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Autore: Ayr    18/06/2014    4 recensioni
Quando Matisse incontra Zefiro, un ragazzo affascinante ma misterioso, la sua vita tranquilla viene completamente sconvolta: il ragazzo infatti le rivela che lei è la principessa perduta, la legittima erede al trono di Heaven. Inizia così per lei un viaggio in compagnia di Zefiro, il cui silenzio pare nascondere un grande segreto, che la porterà dal tranquillo villaggio in cui vive alla caverna di Procne, una potentissima maga che aiuterà Matisse ad affrontare quello che le aspetta: non si tratta solo di sedere su un trono e di prendere sulle spalle tutte le responsabilità che esso comporta, Matisse infatti, dovrà prepararsi anche per una guerra perchè non è l'unica che ambisce a quel trono e c'è già chi trama nell'ombra per strapparglielo via.
Preparatevi ad accompagnare Matisse in questo viaggio tra maghi, battaglie, segreti, elfi e misteri. Siete pronti a partire?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Procne alzò lo sguardo verso il cielo stellato e sospirò. Quella notte aveva avuto un altro sogno premonitore e il suo contenuto non le era per niente piaciuto. In un frusciare di vesti scure la donna si avvicinò al calderone e ne inspirò gli effluvi, riuscì a calmarsi, almeno in parte. Con un nuovo sospiro si discostò dal calderone e si sedette sul suo giaciglio, incassato nella parete rocciosa della caverna, che pareva essere fatta di vetro nero.
Per la prima volta nella sua vita aveva paura.
La cosa che amava di più al mondo era in pericolo e lei non poteva fare nulla per impedirlo.
Era frustrante.
Un venticello fresco si insinuò nella caverna facendo vorticare i fumi del calderone. Procne li fissò con aria assente. A volte odiava quel compito di semplice spettatrice, in cui non doveva fare altro se non controllare che il destino seguisse il suo corso nei tempi e nei modi giusti, senza interferire in alcun modo. Quante ere si era vista passare davanti, a quante guerre aveva assistito, in quante creature aveva visto accendersi la fiamma della vita e in quante l’aveva vista affievolirsi e spegnersi, quanti avvenimenti aveva visto scorrere, facendo da mera spettatrice, senza prendervi mai parte.
Solo una volta aveva fatto l’errore di partecipare anche lei a quella storia che aveva solamente guardato da lontano con un misto di invidia e tristezza, l’aveva fatto per sentirsi di nuovo, per un breve istante, ancora parte di essa, ancora viva, ma adesso stava pagando le conseguenze di quell’effimero istante di vita.
Si era innamorata, di un Elfo Nero, tra l’altro, la creatura più subdola e opportunista che fosse mai esistita. Si era imbattuto in lui tempo fa, sul confine, quando la barriera era ancora solo un flebile nastro di luce azzurrina. L’aveva trovato riverso a terra, ferito gravemente. Procne non era riuscita a resistere e la sua natura compassionevole e altruistica l’aveva portata a curare quell’Elfo, a portarlo addirittura nella sua dimora, a sfamarlo e ad accudirlo. Avrebbe dovuto lasciarlo lì, il maledetto!
L’Elfo si era mostrato, dal canto suo, remissivo, docile e grato a Procne, e quando questa aveva manifestato i propri sentimenti nei suoi confronti, aveva risposto a quel tiepido e timido bocciolo d’amore con un’altrettanta timida e tiepida corresponsione. Pian piano il loro amore era cresciuto fino a diventare uno splendido fiore. Ma poi quel fiore era stato reciso quando l’Elfo Nero aveva abbandonato Procne, portando via con sé uno dei frutti del loro amore. L’altro, invece, l’aveva lasciato lì, con lei, forse perché troppo fragile o forse perché non aveva avuto il tempo o la voglia di prendere entrambi. Procne si era sentita ingannata: quell’amore che con tanta ingenuità e fiducia aveva donato era stato calpestato e profanato, gettato via, senza alcun rispetto. Il suo cuore deluso e martoriato pian piano si era chiuso lasciando solo un breve spiraglio per quel bambino che le riportava alla mente tristi ricordi ma che era pur sempre parte di lei, frutto del suo grembo. E ora quel frutto che con tanta cura e attenzione aveva accudito stava per morire: ecco il crudele castigo per aver trasgredito alle regole, per aver contravvenuto a quella legge che le imponeva di essere una semplice spettatrice del fluire degli eventi, una spettatrice di vite che si susseguivano una dietro l’altra. Una spettatrice di vite che non ne aveva una, che era morta quando si era assunta questo incarico e che aveva riacquisito, sottoforma di flebile scintilla accesasi in quell’unico istante di felicità ormai spezzato per sempre, che stava per essere spenta, di nuovo.
Procne sorrise amaramente «È dunque questa la tua punizione?» urlò, a nessuno in particolare «Lasciare che io veda mio figlio morire, senza poter far nulla per impedirlo? È davvero una dura punizione la tua!»
Procne ricadde sul giaciglio e per la prima volta, dopo molto tempo, le sue lacrime tornarono a bagnare le sue guance.
 
Erano passati quasi due giorni di cammino e già all’orizzonte si riusciva a distinguere il profilo incerto e frastagliato del villaggio di Baccablu. «Entro domani dovremmo raggiungere il villaggio» annunciò Zefiro allegramente. Il viaggio fino ad allora era stato tranquillo, non avevano avuto intoppi e soprattutto non avevano fatto spiacevoli incontri. Corniolo si era rivelato molto utile: conosceva quei boschi meglio delle sue tasche, sapeva dove trovare una fonte d’acqua fresca, o un cespuglio di succose more o bacche commestibili, o un punto sicuro in cui passare la notte. Anche quella notte era stata tranquilla, Zefiro l’aveva passata sveglio con la scusa di fare la guardia ma con il proposito di far sì che quelle presenze che lo tormentavano non l’assalissero, e aveva funzionato. Con un sorriso annunciò che era arrivato il momento di mangiare e l’annuncio venne accolto da un coro di acclamazioni di approvazione. Si sistemarono in una radura poco distante dalla strada che stavano percorrendo e tirarono fuori le loro provviste: pane, formaggio e qualche bacca scovata da Corniolo il giorno prima. Matisse si avventò sul suo pasto e lo divorò in poco tempo. Zefiro sorrise di nuovo, la ragazza non si era mai lamentata nonostante avessero camminato per tanto tempo a tappe serrate. Si aspettava una ragazzina viziata, vanitosa, piagnucolosa e insofferente e invece si era trovato davanti una ragazza forte e decisa, forse un po’ insicura e molto diffidente, ma sicuramente meglio di quanto avesse sperato.
«Poi ti devo controllare la ferita» gli ricordò. Lei era anche l’addetta alla sua ferita: due volte al giorno, ovvero ogni volta che si fermavano per mangiare, lei svolgeva le bende, controllava che la ferita non si fosse infettata e se stesse cominciando a guarire e poi riavvolgeva il tutto. Era moto delicata e attenta, ma la sua mano non era sicura come quella di Ortensia, segno che era ancora una Guaritrice alle prime armi. Zefiro ingurgitò gli ultimi bocconi di pane e iniziò a spogliarsi. Matisse si stava abituando a vederlo a torso nudo, ma ogni volta rimaneva per qualche momento come incantata, a contemplarlo. Con molta delicatezza iniziò a svolgere le bende e a scoprire pian piano il petto ben fatto e l’orrenda ferita che lo squarciava. Aveva iniziato a formarsi una debole crosticina, merito del cicatrizzante che Matisse aveva spalmato copiosamente sulla ferita. «Ti fa male?» gli chiese sfiorando i lembi di carne lacerata.
«Non più di tanto» rispose lui «tranne quando ci spalmi sopra quel cicatrizzante infernale».
Matisse sorrise «Purtroppo te ne dovrò mettere ancora», Zefiro imprecò tra i denti, quell’unguento verde pallido bruciava terribilmente e ogni volta che glielo spalmava sembrava che gli stesse rigirando una lava arroventata nella ferita; e non era finita, la ferita iniziava a prudergli e sentiva la pelle tirarsi ma lui non poteva far niente se non sopportare stoicamente il fastidio e il dolore. Matisse iniziò a riavvolgere le bende e quando strinse il nodo, il ragazzo sentì un’ultima atroce fitta. La ragazza gli aveva chiesto più volte come se la fosse procurata, ma il ragazzo si era sempre rifiutato di rispondere. Matisse lo guardò rialzarsi a fatica, il viso contratto in una smorfia di dolore, gli aveva anche offerto degli antidolorifici ma Zefiro si era rifiutato di prenderli, non poteva diventare dipendente da quelle cose o quando sarebbero finite, sarebbe finita anche per lui. Con ancora maggiore difficoltà il ragazzo si issò lo zaino in spalla pronto (più o meno) a ripartire.
 
Maledizione! Com’era possibile? Era passata un’intera giornata e quella Guaritrice rompiscatole girava ancora indisturbata per quel castello senza dare alcun segno di debolezza o sofferenza, al contrario sembrava più raggiante del solito e sprizzava gioia da tutti i pori. Dove ho sbagliato? A quell’ora avrebbe dovuto già essere morta e invece saltellava per il castello a mostrare a tutti l’anellino che avrebbe dovuto spedirla sottoterra.
«Oh Radamanto! Stavo cercando proprio voi!» cinguettò la donna. Radamanto imprecò sottovoce e si dipinse sul volto un sorriso di ostentata felicità e sorpresa. Gli si avvicinò con un sorriso radioso e gli prese una mano tra le sue.
«Volevo ringraziarvi» esordì «perché da quando mi avete dato quest’anello mi sento come rinata. Una nuova energia scorre dentro di me e anche la regina sta meglio. Non sentite? Le sue urla strazianti non dilaniano più i corridoi di questo castello. E tutto grazie a voi!» Radamanto temette per un breve istante che la Guaritrice lo prendesse in braccio e lo facesse girare, ma per sua fortuna non avvenne. «Ditemi, mi avete per caso donato un anello incantato?»
Sì, ma a quest’ora avrebbe dovuto farvi stramazzare al suolo, non saltellare come una capretta euforica pensò l’uomo «Credo piuttosto che la vera magia l’abbiate fatta voi e sia merito vostro e non di quest’anello, che non è altro che un cerchio d’oro» rispose invece un cerchio d’oro che mi è costato caro e non ha portato a nulla aggiunse mentalmente «Ora vogliate scusarmi se non mi intrattengo qui a festeggiare con voi, ma ho molte cose da fare. Buona giornata!» e senza attendere risposta si congedò da lei.
Percorse con passo spedito i corridoi del castello fino ad arrivare ad un’alta porta in mogano, finemente istoriata, l’aprì con un calcio e se la richiuse alle spalle con rabbia. Infuriato si diresse verso un armadio a muro, lo spalancò, ma al posto dei vestiti, si trovò davanti una scala che scendeva nelle viscere del castello. Scese i gradini con passo pesante e giunse in una lunga sala dalla forma ellittica, al centro di questa si stagliava un enorme tavolo in granito nero su cui era spalancato un libro dalla pesante copertina verde acido, lisa e usurata dal tempo. Radamanto si avvicinò al libro e scorse le parole vergate con inchiostro vere sulla pergamena ingiallita:
Veleno della morte silenziosa,
questo veleno è molto difficile da preparare, ma è poco conosciuto e garantisce una grande efficacia. La vittima infatti muore nel giro di 24 ore e i sintomi presentati sono gli stessi di un soffocamento. Inodore ed insapore, è un veleno molto efficace sia se viene assunto per via orale sia attraverso l’epidermide, ed è uno dei pochi veleni in grado di farlo…”
«Va alla malora!» urlò Radamanto scaraventando a terra tutto quello che gli capitò a tiro «Ventiquattro ore! Dannazione! Sarebbe già dovuta crepare» l’uomo iniziò a passeggiare per la sala passandosi una mano tra i folti ricci biondo miele.
«Come è possibile che sia ancora viva?» ragionava tra sé, tormentandosi le dita candide coperte di anelli «che abbia capito che l’anello era avvelenato e abbia assunto un antidoto?…mi sembra improbabile, non è così sveglia, non ha ancora capito che sono stato io ad avvelenare la regina…o forse si finge stupida apposta, eppure…» Radamanto era furibondo e confuso, non riusciva a capire perché il veleno non avesse funzionato.
«Aspetterò ancora un giorno» decise  infine «e se domani sarà ancora viva, mi arrangerò altrimenti»
Detto questo diede un’ultima occhiata al libro e uscì dalla stanza.
 
La luce stava declinando e le tinte rosso e rosa del tramonto avevano ceduto ormai il posto a quelle più cupe e scure della notte imminente.
«Ci conviene accamparci» annunciò Zefiro, Corniolo approvò e li guidò fino ad una radura piuttosto appartata, circondata da faggi.
La foresta dei Faggi dorati derivava il suo nome da quello che accadeva in autunno: le foglie di questi alberi, infatti, si tingevano di una calda tonalità dorata e dall’alto la foresta appariva come un medaglione d’oro con incastonato nel mezzo un lapislazzuli, il lago Ocred; il fiume Hara, immissario ed emissario del lago, fungeva allora da catenina per sostenere il medaglione e dare la possibilità di legarlo al collo di qualcuno. Molte leggende dicevano proprio che la foresta dei Faggi dorati fosse stata in realtà un prezioso medaglione appeso al collo di una non meglio identificata entità e che poi sarebbe caduto andando a formare quella che era la foresta. C’erano molte controversie a riguardo: a chi fosse appartenuto il medaglione, perché fosse caduto, perché e come sarebbe divenuto una foresta; ogni villaggio aveva la propria versione della storia e credeva che la sua fosse quella giusta. Mentre Matisse consumava la cena, le tornarono in mente tutte queste storie che Ortensia le raccontava davanti al fuoco nelle fredde sere invernali. Il pensiero della vecchia Veggente brontolona le fece spuntare un triste sorriso sulle labbra e si chiese cosa stesse facendo in quel momento. Se la immaginò nel salotto, stravaccata sui cuscini a leggere un libro, o nella sua camera da letto a guardare nella sfera di cristallo, oppure tutta sola nella cucina vuota a consumare una zuppa di verdure pensando a lei. Matisse cacciò questi pensieri, non aveva alcuna intenzione di piangere, non dopo due soli giorni di cammino. In quel momento si accorse di quanto fosse diventata silenziosa la foresta, sinistramente silenziosa: non un alito di vento scuoteva le fronde dei faggi, non un uccello notturno emetteva un verso, era tutto immobile e immerso in una calma surreale. Anche Cornelio e Zefiro parvero essersene accorti: il primo esaminava con sguardo guardingo la foresta, il secondo aveva lanciato un’imprecazione tra i denti e messo mano alla spada. Improvvisamente un fruscio ruppe la coltre di quel silenzio spettrale e Matisse li vide: sei ombre più scure che emergevano dalla foresta e presero pian piano i contorni di uomini, anche se non erano propriamente uomini, erano più alti, snelli e in un certo senso aggraziati, avevano visi più allungati e appuntiti, la loro pelle chiara pareva quasi rilucere sotto i raggi della luna e contrastava con il nero profondo dei loro capelli raccolti in una treccia o fermati con un semplice laccio, le loro dita lunghe e sottili stringevano spade che parevano essere fatte di vetro, le cui lame scintillavano di luce mortale colpite da quella della luna.
«Elfi Neri» sentì sussurrare Corniolo e Matisse se lo ritrovò accanto, aveva sguainato le asce e le brandiva minacciosamente contro le creature che si stavano avvicinando.
«Così l’hai trovata» disse uno di loro rivolgendosi a Zefiro, aveva una voce suadente ma che metteva i brividi.
«Peccato che non ti sia servito a nulla» aggiunse un altro «perché ce la prendiamo noi» la sua bocca priva di labbra si aprì in un sorriso grottesco.
«Già, tutta fatica sprecata» soggiunse un terzo menando un fendente che Zefiro riuscì ad intercettare con la sua spada. Ci fu uno stridore, qualche scintilla ed un gemito soffocato, la ferita al petto si era riaperta e una fitta atroce l’aveva fatto piegare in due dal dolore, ma non arretrò di un passo e mantenne la posizione. Intanto gli altri tre Elfi stavano avanzando, Matisse estrasse i suoi pugnali.
«Non ti serviranno a nulla quelli, ragazzina» disse uno di loro, era molto vicino, Matisse poteva vedere il colore dei suoi occhi: erano rossi, rosso sangue. La ragazza represse un grido.
«Non ti volgiamo fare del male» aggiunse quello alla sua sinistra «a noi servi viva»
«È il nano che vogliamo morto» replicò un terzo che calò la spada su Corniolo, il quale riuscì ad intercettare il colpo con una delle sue asce mentre con l’altra sventrò il petto dell’Elfo all’altezza dello stomaco.
«Prego, sono un mezzo gnomo, non un nano» disse e tranciò di netto la testa dell’Elfo. Matisse urlò inorridita, Corniolo si voltò verso di lei «Tu pensa a metterti in salvo, mi occupo io di questi» le disse preparandosi ad affrontare gli altri due Elfi.
Matisse si voltò e vide dall’altra parte i due Elfi torreggiare su Zefiro, il terzo era riverso a terra, una macchia scura che si allargava sul suo petto. Anche Zefiro era a terra, stremato, la ferita aperta sanguinava copiosamente e perdeva sangue anche dal braccio destro e dalla gamba sinistra; sopra di lui incombevano i due Elfi, uno con la spada alzata, pronto a dargli il colpo di grazia. Matisse agì senza pensare e con una prontezza e un’abilità che stupirono anche lei, scagliò uno dei due pugnali che andò a colpire la mano dell’Elfo con la spada levata, questo la lasciò cadere urlando di dolore e Zefiro ne approfittò per aprirgli uno squarcio che gli attraversava il petto da parte a parte. Il ragazzo, però, si era dimenticato dell’amico che ora gli puntava minacciosamente la spada alla gola. Un altro pugnale volò nell’aria sibilando e trapassò il collo dell’Elfo che cadde a terra con gli occhi e la bocca spalancati per la sorpresa. Matisse si voltò verso Corniolo, ma questi non aveva bisogno d’aiuto: illeso, a parte qualche graffio, guardava disgustato i cadaveri decapitati ai suoi piedi «Mai chiamare un mezzo gnomo nano» dichiarò con un sorriso.
In quel momento l’aria venne squarciata da un gemito e da un tonfo, Zefiro si era accasciato a terra. Matisse e Corniolo corsero da lui, si stringeva il petto lanciando strazianti grida di dolore. Matisse gli tolse la giubba blu, sotto la camicia era macchiata di sangue, con molta cautela gliela tolse e ordinò a Corniolo di usare le parti pulite per frenare il sangue che usciva dal braccio e dalla gamba. Intanto la ragazza aveva estratto il pugnale con lo smeraldo e tentava di togliergli le bende intrise di sangue, dalla ferita ne usciva molto frammisto a rimasugli verde pallido di cicatrizzante. Matisse iniziò a pulirla, ma il sangue non cessava di uscire.
«Dobbiamo cauterizzare la ferita» decretò la ragazza.
«Che?!» esclamò Corniolo.
«È l’unico modo che abbiamo perché si cicatrizzi in fretta e non esca più sangue né rischi di riaprirsi» spiegò la ragazza, il mezzo gnomo annuì, scettico; in quanto a Zefiro era troppo debole e inebetito dal dolore per riuscire a replicare qualcosa.
Matisse iniziò a dare istruzioni a Corniolo, il quale obbedì immediatamente. Mentre il mezzo gnomo cercava di accendere un fuoco per far arroventare una lama, la ragazza si occupò delle altre ferite del ragazzo; fortunatamente non erano così gravi come quella sul petto e le bastò pulirle, spalmarci del cicatrizzante e fasciarle. Corniolo intanto era ritornato con il pugnale dalla lama arroventata e un involto di stoffa.
«Sei abbastanza forte?» gli chiese Matisse.
«Perché?» domandò a sua volta lui.
«Dovrai tenere inchiodate al suolo le braccia di Zefiro, farà qualsiasi cosa pur di liberarsi, ma tu glielo dovrai impedire, qualunque cosa accada.» L’ometto annuì e si mise in posizione, la ragazza ficcò in bocca a Zefiro l’involto e fece un respiro profondo, poi, con estrema cautela, appoggiò la lama rovente sulla pelle lesa del ragazzo. Zefiro emise un urlo soffocato dalla stoffa e cercò subito di divincolarsi, ma la presa di Corniolo era salda. Più andava avanti nell’operazione, più le urla di Zefiro si facevano strazianti, iniziò a scalciare e a dibattersi selvaggiamente.
«Mi dispiace» gli sussurrava Matisse «ma è l’unico modo che abbiamo perché la ferita non sanguini più».
Le unghie del ragazzo si conficcarono a terra mentre le sue guance iniziarono ad essere rigate di lacrime. Fu un grande sollievo per tutti quando l’operazione terminò. Matisse osservò il lavoro finito: non era preciso ma considerando le condizioni nelle quali aveva operato, era un eccellente lavoro e si ritenne soddisfatta.
«Corniolo, vammi a prendere delle altre bende, per favore» chiese la ragazza all’omuncolo.
«Lo fasciamo di nuovo?» domandò stupito quest’ultimo.
«Meglio essere previdenti. Quando arriveremo a Baccablu dobbiamo far vedere questa ferita ad un Guaritore più esperto di me» rispose la ragazza.
«Se mai ci arriveremo a Baccablu» sentì dire, Zefiro si era liberato dell’involto di stoffa e protestava sonoramente «Avevate intenzione di uccidermi?» chiese mentre Matisse avvolgeva le bende intorno alla ferita cauterizzata.
«Dov’è la mia camicia?» chiese ancora mentre la ragazza stringeva il nodo.
«Vedi quell’involto di stoffa che tenevi in bocca? Lì in mezzo c’è la tua camicia, o quel che ne rimane» rispose lei alzandosi per andare a prendergliene un’altra.
Mentre lo aiutava ad infilarsela le sussurrò «Sapevo che erano nascosti qui, mi stavano seguendo. È da quando sono partito che…ah!…mi seguivano. E sapevo anche che prima o poi ci avrebbero attaccato…ah!… Potevamo morire tutti!» Le ultime parole vennero soffocate dalla stoffa della camicia nella quale stava infilando la testa.
«A dir la verità, l’unico messo male sei tu!» replicò la ragazza con un sorriso non appena vide sbucare la testa di Zefiro. Il ragazzo, davanti a quel sorriso, non poté far altro che sorridere a sua volta anche se c’era poco da stare allegri.

 



 
***

Per il prossimo capitolo dovrete aspettare un po', è ancora in fase di stesura...spero che fino ad adesso la storia vi sia piaciuta. Mi raccomando recensite, le vostre opinioni sono moto importanti per me ;)
   
 
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