9
Gli scossoni si fecero
sempre meno violenti, ma continuarono in ogni caso, e ad ogni nuovo tremolio la
paura appariva sempre di più negli occhi dei civili.
«Drassimovic, rapporto!» strillò il Capitano alla radio. «Ti
spiace dirmi che succede?»
«Quello
che temevo, signore. La nave si è avvicinata troppo a Neos,
e ora la luna ci sta tirando dentro.»
«Come
sarebbe a dire?» chiese Klaus, che poteva sentire a sua volta. «Non ci avevano
detto che ci sarebbe voluto più tempo?»
«È colpa
di quel portello aperto. Scombussola i parametri relativi al mantenimento
dell’atmosfera interna della nave, e così gli stabilizzatori funzionano male».
Georg
digrignò i denti per la rabbia, quindi contattò via radio Joe.
«Debois, mi senti? Abbiamo bisogno del tuo aiuto, e subito.»
«Ci sono
quasi, Capitano.»
«Nel
frattempo, signore, ho localizzato un altro problema. I motori sono andati in
arresto d’emergenza sempre a causa di quel condotto.
Possiamo
far ripartire la nave da qui o dal ponte di comando in qualunque momento, ma è
necessario riavviare le turbine perché la nave possa ripartire.»
«E come
facciamo a riavviarle?»
«Il
computer che controlla il riavvio si trova nella stanza di controllo della sala
motori. È su quel ponte, ma dall’altra parte della nave».
Un
barlume di esitazione offuscò per un momento il volto del Capitano, che si
guardò attorno rivolgendo lo sguardo ora alla folla ora verso i suoi due
allievi.
«Sei in
grado di guidarmi fino a lì?»
«Qui sta
il problema, signore. Le mappe della sala motori e dei settori limitrofi sono
inaccessibili con questo livello di autorizzazione, suppongo per questioni di
sicurezza. Inoltre le analisi termiche e barometriche sono tutte fuori norma, e
quasi nessuna delle telecamere di sicurezza di quella zona sembra funzionare.
Devono esserci stati degli incidenti anche piuttosto seri.
Mi
dispiace, Capitano. Non ho alcuna maniera di poterla guidare».
Georg si
accigliò, cercando di pensare a un’altra possibile soluzione, ma a parte
l’unica che la sua mente aveva partorito fin dal primo momento non gli fu
possibile teorizzarne altre.
Cercando
di ostentare autocontrollo, si avvicinò nuovamente ai superstiti.
«Come vi
ho già detto prima, non ho alcuna intenzione di mentirvi. Questi scossoni che
sentite sono dovuti all’attrazione che Neos ha
iniziato ad esercitare sulla nave».
Minacciò
di scoppiare nuovamente il panico, ma al Capitano bastò un cenno della mano per
riportare subito la calma.
«Non
avete di che preoccuparvi. Un nostro compagno si sta già occupando della
questione, e presto questo imprevisto sarà risolto senza incidenti.
Altri
sono i nostri problemi.
Siamo
riusciti a metterci in contatto con la superficie, e da Kyrador
è già partita una spedizione di soccorso che sarà qui nel giro di poche ore».
Ma così
come aveva intercettato e bloccato la paura, Georg fece lo stesso anche con la
gioia.
«Tuttavia,
perché l’operazione possa avere successo, è necessario riavviare la nave e
condurla fuori dalla zona oscura, e per farlo è necessario riavviare i motori
andati in arresto di emergenza.
Per
questo motivo, ho bisogno di qualcuno che mi faccia da guida fino alla sala
motori, da dove potremo rimuovere l’arresto e far ripartire le turbine» quindi
esitò un momento, riprendendo a parlare dopo qualche secondo. «In altre
circostanze non mi sognerei mai di chiedere una cosa del genere a dei civili,
ma girare a vuoto per tutta la stiva con la speranza di trovare la porta giusta
ci farebbe solo perdere tempo, e più il tempo passa più diminuiscono le
possibilità che possiate uscire tutti sani e salvi da qui.
Sarebbe
preferibile qualcuno che abbia lavorato nella sala motori, ma chiunque conosca
bene questa nave e se la senta di accompagnarmi sarà di grande aiuto a tutti.
Ho
finito».
I
superstiti si guardarono tra di loro, mormorando a bassa voce sotto lo sguardo
attento ed enigmatico del Capitano.
«È
inutile, non lo faranno» mormorò Klaus esternando quello che in realtà
pensavano tutti. «Hanno troppa paura.»
«Come ho
detto, è l’unica alternativa che abbiamo. Nella peggiore delle ipotesi, andremo
noi da soli».
Il
signor Gullit ruppe il silenzio.
«Se non
vi crea problemi farvi accompagnare da uno sciancato,» disse mettendosi
faticosamente in piedi, sorretto da un rudimentale bastone «Posso guidarvi io.
In tutto il Megonia non c’è membro dell’equipaggio
più vecchio di me, e ho passato più tempo a bordo di questa nave che a casa
mia.»
«Aspetti,
signor Gullit» disse Ashley. «Lei è ferito. Non potrebbe mai farcela.»
«Apprezzo
la sua determinazione, ma non è il caso che lei rischi in questo modo» rispose
educatamente il Capitano. «È probabile che là fuori ci sarà da correre, forse
anche da sparare, e la sua vita potrebbe essere in pericolo.»
«Vengo
io!» esclamò di colpo Raoul facendo un passo avanti. «Sono un cameriere, ma
conosco queste stive come pochi altri».
Tutti lo
guardarono, alcuni più sorpresi di altri, ma in Generale non si denotò troppo
stupore negli sguardi degli altri superstiti; Raoul doveva essersi calato molto
bene nei panni del leader per meritare tanta fiducia.
«Un’arma
in più può sempre servire» disse Reynar. «Inoltre,
prima che sindaco e cacciatore sono un ingegnere, e ho lavorato spesso alla
progettazione di sistemi di alimentazione per astronavi. Se arriviamo alla sala
controllo, posso riavviare tutti i sistemi ad occhi chiusi.»
«Potrebbe
essere molto rischioso» li ammonì il Capitano. «Siete sicuri di voler davvero
venire?»
«L’ha
detto lei» rispose Raoul. «Prima sistemiamo questa storia, prima ce ne torniamo
tutti a casa».
Dopo un
nuovo, lungo silenzio interlocutorio, Georg si avvicinò ai due uomini,
poggiando ad entrambi una mano sulla spalla.
«D’accordo,
preparatevi. Prendete un’arma a testa, e tutte le munizioni che riuscite a
portare, ma cercate di tenervi leggeri. È probabile che dovremo strisciare o
arrampicarci, per non parlare delle fughe.»
«Sissignore».
Mentre
Georg ricontrollava per l’ultima volta il proprio fucile e Raoul si faceva
aiutare da Reynar ad aprire la porta, Klaus si
appressò nuovamente al suo superiore assieme ad Amanda.
«Capitano,
non sarebbe meglio che venissimo noi con Lei?»
«Niente
affatto. Voi resterete qui a sorvegliare questi civili. Non possiamo lasciarli
senza protezione.»
«Ma potrebbe
accaderle qualcosa. Avrà bisogno di aiuto» tentò di protestare Amanda
«Anche
queste persone» replicò perentorio il Capitano. «Il nostro compito, il vostro
compito, è assicurarvi che escano da qui sane e salve.
Questa
storia diventa più drammatica ogni giorno che passa, e non posso perdere tempo
a tenervi d’occhio».
I due
giovani abbassarono lo sguardo come mortificati, e il Capitano quasi subito si
rese conto di avere forse ecceduto un po’ troppo.
«Comunque
vada, voglio che sappiate che se vi ho scelti per questa missione era perché vi
ritenevo pronti per essere considerati dei veri agenti operativi» quindi guardò
Klaus. «Anche tu, nonostante tutto».
Gli
occhi mesti di Klaus e Amanda si accesero allora di una luce di orgoglio.
«Vi
affido questi civili. Io tornerò il prima possibile.»
«Sissignore»
risposero i due, in coro e risollevati.
A quel
punto, aperta la porta, il Capitano se ne andò assieme a Raoul e Reynar.
Joe riuscì a percorrere le
poche decine di metri che lo separavano dal suo obiettivo senza farsi
praticamente notare dai molti EDA che, nonostante tutto, gli capitò di
incontrare scendendo verso i ponti inferiori.
La sua
agilità era pari se non superiore a quella di un felino, tanto che fu in grado
di passare sotto il naso di un gran numero di mostri senza che questi si
accorgessero minimamente della sua presenza, così non ebbe necessità di sparare
neppure un colpo.
Su
suggerimento di Amanda, che aveva comunicato via radio come avesse fatto ad
attraversare indenne metà della nave, percorse l’ultima parte del tragitto
scivolando silenzioso nei condotti di areazione, dai quali uscì appena giunto
di fronte ad una porta stagna molto più spessa e massiccia di tutte le altre,
su cui era ben visibile il cartello che segnalava il pericolo di assenza d’atmosfera.
«La
gravità è mantenuta da una barriera» disse Ulrich via
radio aprendogli la porta, oltre la quale vi era una piccola stanza di
contenimento. «Ma all’interno non c’è atmosfera.
Inoltre
il rivestimento della stanza impedisce le comunicazioni radio. Però ho
ripristinato gli altoparlanti e i sistemi di videosorveglianza, così potrò
guidarti.»
«Ho
capito».
Debois
materializzò il casco della propria tuta, quindi, tratto un breve respiro, aprì
la seconda porta.
L’interno del condotto sembrava quello di un enorme silos, un gigantesco cilindro che scendeva verso il basso intervallato da passerelle corrispondenti ognuna ad un diverso ingresso sui vari ponti che venivano attraversati, collegate l’una all’altra per mezzo di scale ed acensori.
Tramite quel genere di condotti, disposti ad intervalli regolari da poppa a prua, era possibile regolare e stabilizzare l’atmosfera interna; somigliavano a degli enormi sfiatatoi da cui veniva espulsa continuamente l’aria viziata perché fosse sostituita con quella nuova prodotta dai sistemi vitali, inoltre assicuravano la stabilità della struttura garantendo un punto di contatto e di interscambio tra l’atmosfera interna ed il vuoto cosmico.
Sul fondo, la paratia di controllo, aperta sotto la pancia della nave; la barriera magica di emergenza era attiva, ma sotto di essa si poteva scorgere nitidamente la superficie cerulea di Neos, così distante ma, all’occhio, talmente vicina da sembrare a portata di mano.
La situazione appariva calma, e non vi era traccia alcuna di potenziali nemici, eppure Joe non si sentiva al sicuro.
«Il pannello che controlla la porta si trova al livello più basso» disse Ulrich attraverso gli altoparlanti. «Prendi la scala più vicina, scendi fino infondo, gira attorno alla passerella e ci sei.»
Il ragazzo
fece come gli era stato detto, avviandosi verso le scale, ma quella sensazione
non voleva saperne di lasciarlo in pace.
Ulrich da
parte sua aveva notato, grazie alle telecamere, l’atteggiamento sospettoso e
guardingo del suo compagno, ma non vi faceva troppo caso, reputando che fosse
una cosa normale fare attenzione ad eventuali minacce nonostante all’apparenza
non ve ne fossero.
Se non
che, all’improvviso, gli parve di notare qualcosa. Un’ombra, o forse solo un
riflesso, quasi un’onda fosse passata per un attimo accanto all’obiettivo
increspando l’aria circostante.
Dapprincipio
pensò di aver visto male, ma poi il fenomeno si ripeté su di un’altra
telecamera, e stavolta il fenomeno, qualunque cosa fosse, si verificò
abbastanza lentamente da poterlo scorgere con sicurezza.
«Joe,
aspetta» si affrettò a dire. «Temo che ci sia qualcuno lì con te».
Era la
conferma ai suoi sospetti, e immobilizzatosi a circa metà della discesa Jose
fece per mettere mano al fucile, ma Ulrich
immediatamente lo fermò.
«Non farlo!
La camera è satura di idrogeno! Un colpo e salterà tutto in aria!».
Non era
un problema, e per non correre il rischio di agire d’istinto Joe si disfò
direttamente dell’arma scaricandola e lasciandola cadere a terra per poi
estrarre il machete, la sola e vera arma di un ranger.
Il
giovane parve farsi una statua, chiuse gli occhi e stette in attesa, riuscendo
nonostante il casco e la tuta che lo isolavano dal mondo esterno a percepire le
più piccole vibrazioni nella temperatura, nella pressione e nei movimenti
dell’aria.
Chiunque
fosse lì dentro intento ad osservarlo doveva essere furbo, molto più furbo dei
soliti EDA, movendosi in silenzio e badando bene di non farsi vedere.
Tuttavia,
Joe non immaginava neanche lontanamente cosa fosse sul punto di piombargli
addosso.
Come un
falco che dall’alto di una roccia piomba su di un ignaro pesce, una creatura che
non assomigliava a nulla che Joe o Ulrich avessero
mai visto saettò sul giovane ranger, il quale tuttavia forte dei propri
riflessi rotolò di lato evitando il colpo per un soffio.
Quando
poté vedere negli occhi il suo avversario, poi, persino Joe rimase per un
attimo interdetto.
Era
enorme: almeno due metri e mezzo d’altezza. Il corpo bianco, muscoloso, con
alcune venature blu, e una pelle che appariva liscia e soffice come la gomma ma
resistente come la pietra; braccia sottili e sproporzionate, tanto che le mani
a quattro dita toccavano terra, con una specie di lame ossee affilate come
rasoi che dal polso arrivavano fino all’avambraccio; di contro le gambe erano
molto grosse, le cosce in particolar modo, e terminavano in un piede da rettile
con tre dita, due anteriori e una posteriore, armate ciascuna di un lungo
artiglio ricurvo; aveva anche una coda, lunga e carnosa, come lungo era il suo
collo, simile a quello di una giraffa, tutto lamellato come una colonna
vertebrale, e terminante in una orrenda testa a triangolo rovesciato sormontata
da un paio di corna ricurve; del naso aveva solo i fori, gli occhi erano
piccoli e neri, e dalla bocca aperta, oltre alla saliva e alla bava, spuntavano
quattro minacciose file di denti, due per ogni estremità. Il volto poi era
parzialmente nascosto dietro a un vetro, e non occorreva un genio per capire
che si trattava di un casco; il corpo doveva essersi gonfiato fino ad inglobare
la tuta protettiva che quell’uomo indossava al momento della mutazione, e forse
era per questo che la pelle del mostro aveva quella parvenza quasi gommosa.
Joe
aveva già visto degli EDA in passato, ma niente che rassomigliasse a ciò che
aveva ora davanti, e anche Ulrich rimase di stucco.
«Santo
cielo. Sarà come minimo un Classe Cavallo. Joe, vattene da lì!».
Ma Joe
non aveva alcuna intenzione di scappare.
Mai
voltare le spalle al nemico, soprattutto quando si aveva una missione: questo
era ciò che gli era stato insegnato. Così come gli era stato insegnato che
nessun avversario era imbattibile, e che da ogni situazione si poteva sempre
venire fuori.
L’EDA
ringhiò, forse irritato di fronte all’apparente mancanza di paura da parte del
suo avversario, quindi lanciato un grido alzò entrambe le braccia menando un
colpo violento, anche questo prontamente schivato.
A quel
tentativo di assalto ne seguirono altri, alcuni violenti e istintivi altri,
all’apparenza, un po’ più ragionati; comunque Joe non si limitò ad evitare gli
attacchi, e alla prima occasione riuscì a rispondere affondando con precisione
nel torace del mostro, anche se a causa della pelle molto spessa l’affondo non
fu così grave da ledere organi vitali.
Ciò
nonostante l’EDA accusò pesantemente il colpo, infuriandosi ancora di più, e
girato su sé stesso colpì il giovane con un poderoso colpo di coda che lo sparò
letteralmente contro il muro dalla parte opposta del condotto. Solo il colpo
teoricamente sarebbe bastato a fargli esplodere il torace, senza contare l’urto
con la parete che avrebbe dovuto polverizzargli la schiena, ma la tuta in puro exium non serviva solo a proteggere dagli effetti del vuoto
spaziale.
Ma si
trattava comunque di un colpo tremendo, anche per un soldato temprato dagli
allenamenti come Debois, che infatti rantolato sulla
passerella metallica impiegò molti preziosi secondi a trovare la forza per
rialzarsi.
In
questo lasso di tempo l’EDA, come un ragno, aveva preso a correre lungo i muri,
quasi avesse avuto delle ventose al posto delle dita, e arrivato di nuovo sopra
la sua preda vi si gettò sopra tentando un assalto in picchiata, a cui stavolta
Joe sfuggì quasi per miracolo.
Toccando
il suolo, gli artigli del mostro produssero alcune scintille, che a causa della
presenza dell’idrogeno non ancora filtrato ed espulso dal condotto
immediatamente produssero una piccola vampata; fortunatamente si trattò di una
cosa di poco conto, e l’EDA cadendoci sopra lo spense col suo stesso corpo.
«Joe,
sta attento!» gli ricordò nuovamente Ulrich dopo essersi
spaventato come poche altre volte in vita sua. «Se succede di nuovo, potremmo
non essere così fortunati! Non dovete provocare scintille!».
Era una
parola.
Lui
poteva anche controllarsi, ma come si poteva domandare la stessa cosa ad un
animale con un briciolo di intelligenza?
Joe
guardò in basso, maturando l’unica decisione possibile, e recuperate le forze
quel tanto che bastava iniziò a correre in tutte le direzioni per sfuggire ai
nuovi, infuriati assalti dell’EDA.
Con il
suo machete tranciò e allentò in vari punti alcune delle sbarre della
balaustra, stando ben attento a menare fendenti precisi che non provocassero
scintille, e raggiunta una buona posizione vi si piazzò aspettando che il
nemico cadesse nella trappola.
Come
aveva previsto l’EDA abboccò all’amo, caricando a tutta forza; Joe attese fino
all’ultimo secondo, fin quando il mostro non gli fu praticamente appresso,
quindi lasciò cadere a terra la propria granata stordente, oscurando immediatamente
la visiera. In questo modo, benché l’ordigno gli esplose praticamente ai piedi,
ne rimase immune, al contrario dell’EDA che invece rimase abbagliato ed
intontito.
A quel
punto Joe saltò alle spalle dell’avversario, e caricate al massimo le fibre
energetiche della tuta originariamente pensate per migliorare le prestazioni
atletiche, le utilizzò per assestare al mostro un tremendo calcio con la pianta
del piede che lo scaraventò di sotto.
Purtroppo,
forse per caso forse per precisa volontà, un attimo prima di precipitare l’EDA
avviluppò la punta della coda attorno al piede del giovane, trascinandolo con
sé.
«Dannazione!».
Joe
riuscì a liberarsi tranciando di netto la coda del mostro, che ringhiò dal
dolore mentre ovunque si liberavano getti di sangue violaceo, ma questo non gli
impedì di precipitare assieme a lui nel baratro, e visto che la barriera
sottostante non era pensata per bloccare i corpi solidi il giovane si ritrovò
da un momento all’altro a galleggiare nello spazio fuori dalla nave.
«Oh, merda!»
esclamò Ulrich assistendo impotente alla scena.
Solo
quando gli riuscì di rimuovere l’oscuramento della visiera Joe riuscì a capire
realmente cosa era successo, ma tutto quello che poté vedere fu il vuoto
cosmico nel quale era finito, e il Megonia sopra di
sé ad un centinaio di metri.
Per
fortuna la tuta era pressurizzata e specifica per quel genere di situazioni, ma
questo non migliorava lo stato delle cose, senza contare che di quel maledetto
EDA non sembrava esservi più traccia.
«Di bene
in meglio».
Quella
era in assoluto la sua prima esperienza spaziale al di fuori delle stanze di
allenamento, e riuscire a mantenersi in equilibrio non era per niente facile.
Joe stringeva con forza il pugno attorno al machete, dato che l’istinto gli
suggeriva che quella bestiaccia era tutto fuorché sconfitta; quindi, pur
sapendo di rischiare seriamente di soffocare, usò parte dell’ossigeno
incamerato nella tuta per generare una combustione che, uscendo fuori dalla
presa d’aria nella schiena, funzionò come un piccolo propulsore permettendogli
di raggiungere nuovamente la nave, alla quale si aggrappò grazie ai magneti
installati nelle dita e nelle piante dei piedi.
Per un
attimo pensò di avercela fatta, tanto che si guardò intorno per cercare il
condotto e ritornare dentro, ma come aveva previsto l’EDA era ancora vivo, e
quando meno se lo aspettava gli si scagliò addosso, colpendolo con una poderosa
manata per poi correre nuovamente a nascondersi camminando a sua volta sulla
fusoliera del Megonia. Joe riuscì a difendersi quasi
per miracolo, ma il colpo che ricevette gli fece scivolare via il machete di
mano lasciandolo completamente disarmato.
La
stessa scena si ripeté un altro paio di volte, e in entrambe le occasioni Joe
riportò dei danni piuttosto seri, che non riuscirono per fortuna a perforare la
tuta, ma che nonostante ciò riuscirono ad incrinargli qualche costola.
Del
resto non era facile combattere a testa in giù, senza contare che l’energia che
alimentava i magneti non sarebbe durata per sempre, così come le riserve di
ossigeno ormai al minimo sindacale. Ma quell’EDA era come un fantasma, colpiva
e scappava prima ancora che Joe potesse vederlo; l’unica era tendergli una
nuova trappola, o distrarlo quel tanto che bastava per rientrare e chiuderlo
fuori, ma come fare?
Alla
ricerca di una soluzione, Joe notò una specie di sfiatatoio dal diametro di
neanche un metro, e spalancata per un momento la bocca in un moto di stupore vi
si diresse il più velocemente possibile comprendendo di che si trattava.
Raggiuntolo, prese a colpirlo violentemente con le nocche metalliche,
incrinandone la superficie e facendovi comparire delle strane striature rosse.
Attirato
dal rumore come da una campanella, l’EDA emise il suo violento ruggito, e
camminando a quattro zampe scivolò lungo la fusoliera pronto a scagliare
l’assalto finale.
«E
parti, maledetto!» imprecò il giovane continuando a colpire il buco, oltretutto
ormai quasi del tutto a corto di aria.
Ma non
succedeva nulla, e intanto il mostro si stava avvicinando. Poi, di colpo, lo sfiatatoio
divenne rossissimo, e fulmineo Joe si spostò lateralmente, evitando sia
l’ennesima artigliata, che stavolta poteva essergli davvero fatale, sia
soprattutto una vera e propria eruzione vulcanica che sprigionatasi da un
momento all’altro investì in pieno l’EDA, tramutandolo in una torcia.
Centraline
di scarico.
Per
quanto potessero essere grandi, nessuna batteria o condensatore poteva generare
l’energia tale a far muovere un intero vascello spaziale.
Come
tutte le astronavi il Megonia usava il krylium, che ridotto in polvere girava ininterrottamente
all’interno dei generatori fungendo sia da carburante per i motori sia da fonte
di energia per quasi tutti i sistemi della nave, liquefacendosi per via delle
altissime temperature cui veniva sottoposto.
Data la
sua elevata tossicità la maggior parte del composto così ottenuto veniva
espulso attraverso i rotori, ma una parte, dato l’elevato valore energetico
ancora presente al suo interno, veniva ridistribuita in una serie di cellette
disseminate in tutta la nave, sì da essere utilizzata in caso di emergenza come
“propulsori alternativi” per improvvise accelerate o virate repentine.
Bastava
uno di quegli sfiatatoi, una fonte di calore posizionata subito prima
dell’imboccatura, e dai condotti usciva una vera e propria cascata di plasma
rovente, con una temperatura vicina ai 4000 gradi, contro cui non c’era corazza
o pelle d’acciaio che potesse resistere.
L’EDA
urlò come un dannato, cercando inutilmente di liberarsi dal fuoco che lo aveva
avvolto, ma bastarono pochi secondi per fare di lui un carbone ardente che
aspettava solo di esalare l’ultimo respiro.
Approfittando
del momento Joe fece ricorso a tutte le forze che gli restavano, e messosi
anche lui a gattoni scivolò lungo le pareti e la pancia della nave fino a
raggiungere il foro da cui era uscito, infilandosi subito dentro.
Ma il
suo avversario, per quanto morente, non aveva alcuna intenzione di lasciarlo
scappare; con la forza della disperazione si riattaccò alla nave, correndo fin
quando gli fu possibile incurante del dolore e della sua pelle che, bruciata e
incenerita dal fuoco, sotto l’effetto del gelo cosmico, si stava tramutando in
pietra, e quando le sue gambe letteralmente si staccarono impedendogli di
andare oltre allungò il suo collo flessibile più che poteva.
Joe vide
la testa di quel mostro fare capolino da oltre il bordo fin dentro la nave,
agitandosi furiosamente come la coda di una lucertola, ed era talmente provato
che non riuscì ad impedirgli di travolgerlo buttandolo a terra.
Gli
mancava l’aria, ormai quasi del tutto esaurita, e tutto il corpo gli faceva
male, e l’EDA da parte sua sembrava intenzionato a investire ogni briciolo di
energia che gli restava nel tentativo di ucciderlo.
Il
pannello che controllava la botola era lì, a pochi passi. Istintivamente Joe si
tolse il casco, e caricato il braccio il più possibile lo scagliò contro il
computer centrandolo in pieno; il monitor andò in pezzi, ma la copertura
lamellare del condotto si azionò con la forza e la rapidità di una
ghigliottina, tranciando di netto la testa dell’EDA e buona parte del suo
collo.
A quel
punto il resto del corpo, ormai senza vita, si lasciò cadere all’indietro,
prendendo a galleggiare ancora fumante e parzialmente pietrificato in direzione
di Neos, da cui prima o dopo sarebbe stato
probabilmente attratto; quanto alla testa, stranamente, come il resto del corpo
non andò in cenere: forse la pietrificazione aveva interessato anche quel
misterioso Agente che causava la disgregazione dei tessuti, ma in quel momento
Joe non aveva né voglia né tempo per pensarci, preso com’era dall’essere
finalmente in grado di respirare di nuovo.
«Paratie
chiuse» disse il sistema di controllo. «Pressione stabile. Atmosfera ristabilita.»
«Lo
pensavo già Debois, ma ora devo proprio dirtelo» commentò
Ulrich. «Hai nove vite come i gatti».
Oltre a doversi guardare le
spalle respingendo occasionali attacchi da parte di gruppi più o meno grandi di
EDA, Vincent e Jacob avevano anche altri problemi da affrontare.
Jacob
non aveva l’aria di stare granché bene; anzi, più il tempo passava e più si
sentiva uno schifo. Quel maledetto morso rimediato nella prima sparatoria non
smetteva di sanguinare, e la pelle tutto attorno gli prudeva da morire, inoltre
gli girava la testa e gli bruciavano gli occhi.
«Ti senti
bene?» gli domandava continuamente Vincent, sempre più preoccupato
«Sto
bene, non preoccuparti» era la sua risposta ogni volta.
Che il
morso o la ferita di un’EDA potessero essere settici era un fatto risaputo, e
ciò era particolarmente vero nel caso di chi come Jacob non era dotato di
poteri magici; le scorie di magia impura che un’EDA si portava dietro erano
dure da smaltire per un organismo sano, ma con un po’ di pazienza e qualche
medicinale di solito tutto svaniva nel giro di qualche ora.
Intanto,
i due agenti erano ormai giunti nell’infermeria, ma l’atmosfera che trovarono
nell’avvicinarsi a quella zona era strana e molto inquietante.
In giro,
a differenza che in altre parti dello stesso ponte, non si vedeva nessuno, e
l’aria era satura di un odore nauseabondo, da putrefazione.
La cosa
strana fu che mentre Vincent quasi non riusciva a sopportare quel tremendo
fetore Jacob al contrario quasi non lo sentiva, benché avesse il naso
perfettamente libero e si fosse sempre fatto vanto di un olfatto piuttosto
sviluppato.
«Ecco,
ci siamo.» disse Vincent notando la croce sopra l’ingresso della zona
dell’infermeria.
Come
tutte le altre porte anche quella era robustamente chiusa, ma bastò loro
passare la mano sullo scanner per entrare, ma nell’istante in cui le porte si
aprirono quell’odore di morte sbuffò verso i due agenti con la potenza di una
bomba d’aria, e anche dopo aver varcato la soglia entrambi non riuscirono quasi
a credere ai propri occhi.
Non lo
si poteva neanche chiamare mattatoio.
Era
riduttivo.
Ovunque,
nelle cellette, nel corridoio, persino ammucchiati sui letti grondanti di
putrescenze ed interiora, erano ammassate centinaia e centinaia di corpi
mutilati, sventrati, amputati; alcuni non avevano la testa, altri le braccia,
altri ancora erano stati svuotati di tutto il loro contenuto.
La
maggior parte, oltre ad essere nuda, portava addosso segni di morsi e di
masticamenti, mentre quasi tutti avevano addosso segni evidenti di incisioni
chirurgiche, eseguite peraltro da una mano molto esperta.
C’erano
tante mosche ed insetti da impestare un’intera città, e il putridume portato da
una putrefazione che, nonostante la parvenza ancora abbastanza recente dei
cadaveri, appariva in alcuni corpi già piuttosto avanzata faceva annerire e
marcire i corpi, soprattutto attorno alle ferite e le menomazioni.
Persino
il pavimento era rosso, e reso scivoloso dai litri di sangue e intestini che lo
ricoprivano, l’aria era tinta del rosso del sangue che pareva essere persino
evaporato, e la luce quasi del tutto assente rendeva quella massa contorta di
cadaveri un’immagine degna delle peggiori profondità infernali; sembrava quasi
di sentirli ancora gridare, emettendo i loro lamenti.
Uomini.
Donne. Bambini. Vecchi. Ce n’erano di tutte le età sesso. Ma la cosa più
orrenda era che, a guardarli, non tutti erano, o per meglio dire erano stati,
degli EDA. Alcuni erano palesemente degli esseri umani, benché morsi o
parzialmente mangiati, ma ciò nonostante erano stati ugualmente mutilati.
«In nome
del cielo, ma che diavolo di posto è questo?» disse sconcertato Vincent.
D’un
tratto, avviandosi sempre più nel cuore dell’infermeria, i due agenti
iniziarono a sentire un rumore metallico, come di una sega circolare, provenire
da una stanzetta sul fondo, da cui giungeva inoltre una luce un po’ più forte.
Si
avvicinarono, e scostata leggermente la tendina che copriva la porta d’ingresso
fecero irruzione all’interno.
Un uomo
stava in piedi accanto al tavolo operatorio, il camice da medico rosso da far
spavento, e tra le mani una sega circolare con cui stava sezionando un’EDA
incatenato e ancora vivo, che si dimenava come un ossesso mentre gli veniva
letteralmente aperta la pancia, cercando di mordere il suo carnefice
apparentemente insensibile al dolore che doveva arrecargli un tale supplizio.
Accortosi
dei due agenti, l’uomo interruppe il suo lavoro, avvicinandosi a loro e
abbassandosi la mascherina.
«Ah,
siete arrivati. Sapevo che doveva esserci qualcuno. Allora avete ricevuto il
mio segnale.»
«Chi
accidenti sei tu?» domandò Vincent dopo interminabili secondi di silenzioso
sgomento, e seguitando a tenere il fucile puntato
«Dottor
Mark Curtis. Sono il dottore responsabile dell’infermeria del Megonia».
Di nuovo
i due agenti si guardarono attorno, sempre più sconvolti.
«Che
cazzo è successo qui dentro?» ringhiò Jacob con gli occhi rossi.
«Chiedo
scusa per questo spettacolo poco piacevole. Quando è incominciato tutto, gli
EDA hanno iniziato ad assalire chiunque gli capitasse a tiro, e prima che
potessi attivare le misure di emergenza con gli impulsi magici hanno sbranato
quasi tutti» quindi il dottore esibì una pistola che portava alla cintura.
«Grazie al cielo io avevo questa, e mi sono potuto difendere, ma nel giro di
poche ore quei pochi che erano sopravvissuti sono morti anche loro».
I due
uomini guardarono l’EDA, che benché sventrato seguitava inspiegabilmente ad
agitarsi senza volerne sapere di morire.
«Tranquilli,
è paralizzato dal collo in giù. L’ho anche imbottito di anticoagulanti e
nitrato di krylium per ritardarne la morte» quindi il
dottore si tolse un momento gli occhiali, ansimando. «Ho studiato da coroner, e
ho avuto modo di sezionare più di qualche EDA, ma non ho mai visto niente del
genere.
Non
potete neanche immaginare quello che è successo qui».
Senza
dire altro, Jacob puntò l’arma all’EDA facendogli saltare la testa,
sconvolgendo il dottore.
«No, che
fate? Non avevo ancora finito di analizzarlo! Era l’unico ancora vivo!»
«Non
importa se sono mostri. Un tempo erano uomini. Meritano un po’ di dignità.»
«Si
fidi, la dignità è l’ultimo dei nostri problemi al momento. Avete ripristinato
le comunicazioni, vero?»
«Abbiamo
una linea con la superficie. Stanno inviando aiuti».
Il Direttore
spalancò gli occhi.
«Allora,
dovete mettermi in comunicazione con loro! Subito!
Devo
assolutamente parlare con l’alto comando dell’Agenzia!».