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Autore: Carlos Olivera    13/06/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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9

 

 

Gli scossoni si fecero sempre meno violenti, ma continuarono in ogni caso, e ad ogni nuovo tremolio la paura appariva sempre di più negli occhi dei civili.

«Drassimovic, rapporto!» strillò il Capitano alla radio. «Ti spiace dirmi che succede?»

«Quello che temevo, signore. La nave si è avvicinata troppo a Neos, e ora la luna ci sta tirando dentro.»

«Come sarebbe a dire?» chiese Klaus, che poteva sentire a sua volta. «Non ci avevano detto che ci sarebbe voluto più tempo?»

«È colpa di quel portello aperto. Scombussola i parametri relativi al mantenimento dell’atmosfera interna della nave, e così gli stabilizzatori funzionano male».

Georg digrignò i denti per la rabbia, quindi contattò via radio Joe.

«Debois, mi senti? Abbiamo bisogno del tuo aiuto, e subito.»

«Ci sono quasi, Capitano.»

«Nel frattempo, signore, ho localizzato un altro problema. I motori sono andati in arresto d’emergenza sempre a causa di quel condotto.

Possiamo far ripartire la nave da qui o dal ponte di comando in qualunque momento, ma è necessario riavviare le turbine perché la nave possa ripartire.»

«E come facciamo a riavviarle?»

«Il computer che controlla il riavvio si trova nella stanza di controllo della sala motori. È su quel ponte, ma dall’altra parte della nave».

Un barlume di esitazione offuscò per un momento il volto del Capitano, che si guardò attorno rivolgendo lo sguardo ora alla folla ora verso i suoi due allievi.

«Sei in grado di guidarmi fino a lì?»

«Qui sta il problema, signore. Le mappe della sala motori e dei settori limitrofi sono inaccessibili con questo livello di autorizzazione, suppongo per questioni di sicurezza. Inoltre le analisi termiche e barometriche sono tutte fuori norma, e quasi nessuna delle telecamere di sicurezza di quella zona sembra funzionare. Devono esserci stati degli incidenti anche piuttosto seri.

Mi dispiace, Capitano. Non ho alcuna maniera di poterla guidare».

Georg si accigliò, cercando di pensare a un’altra possibile soluzione, ma a parte l’unica che la sua mente aveva partorito fin dal primo momento non gli fu possibile teorizzarne altre.

Cercando di ostentare autocontrollo, si avvicinò nuovamente ai superstiti.

«Come vi ho già detto prima, non ho alcuna intenzione di mentirvi. Questi scossoni che sentite sono dovuti all’attrazione che Neos ha iniziato ad esercitare sulla nave».

Minacciò di scoppiare nuovamente il panico, ma al Capitano bastò un cenno della mano per riportare subito la calma.

«Non avete di che preoccuparvi. Un nostro compagno si sta già occupando della questione, e presto questo imprevisto sarà risolto senza incidenti.

Altri sono i nostri problemi.

Siamo riusciti a metterci in contatto con la superficie, e da Kyrador è già partita una spedizione di soccorso che sarà qui nel giro di poche ore».

Ma così come aveva intercettato e bloccato la paura, Georg fece lo stesso anche con la gioia.

«Tuttavia, perché l’operazione possa avere successo, è necessario riavviare la nave e condurla fuori dalla zona oscura, e per farlo è necessario riavviare i motori andati in arresto di emergenza.

Per questo motivo, ho bisogno di qualcuno che mi faccia da guida fino alla sala motori, da dove potremo rimuovere l’arresto e far ripartire le turbine» quindi esitò un momento, riprendendo a parlare dopo qualche secondo. «In altre circostanze non mi sognerei mai di chiedere una cosa del genere a dei civili, ma girare a vuoto per tutta la stiva con la speranza di trovare la porta giusta ci farebbe solo perdere tempo, e più il tempo passa più diminuiscono le possibilità che possiate uscire tutti sani e salvi da qui.

Sarebbe preferibile qualcuno che abbia lavorato nella sala motori, ma chiunque conosca bene questa nave e se la senta di accompagnarmi sarà di grande aiuto a tutti.

Ho finito».

I superstiti si guardarono tra di loro, mormorando a bassa voce sotto lo sguardo attento ed enigmatico del Capitano.

«È inutile, non lo faranno» mormorò Klaus esternando quello che in realtà pensavano tutti. «Hanno troppa paura.»

«Come ho detto, è l’unica alternativa che abbiamo. Nella peggiore delle ipotesi, andremo noi da soli».

Il signor Gullit ruppe il silenzio.

«Se non vi crea problemi farvi accompagnare da uno sciancato,» disse mettendosi faticosamente in piedi, sorretto da un rudimentale bastone «Posso guidarvi io. In tutto il Megonia non c’è membro dell’equipaggio più vecchio di me, e ho passato più tempo a bordo di questa nave che a casa mia.»

«Aspetti, signor Gullit» disse Ashley. «Lei è ferito. Non potrebbe mai farcela.»

«Apprezzo la sua determinazione, ma non è il caso che lei rischi in questo modo» rispose educatamente il Capitano. «È probabile che là fuori ci sarà da correre, forse anche da sparare, e la sua vita potrebbe essere in pericolo.»

«Vengo io!» esclamò di colpo Raoul facendo un passo avanti. «Sono un cameriere, ma conosco queste stive come pochi altri».

Tutti lo guardarono, alcuni più sorpresi di altri, ma in Generale non si denotò troppo stupore negli sguardi degli altri superstiti; Raoul doveva essersi calato molto bene nei panni del leader per meritare tanta fiducia.

«Un’arma in più può sempre servire» disse Reynar. «Inoltre, prima che sindaco e cacciatore sono un ingegnere, e ho lavorato spesso alla progettazione di sistemi di alimentazione per astronavi. Se arriviamo alla sala controllo, posso riavviare tutti i sistemi ad occhi chiusi.»

«Potrebbe essere molto rischioso» li ammonì il Capitano. «Siete sicuri di voler davvero venire?»

«L’ha detto lei» rispose Raoul. «Prima sistemiamo questa storia, prima ce ne torniamo tutti a casa».

Dopo un nuovo, lungo silenzio interlocutorio, Georg si avvicinò ai due uomini, poggiando ad entrambi una mano sulla spalla.

«D’accordo, preparatevi. Prendete un’arma a testa, e tutte le munizioni che riuscite a portare, ma cercate di tenervi leggeri. È probabile che dovremo strisciare o arrampicarci, per non parlare delle fughe.»

«Sissignore».

Mentre Georg ricontrollava per l’ultima volta il proprio fucile e Raoul si faceva aiutare da Reynar ad aprire la porta, Klaus si appressò nuovamente al suo superiore assieme ad Amanda.

«Capitano, non sarebbe meglio che venissimo noi con Lei?»

«Niente affatto. Voi resterete qui a sorvegliare questi civili. Non possiamo lasciarli senza protezione.»

«Ma potrebbe accaderle qualcosa. Avrà bisogno di aiuto» tentò di protestare Amanda

«Anche queste persone» replicò perentorio il Capitano. «Il nostro compito, il vostro compito, è assicurarvi che escano da qui sane e salve.

Questa storia diventa più drammatica ogni giorno che passa, e non posso perdere tempo a tenervi d’occhio».

I due giovani abbassarono lo sguardo come mortificati, e il Capitano quasi subito si rese conto di avere forse ecceduto un po’ troppo.

«Comunque vada, voglio che sappiate che se vi ho scelti per questa missione era perché vi ritenevo pronti per essere considerati dei veri agenti operativi» quindi guardò Klaus. «Anche tu, nonostante tutto».

Gli occhi mesti di Klaus e Amanda si accesero allora di una luce di orgoglio.

«Vi affido questi civili. Io tornerò il prima possibile.»

«Sissignore» risposero i due, in coro e risollevati.

A quel punto, aperta la porta, il Capitano se ne andò assieme a Raoul e Reynar.

 

Joe riuscì a percorrere le poche decine di metri che lo separavano dal suo obiettivo senza farsi praticamente notare dai molti EDA che, nonostante tutto, gli capitò di incontrare scendendo verso i ponti inferiori.

La sua agilità era pari se non superiore a quella di un felino, tanto che fu in grado di passare sotto il naso di un gran numero di mostri senza che questi si accorgessero minimamente della sua presenza, così non ebbe necessità di sparare neppure un colpo.

Su suggerimento di Amanda, che aveva comunicato via radio come avesse fatto ad attraversare indenne metà della nave, percorse l’ultima parte del tragitto scivolando silenzioso nei condotti di areazione, dai quali uscì appena giunto di fronte ad una porta stagna molto più spessa e massiccia di tutte le altre, su cui era ben visibile il cartello che segnalava il pericolo di assenza d’atmosfera.

«La gravità è mantenuta da una barriera» disse Ulrich via radio aprendogli la porta, oltre la quale vi era una piccola stanza di contenimento. «Ma all’interno non c’è atmosfera.

Inoltre il rivestimento della stanza impedisce le comunicazioni radio. Però ho ripristinato gli altoparlanti e i sistemi di videosorveglianza, così potrò guidarti.»

«Ho capito».

Debois materializzò il casco della propria tuta, quindi, tratto un breve respiro, aprì la seconda porta.

L’interno del condotto sembrava quello di un enorme silos, un gigantesco cilindro che scendeva verso il basso intervallato da passerelle corrispondenti ognuna ad un diverso ingresso sui vari ponti che venivano attraversati, collegate l’una all’altra per mezzo di scale ed acensori.

Tramite quel genere di condotti, disposti ad intervalli regolari da poppa a prua, era possibile regolare e stabilizzare l’atmosfera interna; somigliavano a degli enormi sfiatatoi da cui veniva espulsa continuamente l’aria viziata perché fosse sostituita con quella nuova prodotta dai sistemi vitali, inoltre assicuravano la stabilità della struttura garantendo un punto di contatto e di interscambio tra l’atmosfera interna ed il vuoto cosmico.

Sul fondo, la paratia di controllo, aperta sotto la pancia della nave; la barriera magica di emergenza era attiva, ma sotto di essa si poteva scorgere nitidamente la superficie cerulea di Neos, così distante ma, all’occhio, talmente vicina da sembrare a portata di mano.

La situazione appariva calma, e non vi era traccia alcuna di potenziali nemici, eppure Joe non si sentiva al sicuro.

«Il pannello che controlla la porta si trova al livello più basso» disse Ulrich attraverso gli altoparlanti. «Prendi la scala più vicina, scendi fino infondo, gira attorno alla passerella e ci sei.»

Il ragazzo fece come gli era stato detto, avviandosi verso le scale, ma quella sensazione non voleva saperne di lasciarlo in pace.

Ulrich da parte sua aveva notato, grazie alle telecamere, l’atteggiamento sospettoso e guardingo del suo compagno, ma non vi faceva troppo caso, reputando che fosse una cosa normale fare attenzione ad eventuali minacce nonostante all’apparenza non ve ne fossero.

Se non che, all’improvviso, gli parve di notare qualcosa. Un’ombra, o forse solo un riflesso, quasi un’onda fosse passata per un attimo accanto all’obiettivo increspando l’aria circostante.

Dapprincipio pensò di aver visto male, ma poi il fenomeno si ripeté su di un’altra telecamera, e stavolta il fenomeno, qualunque cosa fosse, si verificò abbastanza lentamente da poterlo scorgere con sicurezza.

«Joe, aspetta» si affrettò a dire. «Temo che ci sia qualcuno lì con te».

Era la conferma ai suoi sospetti, e immobilizzatosi a circa metà della discesa Jose fece per mettere mano al fucile, ma Ulrich immediatamente lo fermò.

«Non farlo! La camera è satura di idrogeno! Un colpo e salterà tutto in aria!».

Non era un problema, e per non correre il rischio di agire d’istinto Joe si disfò direttamente dell’arma scaricandola e lasciandola cadere a terra per poi estrarre il machete, la sola e vera arma di un ranger.

Il giovane parve farsi una statua, chiuse gli occhi e stette in attesa, riuscendo nonostante il casco e la tuta che lo isolavano dal mondo esterno a percepire le più piccole vibrazioni nella temperatura, nella pressione e nei movimenti dell’aria.

Chiunque fosse lì dentro intento ad osservarlo doveva essere furbo, molto più furbo dei soliti EDA, movendosi in silenzio e badando bene di non farsi vedere.

Tuttavia, Joe non immaginava neanche lontanamente cosa fosse sul punto di piombargli addosso.

Come un falco che dall’alto di una roccia piomba su di un ignaro pesce, una creatura che non assomigliava a nulla che Joe o Ulrich avessero mai visto saettò sul giovane ranger, il quale tuttavia forte dei propri riflessi rotolò di lato evitando il colpo per un soffio.

Quando poté vedere negli occhi il suo avversario, poi, persino Joe rimase per un attimo interdetto.

Era enorme: almeno due metri e mezzo d’altezza. Il corpo bianco, muscoloso, con alcune venature blu, e una pelle che appariva liscia e soffice come la gomma ma resistente come la pietra; braccia sottili e sproporzionate, tanto che le mani a quattro dita toccavano terra, con una specie di lame ossee affilate come rasoi che dal polso arrivavano fino all’avambraccio; di contro le gambe erano molto grosse, le cosce in particolar modo, e terminavano in un piede da rettile con tre dita, due anteriori e una posteriore, armate ciascuna di un lungo artiglio ricurvo; aveva anche una coda, lunga e carnosa, come lungo era il suo collo, simile a quello di una giraffa, tutto lamellato come una colonna vertebrale, e terminante in una orrenda testa a triangolo rovesciato sormontata da un paio di corna ricurve; del naso aveva solo i fori, gli occhi erano piccoli e neri, e dalla bocca aperta, oltre alla saliva e alla bava, spuntavano quattro minacciose file di denti, due per ogni estremità. Il volto poi era parzialmente nascosto dietro a un vetro, e non occorreva un genio per capire che si trattava di un casco; il corpo doveva essersi gonfiato fino ad inglobare la tuta protettiva che quell’uomo indossava al momento della mutazione, e forse era per questo che la pelle del mostro aveva quella parvenza quasi gommosa.

Joe aveva già visto degli EDA in passato, ma niente che rassomigliasse a ciò che aveva ora davanti, e anche Ulrich rimase di stucco.

«Santo cielo. Sarà come minimo un Classe Cavallo. Joe, vattene da lì!».

Ma Joe non aveva alcuna intenzione di scappare.

Mai voltare le spalle al nemico, soprattutto quando si aveva una missione: questo era ciò che gli era stato insegnato. Così come gli era stato insegnato che nessun avversario era imbattibile, e che da ogni situazione si poteva sempre venire fuori.

L’EDA ringhiò, forse irritato di fronte all’apparente mancanza di paura da parte del suo avversario, quindi lanciato un grido alzò entrambe le braccia menando un colpo violento, anche questo prontamente schivato.

A quel tentativo di assalto ne seguirono altri, alcuni violenti e istintivi altri, all’apparenza, un po’ più ragionati; comunque Joe non si limitò ad evitare gli attacchi, e alla prima occasione riuscì a rispondere affondando con precisione nel torace del mostro, anche se a causa della pelle molto spessa l’affondo non fu così grave da ledere organi vitali.

Ciò nonostante l’EDA accusò pesantemente il colpo, infuriandosi ancora di più, e girato su sé stesso colpì il giovane con un poderoso colpo di coda che lo sparò letteralmente contro il muro dalla parte opposta del condotto. Solo il colpo teoricamente sarebbe bastato a fargli esplodere il torace, senza contare l’urto con la parete che avrebbe dovuto polverizzargli la schiena, ma la tuta in puro exium non serviva solo a proteggere dagli effetti del vuoto spaziale.

Ma si trattava comunque di un colpo tremendo, anche per un soldato temprato dagli allenamenti come Debois, che infatti rantolato sulla passerella metallica impiegò molti preziosi secondi a trovare la forza per rialzarsi.

In questo lasso di tempo l’EDA, come un ragno, aveva preso a correre lungo i muri, quasi avesse avuto delle ventose al posto delle dita, e arrivato di nuovo sopra la sua preda vi si gettò sopra tentando un assalto in picchiata, a cui stavolta Joe sfuggì quasi per miracolo.

Toccando il suolo, gli artigli del mostro produssero alcune scintille, che a causa della presenza dell’idrogeno non ancora filtrato ed espulso dal condotto immediatamente produssero una piccola vampata; fortunatamente si trattò di una cosa di poco conto, e l’EDA cadendoci sopra lo spense col suo stesso corpo.

«Joe, sta attento!» gli ricordò nuovamente Ulrich dopo essersi spaventato come poche altre volte in vita sua. «Se succede di nuovo, potremmo non essere così fortunati! Non dovete provocare scintille!».

Era una parola.

Lui poteva anche controllarsi, ma come si poteva domandare la stessa cosa ad un animale con un briciolo di intelligenza?

Joe guardò in basso, maturando l’unica decisione possibile, e recuperate le forze quel tanto che bastava iniziò a correre in tutte le direzioni per sfuggire ai nuovi, infuriati assalti dell’EDA.

Con il suo machete tranciò e allentò in vari punti alcune delle sbarre della balaustra, stando ben attento a menare fendenti precisi che non provocassero scintille, e raggiunta una buona posizione vi si piazzò aspettando che il nemico cadesse nella trappola.

Come aveva previsto l’EDA abboccò all’amo, caricando a tutta forza; Joe attese fino all’ultimo secondo, fin quando il mostro non gli fu praticamente appresso, quindi lasciò cadere a terra la propria granata stordente, oscurando immediatamente la visiera. In questo modo, benché l’ordigno gli esplose praticamente ai piedi, ne rimase immune, al contrario dell’EDA che invece rimase abbagliato ed intontito.

A quel punto Joe saltò alle spalle dell’avversario, e caricate al massimo le fibre energetiche della tuta originariamente pensate per migliorare le prestazioni atletiche, le utilizzò per assestare al mostro un tremendo calcio con la pianta del piede che lo scaraventò di sotto.

Purtroppo, forse per caso forse per precisa volontà, un attimo prima di precipitare l’EDA avviluppò la punta della coda attorno al piede del giovane, trascinandolo con sé.

«Dannazione!».

Joe riuscì a liberarsi tranciando di netto la coda del mostro, che ringhiò dal dolore mentre ovunque si liberavano getti di sangue violaceo, ma questo non gli impedì di precipitare assieme a lui nel baratro, e visto che la barriera sottostante non era pensata per bloccare i corpi solidi il giovane si ritrovò da un momento all’altro a galleggiare nello spazio fuori dalla nave.

«Oh, merda!» esclamò Ulrich assistendo impotente alla scena.

Solo quando gli riuscì di rimuovere l’oscuramento della visiera Joe riuscì a capire realmente cosa era successo, ma tutto quello che poté vedere fu il vuoto cosmico nel quale era finito, e il Megonia sopra di sé ad un centinaio di metri.

Per fortuna la tuta era pressurizzata e specifica per quel genere di situazioni, ma questo non migliorava lo stato delle cose, senza contare che di quel maledetto EDA non sembrava esservi più traccia.

«Di bene in meglio».

Quella era in assoluto la sua prima esperienza spaziale al di fuori delle stanze di allenamento, e riuscire a mantenersi in equilibrio non era per niente facile. Joe stringeva con forza il pugno attorno al machete, dato che l’istinto gli suggeriva che quella bestiaccia era tutto fuorché sconfitta; quindi, pur sapendo di rischiare seriamente di soffocare, usò parte dell’ossigeno incamerato nella tuta per generare una combustione che, uscendo fuori dalla presa d’aria nella schiena, funzionò come un piccolo propulsore permettendogli di raggiungere nuovamente la nave, alla quale si aggrappò grazie ai magneti installati nelle dita e nelle piante dei piedi.

Per un attimo pensò di avercela fatta, tanto che si guardò intorno per cercare il condotto e ritornare dentro, ma come aveva previsto l’EDA era ancora vivo, e quando meno se lo aspettava gli si scagliò addosso, colpendolo con una poderosa manata per poi correre nuovamente a nascondersi camminando a sua volta sulla fusoliera del Megonia. Joe riuscì a difendersi quasi per miracolo, ma il colpo che ricevette gli fece scivolare via il machete di mano lasciandolo completamente disarmato.

La stessa scena si ripeté un altro paio di volte, e in entrambe le occasioni Joe riportò dei danni piuttosto seri, che non riuscirono per fortuna a perforare la tuta, ma che nonostante ciò riuscirono ad incrinargli qualche costola.

Del resto non era facile combattere a testa in giù, senza contare che l’energia che alimentava i magneti non sarebbe durata per sempre, così come le riserve di ossigeno ormai al minimo sindacale. Ma quell’EDA era come un fantasma, colpiva e scappava prima ancora che Joe potesse vederlo; l’unica era tendergli una nuova trappola, o distrarlo quel tanto che bastava per rientrare e chiuderlo fuori, ma come fare?

Alla ricerca di una soluzione, Joe notò una specie di sfiatatoio dal diametro di neanche un metro, e spalancata per un momento la bocca in un moto di stupore vi si diresse il più velocemente possibile comprendendo di che si trattava. Raggiuntolo, prese a colpirlo violentemente con le nocche metalliche, incrinandone la superficie e facendovi comparire delle strane striature rosse.

Attirato dal rumore come da una campanella, l’EDA emise il suo violento ruggito, e camminando a quattro zampe scivolò lungo la fusoliera pronto a scagliare l’assalto finale.

«E parti, maledetto!» imprecò il giovane continuando a colpire il buco, oltretutto ormai quasi del tutto a corto di aria.

Ma non succedeva nulla, e intanto il mostro si stava avvicinando. Poi, di colpo, lo sfiatatoio divenne rossissimo, e fulmineo Joe si spostò lateralmente, evitando sia l’ennesima artigliata, che stavolta poteva essergli davvero fatale, sia soprattutto una vera e propria eruzione vulcanica che sprigionatasi da un momento all’altro investì in pieno l’EDA, tramutandolo in una torcia.

Centraline di scarico.

Per quanto potessero essere grandi, nessuna batteria o condensatore poteva generare l’energia tale a far muovere un intero vascello spaziale.

Come tutte le astronavi il Megonia usava il krylium, che ridotto in polvere girava ininterrottamente all’interno dei generatori fungendo sia da carburante per i motori sia da fonte di energia per quasi tutti i sistemi della nave, liquefacendosi per via delle altissime temperature cui veniva sottoposto.

Data la sua elevata tossicità la maggior parte del composto così ottenuto veniva espulso attraverso i rotori, ma una parte, dato l’elevato valore energetico ancora presente al suo interno, veniva ridistribuita in una serie di cellette disseminate in tutta la nave, sì da essere utilizzata in caso di emergenza come “propulsori alternativi” per improvvise accelerate o virate repentine.

Bastava uno di quegli sfiatatoi, una fonte di calore posizionata subito prima dell’imboccatura, e dai condotti usciva una vera e propria cascata di plasma rovente, con una temperatura vicina ai 4000 gradi, contro cui non c’era corazza o pelle d’acciaio che potesse resistere.

L’EDA urlò come un dannato, cercando inutilmente di liberarsi dal fuoco che lo aveva avvolto, ma bastarono pochi secondi per fare di lui un carbone ardente che aspettava solo di esalare l’ultimo respiro.

Approfittando del momento Joe fece ricorso a tutte le forze che gli restavano, e messosi anche lui a gattoni scivolò lungo le pareti e la pancia della nave fino a raggiungere il foro da cui era uscito, infilandosi subito dentro.

Ma il suo avversario, per quanto morente, non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare; con la forza della disperazione si riattaccò alla nave, correndo fin quando gli fu possibile incurante del dolore e della sua pelle che, bruciata e incenerita dal fuoco, sotto l’effetto del gelo cosmico, si stava tramutando in pietra, e quando le sue gambe letteralmente si staccarono impedendogli di andare oltre allungò il suo collo flessibile più che poteva.

Joe vide la testa di quel mostro fare capolino da oltre il bordo fin dentro la nave, agitandosi furiosamente come la coda di una lucertola, ed era talmente provato che non riuscì ad impedirgli di travolgerlo buttandolo a terra.

Gli mancava l’aria, ormai quasi del tutto esaurita, e tutto il corpo gli faceva male, e l’EDA da parte sua sembrava intenzionato a investire ogni briciolo di energia che gli restava nel tentativo di ucciderlo.

Il pannello che controllava la botola era lì, a pochi passi. Istintivamente Joe si tolse il casco, e caricato il braccio il più possibile lo scagliò contro il computer centrandolo in pieno; il monitor andò in pezzi, ma la copertura lamellare del condotto si azionò con la forza e la rapidità di una ghigliottina, tranciando di netto la testa dell’EDA e buona parte del suo collo.

A quel punto il resto del corpo, ormai senza vita, si lasciò cadere all’indietro, prendendo a galleggiare ancora fumante e parzialmente pietrificato in direzione di Neos, da cui prima o dopo sarebbe stato probabilmente attratto; quanto alla testa, stranamente, come il resto del corpo non andò in cenere: forse la pietrificazione aveva interessato anche quel misterioso Agente che causava la disgregazione dei tessuti, ma in quel momento Joe non aveva né voglia né tempo per pensarci, preso com’era dall’essere finalmente in grado di respirare di nuovo.

«Paratie chiuse» disse il sistema di controllo. «Pressione stabile. Atmosfera ristabilita.»

«Lo pensavo già Debois, ma ora devo proprio dirtelo» commentò Ulrich. «Hai nove vite come i gatti».

 

Oltre a doversi guardare le spalle respingendo occasionali attacchi da parte di gruppi più o meno grandi di EDA, Vincent e Jacob avevano anche altri problemi da affrontare.

Jacob non aveva l’aria di stare granché bene; anzi, più il tempo passava e più si sentiva uno schifo. Quel maledetto morso rimediato nella prima sparatoria non smetteva di sanguinare, e la pelle tutto attorno gli prudeva da morire, inoltre gli girava la testa e gli bruciavano gli occhi.

«Ti senti bene?» gli domandava continuamente Vincent, sempre più preoccupato

«Sto bene, non preoccuparti» era la sua risposta ogni volta.

Che il morso o la ferita di un’EDA potessero essere settici era un fatto risaputo, e ciò era particolarmente vero nel caso di chi come Jacob non era dotato di poteri magici; le scorie di magia impura che un’EDA si portava dietro erano dure da smaltire per un organismo sano, ma con un po’ di pazienza e qualche medicinale di solito tutto svaniva nel giro di qualche ora.

Intanto, i due agenti erano ormai giunti nell’infermeria, ma l’atmosfera che trovarono nell’avvicinarsi a quella zona era strana e molto inquietante.

In giro, a differenza che in altre parti dello stesso ponte, non si vedeva nessuno, e l’aria era satura di un odore nauseabondo, da putrefazione.

La cosa strana fu che mentre Vincent quasi non riusciva a sopportare quel tremendo fetore Jacob al contrario quasi non lo sentiva, benché avesse il naso perfettamente libero e si fosse sempre fatto vanto di un olfatto piuttosto sviluppato.

«Ecco, ci siamo.» disse Vincent notando la croce sopra l’ingresso della zona dell’infermeria.

Come tutte le altre porte anche quella era robustamente chiusa, ma bastò loro passare la mano sullo scanner per entrare, ma nell’istante in cui le porte si aprirono quell’odore di morte sbuffò verso i due agenti con la potenza di una bomba d’aria, e anche dopo aver varcato la soglia entrambi non riuscirono quasi a credere ai propri occhi.

Non lo si poteva neanche chiamare mattatoio.

Era riduttivo.

Ovunque, nelle cellette, nel corridoio, persino ammucchiati sui letti grondanti di putrescenze ed interiora, erano ammassate centinaia e centinaia di corpi mutilati, sventrati, amputati; alcuni non avevano la testa, altri le braccia, altri ancora erano stati svuotati di tutto il loro contenuto.

La maggior parte, oltre ad essere nuda, portava addosso segni di morsi e di masticamenti, mentre quasi tutti avevano addosso segni evidenti di incisioni chirurgiche, eseguite peraltro da una mano molto esperta.

C’erano tante mosche ed insetti da impestare un’intera città, e il putridume portato da una putrefazione che, nonostante la parvenza ancora abbastanza recente dei cadaveri, appariva in alcuni corpi già piuttosto avanzata faceva annerire e marcire i corpi, soprattutto attorno alle ferite e le menomazioni.

Persino il pavimento era rosso, e reso scivoloso dai litri di sangue e intestini che lo ricoprivano, l’aria era tinta del rosso del sangue che pareva essere persino evaporato, e la luce quasi del tutto assente rendeva quella massa contorta di cadaveri un’immagine degna delle peggiori profondità infernali; sembrava quasi di sentirli ancora gridare, emettendo i loro lamenti.

Uomini. Donne. Bambini. Vecchi. Ce n’erano di tutte le età sesso. Ma la cosa più orrenda era che, a guardarli, non tutti erano, o per meglio dire erano stati, degli EDA. Alcuni erano palesemente degli esseri umani, benché morsi o parzialmente mangiati, ma ciò nonostante erano stati ugualmente mutilati.

«In nome del cielo, ma che diavolo di posto è questo?» disse sconcertato Vincent.

D’un tratto, avviandosi sempre più nel cuore dell’infermeria, i due agenti iniziarono a sentire un rumore metallico, come di una sega circolare, provenire da una stanzetta sul fondo, da cui giungeva inoltre una luce un po’ più forte.

Si avvicinarono, e scostata leggermente la tendina che copriva la porta d’ingresso fecero irruzione all’interno.

Un uomo stava in piedi accanto al tavolo operatorio, il camice da medico rosso da far spavento, e tra le mani una sega circolare con cui stava sezionando un’EDA incatenato e ancora vivo, che si dimenava come un ossesso mentre gli veniva letteralmente aperta la pancia, cercando di mordere il suo carnefice apparentemente insensibile al dolore che doveva arrecargli un tale supplizio.

Accortosi dei due agenti, l’uomo interruppe il suo lavoro, avvicinandosi a loro e abbassandosi la mascherina.

«Ah, siete arrivati. Sapevo che doveva esserci qualcuno. Allora avete ricevuto il mio segnale.»

«Chi accidenti sei tu?» domandò Vincent dopo interminabili secondi di silenzioso sgomento, e seguitando a tenere il fucile puntato

«Dottor Mark Curtis. Sono il dottore responsabile dell’infermeria del Megonia».

Di nuovo i due agenti si guardarono attorno, sempre più sconvolti.

«Che cazzo è successo qui dentro?» ringhiò Jacob con gli occhi rossi.

«Chiedo scusa per questo spettacolo poco piacevole. Quando è incominciato tutto, gli EDA hanno iniziato ad assalire chiunque gli capitasse a tiro, e prima che potessi attivare le misure di emergenza con gli impulsi magici hanno sbranato quasi tutti» quindi il dottore esibì una pistola che portava alla cintura. «Grazie al cielo io avevo questa, e mi sono potuto difendere, ma nel giro di poche ore quei pochi che erano sopravvissuti sono morti anche loro».

I due uomini guardarono l’EDA, che benché sventrato seguitava inspiegabilmente ad agitarsi senza volerne sapere di morire.

«Tranquilli, è paralizzato dal collo in giù. L’ho anche imbottito di anticoagulanti e nitrato di krylium per ritardarne la morte» quindi il dottore si tolse un momento gli occhiali, ansimando. «Ho studiato da coroner, e ho avuto modo di sezionare più di qualche EDA, ma non ho mai visto niente del genere.

Non potete neanche immaginare quello che è successo qui».

Senza dire altro, Jacob puntò l’arma all’EDA facendogli saltare la testa, sconvolgendo il dottore.

«No, che fate? Non avevo ancora finito di analizzarlo! Era l’unico ancora vivo!»

«Non importa se sono mostri. Un tempo erano uomini. Meritano un po’ di dignità.»

«Si fidi, la dignità è l’ultimo dei nostri problemi al momento. Avete ripristinato le comunicazioni, vero?»

«Abbiamo una linea con la superficie. Stanno inviando aiuti».

Il Direttore spalancò gli occhi.

«Allora, dovete mettermi in comunicazione con loro! Subito!

Devo assolutamente parlare con l’alto comando dell’Agenzia!».

 

  
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