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Autore: Rain_Flames    14/06/2014    10 recensioni
Telling songs è una raccolta di storie scritte, partendo da una canzone.
Ho già scelto alcune canzoni, da raccontare e farvi amare (spero), ma sarei molto felice di scrivere anche in base alle vostre proposte.
Per iniziare ho scelto L'unica, dei Perturbazione e il motivo è molto semplice, grazie a una sola canzone posso raccontare ben cinque storie diverse, ma comunque intrecciate fra loro, per qualche particolare.
Naturalmente tutte leggibili separatamente.
Non saranno tutte storie d'amore, dipenderà molto dalla canzone in se.
Il rating è relativo, ho messo arancione perché va bene per tutto e per niente, ma ogni capitolo avrà un suo rating, che segnalerò con il colore vicino al titolo.
Vi lascio alla lettura, e spero di ricevere presto vostre proposte.
Un bacione, Rain
Lista canzoni:
1. L'unica - Perturbazione (5 one-shot, 1 per ragazza)
2. Logico#1 - Cesare Cremonini
3. Sober - P!nk
4. ???
Genere: Generale, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon, Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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L'unica – Perturbazione - Monica
Tematiche delicate, se siete persone sensibili, si sconsiglia la lettura.
 
Monica - L'unica - Banner
 

Monica, confetti e musica
un tatuaggio che ora anch’io so dove sta
la messa è già finita
tu ti sei rivestita
e siamo gli ultimi invitati ad andare via


 

Quanto avevo aspettato questo giorno?

Mesi... mesi che avevo contato con pazienza e aspettativa crescente.

Finalmente era arrivato.

«Giovedì, 17 luglio 2014, ore 20:00, Théâtre antique de Vienne, Vienne, Francia» - lessi nuovamente sul biglietto che avevo tra le mani.

C'ero appena arrivato a Vienne, così lontano dalla mia Roma, ma nonostante questo mi sentivo a casa. E non era solo per l'architettura – essendo stata una colonia romana, tutto mi sembrava familiare – ma anche perché, con me, c'erano i miei migliori amici.

Siamo partiti in gruppo il pomeriggio precedente, e con il treno notte avevamo raggiunto la città al mattino. Io, il mio migliore amico Davide, mia sorella Sara, Sofia un'amica comune e Roberto il suo ragazzo. Tutti innamorati della vita. Tutti innamorati della musica.

Questa trasferta era stata pensata, desiderata e sognata da ognuno di noi, in maniera differente, ma con la stessa intensità, ed essere qui oggi, significava davvero tantissimo.

 

Il gruppo che siamo venuti ad ascoltare sono i Thirty Seconds to Mars, e noi siamo Echelon praticamente da sempre. Da quando ho sentito i primi accordi di “From Yesterday”.

Essere Echelon è molto di più che essere fan. E' uno stile di vita, un pensiero, una religione quasi.

 

No. Non mi considero un esaltato, ma probabilmente ho trovato nella loro ideologia e nella loro musica più risposte di quante, mia zia Cinzia, abbia mai provato ad inculcarmi con il suo catechismo.

Sono stato battezzato, – e non l'ho di certo scelto io, non ne avevo le facoltà – sono stato cresciuto da buon Cristiano, e non ho niente contro “Dio”, o il Papa, o la Chiesa, semplicemente non ho mai trovato le risposte che cercavo.

Perché le ho cercate, dico sul serio.

Non era la prima volta che andavo in Francia: per ben due anni di seguito, dall'estate dei miei sedici anni, ho prestato volontariato a Lourdes.

 

In quel periodo ero perso, mi sentivo... smarrito, inutile, incompleto. La separazione dei miei, il suicidio di Giacomo, un mio amico d'infanzia, e la sensazione che il suo gesto, per quanto terrificante fosse pensarlo, era la soluzione più facile.

Ma fortunatamente, il mio periodo di autodistruzione si era concluso velocemente. Era sta mia sorella Sara, a salvarmi dal baratro. Ha un anno in meno di me, ma è sempre stata più sveglia e attenta nel guardare il mondo. Non pensate che sia un pazzo, perché sfido chiunque a negare di non aver pensato, seriamente, almeno una volta, almeno per un secondo, al suicidio.

Fa parte della natura umana, essere inclini all'autodistruzione, così come quello di essere bestie dagli istinti primitivi.

Di generazione in generazione solo i più forti sopravvivono, e anche le fiere si sono dovute chetare e sottostare alle regole della società. Ma qualche volta, qualcuno si ribella, e l'istinto della caccia torna prepotentemente nella loro carne, ne conseguono omicidi, stupri e violenze.

Siamo ancora lontani dal poterci considerare una civiltà evoluta, anche perché sembra tutto girare intorno al vile denaro.

 

Ecco.

Anche questo mi aveva colpito molto, a Lourdes.

All'interno delle mura, che circondavano il perimetro “sacro”, regnava un silenzio quasi surreale.

Si poteva toccare la fede lì dentro. Quella vera, quella che per me, non aveva ancora trovato il nome in una religione. Qualcosa di sicuro, che mi desse la forza di andare avanti, di guardare il futuro e smettere di pensare al mio passato.

Però lì l'avevo vista, la fede, quella che cercavo, ma che non mi era stata concessa. La vedevo sui volti dei malati, negli occhi dei bambini e degli anziani, sulla roccia che circondava la grotta, levigata dal tocco di chissà quanti milioni di fedeli.

Era decisamente suggestivo, vedere la pietra frastagliata e pungente lungo tutte le pareti, e ritrovarla poi liscia, scivolosa, carezzevole nei tratti in cui i pellegrini riuscivano ad arrivare con le mani.

Mi ero ritrovato a pensare seriamente a cosa muovesse così tante persone. Infondo anch'io ero lì, ed ero lì per il volontariato. Per fare qualcosa di buono nella vita, fosse anche solo per regalare un sorriso ad uno sconosciuto.

La fede a mio parere, prescinde da Dio, Allah, Buddah o chiunque altro, ed è qualcosa che hai o non hai. Non si compra, non si scambia e non si impara. Al massimo si scopre.

 

Ma era il comprare, il problema, perché una volta usciti dai cancelli dorati della cittadina, si veniva fagocitati da bancarelle e negozi. Con il tempo, i commercianti hanno imparato tutte le lingue, e stanno li a guardarti nella speranza di venderti santini, rosari, contenitori per l'acqua e chi più ne ha più ne metta.

Ero disgustato perché se da una parte si respirava solidarietà e sacralità, a meno di cinque metri, avresti trovato qualcuno disposto a vendere la propria madre per profitto.

Io non sono un Santo, ma ho le mie idee, e questo di certo non rientrava nel mio concetto di religione.

 

Perciò con il tempo e soprattutto grazie all'ultima opera dei Thirty Seconds To Mars, sono riuscito a venire a patti con me stesso, e ho creato la mia Fede, il mio Credo.

«All we need is faith. Faith is all we need» - canta Jared, in Love Lust Faith + Dreams, il loro ultimo album, e io so quanto quelle parole siano vere e incise sulla mia pelle, come tante piccole cicatrici ormai pallide.

Provavo vergogna per il mio passato?

Si, certo.

Ma facevo come il resto del mondo. Tutti seppelliscono scheletri dentro gli armadi, o imbucano la polvere sotto i tappeti. Io semplicemente nascondevo sotto dei braccialetti di cuoio tutta la mia umanità, tutta la mia paura... tutto il mio egoismo.

 

Si perché dopo notti insonni, e lunghe chiacchierate a tu per tu con la mia coscienza, avevo capito che ero solo un grande egoista.

Per lo più molti di quelli che si suicidano lo sono. So che è brutto da dire, ma è così.

Perché il dolore e l'angoscia rimane a chi resta. E' troppo facile scrollarsi così le proprie responsabilità di dosso. Ok, forse “facile” non è la parola giusta. C'è un mondo dietro quella moltitudine di pensieri che tanti, non posso neanche immaginare. Ma io l'ho vissuto. L'ho sentito. E ho capito. Ho capito che era una scorciatoia. Un'inutile scorciatoia. E Sara questo me lo aveva fatto capire fin troppo bene.

Io ero solo un egoista, perché infondo non mi mancava niente.

Avevo una famiglia che mi amava alla follia ma ero cieco e non riuscivo ad apprezzarla. Ero un ingrato. Un ingrato ed egoista. Uno stronzo, ingrato ed egoista!

La mia era una depressione, cosa che capita a tanti, e ammettono in pochi. Sarebbe bastato anche solo parlarne con mia madre, o convincermi ad andare da uno specialista, per uscirne in poco tempo. E invece no, avevo fatto di testa mia.

Volevo farmi del male, pagare per chissà quale colpa poi.

Ma non avevo abbastanza coraggio. Non ero abbastanza forte per mettere un punto definitivo.

E ora posso solo dire... per fortuna.

 

«Leo...» - sentii in lontananza - «Leo ci sei? Sembri perso» - esclamò mia sorella, con un viso fin troppo corrucciato, per i suoi diciassette anni scarsi.

«Scusa, stavo pensando» - mi giustificai.

«Wow» - rise Davide - «E' un evento».

«Grazie» - risposi fintamente scocciato - «Tu sì che sei un amico».

«Di grazia» - squittì Sofia - «A che stavi pensando?»

«Che è metà luglio... fa un caldo torrido... siamo in fila già da due ore, per poter entrare al concerto di sta sera... e non vorrei essere in nessun altro posto se non qui” - sorrisi.

 

Non stavo mentendo, ed era decisamente più facile che spiegare a tutti i miei ragionamenti su morte e fede, così mi limitai a cambiare argomento.

 

Erano appena le due del pomeriggio, il concerto sarebbe iniziato alle otto, ma i cancelli si sarebbero aperti alle quattro.

Eravamo tutti piuttosto attrezzati. C'eravamo portati viveri a sufficienza per sfamare un esercito, e in questo, mia madre, ci era stata complice.

Tante bottigliette d'acqua e Gatorade per ripristinare i sali minerali e gli zuccheri persi per il caldo.

Una cosa la devo ammettere però: le file qui, sono totalmente diverse da quelle in Italia.

Può sembrare una cosa stupida ma, davanti al Théâtre antique, tutte le persone che erano già presenti si erano incolonnate, in maniera ordinata, nella lunga serpentina che partiva dai gate fino alla fine della piazza. Sembrava ci fosse uno schema, niente era per caso.

Ammiravo le geometrie del mondo, non riuscivo a calcolare la distanza tra i cateti – geometria portami via – ma l'armonia dello spazio e della natura, è una cosa che mi ha sempre affascinato.

Eravamo un'unica entità ben organizzata.

Fossimo stati in Italia, in meno di due minuti, ci saremmo ritrovati a sgomitare per un po' d'aria, con i bodyguard stampati sulle transenne, e gente pronta a cavarsi un occhio, nella speranza di arrivare in cima alla fila.

Che se poi vogliamo essere precisi, non sarebbe nemmeno assomigliata ad una fila, ma ad un ammasso di carne a forma piramidale. Il primo, sarebbe stato il primo – e fin qui tutto ok – ma poi, avremmo trovato due secondi a pari merito, quattro terzi, otto quarti, e così via...

Preferivo di gran lunga la Francia.

 

Mentre scherzavo con i miei amici, mi appoggia a una delle transenne, infondo ero da un bel po' che stavamo in piedi.

Urtai per sbaglio il braccio di una ragazza che aveva fatto come me.

«Scusa» - dissi istintivamente - «Non ho fatto apposta».

Lei si voltò e sorrise.

Non sembrava infastidita dall'accaduto, ma dopo pochi secondi, mi diedi mentalmente del cretino.

«Je suis désolé» - mi affrettai a dire, in un francese stentato. Non poteva capire le mie scuse in italiano.

La ragazza ridacchiò e mi porse una sacchettino di gommose Haribo.

«Monica piacere» - esclamò sorridendo - «Anch'io sono italiana».

Ero stupito. Inoltre, avevo fatto la figura dell'idiota...

Non che per me fosse una novità.

Accettai un confetto per sciogliere l'imbarazzo.

«Leonardo» - dissi, cercando di essere conciliante - «Piacere mio, e scusa ancora».

«Nessun problema, figurati» - esclamò sincera - «Da dove venite?».

«Roma» - risposi - «Tu?»

 

«Civitavecchia» - sorrise - «Non siamo poi così lontani».

 

Era davvero una bella ragazza.

Capelli nero corvino, raccolti in uno chignon sbarazzino, fermato da una matita HB. I suoi occhi riflettevano il colore del cielo, esattamente come i miei.

Short corti neri, e una canottiera blu elettrico, piuttosto leggera e aderente.

Ai polsi portava un serie infinita di braccialetti colorati. Ce n'erano di ogni tipo e dimensione, colori sgargianti che ti trasmettevano felicità, così come il suo sorriso.

Portava al collo un ciondolo con la triad, uno dei segni distintivi del gruppo e, nemmeno a farlo apposta, anch'io ne avevo una.

Era così solare che ti trasmetteva positività soltanto a guardarla.

Ci trovavamo ai lati opposti della transenna, perciò capii, che appena gli addetti ai lavori avrebbero aperto i cancelli, ci saremmo presto persi di vista.

Quanto mancava ancora? Circa un'ora e tre quarti.

Tempo più che sufficiente per conoscere almeno un po' una persona.

E non so il perché, ma sentivo che parlare con Monica, avrebbe reso questa giornata ancora più speciale.

Sesto senso?

No so, ma non avevo comunque niente di meglio da fare...

O niente da perdere, comunque.

 

«Sei qui da sola?» - chiesi sorridendo gentilmente.

«No» - disse scrollando al testa, e dando una rapida occhiata dietro di lei - «Sono qui con due coppie di amici... mi sento però di troppo in questo momento» - concluse arrossendo leggermente, mentre quelli che aveva indicato si stavano scambiando tenere effusioni.

«Ti capisco» - sospirai, facendo segno dietro di me Sofia e Roberto che, smielati, cinguettavano contenti.

Ridacchiò divertita, e io, rimasi incantato mentre la vedevo portarsi delicatamente la mano davanti alle labbra, per trattenere una risata. Poi, sfiorandosi appena la guancia, si sistemò dietro l'orecchio un ciuffo scampato all'acconciatura, e per un attimo ebbi paura di aver dimenticato le tecniche base di respirazione.

Leonardo, è facile.

Inspira.

Espira.

Di nuovo, da bravo.

 

Iniziammo a chiacchierare del più e del meno.

Principalmente però dei Thirty Seconds to Mars, eravamo al loro concerto, doveva per forza essere una passione comune.

Un perfetto inizio, oserei dire.

Era interessante sentire la sua opinione, e in breve tempo, mi aveva raccontato come li aveva scoperti, e quanto importanti fossero diventati a poco a poco.

 

«Il tuo brano preferito?» - chiese candidamente.

«Non puoi chiedermene solo uno» - sorrisi - «Mi mandi in crisi altrimenti».

Rise divertita - «Per così poco?» - mi punzecchiò leggermente un braccio.

«Sono un uomo...» - sospirai - «Sono un'entità semplice... estremamente semplice».

«Ti concedo una canzone per album» - celiò.

«Mmmm vediamo. Dell'ultimo, Do or Die. Di This is War, Night of the Haunter. Di A Beautiful Lie... From Yesterday, la prima canzone che me li ha fatti amare» - risposi pensandoci bene.

«E del primo album?» - domandò ancora curiosa.

«Devo ammetterlo... non lo amo molto, però Capricorn non è male. E tu?».

«Concordo con te, per quanto riguarda il primo e il secondo album, per il terzo ti dico Alibi, e per l'ultimo End of all Days».

«Beh... Alibi è da pelle d'oca» - esclamai - «E l'altra è magnifica. E' impressionante come un perfetto sconosciuto, a volte, attraverso la musica, riesca a capirti perfettamente».

«Anche tu hai rapporti conflittuali con la fede?» - mi chiese interessata.

«No... con la mia di fede no. Con quella degli altri a volte...» - risposi con un ragionamento che, probabilmente, non avrebbe capito.

Sorrise nuovamente - «Sai... mi hanno cresciuta con l'idea che Dio esiste e c'è sempre per noi, che tutto ha un suo perché e lui è la risposta. Ma io... non so... credo che non a tutto ci sia una risposta, o meglio, preferisco cercare e capire, piuttosto che accontentarmi di qualcosa di preconfezionato».

La guardai con la bocca leggermente socchiusa per lo stupore.

 

Dove diavolo era stata fino ad ora?

 

«Condivido perfettamente» - risposi - «Insomma, si... c'è sicuramente qualcosa, o qualcuno, ma non ho vissuto abbastanza per potergli dare un nome. Per quanto mi riguarda, cerco di vivere ogni giorno in maniera tale che, andando a dormire, non sia assalito dai rimpianti. Non è sempre facile, ma se cerco di dare il meglio, sono sicuro che in qualche modo alla fine verrò ricompensato».

«Impressionante» - sibilò.

«Che cosa?» - chiesi non capendo.

La vidi arrossire leggermente e abbassare lo sguardo.

«Beh, non credevo di trovare qualcuno che la pensasse come me. Come hai detto tu poco fa, è incredibile sentire i propri pensieri, pronunciati da un'altra persona. Anche perché non sono pensieri che faccio ad alta voce, solitamente».

«Ci sono tante cose che non dico mai ad alta voce» - esclamai tra il divertito e lo sconsolato - «In pochi mi capirebbero senza darmi del pazzo».

«Inizierò a studiare psicologia a settembre, potresti essere il mio primo paziente» - sorrise convinta.

«Non credo sarebbe professionale andare a letto con i propri pazienti» - azzardai malizioso.

«Ma noi non siamo mai andati a letto insieme» - esclamò stando al gioco.

«Non ancora» - dissi facendole l'occhiolino.

 

Ridemmo tutti e due.

Ero felice.

Monica era allegra, solare, simpatica, non si offendeva per una battuta e non era permalosa. Inoltre, sembrava riuscisse a capirmi, capirmi davvero.

Mi piaceva e... le piacevo?

 

«Ti decidi a chiedermi il numero o vuoi girare tutta Civitavecchia, nella speranza di rincontrarmi?» - domandò sorridendo furba.

«Speravo in una gita fuori porta, ma se vuoi rendermi le cose semplici, tenterò di non lamentarmi troppo» - celiai porgendole il mio cellulare.

Scrisse velocemente il suo numero e poi mi fece segno di avvicinarmi.

Non capii subito le sue intenzioni, ma poi si appoggiò contro di me – per quanto le transenne che ci dividevano potevano permettere – e scattò una foto ai nostri volti sorridenti, e la impostò come immagine di chiamata.

«Almeno sono sicura che non mi confonderai con qualcun'altra» - esclamò.

 

Confonderti con qualcun'altra?

E come potrei?

Sei unica. L'unica, che mi abbia mai letto dentro con così tanta facilità.

 

Mi porse il suo telefono e io feci altrettanto con lei.

Così, ridendo e scherzando arrivò l'ora di apertura dei cancelli.

«Ci vediamo dentro?» - chiese un po' intimidita.

«Certo» - risposi, mentre la fila stava iniziando a muoversi lentamente - «A dopo».

Sorrise, e sfiorandomi appena il braccio, si avviò dietro i suoi amici.

 

Rincontrai il suo sguardo parecchie volte, quando la serpentina la riportava inesorabilmente verso di me.

E continuavamo a sorridere come due idioti.

«Sei proprio cotto» - mi prese in giro mia sorella.

«Cosa?» - chiesi arrossendo improvvisamente.

I miei amici scoppiarono a ridere.

«Sembri un adolescente alle prime armi» - scherzò Davide.

«Smettetela per favore...» - pigolai.

Sara si avvicinò e mi circondò il collo con le braccia.

Si tirò in punta di piedi e mi stampò un bacio sulla guancia.

«Era da tanto che non ti vedevo sorridere così» - mi sussurrò all'orecchio.

La strinsi leggermente a me.

«Te l'ho sempre detto che i Thirty fanno miracoli» - dissi divertito.

«Per una volta, non pensare alle conseguenze, divertiti» - esclamò lasciandomi andare.

Ridacchiai, e proseguii nuovamente lungo la fila.

 

Una volta entrato nell'arena mi guardai intorno.

Lo spettacolo era meraviglioso.

Il palco era posizionato in basso e tutto intorno c'erano le gradinate di pietra.

Continuai a cercare Monica con lo sguardo e, dopo un po', ricevetti un messaggio.

«Sono a ore 2. Terza gradinata» - mi aveva scritto.

Sorrisi e mi voltai immediatamente verso il punto indicato e finalmente la rividi.

 

«Vi dispiace se ci uniamo a loro?» - chiesi ai miei amici.

«Assolutamente no. I posti non sono assegnati, quindi possiamo andare dove vogliamo» - rispose Sofia.

 

Scendemmo lungo le gradinate e quando arrivammo presentai a Monica i miei amici, e lei fece altrettanto con i suoi.

Sembravano simpatici, così ci sedemmo in attesa dell'inizio del concerto.

C'era ancora molto tempo per chiacchierare, ma alla fine, fummo tutti coinvolti in una partita a carte per ingannare l'attesa.

Verso le sette decidemmo di mangiare qualcosa. Eravamo tutti ben riforniti.

Come dolce, mia madre aveva preparato dei muffin con le gocce di cioccolato, io condivisi il mio con Monica, che lo assaggiò molto volentieri.

Lei per contraccambiare, mi fece assaggiare un pezzo della sua crostata all'albicocca.

«Davvero l'hai fatta tu?» - chiesi meravigliato.

«Ti piace?» - rispose annuendo.

«Tantissimo» - esclamai - «Sei davvero brava».

«I dolci sono la mia specialità» - sorrise - «Ma in generale, non me la cavo male».

«Sai, io se non provo, non mi fido» - dissi furbamente.

«Oh davvero» - rispose divertita - «Allora credo proprio che dovrai venire a cena da me, almeno una volta».

«Se proprio insisti» - esclamai - «Accetto».

 

E scoppiammo a ridere.

Di nuovo.

Era una vita che non ridevo così tanto.

 

Alle otto, puntuali, sentimmo i primi accordi risuonare dal palco, ed è inutile dirlo, il boato degli Echelon fu da pelle d'oca.

Ci alzammo tutti in piedi guardando verso il fondo dell'arena e, in mezzo a spettacoli di luci, finalmente apparvero.

Era bello sentirli, era emozionante vederli, ma era ancora più straordinario viverli.

Viverli così da vicino.

Cantammo a squarciagola praticamente tutte le canzoni, mettendoci il cuore e l'anima in quelle parole.

Poi, durante Alibi, vidi Monica tremare leggermente, gli occhi lucidi, mentre si stringeva le braccia piano piano.

Fu istintivo: mi portai dietro di lei, e la tirai dolcemente contro il mio petto, avvolgendola in tenero abbraccio.

Non si ribellò, anzi, la sentii rilassarsi contro di me e portare le sue mani sopra le mie per non lasciarmi andare.

Le baciai delicatamente la tempia sinistra e, poco dopo, voltò il viso per guardarmi.

Lessi nei suoi occhi una moltitudine di emozioni.

Cose che difficilmente si spiegano a parole, ma bastava sprofondare in quell'azzurro, per capire di non voler più tornare indietro.

Mi avvicinai piano alle sue labbra, restando comunque a qualche centimetro, per darle l'opportunità di scegliere.

Potevo sentire il suo respiro infrangersi contro le mie labbra, e poi mi baciò.

Fu un contatto lieve, dolce, tenero. Assaggiai timidamente le sue labbra carnose e lei mi lasciò fare, disegnando dei piccoli tracciati immaginari sulle mie braccia.

 

Restammo così, abbracciati per tutto il resto del concerto, scambiandoci altri baci di tanto in tanto.

Ogni contatto era una nuova scoperta, e questo mi piaceva.

Mi piaceva davvero tanto.

 

Iniziarono gli accordi di Closer to the edge, ed entrambi ci guardammo.

C'era una strana luce nei suoi occhi, e capii che voleva dirmi qualcosa.

Ci staccammo dal gruppetto dei nostri amici, e la seguii verso i bagni.

Intanto potevo sentire le parole del ritornello.

 

No I'm not saying I'm sorry
One day, maybe we'll meet again

 

No, non voglio dire che mi dispiace

Un giorno, forse ci rincontreremo

 

«Che succede?» - chiesi preoccupato.

«Ci rivedremo dopo questa sera, vero?» - domandò timidamente.

«Se tu vuoi, certamente» - risposi sorridendole.

«Nessun forse, quindi» - domandò guardandomi negli occhi.

 

In quel momento capii il perché del suo dubbio, e come mai proprio durante questa canzone.

 

«Nessun forse, lo prometto» - esclamai prima di baciarla nuovamente.

Sorrise sulla mia bocca e approfondì il bacio, dischiudendo leggermente le labbra, dando l'opportunità alle nostre lingue di incontrarsi.

Ci lasciammo trasportare, forse un po' troppo.

Le mie mani iniziarono a vagare sul suo corpo, e le sue stavano facendo altrettanto.

Indietreggiò di un passo e fece per togliersi la canottiera, ma la fermai, prima che potesse scoprirsi completamente.

La tirai a me, abbracciandola nuovamente, e vidi che non riusciva a capire il motivo del mio improvviso rifiuto.

«Ti voglio, credimi» - le sussurrai - «Ma non qui, voglio che sia speciale».

Scrollò la testa divertita e mi baciò di nuovo, fino a lasciarmi senza fiato.

«Grazie» - si limitò a dire.

«Però sono interessato al tatuaggio che ho intravisto» - sorrisi malizioso.

Si scostò leggermente e alzò l'indumento fino sotto al seno sinistro.

Scritta con un carattere lineare c'era la parola FAITH e, al posto della A, c'era la triad.

Inequivocabile come tattoo.

Ed era l'ennesimo dettaglio che la rendeva ancora più speciale ai miei occhi.

 

Sentimmo un boato, applausi e urla.

Evidentemente il concerto era finito.

«Ti ho fatto perdere il finale» - disse costernata, mentre si sistemava la maglia.

«Non importa, perché ho trovato un nuovo inizio» - le sussurrai a fior di labbra, mentre qualcuno bussava insistentemente alla porta, per farci uscire.
 


Chi sono io?
Cosa sarò?
Che cosa sono stato
tra quello che ho vissuto
e quello che ho immaginato?
Ora di te cosa farò?
È così complicato
se muoio già dalla voglia
di ricordarti a memoria

  
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