazzo non rispose ma si sfiorò le bende con aria assente, sembrava esausto.
«Gli preparo qualcosa da mangiare» propose Matisse e Ortensia approvò.
La ragazza tornò qualche minuto dopo con una tazza di tè fumante e un panino che il ragazzo divorò in poco tempo.
«Allora come ti chiami? Cosa ci facevi tutto solo in mezzo alla foresta di notte?» iniziò a tempestarlo di domande la donna. Matisse avrebbe voluto rimproverarla e dirle di concedere un po’ di riposo a quel povero ragazzo che pareva molto stremato e provato, ma tacque per paura di un rimprovero ma anche per la curiosità di sapere chi fosse quel ragazzo piombato all’improvviso in casa loro.
«Mi chiamo Zefiro e sono stato mandato qui per parlare con voi, Venerabile» Matisse cercò di non scoppiare a ridere, nessuno aveva mai dato del voi a Ortensia chiamandola “Venerabile”.
«E avevi una tale urgenza da rischiare la vita?» chiese ancora Ortensia, il ragazzo la guardò come se la sua domanda non meritasse neanche una risposta.
«Mi manda Procne» dichiarò e Matisse vide Ortensia sbiancare.
«P-Procne?» balbettò la donna incredula, il ragazzo annuì «Mi ha detto di dirvi che il tempo è arrivato e la…» «Andiamo a parlare in cucina» lo interruppe Ortensia.
 
Ovviamente Matisse era stata tagliata fuori anche da questa conversazione, ormai ci stava facendo l’abitudine. Si chiese il motivo di tanta segretezza e soprattutto perché Ortensia era sbiancata all’udire il nome di Procne. Appoggiò un orecchio alla porta, con la sensazione di aver già vissuto una situazione simile, e ascoltò.
«Cosa stavamo dicendo?» iniziò Ortensia.
«Procne mi ha mandato a dirvi che il tempo è giunto e la Principessa deve essere ritrovata» esordì il ragazzo, intervallando la frase con un’imprecazione segno che si era seduto.
«La regina sta morendo e c’è già chi trama nell’ombra per prendere il suo posto. La morte di una regina significa un trono vuoto e un trono vuoto significa potere e potere significa bramosia e la bramosia porta solo alla…»
«Guerra» concluse Ortensia per lui «Questo lo so già. È tutto quello che ti ha detto di dirmi Procne?»
«No. Mi ha anche detto di dirvi che ormai la Principessa deve essere liberata, il suo momento è giunto»
 «Ma non è ancora pronta!» protestò Ortensia «è solo una ragazzina».
«Per questo vi chiede di mandarla da lei, per completare la sua istruzione e prepararla all’arduo compito che l’attende: non si tratta solo di sedere su un trono, ma di difenderlo!»
Ortensia rimase in silenzio per qualche secondo «Sarà un viaggio pericoloso, la Città d’Oro è molto distante da qui»
«Procne mi ha incaricato di accompagnarla» rispose il ragazzo «può fidarsi di me».
«Se Procne si fida di te, non vedo motivo per non farlo anche io» dichiarò Ortensia.
Per Matisse la conversazione sembrava piuttosto bizzarra e misteriosa: principesse, guerre, troni e questa Procne che continuava ad essere nominata con tono quasi reverenziale.
«Allora non mi resta che dirle tutto» sospirò rassegnata Ortensia.
«Ancora non lo sa?!» esclamò Zefiro.
«No, non ho mai trovato il momento opportuno, o forse la forza, per dirglielo» si scusò la donna.
«Questo mi sembra un momento più che opportuno» replicò il ragazzo.
Matisse sentì Ortensia sospirare di nuovo «Glielo dirò domani, ora non mi sembra proprio il caso».
Matisse sentì il rumore di sedie che si spostavano «Puoi dormire da noi stanotte, non mi sembra giusto svegliare il locandiere a quest’ora. Nella camera di Matisse c’è un letto libero o se preferisci anche il divano è molto comodo…» continuò la donna.
«Il divano andrà benissimo» rispose Zefiro.
Matisse si fiondò verso il divano giusto un momento prima che la porta si aprisse «Matisse, per favore, vai a prendere delle coperte e un cuscino» le chiese Ortensia e la ragazza obbedì.
Quando ritornò in salotto Zefiro era seduto sul divano, a torso nudo, intento a togliersi gli stivali, imprecando continuamente per le fitte al petto. Matisse cercò di reprimere l’impulso di scaraventarlo sul divano e di togliergli anche i pantaloni, si morse le labbra e si avvicinò al ragazzo.
«Ecco qua le coperte» disse «sei sicuro di voler dormire sul divano piuttosto che in un comodo letto?» chiese.
«Tranquilla, per uno abituato a dormire sulla nuda terra come me, dormire anche solo su un pagliericcio è un lusso» rispose con un sorriso tale che Matisse si sentì arrossire.
Dopo aver preparato il “letto” per Zefiro, la ragazza si ritirò nella sua camera, ma non riuscì a prendere sonno, troppi pensieri le vorticavano nella testa, continuava a ripensare alle strane conversazioni a cui aveva clandestinamente assistito: quella tra Corniolo e Ortensia in cui si diceva che il regno fosse in pericolo. Sapeva che la regina era malata, tutto il regno lo sapeva ma non riusciva a collegare la sua malattia con  il pericolo che il regno correva, avevano già subito incursioni di goblin in passato e se l’erano sempre cavata; una volta avevano anche avuto lo spiacevole onore di ricevere la visita di un orco ma anche in questo caso, pur con qualche difficoltà, erano riusciti a cavarsela. Inoltre era rimasta stupita del fatto che esistessero anche Elfi malvagi e si chiese che aspetto avessero, inconsciamente le tornò alla mente l’immagine di Zefiro.
Che associazioni assurde che fa la mia mente, devo essere davvero stanchissima pensò, ma per qualche tempo non riuscì a togliersi dalla testa l’immagine del giovane e con lui la misteriosa conversazione avuta con Ortensia.
La ragazza si girò verso la finestra da cui entrava l’aria fresca della notte e il profumo inebriante degli ultimi fiori.
Tra poco sarà estate pensò Matisse, per evitare di rimacinare per l’ennesima volta le conversazioni misteriose in cucina, e assaporò le immagini piacevoli della carovane dei mercanti provenienti dall’est che portavano spezie e stoffe dai colori caldi e sgargianti, oppure degli elfi del sud che salivano fino a lì per vendere i loro archi o i loro cavalli in cambio di eleganti strumenti musicali o di cereali provenienti da ovest insieme al bestiame migliore, da nord, invece, provenivano legno pregiato, pesce sottosale e calde pellicce per l’inverno.
Matisse adorava l’estate: era un tripudio di colori, profumi e suoni. Non vedeva l’ora di ballare sotto le stelle durante la festa del Solstizio o di andare per i boschi alla ricerca di more e lamponi con cui fare squisite confetture da rivendere insieme al miele durante il mercato di fine estate. E con questi piacevoli pensieri, finalmente riuscì ad addormentarsi.
   
 
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