11
A quel rumore ne seguirono
altri, molto più inquietanti, fatti di strepiti, respiri sibilanti e passi di
corsa.
Non
dovettero passare che pochi secondi, e dall’angolo sul fondo del corridoio i
tre uomini videro sbucare un vero esercito di EDA, che sguardi assatanati e
bocche grondanti di saliva correva verso di loro.
«Fuoco!».
Spararono
all’unisono, e poiché sia Raoul che Reynar non erano
nuovi all’uso delle armi il loro rateo di fuoco, oltre che considerevole,
risultò anche piuttosto preciso, ma questo non rendeva la loro situazione meno
tragica.
Per
quanti ne uccidessero quelli continuavano ad arrivare, e inoltre abbatterli non
era facile, con quel loro correre indeciso e quell’unico bersaglio vulnerabile,
la testa, che si muoveva di continuo da una parte all’altra come quella di uno
struzzo al galoppo.
«Ulrich, dannazione muoviti!»
«Sto
facendo il possibile, signore!» rispose il giovane, che per la prima volta
stava cedendo al panico e all’ansia.
Una
pallottola vagante andò a centrare una conduttura del gas che alimentava le
cucine provocando una fontana di fuoco che rallentò per qualche attimo
l’avanzata dei nemici, ma quasi subito entrò in funzione il meccanismo
antincendio che inondando d’acqua il corridoio iniziò a spegnere rapidamente le
fiamme.
«Ulrich!»
«Ci
sono!».
Le porte
alle spalle dei tre finalmente si aprirono, e con esse anche quelle dalla parte
opposta della stanza che dovevano percorrere.
«Ho craccato il sistema, ma non resteranno aperte per sempre!
Sbrigatevi!».
La
stanza in questione era costituita in realtà da due piccoli loculi spalancati
su di un’immensa galleria che portava le condutture di alimentazione per tutta
la nave, sopra le quali si poteva passare per un ponticello metallico lungo e
stretto: una perfetta strozzatura.
«Presto,
dentro!» ordinò Georg.
Salirono
sul ponticello, percorrendolo il più velocemente possibile, con quella massa di
mostri che spentesi le fiamme subito andarono loro dietro.
Georg
era l’ultimo del gruppo, e camminava all’indietro sparando tutto quello che
aveva, ma non si accorse che uno degli EDA, aggirando la prima linea con un
salto sovrumano, era sul punto di piombargli addosso.
«Attento!»
gridò Reynar che lo precedeva, e che con un tiro ben
piazzato fulminò l’aggressore facendolo precipitare nel baratro.
Si ebbe
quindi un cambio di posizioni, con Reynar ultimo
della fila, e lasciato perdere lo sparare agli assalitori tutti e tre si misero
a correre verso la salvezza.
Reynar non si
accorse che stavano iniziando i gradini del ponticello, e sentendosi mancare
all’improvviso la terra sotto i piedi cadde malamente in avanti battendo con
forza il ginocchio sul pavimento, tanto che quando provò a rialzarsi non gli
riuscì di trattenere le grida di dolore.
«Philippe!».
In quel
momento le porte iniziarono a chiudersi, e Georg, afferrati saldamente i
battenti, usò tutta la sua forza per tenerli faticosamente aperti, ma la
pressione era tale che non avrebbe resistito a lungo. Il vicesindaco gattonò i
pochi metri che lo separavano dalla porta, con Raoul che gli tendeva la mano il
più possibile; l’aveva appena afferrata, ed era già fuori dalla stanza con metà
del corpo, quando qualcun altro lo agguantò con forza dalla parte opposta,
affondandogli i denti nella gamba fin quasi a staccargliela.
Il suo
urlo fu assordante e spaventoso, e quando Georg, con i muscoli che tremavano
per lo sforzo, riuscì a guardare dinnanzi a sé, vide una decina di EDA
ammassati attorno alle gambe di Reynar, che tiravano
e mordevano con bestiale veemenza mentre altri si ammassavano per unirsi a
quelle specie di sadico tiro alla fune.
«Non
mollare!» continuava ad urlare Raoul, tirando con entrambe le mani.
Nel
disperato tentativo di salvare il compagno Georg lasciò andare la porta, che si
chiuse con uno scatto per fortuna non troppo violento, afferrando con una mano
il braccio di Reynar e prendendo a sparare attraverso
la fessura con quella ancora libera, ma quei maledetti mostri non volevano
saperne di arrendersi.
Reynar gridò
con tutta la voce che aveva, lanciando nel contempo urla di dolore mentre le
gambe gli venivano divorate, e nonostante tutti gli sforzi dei suoi due
compagni alla fine, con gli occhi sbarrati per e la faccia sconvolta per il
terrore, scomparve dietro le porte che si richiudevano, mentre le sue grida
rapidamente si spegnevano.
Raoul
restò a lungo immobile, seduto in terra, guardando verso la porta chiusa,
mentre Georg, riavutosi dallo shock, prese a tirare violenti calci al muro.
«Porca
troia! Come cazzo hanno fatto ad arrivare fin qui?»
«Non ne
ho idea, signore» tentò di giustificarsi Ulrich. «Il
computer dice che tutte le porte sono ancora chiuse.»
«E
allora quelli da dove cazzo sono usciti?».
A quel
punto, con la cucina isolata e gli EDA ad infestare quella zona, non c’era più
alcun modo per tornare indietro, ma al momento quello era l’ultimo dei loro
problemi.
«In
piedi, soldato» ordinò Georg tentando di far leva sui trascorsi militari di
Raoul per riportarlo alla ragione. «Quanto manca alla sala motori?»
«Circa… circa cento metri…» rispose
lui ancora sconvolto. «Ma dovremo fare delle deviazioni…»
«E
allora muoviamoci. Restare qui a piangere non servirà a niente».
Dato che il tragitto fatto
all’andata per raggiungere l’infermeria, a sentire Ulrich,
era ormai infestato, Vincent e il dottor Curtis non ebbero altra scelta che
passare per l’acquaparco, salendo di un ponte con
l’intenzione di scendere nelle stive usando un’altra scala di servizio ancora
sgombra dietro agli spogliatoi.
Lo
spettacolo che i due uomini trovarono varcando le porte stagne che immettevano
nella zona delle piscine, pensata e strutturata in modo da ricreare l’atmosfera
tropicale isolando quell’enorme androne dal resto della nave, fu però quanto di
più macabro si potesse immaginare: l’acquaparco era
dotato di tre piscine, di cui una con idromassaggio e una con grandi scivoli
che salivano fin quasi a lambire l’altissimo soffitto a volta, e persino un
piccolo laghetto di acqua termale che riproduceva le famose pozze di Zipangu, e in ognuna di quelle vasche galleggiavano senza
vita decine e decine di corpi, mentre altri giacevano inerti sulle mattonelle
bianche, il volto blu e la bocca innaturalmente spalancata. Alcuni poi avevano
le mani serrate con forza attorno al collo o vistosi tagli sulla gola, altro
sintomo che indicava chiaramente una morte per soffocamento.
Se non
altro non si muovevano, ma ciò non bastava a rendere spiegabile ed accettabile
tutto quell’orrore.
«In nome
del cielo, che è successo qui dentro?» domandò Vincent
«Probabilmente
c’è stato un guasto al sistema di aerazione. Quest’area è a tenuta stagna, e
quando è mancato l’ossigeno…».
Non fece
in tempo a finire di parlare, che Vincent notò una inspiegabile e minacciosa
increspatura nell’acqua, puntandovi subito contro il suo fucile.
Uno ad
uno, quegli innumerevoli cadaveri parvero tornare in vita, e quello che era
peggio molti di loro, avvolti da una luce inquietante, presero a mutare
rapidamente aspetto, trasformandosi in una schiera minacciosa di mostri dalle
forme più diverse, ma ugualmente spaventose.
Probabilmente
era colpa della polvere di krylium che veniva pompato
nell’acqua delle piscine allo scopo di renderla più traslucida e luminescente,
e che in qualche modo doveva essere riuscito a penetrare nei corpi
accentuandone la mutazione.
Ma il
problema era un altro.
«Ma che diavolo…» ringhiò Vincent. «Perché si sono risvegliati solo
adesso?».
La
risposta, ad un rapido calcolo, poteva essere soltanto una, e fece rabbrividire
il dottore.
«Oh, mio
Dio…» sussurrò sconvolto. «È di nuovo aerobico…».
Gli EDA
si fecero avanti minacciosi; se non altro, una volta tanto la trasformazione
sembrava aver indebolito le loro capacità atletiche invece di accrescerle,
tanto che Vincent non ebbe problemi a centrare i primi due proprio in mezzo agli
occhi.
«Presto,
andiamo via!».
Entrambi
si misero a correre verso l’uscita secondaria, da dove sarebbero potuti
scendere ai livelli inferiori, ma non riuscirono a fare molta strada che altri
mostri gli si pararono davanti bloccando loro il passo, e cercando ognuno una
soluzione diversa finirono per separarsi.
«Fermo,
restami vicino!» ordinò Vincent.
Il
dottore riuscì a dribblare alcuni mostri, sparando a casaccio più per panico
che per altro, ma mentre passava accanto dall’acqua termale due EDA sbucarono
d’improvviso da sotto la superficie, afferrandolo e trascinandolo urlante
nell’acqua torbida, che in pochi secondi si tinse di rosso, ribollendo come
lava.
«Dannazione!».
Rimasto
solo, e con entrambe le vie di fuga bloccate, Vincent non ebbe altra scelta che
arrampicarsi sulla riproduzione di una torre medievale da dove prese a far
saltare la testa ad ogni EDA che capitava nel suo mirino.
I nemici
caddero come mosche, ma sfortunatamente c’erano molti più EDA di quanti fossero
i proiettili a disposizione dell’Agente, che trovandosi a dover inserire il suo
ultimo caricatore cominciò a pensare che fosse la fine.
Poi però
notò un cavo che pendeva dal soffitto, un cavo elettrico senza dubbio,
malamente assicurato alla sua presa in un angolo dall’altro lato della stanza e
staccatosi probabilmente a causa dei ripetuti scossoni; per qualcun altro
sarebbe stato un colpo difficile o quasi impossibile, con un bersaglio così
piccolo e ad una distanza considerevole, senza contare i mostri che accalcatisi
attorno alla torre, non riuscendo a salire la scala a pioli, stavano cercando
invece di ribaltarla, ma Vincent non era “qualcun altro”.
Fece
scattare il carrello, si inginocchiò poggiando il calcio dell’arma sulla
spalla, regolò il mirino e vi appoggiò l’occhio, mentre tutto attorno a lui il
mondo pareva dissolversi, lasciandolo solo con il suo fucile, la sua mira, ed
il bersaglio che si stagliava al centro della croce; quindi, sparò.
La presa
saltò via, senza un graffio o un’ammaccatura, semplicemente separata dallo
spinotto dallo spostamento d’aria e da un tocco leggero. Il pavimento era
letteralmente inondato d’acqua, e anche gli EDA ne erano ricoperti, così quando
la spina sfiorò appena la superficie marmorea si scatenò una vera tempesta di
fulmini, e gli EDA finirono abbrustoliti cercando inutilmente di mettersi in
salvo, mentre l’aria si riempiva di un insopportabile olezzo di carne bruciata.
Alla
fine, nessuno di loro di mosse più, e qualcuno addirittura esplose per la
combinazione letale tra un tasso esorbitante di krylium
nel sangue e una scarica da migliaia di volt, e come fu certo di non avere
altri nemici attorno Vincent sparò nuovamente al cavo, recidendolo di netto.
Tornato
coi piedi per terra, provò a cercare tracce del dottor Curtis, ma quando trovò
un braccio mozzato coperto a malapena da una manica bianca imbrattata di sangue
a galleggiare nell’acqua rossa della piscina termale, capì che era
perfettamente inutile farsi delle illusioni.
«Ti
avevo detto di restarmi vicino, stupido.» e se ne andò, determinato più che mai
a restare vivo.
Ulrich provò in tutti i modi a debellare quel
virus che stava mettendo a soqquadro i sistemi della nave, ma ogni tentativo si
stava rivelando inutile.
Oltretutto,
era un virus piuttosto strano, e dal comportamento anomalo: analizzando il suo
percorso si poteva capire che, oltre non avere alcuna logica nei suoi movimenti
tra i vari server, alcuni li distruggeva completamente, altri invece li
attraversava senza quasi toccarli o alterarli.
«Ma che
razza di virus è mai questo?».
Ad un
certo punto fu evidente che la situazione era a tal punto compromessa che era
impossibile riuscire a ripristinare sia il pilota automatico sia, soprattutto,
il sistema di alimentazione dei motori, il che avrebbe reso praticamente
inutile riavviare i sistemi.
«Fanculo!» strillò allora il giovane tirando un pugno alla
consolle.
Quasi
per caso, aprendo le pagine a caso capitò in un altro archivio video,
trovandovi un altro file con un nome simile a quelli che aveva visionato poco
prima.
Più per
curiosità che per vera speranza di trovarvi qualcosa di utile, lo aprì.
Il viceComandante Shawn appariva ora
debilitato e molto debole, come se avesse avuto la febbre: i capelli erano
imperlati di sudore, appiccicati alla fronte e alle tempie, gli occhi
apparivano dilatati, inoltre si sentiva il suo respirare affannoso.
«Non c’è
niente da fare, non riesco a riavviare i sistemi. Non ho le conoscenze
necessarie.
Ma
forse, c’è ancora una possibilità. Il Comandante me ne ha parlato la sera che è
cominciato tutto questo.
Doveva
essere un segreto, ma a quanto pare nei meandri della nave è stato installato
il primo prototipo di Morpheus».
Ulrich
spalancò la bocca per lo stupore.
«Che
cosa ha detto!?».
Shawn si
fermò, tossendo violentemente.
«È
lontano da qui… ma è l’unica speranza. Se… se non ripristino tutti i sistemi, sarà imp… ossibile rimettere in moto
la nave.
Inoltre,
da ieri sera non mi sento bene» e mostrò il suo braccio, con una zona nera e
dall’aspetto incancrenito in prossimità del segno di un morso. «Temo che quelle… quelle bestie si portino dietro qualche malattia.
Spero di
riuscire a fare in tempo. Ogni minuto che passa, mi sento sempre più debole».
Il video
si interruppe di colpo, ma Ulrich aveva sentito
abbastanza da risollevarsi subito il morale.
Da
appassionato di informatica aveva letto tutto quello che si poteva leggere sul
Progetto Morpheus, ma mai si sarebbe sognato che ne
fosse già stato realizzato un prototipo, e che fosse oltretutto già stato
installato.
Una
tecnologia rivoluzionaria, sviluppata dall’Università di Otisa
per conto dell’aeronautica amalteca, in grado di
consentire l’accesso diretto a qualunque sistema operativo tramite una
connessione neurale che trasportava letteralmente l’utente all’interno del
software sì da averne un controllo totale, aggirando qualunque protezione.
Forse,
allora, una speranza c’era, e si ributtò subito al lavoro. Ovviamente era
impossibile che il luogo in cui si trovava Morpheus
fosse segnato sulle mappe, quantomeno su quelle cui era riuscito ad accedere,
ma con un po’ di ragionamento poteva arrivarci.
Aveva
letto che il sistema operativo alla base di Morpheus
necessitava di una grande quantità di energia, oltretutto di una frequenza
particolare e molto poco usata, ma anche di una ricercata condizione
atmosferica che favorisse il distacco tra la mente ed il corpo.
Alla
fine localizzò una stanza, non lontana dal condotto di manutenzione cinque, sospesa
apparentemente sul nulla nel mezzo di un enorme androne quasi al centro della
nave.
«Buongiorno,
Morpheus.» disse soddisfatto.
Joe aveva davvero una
resistenza fuori dal comune, tanto che pochi minuti dopo aver terminato la sua
lotta all’ultimo sangue con quell’EDA così coriaceo era di nuovo in piedi,
anche se un po’ malandato e visibilmente provato dallo scontro.
Appena
le forze glielo avevano concesso il giovane ranger aveva lasciato il condotto,
ma avventuratosi in un’altra zona delle stive aveva percepito, nuovamente, la
sgradevole sensazione di non essere solo, benché a detta di Ulrich
quella zona fosse a tal punto interessata da porte sprangate e deviazioni
create ad arte da risultare quasi inviolabile.
Certo
che non fosse solo un’impressione, Joe si mise sulle tracce del nemico, uno
solo a giudicare dal rumore e dalle vibrazioni, ma abbastanza scaltro ed intelligente
da fare l’impossibile per cercare di passare inosservato.
Per
lunghi minuti, in quella vasta area di carico traboccante di materiale vario,
fu una specie di gioco a nascondino, con uno che inseguiva e l’altro che si
nascondeva, cercando di quando in quando di tendere a propria volta delle
imboscate. La fuga sembrò destinata a concludersi quando Joe, appiattitosi
contro una grossa cassa, percepì distintamente la presenza del nemico
dall’altra parte dell’angolo, e veloce come un serpente si sporse puntando il
proprio fucile, solo per ritrovarsi la canna di una pistola poggiata sulla
fronte.
«Sergente
Marufuji!?».
La
ragazza spalancò i suoi grandi occhi neri in un moto incontenibile di felicità.
«Joe!
Grazie al cielo, finalmente ho trovato qualcuno! Allora siete ancora vivi!»
«Potremmo
dire la stessa cosa, Sergente» disse Ulrich
attraverso la radio di Joe. «Perché non ha risposto alle mie chiamate?»
«Perché
quei maledetti mostri mi hanno assalita all’improvviso!» protestò lei con fare
offeso. «È già tanto se sono riuscita ad uscirne viva! Hanno anche tentato di
mangiarmi!»
«L’hanno
morsa per caso?» domandò Joe non senza preoccupazione
«Per chi
mi hai presa? Ho la pelle dura, io. Anche se la tuta ha fatto comunque il suo
dovere.»
«Parlerete
più tardi.» tagliò corto Ulrich «Ora ho bisogno di
voi».
Seguendo
le sue indicazioni Joe e Mayu, ripassando attraverso
il condotto che Joe aveva chiuso poco prima, arrivarono al livello più basso,
subito prima dello spesso strato di titanorium che
costituiva la chiglia della nave.
«E
quella?» domando il ranger durante la camminata rivolto alla curiosa sciabola
corta che la sua nuova compagna portava dietro la schiena
«L’ho
trovata in una stiva. Forse dovevano farci qualche mostra.»
«Sembra
molto antica.»
«Credo
faccia parte dell’eredità dei miei antenati. Ho sentito dire che il popolo da
cui discendiamo usava spade come questa.
Ma
fidati, è davvero affilata. Pensa, sono riuscita a tagliarci persino una
porta».
Superato
da un lato all’altro un ampio androne che faceva da anticamera e un breve
corridoio immerso nel buio, i due agenti oltrepassarono una porta a doppio
scomparto, ritrovandosi una volta dall’altra parte in una specie di grande
stanza di contenimento, completamente spoglia, a percorrere una stretta
passerella aperta sul niente.
Al
centro, come sospesa, dall’altro lato del ponticello, gravitava una grande
sfera del diametro di circa dieci metri, collegata al soffitto da una colonna
di metallo che la rendeva simile ad un enorme lampadario e letteralmente
tappezzata di cavi, che come i fili della tela di un ragno ricoprivano ogni
cosa disegnando una rete inestricabile.
Per
entrare all’interno della sfera, in cui era custodito il cuore di Morpheus, occorreva però superare una seconda porta, che a
differenza della precedente era protetta da un formidabile sistema difensivo al
quale Ulrich, come Mayu vi
ebbe collegato il proprio computer da polso per facilitare la decrittazione,
cominciò subito a lavorare.
«Se il
cielo lo vuole» disse Mayu, «Questo maledetto incubo
presto sarà finito».
Joe però
non sembrava altrettanto fiducioso, e fissava con preoccupazione l’ingresso da
cui erano venuti, riuscendo lui solo a percepire i preoccupanti stridii che
giungevano dall’altra parte.
Mayu lo vide
stringere con forza i pugni, chinando il capo verso terra come in preghiera
mentre nei suoi occhi sembrava trasparire, per la prima volta, un barlume di
incertezza.
«Quanto
ti ci vorrà per aprire questa porta?» domandò con un filo di voce
«Non
saprei. Forse dieci minuti.»
«Posso
dartene al massimo cinque.»
«Joe…» disse Mayu «Ma cosa…».
Non ebbe
il tempo di finire, perché il giovane, sfilatale la spada e messole il proprio
auricolare nell’orecchio, si allontanò a passo veloce scomparendo dietro le
porte.
«Joe!
Aspetta! Dove vai?».
Cercò di
corrergli dietro, ma Ulrich la fermò.
«Non
farlo, Mayu!»
«Ma, Joe…»
«Lo sta
facendo per farci guadagnare tempo! Se non entri lì dentro sarà stato tutto
inutile!».
Mayu
tergiversò, indecisa, ma poi con i denti serrati e le lacrime agli occhi
costrinse il proprio corpo a restare immobile.
Un nugolo di EDA, almeno un
centinaio, come una mandria di iene attirate da una carcassa, procedeva
ferocemente lungo i corridoi della stiva verso il centro della nave.
Raggiunto
l’androne, i primi della fila si fiondarono nel corridoio che conduceva alla
stanza di Morpheus resi folli dalla fame, ma subito
dopo che furono scomparsi nel buio si udirono urla strazianti, poi il rumore di
corpi che cadevano al suolo.
Qualche
attimo dopo, Joe si fece avanti comparendo dall’oscurità, la lama ricurva
stretta tra le mani e imbrattata di sangue e lo sguardo gelido, ma allo stesso
tempo come vuoto, che parve persino spaventare quei mostri i quali, a rigor di
logica, non avrebbero dovuto conoscere la paura.
Il
ranger sfiorò con un dito il sangue sulla lama, e passatoselo sul volto vi
disegnò una serie di linee e segni che accrebbero ancora di più la ferocia e la
paura della sua apparizione. Sapendo la pericolosità di quelle creature per
chi, come lui, non poteva contare su poteri magici, non avrebbe mai fatto una
cosa del genere; ma quello era il suo ultimo atto, il suo Canto del Cigno, e
voleva morire alla maniera dei suoi avi, quei guerrieri senza macchia e senza
paura di cui aveva letto da piccolo nelle favole e nei libri.
«Non
andrete oltre questo punto. Parola mia».
Quindi,
fu lui a colpire per primo.
Con un
salto arrivò in mezzo al gruppo, e menando un solo fendente riuscì a decapitare
di netto tre EDA in un unico colpo, constatando con i propri occhi la superba
fattura di quella spada; quando gli EDA si decisero finalmente a rispondere Joe
se n’era già andato, lasciandogli però in regalo una granata stordente che
esplodendo li mandò ulteriormente nel panico, producendo una esplosione di fumo
che come una nebbia avvolse ogni cosa.
E da
quella nebbia Joe appariva e scompariva come un fantasma, correndo e movendosi
in modo così repentino che gli EDA, pur potendolo fiutare, non avevano il tempo
di contrastarlo, cadendo uno dietro l’altro.
«È un
Dio della Morte» disse sconvolto Ulrich assistendo
allo scontro attraverso i monitor.
Purtroppo,
Joe non era affatto un dio, e per quanto forte e resistente aveva anche lui il
suo limite.
Quando
il fumo si diradò i mostri attaccarono a testa bassa, e alla fine uno di loro
riuscì ad affondare i propri denti nella sua spalla perforando la tuta, un
momento prima di venire decapitato. Il sangue prese ad uscire a fiumi, e in
pochi secondi il giovane si ritrovò a corto di energie, ma seguitò a battersi
fino all’ultimo senza cedere di un millimetro.
Alla fine,
stremato e morente, cadde in ginocchio, ma ancora una volta gli EDA,
istintivamente spaventati, esitarono ad attaccare, aspettando forse il momento
in cui la preda sarebbe morta da sé.
A
fatica, e senza smettere un attimo di mulinare la spada, Joe riuscì a portarsi
fino alla più vicina parete, contro la quale si lasciò cadere, e un po’ alla
volta i nemici cominciarono a farsi avanti, stringendo sempre di più il cerchio
attorno a lui; alzò gli occhi verso la telecamera, certo che qualcuno lo stesse
guardando, rivolgendovi un’espressione quasi serena.
«Il mio nome… è Joe Debois. Quinto
squadrone Ranger di Eldkin. Agente Cadetto della Magic Administation Bureau».
Detto
questo, e cercando di contenere il tremore, prese dalla cintura la sua ultima
granata, quella dalle striature rosse, stringendola a sé come fosse stato un
grande tesoro.
«I
ranger aprono la strada» disse con un sorriso, tirando la linguetta.
Mayu sentì la stanza tremare ed il fragore di
una violenta esplosione, volgendosi verso l’ingresso con gli occhi sbarrati e
l’espressione sconvolta.
«Joe!»
«È finita…» mormorò Ulrich.
Alla
fine, Joe aveva resistito molto più di cinque minuti, ma né Ulrich
né Mayu ebbero voglia di festeggiare né si sentirono
sollevati quando finalmente la porta di Morpheus si
aprì; entrambi fecero appello alla volontà di concludere quanto prima quella
maledetta missione, sì da fare in modo che il sacrificio di Joe e la morte di tanti
poveri innocenti non risultasse vana, e messe da parte le lacrime Mayu varcò la soglia, che subito si richiuse alle sue
spalle ripristinando l’inviolabilità del santuario.
La
stanza, illuminata a giorno da decine di luci che si riflettevano su di una
superficie interamente bianca, era del tutto spoglia, fatta eccezione per una
grande poltrona posizionata esattamente al centro con braccioli, poggiatesta e
schienale leggermente inclinato, circondata da apparecchiature informatiche.
«Sarebbe
questo Morpheus?» domandò Mayu
«Non
l’ho mai visto prima d’ora, ma suppongo di sì».
Avvicinatasi,
Mayu notò una strana polvere simile a cenere che
ricopriva sia la poltrona che il terreno tutto attorno, e per qualche motivo le
salì una strana inquietudine che la fece esitare a lungo prima che, riavutasi,
la ragazza decidesse alfine di sedersi.
«Okay,
ci siamo» disse Ulrich armeggiando al computer.
«Dovrei essere in grado di attivarlo da qui».
Mentre
aspettava Mayu si guardò attorno, e lo sguardo le
cadde su di una luce ad intermittenza che lampeggiava sul bracciolo di
sinistra. Come la sfiorò, dinnanzi a lei comparve una finestra olografica
contenente una nuova registrazione del viceComandante
Shawn, il quale si presentava ora talmente pallido e
devastato nella sua figura da risultare inquietante: gli occhi erano rossi, e
colavano sangue, la bocca era tutta impastata da saliva mista a vomito, e la
carne, oltre che pallida, sembrava quasi stare ribollendo, ricoprendo il volto
di spaventose e grosse pustole.
«Non… non mi resta molto tempo. Ma questa è l’ultima… speranza.
Se
riesco a ripristinare i sistemi, il motore potrà tornare a funzionare…
Potremmo
far ripartire la nave. Non so se avrò la forza di farcela…
ma è l’unica alternativa che mi resta» quindi, si lasciò andare al pianto fatto
di sangue e lacrime, inquietante e devastante allo stesso tempo. «Se solo
avessi saputo che sarebbe finita così.
Mi
dispiace, Monika. Mi dispiace che sia finita così. Se
potessi tornare indietro…».
Terminata
quell’ultima registrazione, Mayu non riuscì a non
provare una enorme compassione per quel giovane morto troppo presto, prima di
poter correggere uno dei suoi tanti errori; perché morto doveva esserlo di
sicuro, se di lui non era rimasta che cenere.
«Ce l’ho
fatta» disse Ulrich. «Sono entrato nei sistemi di Morpheus.
Sei
pronta?».
La
ragazza trasse un respiro.
«Abbastanza.»
«D’accordo
allora. Cominciamo».
Tutti i
macchinari a quel punto si accesero, la stanza si riempì di uno strano ronzio,
e la poltrona sembrò diventare improvvisamente più calda; poi, quando una
specie di spinotto con una terminazione a forma di rete sbucò da dietro lo
schienale avvolgendo interamente la testa di Mayu, la
ragazza si sentì come strattonata, mentre una luce fortissima l’accecava.
Riaperti
gli occhi, a prima vista si trovava nello stesso identico posto, seduta su
quella poltrona bianca al centro della stanza sferica.
«Che è
successo?» domandò guardandosi attorno. «È andato storto qualcosa?»
«Niente
affatto».
Il solo
fatto che la voce di Ulrich non arrivasse più
dall’auricolare, sembrando invece una sorta di parlata ultraterrena che
giungeva da ovunque e da nessun posto, fu la prova per Mayu
che quello in cui si trovava forse non era più il Megonia.
«Aspetta,
vuoi dire che ora mi trovo…»
«All’interno
del sistema operativo centrale del Megonia. Esatto».
Confusa,
Mayu provò a toccare la parete della stanza,
sentendone la consistenza dura e la superficie fredda.
«Eppure
qui sembra tutto così reale.»
«Protocollo
di interfaccia. Il computer ha strutturato il sistema creando una simulazione
virtuale che riproduce la nave in tutto e per tutto.
Il che
significa che raggiungendo la sala del nucleo in cui mi trovo io, in linea di
logica dovresti poter ottenere il controllo totale di ogni sistema.»
«La sala
del nucleo, hai detto? D’accordo, ci vado subito».