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Autore: Ayr    16/06/2014    4 recensioni
Quando Matisse incontra Zefiro, un ragazzo affascinante ma misterioso, la sua vita tranquilla viene completamente sconvolta: il ragazzo infatti le rivela che lei è la principessa perduta, la legittima erede al trono di Heaven. Inizia così per lei un viaggio in compagnia di Zefiro, il cui silenzio pare nascondere un grande segreto, che la porterà dal tranquillo villaggio in cui vive alla caverna di Procne, una potentissima maga che aiuterà Matisse ad affrontare quello che le aspetta: non si tratta solo di sedere su un trono e di prendere sulle spalle tutte le responsabilità che esso comporta, Matisse infatti, dovrà prepararsi anche per una guerra perchè non è l'unica che ambisce a quel trono e c'è già chi trama nell'ombra per strapparglielo via.
Preparatevi ad accompagnare Matisse in questo viaggio tra maghi, battaglie, segreti, elfi e misteri. Siete pronti a partire?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Matisse venne strappata dal suo sonno da una voce familiare che le intimava di uscire dal letto. Aprì gli occhi e pian piano riuscì a mettere a fuoco la figura di Ortensia che torreggiava su di lei minacciosa, i lunghi capelli argentei raccolti nella solita treccia e uno sguardo talmente penetrante che avrebbe trapassato un muro.
«Quando sarai regina non potrai permetterti il lusso di dormire fino a tardi. Alzati! Zefiro è pronto già da un bel po’!» la rimproverò la donna.
«Ma è ancora buio!» protestò Matisse «E io non ho dormito niente» aggiunse sottovoce.
Ortensia sospirò e scosse la ragazza fino a quando questa non si alzò tra mille proteste.
«Prima partite e prima arrivate» le disse la donna prima di uscire dalla stanza e darle la possibilità di cambiarsi.
Matisse sgusciò di malavoglia fuori dall’involto delle lenzuola, il sonno agitato e gli incubi della notte avevano completamente sedato l’iniziale euforia per la prospettiva di un viaggio. Tutto ciò che era rimasto in lei erano solo dubbi, domande senza risposta e timori.
Lo sguardo della ragazza cadde sul letto sfatto in cui aveva dormito Zefiro, le lenzuola erano fresche, segno che si era alzato da molto tempo. Strano, non aveva sentito alcun rumore. Improvvisamente le tornarono alla mente le immagini della notte passata ed in particolare le iridi rosso sangue del ragazzo e la voce lugubre con cui aveva pronunciato la sentenza lapidaria «Tu devi morire» le aveva detto poco prima di svegliarsi. Matisse scosse la testa e cercò di cancellare quei terribili ricordi con l’acqua fresca, già pronta nella bacinella. Si lavò e si vestì come un automa, abituato a compiere quei gesti quotidiani divenuti ormai meccanici. Indossò un paio di morbidi pantaloni marroni, stretti in vita da un’alta cintura in cuoio, una camicia di mussola bianca, una giacca di pelle e i suoi inseparabili stivali blu di foggia elfica con il caratteristico ricciolo sulla parte alta simile ad un’onda di stoffa; legò i capelli in un’alta coda di cavallo e, soffiato via il solito ciuffo che le ricadeva sugli occhi, sospirò, per niente pronta né più tanto sicura di voler partire.
Appoggiato allo stipite della porta che dava sulla cucina stava Zefiro, intento a mangiare una mela mentre consultava un foglio di pergamena su cui era astato riportato il percorso che avrebbero dovuto fare.
«Buongiorno!» la salutò allegramente lui non appena la vide entrare. Matisse si chiese come potesse essere così felice di prima mattina, sembrava anche perfettamente riposato, al contrario di lei che stava letteralmente dormendo in piedi.
«Dormito bene?» le chiese staccando un pezzo di mela con un morso.
«Non direi proprio!» rispose lei abbandonandosi stancamente su una sedia.
«Elettrizzata per il viaggio?» le domandò.
«Più che altro preoccupata» avrebbe voluto rispondergli ma si limitò a tacere.
«C’è stato un piccolo cambio di programma» la informò lui mentre dava gli ultimi morsi alla mela «non rasenteremo più il fiume»
«Perché?» biascicò Matisse con la bocca piena di pane.
«Non è più un percorso sicuro» rispose lui enigmatico arrotolando la mappa. Si erano accampati lì, Zefiro aveva scorto i loro fuochi la scorsa notte, delle piccole luci baluginanti contro il nero della notte, appena oltre la macchia scura degli alberi. Avevano giustamente pensato che sarebbero passati di lì e li avevano preceduti.
«E che strada avevi intenzione di fare, in alternativa?» domandò Matisse.
«Percorreremo la via principale» le rispose laconico.
«Ma c’è ancora più possibilità di imbatterci nei briganti, soprattutto in questo periodo!» esclamò la ragazza.
«Lo so» rispose lui seccato, ma è la più sicura tra le alternative che abbiamo» Sicura e lontano da loro. Zefiro sperò solamente che non avessero tanto coraggio da avventurarsi fino alla strada principale ma rimanessero nascosti nel folto della foresta, di solito evitavano i centri abitati o le strade frequentate o qualsiasi altro luogo che li esponesse agli occhi di tutti, preferivano rimanere nell’ombra e il ragazzo confidava nella prosecuzione di questa preferenza.
 
Procne si svegliò di soprassalto, raramente dormiva e quelle poche volte non riusciva mai a godere pienamente dei benefici del sonno, spesso aveva sogni premonitori e nella maggior parte dei casi finivano tragicamente. Questa volta aveva sognato una donna dai lunghi capelli neri, riversa a terra, il volto esangue, gli occhi verdi spalancati e vitrei, privi di espressione, le labbra cianotiche e al dito un anello che non le aveva mai visto con un diamante incastonato nel mezzo che mandava un bagliore mortale. Procne aveva riconosciuto quella donna come Ebano e aveva capito che la Guaritrice era in serio pericolo. Si alzò spaventata e incespicò verso il calderone. Non poteva permettere che morisse, non ora almeno, doveva impedire che una cosa simile potesse accadere anche se questo sarebbe andato contro il suo voto di non immischiarsi negli eventi, lei doveva solo assicurarsi che procedessero nell’ordine e nei tempi giusti.
È quello che sto facendo si disse mentre versava erbe e liquidi nel calderone sto cercando di non far accadere le cose prima del tempo. Ma sapeva che cercava di convincere principalmente se stessa.
Prone rimestò il composto sentendosi terribilmente in colpa: stava andando contro tutto quello per il quale aveva vissuto, contro le sue promesse, i suoi stessi principi, ma non riusciva a non far niente. Se Ebano fosse morta non ci sarebbe stato più nessuno in grado di difendere la regina e Radamanto avrebbe avuto la strada spianata per finire quello che aveva iniziato, e Matisse non si era ancora messa in viaggio. Avrebbe già dovuto essere nei pressi del villaggio di Fogliadoro; ma forse Zefiro aveva avuto dei contrattempi o forse la ragazza era restia a partire, lo sarebbe stata anche lei nei suoi panni. Non che dubitasse di Zefiro, si fidava ciecamente di quel ragazzo, lo conosceva perfettamente, l’aveva allevato, educato, cresciuto, osservato e studiato non come un animale da laboratorio, ma in modo da riuscire a capire perfettamente i suoi pensieri e le sue emozioni. Le scappò un sorriso, pensando a lui ma tornò a concentrarsi subito sull’antidoto.
L’unica cosa che la preoccupava era come sarebbe riuscita a consegnarlo a Ebano, ma la fortuna doveva essere a suo favore perché fu proprio la donna dai lunghi capelli neri ad affacciarsi all’entrata della caverna. Procne dovette riconoscere che non era mai stata così contenta di vedere quella donna pedante e insistente.
«Il tuo rimedio ha funzionato» la informò allegra.
«Per il momento» aggiunse con tono lugubre Procne versando il contenuto del calderone in un’ampolla.
«Ne stai preparando un altro?» domandò Ebano osservando incuriosita il liquido rosa pallido nell’ampolla.
«Per te» rispose Procne consegnandoglielo.
«A cosa mi servirebbe?» chiese Ebano incredula.
«A salvarti la vita» rispose lapidaria Procne lasciando l’altra donna ancora più stupita e confusa. «Ora bevilo!» le ordinò porgendole una ciotola nella quale galleggiava una parte del liquido. Ebano era visibilmente turbata, e un po’ esitante eseguì l’ordine della donna, in fondo era la maga più saggia e potente che conosceva. Il liquido aveva un tenue sentore di rosa e un sapore per niente spiacevole.
«E conserva il resto, potrebbe servirti ancora» le raccomandò la donna prima di cacciarla via in malo modo. Ebano fece andare lo sguardo dall’ampolla che stringeva tra le dita sottili alla caverna della sua donatrice, chiedendosi il motivo di un tale dono.
 
Il momento della partenza era giunto, il tempo degli addii era imminente. Matisse, sulla soglia della casa in cui era cresciuta, era consapevole di tutto questo e un groppo di tristezza le opprimeva lo stomaco e le serrava la gola.
Non si sentiva pronta a lasciare la sicurezza d quelle mura per intraprendere un viaggio verso luoghi misteriosi, con un compagno ancora più misterioso. Le dispiaceva dover lasciare quel luogo fonte di tanti bei ricordi, il solo pensiero di dover lasciare tutti i luoghi e le persone che conosceva la rattristava. Ma tornerò si ripromise e quella flebile promessa l’aiutò a rincuorarla, almeno in parte.
Ma per il momento si trovava costretta ad abbandonarli, in particolare la burbera Ortensia che era stata per lei il padre e la madre che non aveva mai conosciuto e che forse non avrebbe mai visto.
Matisse indugiava sulla soglia di quella casa di legno e pietra, i bagagli pronti addossati alla parete e Zefiro che girellava impaziente per il cortile.
«Mi raccomando» le raccomandò Ortensia «stai attenta, metti in pratica i miei insegnamenti e usa la testa» Matisse sollevò lo sguardo verso la vecchia donna e incrociò i suoi acquosi occhi azzurro spento, in un improvviso impeto d’affetto l’abbracciò e affondò il viso nelle morbide vesti nere della donna che profumavano di incenso ed erbe. Ortensia dopo un breve istante di stupore ed esitazione ricambiò l’abbraccio, stringendo a sé quella ragazzina a cui, doveva ammetterlo, si era affezionata.
«Mi dispiace interrompere un momento così toccante ma dobbiamo muoverci» si intromise Zefiro. Sapeva di essersi comportato in maniera odiosa ma non vedeva l’ora di partire, prima avessero messo più distanza tra sé e loro, meglio sarebbe stato.
Le due sciolsero l’abbraccio e Matisse ricacciò indietro le lacrime che stavano iniziando a premere agli angoli degli occhi.
«Ho un dono per te» sussurrò Ortensia, Matisse iniziò a protestare dicendo che la donna aveva già fatto molto per lei, ma la Veggente la zittì con un gesto della mano, poi portò le braccia al collo ed estrasse dai molteplici strati di stoffa nera un medaglione: era un ovale in argento con incastonato un opale dalle mille sfumature diverse.
«Ma è bellissimo» sussurrò Matisse «non posso accettarlo»
La donna ignorò le proteste della ragazza e le allacciò il medaglione al collo.
«Ti proteggerà e forse, quando sarai regina, ti ricorderà una vecchia burbera e scorbutica che abitava in un recondito villaggio…» la ragazza non la lasciò finire e l’abbracciò di nuovo mentre calde lacrime le rigavano le guance.
«Sarai la nutrice dei miei figli» le promise, Ortensia rise «Non sono immortale, il tempo passa anche per me»
«Spero che almeno sarai presente alla mia incoronazione» replicò la ragazza.
«Ne dubito» sospirò la donna con un sorriso amaro che le increspava le labbra rugose, ma Matisse non sentì o fece finta di non aver sentito.
«Ora è meglio che tu vada o Zefiro partirà senza di te, ne sarebbe capace» disse la vecchia donna allontanandola dolcemente da sé.
La ragazza annuì, si asciugò le lacrime e, dato un ultimo abbraccio a Ortensia e un ultimo sguardo alla casa, si avviò dietro Zefiro.
Ortensia seguì le due figure con lo sguardo fino a quando non divennero due puntini indistinti inghiottiti dalla luce rosata del sole nascente, sospirò, chiedendosi se Matisse sarebbe stata pronta per affrontare quello che l’aspettava.
 
Il sole filtrava tra i rami degli alberi, ma non era ancora così alto né la sua luce così vivida da riuscire a penetrare completamente la coltre di foglie e riusciva solo a creare qualche pozza di luce che rischiarava un poco il sottobosco.
Zefiro camminava speditamente e Matisse riusciva a fatica a stare dietro alle sue lunghe falcate. Di questo passo arriveremo a Fogliadoro entro stasera pensò.
La strada che avrebbero percorso era un sentiero di ghiaia che si snodava tra i faggi, ma la casa di Ortensia era molto distante e per raggiungerla avrebbero dovuto attraversare un buon tratto di foresta.Zefiro sembrava molto impaziente di attraversarlo, inoltre continuava a volgere lo sguardo da parte all’altra, preoccupato e nervoso, come se temesse che da un momento all’altro potesse spuntare qualcosa dai cespugli. Ed era proprio quello che Zefiro temeva, avevano smontato l’accampamento e molto probabilmente li stavano cercando per quella foresta. Se solo Matisse camminasse più velocemente, sarebbero giunti prima alla strada principale. La ragazza, però, non riusciva a stargli dietro, arrancava e spesse volte si incespicava.
«Potresti rallentare?» la sentì dire, aveva il fiato corto e si era inciampata nuovamente nei suoi stessi piedi.
Zefiro si fermò per aspettarla, forse aveva esagerato, Matisse non era abituata a camminare per i boschi come lui e non aveva le sue gambe lunghe. La ragazza lo raggiunse stremata «Grazie» sussurrò. Zefiro la zittì, aveva sentito un rumore, un fruscio. Imprecò mentalmente e sperò che non fossero loro, non era pronto per affrontarli, la ferita non si era ancora rimarginata e nonostante non gli facesse male (Ortensia doveva davvero averlo drogato) lo rendeva impacciato e lento nei movimenti. Il fruscio si ripeté e anche Matisse lo sentì. Ti prego fai sì che non siano loro ripeteva Zefiro, con la mano sospesa sull’elsa della spada; anche Matisse aveva sfoderato l’arco, con una freccia incoccata e pronta a partire. Magari è solo un animale selvatico si disse Zefiro cercando di convincersi. Un altro fruscio e le fronde dei cespugli alla destra di Matisse si mossero, la ragazza puntò la freccia in quella direzione. I cespugli si mossero ancora e ne uscì un ometto piuttosto basso e mingherlino, con in testa un assurdo cappello a punta verde.
«Corniolo!» esclamò Matisse sollevata e stupita, abbassando l’arma «Che ci fai qui?»
«Secondo te?» rispose l’ometto cercando di liberare la giubba di cuoio che era rimasta impigliata in alcuni rami bassi «vengo con voi!» annunciò riuscendo finalmente con uno strattone a liberarla.
«Perché?» domandò Zefiro.
«Perché Matisse ha bisogno di protezione, è la principessa perduta, per mille bacche velenose!» rispose l’omuncolo.
«Quindi tu sai?» chiese la ragazza stupita.
«Perbacco! Sono stato io a portarti da Ortensia quando ancora eri un fagottino urlante» rispose Corniolo sistemandosi la bisaccia di cuoio che pendeva da una spalla.
«Ci sono già io a proteggerla» gli fece notare Zefiro; non voleva che l’ometto si unisse a loro, li avrebbe solo rallentati con le sue minuscole gambette storte e c’era già Matisse che camminava lentamente.
L’omuncolo squadrò Zefiro dall’alto in basso, per quanto glielo permetteva la sua statura, e si soffermò sul petto del ragazzo, sotto la camicia e la giubba si riusciva a intuire il rigonfiamento delle bende.
«Due mani in più che sanno brandire un’arma possono servirti, tu sei ancora debole, ragazzo, e nessuno conosce questi boschi meglio di me» replicò.
Zefiro sbuffò, in effetti un uomo in più, per quanto piccolo, sarebbe tornato utile soprattutto se, come sosteneva lui, conosceva quei boschi e quello che vi si nascondeva. Il ragazzo fece andare lo sguardo da Corniolo a Matisse che lo pregava con lo sguardo perché si unisse a loro. Si sentiva più sicura, e in un certo senso più protetta, sapendo che con lei viaggiava anche qualcuno che conosceva. Zefiro alla fine si ritrovò costretto ad acconsentire e Corniolo si unì ai due.
«Ci hai fatto prendere un enorme spavento» confessò Matisse a Corniolo dopo qualche momento di marcia nel più completo silenzio «pensavo che fossi una qualche belva feroce».
O peggio pensò Zefiro. Corniolo rise «So anche essere più pericoloso di una belva feroce, se voglio» anche Matisse sorrise.
«Come hai fatto a trovarci?» chiese poi.
«Sono andato da Ortensia e l’ho trovata in lacrime, la cosa mi ha stupito, in tanti anni non l’avevo mai vista piangere…le ho chiesto cosa fosse successo e lei mi ha risposto che eri partita per andare da una certa Pocne» «Procne» lo corresse Zefiro.
«Lei, comunque. Così, saputo che eri partita, sono corso a casa ho fatto in fretta i bagagli e ho preso una scorciatoia per riuscire a raggiungervi in tempo. Non mi sarei mai perdonato se ti avessi fatto andare in giro da sola.» concluse velocemente l’omuncolo.
«Non sarebbe stata in giro da sola» disse seccamente Zefiro, l’ometto fece un gesto di noncuranza con la mano.
Intanto erano finalmente giunti sulla strada principale, una striscia di ghiaia che serpeggiava tra gli alberi e su cui riusciva a transitare a malapena un carretto. Zefiro alzò lo sguardo verso il cielo, il sole stava per raggiungere il punto più alto, calcolò che sarebbero arrivati a Baccablu, il villaggio più vicino prima di Fogliadoro, in due giorni. In tempo per la festa del solstizio pensò con un sorriso triste. Quando era bambino desiderava partecipare alle feste dei villaggi vicini ma Procne non gliel’aveva mai permesso e così aveva partecipato alla sua prima festa a soli quindici anni. Era uscito di nascosto ed era andato fino a Roccascura, il villaggio più vicino, dove quella sera si sarebbe tenuta proprio la festa del solstizio. Si stava divertendo ma aveva esagerato con il sidro e quando dei ragazzini avevano iniziato a deriderlo, aveva perso il controllo. Era iniziata una lotta furibonda, dalle parole si era passati in fretta alle mani, e Zefiro stava avendo la peggio fino a quando dalle sue mani non era scaturito un dardo di luce blu cobalto che aveva colpito in pieno il petto di un ragazzo, ferendolo gravemente. Sconvolto era fuggito via e aveva confessato tutto a Procne, la maga era riuscita a guarire il ragazzo ma da allora Zefiro non aveva più messo piede in un villaggio né aveva usato i suoi poteri.
«C’è qualcosa che non va?» chiese una voce dolce e premurosa e Zefiro riemerse dai tristi ricordi della sua adolescenza. Matisse camminava accanto a lui, il viso visibilmente preoccupato.
«No, nulla» rispose il ragazzo cercando di usare un tono ed un sorriso convincenti. Matisse annuì e gli chiese quando sarebbero arrivati a Baccablu, il ragazzo le rispose e la ragazza tornò a chiacchierare con Corniolo,.
Le aveva mentito. Di nuovo. Come poteva conquistare la sua fiducia se continuava a mentirle? Era logico che preferisse la compagnia di Corniolo alla sua e che avesse insistito tanto perché si unisse a loro. Corniolo lo conosceva, si fidava di lui; per lei Zefiro era solo uno sconosciuto che si era ritrovata costretta a seguire, non si fidava di lui, glielo si leggeva in faccia, nonostante cercasse di dissimularlo. Zefiro sospirò e si ritrovò a pensare, ancora una volta, perché Procne avesse mandato proprio lui.
 
Radamanto camminava per i corridoi del castello, reggeva tra le mani una scatolina in legno, finemente decorata, anche quella gli era costata un sacco di soldi. Ma tutti i soldi spesi per una buona causa, non sono spesi invano si disse. Con quello che riteneva un sorriso caldo e cordiale bussò alla porta della camera di Ebano. Sperò che la Guaritrice non fosse già andata dalla regina e, per sua fortuna, così  non era. Infatti, fu proprio Ebano ad aprire la porta, era stanca, sfinita, i lunghi capelli neri le ricadevano molli sulle spalle, il viso era scialbo, sciupato, smunto e aveva perso un po’ della sua bellezza, gli occhi erano spenti e le occhiaie li facevano apparire più verdi.
«Milord! Che sorpresa!» esclamò la donna, esibendosi in un inchino frettoloso ma non privo di eleganza «chiedo perdono per lo stato pietoso in cui mi trovo, ma non mi aspettavo una vostra visita!»
«Milady, voi siete sempre splendida» replicò Radamanto profondendosi in un baciamano. Alle donne piacevano questo genere di galanterie.«Spero di non avervi disturbata» continuò fingendosi contrito.
«Certo che no, Milord! Ma prego, entrate pure e perdonate il disordine in cui si trova la mia camera».
La camera della Guaritrice era situata all’ultimo piano della torre sud, era una stanza circolare, molto spaziosa ma stipata di oggetti di ogni sorta: un enorme tavolo in pietra scura occupava tutta la parete davanti alla finestra, era ricoperto di libri aperti o chiusi, fogli volanti di pergamena, piume, ciotole in legno, vasetti, alambicchi, ampolle, bottiglie, bilance, pesetti e tantissimi altri oggetti; dalla parte opposta svettava un letto a baldacchino con tende in un tessuto leggero e semitrasparente di un verde scuro e cupo, il resto delle pareti era occupato da librerie in ebano traboccanti di libri, armadi che potevano contenere abiti, strumenti o ingredienti, e quelle che parevano essere mappe stellari; in un angolo della stanza si scorgeva un calderone in vetro sorretto da un treppiedi dello stesso materiale che avvolgeva il calderone in sinuose volute fiorite, sotto di esso baluginava la fiamma azzurrina di un fuoco magico, mentre in esso sobbolliva un liquido dorato dal forte odore di gelsomino che impregnava l’aria della stanza.
«Prego accomodatevi» lo invitò Ebano indicando un elegante divanetto imbottito di velluto rosso scuro «vorrei potervi offrire qualcosa da bere, ma temo di non aver nulla» si scusò la donna.
«Non serve Milady, ero passato qui solamente per, ecco, offrirvi un piccolo dono, come segno della mia immensa gratitudine per tutto quello che state facendo per mia sorella» rispose Radamanto porgendo la scatolina di legno alla Guaritrice.
«Non dovevate, Milord!» replicò questa con gli occhi che le brillavano per la curiosità. Quasi con reverenza prese la scatolina dalle mani dell’uomo e apertala, il suo viso si illuminò di colpo «Non dovevate» ripeté in un sussurro estraendo un anellino d’oro sottile ed elegante, il diamante incastonato nel mezzo gettava bagliori multicolori a seconda del taglio di luce «è meraviglioso. È troppo per me, questo dono è degno di una regina non di un’ umile Guaritrice» nei suoi occhi, però, si riusciva a leggere il profondo desiderio di indossarlo e mostrarlo a tutti. Radamanto si alzò «Milady, il vostro aiuto è tanto prezioso quanto quest’anellino, se non di più. Accettate questo dono come ringraziamento da parte di un uomo che non ha di meglio da offrirvi per dimostrare la sua immensa gratitudine.»
«Milord, quest’anello è un dono più che gradito e adatto a simboleggiare una tale gratitudine, che tra l’altro, trovo superflua dal momento che sto solo facendo il mio dovere. Accetterò, comunque, di buon grado questo dono che diverrà per me monito a perseguire in quello che sto facendo e ad impegnarmi sempre a fondo, nonostante le difficoltà e la stanchezza. Vi ringrazio molto per questo dono, Milord» ripose la donna inchinandosi profondamente e infilando subito l’anello al dito indice.
«E io ringrazio voi» replicò Radamanto baciandole delicatamente la mano su cui aveva appena messo l’anello «ora, vogliate scusarmi, ma ho molte incombenze che mi attendono. Vi auguro una buona giornata, Milady» e senza attendere risposta uscì dalla stanza con un sorriso trionfante sulle labbra.
Il dono era stato fatto, ora non restava che attendere e Radamanto era un uomo estremamente paziente.
   
 
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