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Autore: Carlos Olivera    16/06/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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L’Aurora, viaggiando a pieno regime, aveva già raggiunto la Ares, dove aveva rapidamente dato avvio alle operazioni di rifornimento e imbarco della forza d’attacco necessaria a riprendere il controllo del Megonia.

Nell’attesa che tutto fosse pronto per ripartire, nella sala riunioni della stazione il consiglio di sicurezza aveva organizzato un’ultima riunione tattica per decidere la linea d’intervento, nella speranza di sentir giungere da un momento all’altro la trasmissione che annunciava l’avvenuto ripristino dei sistemi di navigazione che conducesse il Megonia in un luogo favorevole per il salvataggio.

Una  trasmissione arrivò, ma invece del volto di Ulrich o di quello del Capitano Klopfer i membri del Consiglio videro materializzarsi sul monitor lo sguardo atterrito e sconvolto, per quanto composto, del dottor Curtis.

Il dottore si era risistemato, smettendo il camice degno di un macellaio in favore uno ancora intonso, lavandosi malamente il sangue anche da faccia e capelli, inoltre aveva appositamente aperto la comunicazione procuratagli da Ulrich nel proprio ufficio lasciato in ordine.

Tuttavia, ciò che il dottore aveva da dire era di una gravità e di uno sconvolgente tale che nessuno, nell’ascoltarlo, avrebbe fatto caso al suo aspetto.

«Un virus!?» esclamò Nolan

«Sì, signore. Più precisamente, il virus dell’influenza.

Abbiamo avuto una piccola epidemia a bordo subito dopo la partenza, per questo si è diffusa in tutta la nave in modo così rapido.»

«Ma come può un virus provocare un fenomeno EDA?»

«E soprattutto, perché un virus!? Gli EDA non dovrebbero nascere solo dagli esseri umani?»

«La mia è solo un’ipotesi, signori, ma ritengo abbia a che fare con la Nascita di Venere. Come tutte le astronavi, anche il Megonia è dotato di barriere e rivestimenti protettivi, ma la quantità di radiazioni magiche emesse da Neos in occasione di questo fenomeno atmosferico sono particolarmente elevate. Forse anche più di quanto ci aspettassimo.

Il virus dell’influenza è basato su di una sequenza RNA, che per quanto complessa è strutturalmente più semplice rispetto all’originale DNA, ma anche molto più fragile.

La mia teoria è che le radiazioni abbiano alterato la sequenza genomica del virus dell’influenza che si era diffuso a bordo, tramutandolo in una sorta di EDA-virus capace di trasmettere la propria infezione a chiunque ne sia colpito».

I membri del Consiglio sbiancarono.

«Ha detto a chiunque!?» ripeté il Direttore Geithner

«Ho studiato il decorso della malattia, se così si può chiamarla. Subito dopo la mutazione, il virus inizia a moltiplicarsi in modo incontrollato, causando in breve tempo il collasso dell’organismo ospite a causa dell’aumento esponenziale di particelle magiche nell’organismo.

Al momento della morte, il livello di contaminazione risulta a tal punto elevato da provocare la mutazione all’interno del corpo stesso, provocando la nascita di un vero e proprio EDA. L’alta percentuale di energia infetta presente negli EDA generati è considerevole, abbastanza da permettere loro una sopravvivenza decisamente più lunga rispetto alla media, oltre ad una resistenza sopra la media ai comuni sistemi di contenimento.

Infine, in base agli esami autoptici che ho potuto condurre, credo di poter affermare con certezza due cose. La prima, è che il virus non ha effetto sugli stregoni, data la presenza di un core molto sviluppato che assorbe gli effetti nefasti dell’infezione, la seconda che in base al tasso di infezione negli esseri umani possono verificarsi vari stadi di mutazione. Circa due terzi dei soggetti colpiti muoiono prima che l’infezione diventi così grave da causare una mutazione post-mortem, mentre di quelli che restano nove su dieci si trasformano in EDA di classe Pedone, con la restante percentuale che può assumere caratteristiche che possono andare da un Classe Cavallo ad un Classe Alfiere.

Quando l’energia nefasta si esaurisce, o se il decesso avviene prima che questa abbia incrinato pesantemente il DNA, in entrambi i casi il virus rapidamente si autodistrugge assieme all’organismo ospite e a qualunque materiale non sufficientemente resistente che si trovi nei dintorni del corpo in una specie di auto-combustione, anche se servendomi di ritardanti e inibitori sono riuscito in qualche modo a limitare tale processo sì da condurre i miei esperimenti».

I membri del Consiglio si fecero dei fantasmi, guardandosi attoniti tra loro.

«E non c’è niente che si possa fare?» domandò ancora il Direttore Generale.

«Ho tentato di somministrare ai pazienti colpiti dosi massicce di antibiotici, oltre a bombardarli di incantesimi decontaminanti nel tentativo quantomeno di arrestare la mutazione, ma non ho ottenuto risultati».

Il dottore si fermò un momento; sembrava a sua volta sconvolto.

«Ma c’è una cosa ancora peggiore. Questo virus… è contagioso».

Fu come se un vento gelido si fosse abbattuto nella stanza, immobilizzando e cristallizzando ogni cosa.

«Come… come ha detto prego?» domandò Pierce McArdle, il più giovane membro del Consiglio, sia per età che per nomina

«È così, signore. Ringraziando il cielo ha perso la capacità di sopravvivere nell’aria, ma a parte questo si propaga ancora come la normale influenza, soprattutto per contatto diretto: morsi, graffi, a volte basta il semplice contatto fisico. Il tempo di incubazione varia a seconda del soggetto, ma in ogni caso non và oltre le dodici ore.

L’unica nota positiva è che con la disgregazione dei corpi non rimangono cadaveri che fungano da ricettacoli, ma di fronte alla sua virulenza questa una ben magra consolazione.

Dovete inviare aiuti al più presto, o moriranno tutti!».

Qualcuno si buttò sul tavolo come sfinito, chi li aveva si tolse gli occhiali quasi a voler piangere; gli unici a restare impassibili furono Nolan e Geithner, ma mentre il secondo sembrava cercare di nascondere il suo reale stato d’animo il primo lasciava trasparire tutto il suo disappunto e sconcerto, senza però che questo si traducesse in una parvenza di rassegnazione.

Dopo qualche attimo il segnale si interruppe di colpo, senza motivo apparente, ma ormai quegli uomini avevano sentito abbastanza. E se non bastavano le parole, dopo poco giunsero anche le poche immagini che il dottore era riuscito a mettere insieme sia dalle riprese della sicurezza prima che si spegnessero del tutto, sia da quelle delle sue autopsie da lui condotte, e per interminabili minuti in quella stanza regnò il più totale silenzio.

Non la si poteva neanche più chiamare situazione al limite: quella era una cosa mai successa prima, oltre alla più grave, potenziale catastrofe che la MAB e l’intero pianeta si trovavano a dover affrontare.

«Avete sentito quello che ha detto, vero?» esclamò ad un certo punto Nolan, il più risoluto di tutti. «Immagino siate tutti d’accordo su quale sia la cosa giusta da fare.»

«Ma…» tentò di obiettare Geithner. «Stiamo parlando di migliaia di persone. Avete sentito quello che ha detto l’Agente Drassimovic. Ci sono dei superstiti a bordo.»

«E sono tutti potenziali vettori della malattia, Signore» disse un altro, il Direttore Haseo Aoyama. «Chi ci assicura che tra di loro non ci siano degli infetti? Temo sia un rischio che non possiamo permetterci di correre. È in gioco la sicurezza del nostro pianeta.»

«Potremmo mettere in quarantena la nave» provò ad ipotizzare un altro ancora, Andrey Valdes. «Mandiamo i nostri uomini a bordo, eliminiamo gli infetti, e isoliamo i superstiti fino a che non potremo accertarne la non pericolosità.»

«E se uno dei nostri uomini viene infettato cosa facciamo?» irruppe Nolan.

Di nuovo tutti tacquero, chinando il capo.

«Signore, lo so che è una decisione dolorosa» disse Aoyama «Ma dobbiamo fare ciò che è giusto.»

«Non dovremmo avvertire Amaltea della situazione?» chiese McArdle. «La nave è loro dopotutto.»

«Per farci rallentare da burocrazia e paternalismi?» tuonò Nolan. «Il tempo è un lusso che non abbiamo! Dobbiamo agire subito! È in gioco la sicurezza di questo mondo!».

 

Il Direttore Shane nel frattempo si era ritirato nel suo ufficio, certo che sarebbe stato richiamato appena fosse venuto il momento di deliberare le ultime questioni e partire per Neos.

Stranamente la cosa andò per le lunghe, anche se Nathan era troppo preso nei suoi pensieri per accorgersene, ma quando gli venne da gettare uno sguardo sull’orologio avvedendosi di che ore fossero iniziò a pensare che forse era successo qualcosa.

Poi, uno dei suoi assistenti irruppe nell’ufficio, incredulo e frastornato.

«Signore, l’Aurora si sta preparando a ripartire.»

«Che cosa!?» esclamò lui balzando dalla poltrona

«È così, Signore. Hanno anche annullato le operazioni di imbarco truppe, e ordinato il rifornimento dei sistemi d’arma».

In linea teorica nessuno poteva fare niente a bordo di quella stazione senza il permesso di Nathan, ma quello era l’ultimo dei problemi.

Come un toro infuriato il Direttore si diresse a grandi passi verso la zona d’attracco, trovando man mano che vi si avvicinava la frenesia più assoluta. Chiunque fermasse dell’equipaggio dell’Aurora non apriva bocca, obiettando quando gli veniva ricordata la differenza di grado che l’ordine di silenzio veniva direttamente dal Direttore Generale in persona.

Con tutte quelle bocche cucite, a Nathan non rimase che andare dal suo vecchio amico McArdle, con cui aveva da anni una bella amicizia, ma che soprattutto gli doveva parecchi favori dai tempi dell’accademia, tra compiti lasciati copiare e assenze ingiustificate prontamente coperte.

Lo trovò in una saletta nei pressi dell’imbarco, funereo e con il volto cereo, gli occhi al pavimento che trattenevano a stento lacrime di vergogna.

Dovette forzarlo un po’, ma alla fine riuscì a fargli raccontare cosa fosse realmente accaduto in quella stanza, e qualche minuto dopo Nolan, intento a controllare lo stato dei rifornimenti davanti al portello della nave, se lo vide venire contro schiumante di rabbia.

«Oh, porca miseria.» imprecò tra sé mentre Nathan si avvicinava

«Brutto figlio di puttana! Pensavi che non l’avrei saputo?»

«La decisione ormai è stata presa. Il Consiglio l’ha approvata!»

«Quale decisione!? Quella di vaporizzare migliaia di civili? Lassù ci sono i miei ragazzi!»

«Non possiamo fare niente per loro, e se sono furbi scommetto che già lo sanno! E comunque, se quel virus lascia il Megonia potrebbe esserci una pandemia! Vuoi vedere Kyrador, o Otisa, o Volgorad, o qualunque altra cazzo di città trasformata in una specie di inferno in terra? Io no! Preferisco perderne poche migliaia di interi milioni! E scommetto anche tu!»

«Ma il virus non è aerobico, santo Dio! Possiamo contenerlo con la quarantena!»

«È un rischio che non possiamo né vogliamo correre, stupido amalteco

«Hai ragione, sono amalteco! Quindi non vi permetterò vi polverizzare una nave del mio Paese! Ora alzerò il telefono e informerò Amaltea della situazione, e vediamo se vi lasceranno fare quello che volete!»

«No, tu non farai proprio nulla! Sarai pure amalteco, ma prima di tutto sei un membro di questa Agenzia, e in quanto tale ti atterrai alle direttive dei tuoi superiori!»

«Il Megonia è una nave di Amaltea! È il governo di Amaltea che deve avere l’ultima parola!»

«Niente affatto! Emergenza militare di Classe Uno! In base alle direttive, in caso di emergenza di Classe Uno la MAB ha la facoltà di agire, cito testualmente, nell’interesse e nell’incolumità della sicurezza mondiale e della popolazione di Celestis! Vatti a rileggere l’RMA per i dettagli!»

«Ma scommetto che ad Amaltea non avete detto niente! Saranno felici quando sapranno che avete disintegrato la loro nave ammiraglia senza dirgli niente!»

«Lo saranno ancora di più quando sapranno che gli abbiamo evitato una pandemia di livello potenzialmente catastrofico!

Questa è una situazione che, porca puttana, va’ risolta subito!»

«Direttore» disse in quella un marinaio. «Siamo pronti a decollare.»

«Bene, era ora. Scusa, amico. I tuoi uomini non ci servono più» e detto questo Nolan salì sull’Aurora chiudendo letteralmente in faccia il portello al Direttore Shane, che poté solo restare ad osservare attraverso i vetri la nave che si allontanava in direzione di Neos.

Uno dei suoi, cui aveva ordinato di tentare di ristabilire il contatto con il Megonia con qualunque mezzo necessario, gli si fece incontro poco dopo pallido e sconfortato, trovando il suo superiore ancora immobile come una statua dinnanzi al portello chiuso.

«Mi dispiace signore, non c’è niente da fare. Temo che il satellite sia stato colpito da qualche detrito.»

«Fai preparare gli uomini e una nave.»

«Signore?!»

«Subito!».

 

Jacob era sicuro che con un po’ di tempo e di riposo si sarebbe sentito meglio, invece di colpo le sue condizioni sembrarono precipitare, e a Vincent bastò poggiargli una mano sul volto per rendersi conto di come scottasse da far paura.

«Santo cielo Jacob, ma che ti succede?» domandò Vincent sempre più preoccupato.

Ma ormai Jacob era ridotto in uno stato tale da non riuscire quasi a parlare, tanto i colpi di tosse e i conati di vomito gli rendevano difficile persino trovare la forza per respirare.

Per tentare di aiutare in qualche modo l’amico Vincent andò a cercargli qualcosa da bere, e mentre Jacob era da solo, disteso alla meglio su uno dei pochi lettini non lordi di sangue, aperti un momento gli occhi trovò a sovrastarlo il dottor Curtis, che lo fissava dall’alto come un giudice pronto ad emettere una sentenza.

«Ti hanno morso?».

Jacob fece cenno di sì.

«Lo sai che cosa ti aspetta, non è vero? Mi hai sentito mentre ne parlavo».

Era vero.

Forse il dottore lo aveva fatto di proposito; forse aveva detto volontariamente a Vincent di distendere l’amico ad un lettino così vicino all’infermeria, cosicché le orecchie di Jacob, rese ipersensibili da una mutazione che di fatto era già cominciata, potesse sentire di persona quale era il suo destino e decidere di conseguenza.

Il suo destino era segnato. Non c’era niente da fare. L’unica cosa che poteva fare era morire con onore, senza tramutarsi in uno di quei mostri.

«Ragazzi, brutte notizie» disse d’improvviso Ulrich. «Ho un nutrito schieramento di EDA sui monitor nei pressi dell’infermeria. Se non ve ne andate subito potreste non farlo più».

Vincent tornò in tutta fretta, ma quello che vide lo scioccò: in suo amico Jacob si era seduto, gli occhi che piangevano  sangue e una poltiglia fetida che gli usciva dalla bocca.

Riconobbe subito i sintomi: li aveva visti centinaia di volte. Ma non voleva crederci; non poteva crederci.

«Il suo collega è stato colpito in forma blanda» spiegò funereo il dottore. «Il virus non lo ucciderà, ma questo non impedirà la mutazione.»

«No! No! Non può essere!» gridò Vincent scotendo l’amico, ormai moribondo, e mostrandogli il suo stesso pendente. «Jacob, tu sei più forte di così! Sei sopravvissuto a mille EDA!»

«È inutile. Teoricamente sarebbe ancora possibile arrestare la mutazione, ma essendo provocata da un virus fermarla è impossibile.»

«Non può essere così! Deve esserci qualcosa che possiamo fare!»

«Una soltanto».

Freddo, senza apparente esitazione, il dottore prese la pistola, e con un colpo dritto in mezzo alla fronte pose fine alle sofferenze di Jacob, che si accasciò senza vita sul lettino.

Vincent rimase di sasso, mentre in lui montava la rabbia.

«Bastardo!» sbraitò atterrando Mark con un pugno che quasi gli ruppe la mascella. «L’hai ucciso!»

«Non l’ho ucciso!» rispose fieramente il dottore. «Ho salvato quello che restava del suo onore!»

«Stai mentendo!»

«Guardalo! Ti sembra una persona triste?».

Solo allora Vincent si accorse che sul volto lordo di sangue e vomito del suo più caro amico era comparso, come una rosa in mezzo al fango, un bellissimo sorriso, rilassato e felice, e allora capì.

Forse non era la morte che Jacob avrebbe sempre sognato, ma almeno era stata una fine onorevole. Meglio morire così che diventare uno di quei mostri che avevano sempre combattuto.

Di certo, però, non avrebbe permesso al suo corpo di diventare cibo per quelle maledette creature. Sapeva di non poterselo portare dietro, ma contava di tenerlo al sicuro fino a che quell’incubo infernale non fosse finito, così, con l’aiuto del dottore, lo portò dentro la sala operatoria, adagiandolo con cura sul tavolo.

Prima di andarsene lo compose come poteva, incrociandogli le mani sul busto attorno al pendente, e fino a che gli fu possibile stette ad osservarlo in silenzio, sfiorandogli di tanto in tanto i capelli insanguinati; quindi, quando i ruggiti di quei mostri si erano fatti ormai troppo vicini, se ne andò, sprangando con forza la porta dell’infermeria perché risultasse un santuario, o un cimitero, assolutamente impenetrabile.

«E ora forza, andiamo via!» ordinò al dottore.

 

Nella sala dei superstiti, l’aria si stava facendo davvero pesante.

Anche se gli scossoni si erano sensibilmente ridotti di quando in quando si sentiva la nave scricchiolare, e ogni volta la paura montava sempre più forte.

La maggior parte delle persone si era convinta che tutto fosse nelle mani del Capitano Klopfer, e attendeva come i suoi due giovani sottoposti di sentire da lui buone notizie da un momento all’altro, ma c’era anche una ristretta minoranza che non perdeva occasione per polemizzare e mugugnare a mezza voce il proprio disappunto, fulminando Klaus e Amanda con delle occhiatacce e degli improperi mal celati.

«È tutta colpa vostra!» urlò ad un certo punto Richard Song all’indirizzo dei due ragazzi. «Solo colpa vostra!»

«Adesso non incominciare.» cercò di bloccarlo Gullit

«Chi ha aperto le porte? Chi ha permesso a quei dannati mostri di circolare liberi per tutta questa fottuta nave? Siete stati voi!»

«Ma non lo capisci, imbecille?» gli rispose Ashley. «Se non avessero aperto le porte, non sarebbero neppure arrivati qui. E noi saremmo ancora a farci luce con le candele.»

«Sta zitta, culo basso. Cosa puoi saperne tu? E comunque preferivo di gran lunga pisciare alla luce di una fiammella che finire mangiato da quelle creature!

Voi avete provocato tutto questo, e ora voi dovete farci uscire!»

«È quello che stiamo facendo» tentò di spiegare Amanda. «Abbiate solo un po’ di pazienza. Quando i motori saranno stati riparati…»

«Al diavolo i motori! Chi vi dice che funzionino ancora? E soprattutto, chi ci assicura che quei tre ce la faranno? Grazie a voi, e ribadisco grazie a voi, ora questa fottuta nave è infestata da cima a fondo! Cosa credete che possano fare tre uomini? Scommetto che a quest’ora sono già stati sbranati, il che significa che potrebbero essere diventati anche loro come quei cosi!

L’unica cosa da fare è raggiungere le scialuppe!»

«Il Capitano è l’uomo più competente che conosca» disse spazientito Klaus. «Se ha detto che ce la farà, allora è così.»

«Ma taci, ragazzino. Cosa credi di saperne tu? Guarda che ti abbiamo visto tutti fare il cane bastonato davanti a quel tipo. È chiaro che per lui tu non conti niente, e non intendo stare qui a farmi guardare le spalle da un lattante che non ha neppure la fiducia del suo capo.»

«Come hai detto, spocchioso pezzo di merda?».

Klaus aveva cercato di trattenersi fino all’ultimo, ma alla fine non ce la fece più e assestò uno dei suoi famosi sinistri dritto allo zigomo di Song, che volò al tappeto con un molare in meno e il setto nasale spostato.

«Tu, brutto figlio di…».

Sembrava davvero che dovesse scatenarsi una gigantesca rissa, ma un urlo paralizzò tutti.

«Basta, smettetela!».

Johanna, rannicchiata in un angolo, seguitava a tenere la figliastra stretta a sé, senza che però questa ricambiasse in qualche modo, e intanto guardava i responsabili di quella zuffa con occhi iniettati di astio.

«Che senso ha combattere tra di noi? Non lo capite che siamo tutti sulla stessa barca?

Ora smettetela di fare i bambini e comportatevi da uomini! Così spaventate tutti!».

Effettivamente, guardandosi attorno Klaus si avvide che le persone tutto attorno li stavano guardavano, ed era evidente la loro paura.

Si diede dello stupido: se proprio lui, il cui compito era di portare in salvo quelle persone, si lasciava sopraffare dalla tensione, come poteva aspettarsi di poter essere di qualche aiuto?

Lasciò andare Song, che quasi senza accorgercene aveva preso con forza per il bavero, scaraventandolo via.

«Se ti sento ancora aprire bocca, ti faccio saltare qualche altro dente» e quello, masticando, poté solo obbedire, spaventato dal modo in cui Klaus accarezzava il suo fucile.

 

Helen non era mai stata una persona fortunata; o almeno, non si era mai reputata tale.

Così, il fatto che l’ascensore per il ponte fosse difettoso non la sorprese più di tanto, e poiché era una maga  non dovette neanche faticare particolarmente per percorrere in volo la tromba quadrangolare fino a giungere a destinazione.

Il ponte, immenso, era completamente deserto; probabilmente i suoi occupanti erano quelli che aveva sterminato all’ingresso. Inoltre, le paratie di sicurezza a protezione dei vetri erano tutte abbassate, ma si trattava senza dubbio di una misura d’emergenza attivatasi automaticamente con il blocco dei sistemi.

Di nemici, per fortuna, nemmeno uno.

«Sono sul ponte» disse via radio. «La zona è sicura.»

«D’accordo» rispose Ulrich. «Dammi un attimo che ripristino i sistemi».

Ma per il ragazzo era in serbo una brutta sorpresa.

Quando tentò di accedere ai comandi del ponte per ripristinarne le funzionalità, infatti, si ritrovò davanti solo una massa inestricabile di dati e pattume digitale, oltre a dei software scombinati all’inverosimile.

«Che diavolo è successo qui?» disse incredulo.

La risposta arrivò ad un rapido controllo, e non era certo delle più rassicuranti.

«Cattive notizie, Helen. Temo ci sia un bug nel computer della nave.»

«Come sarebbe a dire, un bug!?»

«Non so di preciso di che bug si tratti, ma una cosa è certa: ha fatto macello dei sistemi che controllano le funzionalità del ponte di comando. Ora come ora è impossibile perfino dare energia ai motori, figuriamoci ripristinare la rotta.»

«Vuoi dire che ho fatto tutta questa strada per niente!?»

«Proverò ad eliminare il bug e a fare un controllo. Se siamo fortunati il sistema che cerchiamo non è stato toccato. In caso contrario, dovremo inventarci qualcos’altro.»

«Non c’è che dire, questa missione sta filando liscia come l’olio».

 

La strada verso la sala motori si stava rivelando incredibilmente semplice: forse anche troppo.

Era vero che quel ponte in particolare era stato di fatto quasi isolato grazie ad Ulrich, ma la situazione sembrava fin troppo tranquilla: in quei corridoi era solo buio e silenzio.

«Non mi convince» disse Reynar. «Sembra tutto troppo facile.»

«Cosa c’è in fondo a questo corridoio?» chiese Georg a Raoul

«Le cucine».

Le porte scorrevoli delle cucine apparvero infatti poco dopo a bloccare la strada, ma erano porte strane, robuste e di puro acciaio, oltre che apparentemente infrangibili.

«Porte tagliafuoco» disse Raoul preoccupato. «Deve esserci stato un incendio».

Georg provò a buttarci sopra l’acqua della sua borraccia, e questa evaporò del tutto ancor prima di toccare la superficie.

«Ulrich, ci serve un’altra strada.»

«C’è un corridoio di servizio poco distante che gira attorno alle cucine. Tornate indietro di quindici metri e prendete a destra».

I tre fecero come era stato loro detto, ma ancora una volta si trovarono di fronte ad una porta chiusa.

«Ho bloccato entrambe le porte. Aspettate un momento, ora le riapro».

L’attesa fu piuttosto lunga, ma almeno sembrava destinata a scorrere senza imprevisti, tanto che i tre uomini finirono persino per calmarsi.

«Accidenti a mia moglie» imprecò Reynar. «Avrei fatto meglio ad impuntarmi.»

«Sua moglie è a bordo?» chiese Raoul

«Grazie al cielo no. Ha baciato un albero a quaranta all’ora e da due settimane è all’ospedale con un femore rotto e un trauma cranico.

Avevamo comprato i biglietti per questo viaggio già due anni fa, e ormai era tardi per riavere i soldi, così mi ha convinto a venirci da solo.»

«Guardi il lato positivo. Ha assistito a due grandi eventi in una volta sola.»

«Ne avrei fatto volentieri a meno. Io odio volare.»

«E tu, Raoul? Sei sposato?» domandò Georg

«Ho una ragazza. Svetlana. Sta a Volgorad

«Sei fortunato» rise Reynar «Visto il freddo che fa laggiù, scommetto che ogni volta che vi vedete ti chiede di riscaldarla a dovere».

Non era granché come battuta, ma in quella situazione qualunque cosa aiutasse a stemperare la tensione era benaccetta.

Se non che, proprio nel momento in cui Georg e i suoi improvvisati compagni erano maggiormente calmi, un rumore inquietante, come di qualcosa di metallico che cadeva violentemente a terra rompendo il silenzio, li riportò violentemente alla realtà.

«Avete sentito?» domandò il Capitano.

 

  
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