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Autore: Carlos Olivera    20/06/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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A quel rumore ne seguirono altri, molto più inquietanti, fatti di strepiti, respiri sibilanti e passi di corsa.

Non dovettero passare che pochi secondi, e dall’angolo sul fondo del corridoio i tre uomini videro sbucare un vero esercito di EDA, che sguardi assatanati e bocche grondanti di saliva correva verso di loro.

«Fuoco!».

Spararono all’unisono, e poiché sia Raoul che Reynar non erano nuovi all’uso delle armi il loro rateo di fuoco, oltre che considerevole, risultò anche piuttosto preciso, ma questo non rendeva la loro situazione meno tragica.

Per quanti ne uccidessero quelli continuavano ad arrivare, e inoltre abbatterli non era facile, con quel loro correre indeciso e quell’unico bersaglio vulnerabile, la testa, che si muoveva di continuo da una parte all’altra come quella di uno struzzo al galoppo.

«Ulrich, dannazione muoviti!»

«Sto facendo il possibile, signore!» rispose il giovane, che per la prima volta stava cedendo al panico e all’ansia.

Una pallottola vagante andò a centrare una conduttura del gas che alimentava le cucine provocando una fontana di fuoco che rallentò per qualche attimo l’avanzata dei nemici, ma quasi subito entrò in funzione il meccanismo antincendio che inondando d’acqua il corridoio iniziò a spegnere rapidamente le fiamme.

«Ulrich

«Ci sono!».

Le porte alle spalle dei tre finalmente si aprirono, e con esse anche quelle dalla parte opposta della stanza che dovevano percorrere.

«Ho craccato il sistema, ma non resteranno aperte per sempre! Sbrigatevi!».

La stanza in questione era costituita in realtà da due piccoli loculi spalancati su di un’immensa galleria che portava le condutture di alimentazione per tutta la nave, sopra le quali si poteva passare per un ponticello metallico lungo e stretto: una perfetta strozzatura.

«Presto, dentro!» ordinò Georg.

Salirono sul ponticello, percorrendolo il più velocemente possibile, con quella massa di mostri che spentesi le fiamme subito andarono loro dietro.

Georg era l’ultimo del gruppo, e camminava all’indietro sparando tutto quello che aveva, ma non si accorse che uno degli EDA, aggirando la prima linea con un salto sovrumano, era sul punto di piombargli addosso.

«Attento!» gridò Reynar che lo precedeva, e che con un tiro ben piazzato fulminò l’aggressore facendolo precipitare nel baratro.

Si ebbe quindi un cambio di posizioni, con Reynar ultimo della fila, e lasciato perdere lo sparare agli assalitori tutti e tre si misero a correre verso la salvezza.

Reynar non si accorse che stavano iniziando i gradini del ponticello, e sentendosi mancare all’improvviso la terra sotto i piedi cadde malamente in avanti battendo con forza il ginocchio sul pavimento, tanto che quando provò a rialzarsi non gli riuscì di trattenere le grida di dolore.

«Philippe!».

In quel momento le porte iniziarono a chiudersi, e Georg, afferrati saldamente i battenti, usò tutta la sua forza per tenerli faticosamente aperti, ma la pressione era tale che non avrebbe resistito a lungo. Il vicesindaco gattonò i pochi metri che lo separavano dalla porta, con Raoul che gli tendeva la mano il più possibile; l’aveva appena afferrata, ed era già fuori dalla stanza con metà del corpo, quando qualcun altro lo agguantò con forza dalla parte opposta, affondandogli i denti nella gamba fin quasi a staccargliela.

Il suo urlo fu assordante e spaventoso, e quando Georg, con i muscoli che tremavano per lo sforzo, riuscì a guardare dinnanzi a sé, vide una decina di EDA ammassati attorno alle gambe di Reynar, che tiravano e mordevano con bestiale veemenza mentre altri si ammassavano per unirsi a quelle specie di sadico tiro alla fune.

«Non mollare!» continuava ad urlare Raoul, tirando con entrambe le mani.

Nel disperato tentativo di salvare il compagno Georg lasciò andare la porta, che si chiuse con uno scatto per fortuna non troppo violento, afferrando con una mano il braccio di Reynar e prendendo a sparare attraverso la fessura con quella ancora libera, ma quei maledetti mostri non volevano saperne di arrendersi.

Reynar gridò con tutta la voce che aveva, lanciando nel contempo urla di dolore mentre le gambe gli venivano divorate, e nonostante tutti gli sforzi dei suoi due compagni alla fine, con gli occhi sbarrati per e la faccia sconvolta per il terrore, scomparve dietro le porte che si richiudevano, mentre le sue grida rapidamente si spegnevano.

Raoul restò a lungo immobile, seduto in terra, guardando verso la porta chiusa, mentre Georg, riavutosi dallo shock, prese a tirare violenti calci al muro.

«Porca troia! Come cazzo hanno fatto ad arrivare fin qui?»

«Non ne ho idea, signore» tentò di giustificarsi Ulrich. «Il computer dice che tutte le porte sono ancora chiuse.»

«E allora quelli da dove cazzo sono usciti?».

A quel punto, con la cucina isolata e gli EDA ad infestare quella zona, non c’era più alcun modo per tornare indietro, ma al momento quello era l’ultimo dei loro problemi.

«In piedi, soldato» ordinò Georg tentando di far leva sui trascorsi militari di Raoul per riportarlo alla ragione. «Quanto manca alla sala motori?»

«Circa… circa cento metri…» rispose lui ancora sconvolto. «Ma dovremo fare delle deviazioni…»

«E allora muoviamoci. Restare qui a piangere non servirà a niente».

 

Dato che il tragitto fatto all’andata per raggiungere l’infermeria, a sentire Ulrich, era ormai infestato, Vincent e il dottor Curtis non ebbero altra scelta che passare per l’acquaparco, salendo di un ponte con l’intenzione di scendere nelle stive usando un’altra scala di servizio ancora sgombra dietro agli spogliatoi.

Lo spettacolo che i due uomini trovarono varcando le porte stagne che immettevano nella zona delle piscine, pensata e strutturata in modo da ricreare l’atmosfera tropicale isolando quell’enorme androne dal resto della nave, fu però quanto di più macabro si potesse immaginare: l’acquaparco era dotato di tre piscine, di cui una con idromassaggio e una con grandi scivoli che salivano fin quasi a lambire l’altissimo soffitto a volta, e persino un piccolo laghetto di acqua termale che riproduceva le famose pozze di Zipangu, e in ognuna di quelle vasche galleggiavano senza vita decine e decine di corpi, mentre altri giacevano inerti sulle mattonelle bianche, il volto blu e la bocca innaturalmente spalancata. Alcuni poi avevano le mani serrate con forza attorno al collo o vistosi tagli sulla gola, altro sintomo che indicava chiaramente una morte per soffocamento.

Se non altro non si muovevano, ma ciò non bastava a rendere spiegabile ed accettabile tutto quell’orrore.

«In nome del cielo, che è successo qui dentro?» domandò Vincent

«Probabilmente c’è stato un guasto al sistema di aerazione. Quest’area è a tenuta stagna, e quando è mancato l’ossigeno…».

Non fece in tempo a finire di parlare, che Vincent notò una inspiegabile e minacciosa increspatura nell’acqua, puntandovi subito contro il suo fucile.

Uno ad uno, quegli innumerevoli cadaveri parvero tornare in vita, e quello che era peggio molti di loro, avvolti da una luce inquietante, presero a mutare rapidamente aspetto, trasformandosi in una schiera minacciosa di mostri dalle forme più diverse, ma ugualmente spaventose.

Probabilmente era colpa della polvere di krylium che veniva pompato nell’acqua delle piscine allo scopo di renderla più traslucida e luminescente, e che in qualche modo doveva essere riuscito a penetrare nei corpi accentuandone la mutazione.

Ma il problema era un altro.

«Ma che diavolo…» ringhiò Vincent. «Perché si sono risvegliati solo adesso?».

La risposta, ad un rapido calcolo, poteva essere soltanto una, e fece rabbrividire il dottore.

«Oh, mio Dio…» sussurrò sconvolto. «È di nuovo aerobico…».

Gli EDA si fecero avanti minacciosi; se non altro, una volta tanto la trasformazione sembrava aver indebolito le loro capacità atletiche invece di accrescerle, tanto che Vincent non ebbe problemi a centrare i primi due proprio in mezzo agli occhi.

«Presto, andiamo via!».

Entrambi si misero a correre verso l’uscita secondaria, da dove sarebbero potuti scendere ai livelli inferiori, ma non riuscirono a fare molta strada che altri mostri gli si pararono davanti bloccando loro il passo, e cercando ognuno una soluzione diversa finirono per separarsi.

«Fermo, restami vicino!» ordinò Vincent.

Il dottore riuscì a dribblare alcuni mostri, sparando a casaccio più per panico che per altro, ma mentre passava accanto dall’acqua termale due EDA sbucarono d’improvviso da sotto la superficie, afferrandolo e trascinandolo urlante nell’acqua torbida, che in pochi secondi si tinse di rosso, ribollendo come lava.

«Dannazione!».

Rimasto solo, e con entrambe le vie di fuga bloccate, Vincent non ebbe altra scelta che arrampicarsi sulla riproduzione di una torre medievale da dove prese a far saltare la testa ad ogni EDA che capitava nel suo mirino.

I nemici caddero come mosche, ma sfortunatamente c’erano molti più EDA di quanti fossero i proiettili a disposizione dell’Agente, che trovandosi a dover inserire il suo ultimo caricatore cominciò a pensare che fosse la fine.

Poi però notò un cavo che pendeva dal soffitto, un cavo elettrico senza dubbio, malamente assicurato alla sua presa in un angolo dall’altro lato della stanza e staccatosi probabilmente a causa dei ripetuti scossoni; per qualcun altro sarebbe stato un colpo difficile o quasi impossibile, con un bersaglio così piccolo e ad una distanza considerevole, senza contare i mostri che accalcatisi attorno alla torre, non riuscendo a salire la scala a pioli, stavano cercando invece di ribaltarla, ma Vincent non era “qualcun altro”.

Fece scattare il carrello, si inginocchiò poggiando il calcio dell’arma sulla spalla, regolò il mirino e vi appoggiò l’occhio, mentre tutto attorno a lui il mondo pareva dissolversi, lasciandolo solo con il suo fucile, la sua mira, ed il bersaglio che si stagliava al centro della croce; quindi, sparò.

La presa saltò via, senza un graffio o un’ammaccatura, semplicemente separata dallo spinotto dallo spostamento d’aria e da un tocco leggero. Il pavimento era letteralmente inondato d’acqua, e anche gli EDA ne erano ricoperti, così quando la spina sfiorò appena la superficie marmorea si scatenò una vera tempesta di fulmini, e gli EDA finirono abbrustoliti cercando inutilmente di mettersi in salvo, mentre l’aria si riempiva di un insopportabile olezzo di carne bruciata.

Alla fine, nessuno di loro di mosse più, e qualcuno addirittura esplose per la combinazione letale tra un tasso esorbitante di krylium nel sangue e una scarica da migliaia di volt, e come fu certo di non avere altri nemici attorno Vincent sparò nuovamente al cavo, recidendolo di netto.

Tornato coi piedi per terra, provò a cercare tracce del dottor Curtis, ma quando trovò un braccio mozzato coperto a malapena da una manica bianca imbrattata di sangue a galleggiare nell’acqua rossa della piscina termale, capì che era perfettamente inutile farsi delle illusioni.

«Ti avevo detto di restarmi vicino, stupido.» e se ne andò, determinato più che mai a restare vivo.

 

Ulrich provò in tutti i modi a debellare quel virus che stava mettendo a soqquadro i sistemi della nave, ma ogni tentativo si stava rivelando inutile.

Oltretutto, era un virus piuttosto strano, e dal comportamento anomalo: analizzando il suo percorso si poteva capire che, oltre non avere alcuna logica nei suoi movimenti tra i vari server, alcuni li distruggeva completamente, altri invece li attraversava senza quasi toccarli o alterarli.

«Ma che razza di virus è mai questo?».

Ad un certo punto fu evidente che la situazione era a tal punto compromessa che era impossibile riuscire a ripristinare sia il pilota automatico sia, soprattutto, il sistema di alimentazione dei motori, il che avrebbe reso praticamente inutile riavviare i sistemi.

«Fanculo!» strillò allora il giovane tirando un pugno alla consolle.

Quasi per caso, aprendo le pagine a caso capitò in un altro archivio video, trovandovi un altro file con un nome simile a quelli che aveva visionato poco prima.

Più per curiosità che per vera speranza di trovarvi qualcosa di utile, lo aprì.

Il viceComandante Shawn appariva ora debilitato e molto debole, come se avesse avuto la febbre: i capelli erano imperlati di sudore, appiccicati alla fronte e alle tempie, gli occhi apparivano dilatati, inoltre si sentiva il suo respirare affannoso.

«Non c’è niente da fare, non riesco a riavviare i sistemi. Non ho le conoscenze necessarie.

Ma forse, c’è ancora una possibilità. Il Comandante me ne ha parlato la sera che è cominciato tutto questo.

Doveva essere un segreto, ma a quanto pare nei meandri della nave è stato installato il primo prototipo di Morpheus».

Ulrich spalancò la bocca per lo stupore.

«Che cosa ha detto!?».

Shawn si fermò, tossendo violentemente.

«È lontano da qui… ma è l’unica speranza. Se… se non ripristino tutti i sistemi, sarà imp… ossibile rimettere in moto la nave.

Inoltre, da ieri sera non mi sento bene» e mostrò il suo braccio, con una zona nera e dall’aspetto incancrenito in prossimità del segno di un morso. «Temo che quelle… quelle bestie si portino dietro qualche malattia.

Spero di riuscire a fare in tempo. Ogni minuto che passa, mi sento sempre più debole».

Il video si interruppe di colpo, ma Ulrich aveva sentito abbastanza da risollevarsi subito il morale.

Da appassionato di informatica aveva letto tutto quello che si poteva leggere sul Progetto Morpheus, ma mai si sarebbe sognato che ne fosse già stato realizzato un prototipo, e che fosse oltretutto già stato installato.

Una tecnologia rivoluzionaria, sviluppata dall’Università di Otisa per conto dell’aeronautica amalteca, in grado di consentire l’accesso diretto a qualunque sistema operativo tramite una connessione neurale che trasportava letteralmente l’utente all’interno del software sì da averne un controllo totale, aggirando qualunque protezione.

Forse, allora, una speranza c’era, e si ributtò subito al lavoro. Ovviamente era impossibile che il luogo in cui si trovava Morpheus fosse segnato sulle mappe, quantomeno su quelle cui era riuscito ad accedere, ma con un po’ di ragionamento poteva arrivarci.

Aveva letto che il sistema operativo alla base di Morpheus necessitava di una grande quantità di energia, oltretutto di una frequenza particolare e molto poco usata, ma anche di una ricercata condizione atmosferica che favorisse il distacco tra la mente ed il corpo.

Alla fine localizzò una stanza, non lontana dal condotto di manutenzione cinque, sospesa apparentemente sul nulla nel mezzo di un enorme androne quasi al centro della nave.

«Buongiorno, Morpheus.» disse soddisfatto.

 

Joe aveva davvero una resistenza fuori dal comune, tanto che pochi minuti dopo aver terminato la sua lotta all’ultimo sangue con quell’EDA così coriaceo era di nuovo in piedi, anche se un po’ malandato e visibilmente provato dallo scontro.

Appena le forze glielo avevano concesso il giovane ranger aveva lasciato il condotto, ma avventuratosi in un’altra zona delle stive aveva percepito, nuovamente, la sgradevole sensazione di non essere solo, benché a detta di Ulrich quella zona fosse a tal punto interessata da porte sprangate e deviazioni create ad arte da risultare quasi inviolabile.

Certo che non fosse solo un’impressione, Joe si mise sulle tracce del nemico, uno solo a giudicare dal rumore e dalle vibrazioni, ma abbastanza scaltro ed intelligente da fare l’impossibile per cercare di passare inosservato.

Per lunghi minuti, in quella vasta area di carico traboccante di materiale vario, fu una specie di gioco a nascondino, con uno che inseguiva e l’altro che si nascondeva, cercando di quando in quando di tendere a propria volta delle imboscate. La fuga sembrò destinata a concludersi quando Joe, appiattitosi contro una grossa cassa, percepì distintamente la presenza del nemico dall’altra parte dell’angolo, e veloce come un serpente si sporse puntando il proprio fucile, solo per ritrovarsi la canna di una pistola poggiata sulla fronte.

«Sergente Marufuji!?».

La ragazza spalancò i suoi grandi occhi neri in un moto incontenibile di felicità.

«Joe! Grazie al cielo, finalmente ho trovato qualcuno! Allora siete ancora vivi!»

«Potremmo dire la stessa cosa, Sergente» disse Ulrich attraverso la radio di Joe. «Perché non ha risposto alle mie chiamate?»

«Perché quei maledetti mostri mi hanno assalita all’improvviso!» protestò lei con fare offeso. «È già tanto se sono riuscita ad uscirne viva! Hanno anche tentato di mangiarmi!»

«L’hanno morsa per caso?» domandò Joe non senza preoccupazione

«Per chi mi hai presa? Ho la pelle dura, io. Anche se la tuta ha fatto comunque il suo dovere.»

«Parlerete più tardi.» tagliò corto Ulrich «Ora ho bisogno di voi».

Seguendo le sue indicazioni Joe e Mayu, ripassando attraverso il condotto che Joe aveva chiuso poco prima, arrivarono al livello più basso, subito prima dello spesso strato di titanorium che costituiva la chiglia della nave.

«E quella?» domando il ranger durante la camminata rivolto alla curiosa sciabola corta che la sua nuova compagna portava dietro la schiena

«L’ho trovata in una stiva. Forse dovevano farci qualche mostra.»

«Sembra molto antica.»

«Credo faccia parte dell’eredità dei miei antenati. Ho sentito dire che il popolo da cui discendiamo usava spade come questa.

Ma fidati, è davvero affilata. Pensa, sono riuscita a tagliarci persino una porta».

Superato da un lato all’altro un ampio androne che faceva da anticamera e un breve corridoio immerso nel buio, i due agenti oltrepassarono una porta a doppio scomparto, ritrovandosi una volta dall’altra parte in una specie di grande stanza di contenimento, completamente spoglia, a percorrere una stretta passerella aperta sul niente.

Al centro, come sospesa, dall’altro lato del ponticello, gravitava una grande sfera del diametro di circa dieci metri, collegata al soffitto da una colonna di metallo che la rendeva simile ad un enorme lampadario e letteralmente tappezzata di cavi, che come i fili della tela di un ragno ricoprivano ogni cosa disegnando una rete inestricabile.

Per entrare all’interno della sfera, in cui era custodito il cuore di Morpheus, occorreva però superare una seconda porta, che a differenza della precedente era protetta da un formidabile sistema difensivo al quale Ulrich, come Mayu vi ebbe collegato il proprio computer da polso per facilitare la decrittazione, cominciò subito a lavorare.

«Se il cielo lo vuole» disse Mayu, «Questo maledetto incubo presto sarà finito».

Joe però non sembrava altrettanto fiducioso, e fissava con preoccupazione l’ingresso da cui erano venuti, riuscendo lui solo a percepire i preoccupanti stridii che giungevano dall’altra parte.

Mayu lo vide stringere con forza i pugni, chinando il capo verso terra come in preghiera mentre nei suoi occhi sembrava trasparire, per la prima volta, un barlume di incertezza.

«Quanto ti ci vorrà per aprire questa porta?» domandò con un filo di voce

«Non saprei. Forse dieci minuti.»

«Posso dartene al massimo cinque.»

«Joe…» disse Mayu «Ma cosa…».

Non ebbe il tempo di finire, perché il giovane, sfilatale la spada e messole il proprio auricolare nell’orecchio, si allontanò a passo veloce scomparendo dietro le porte.

«Joe! Aspetta! Dove vai?».

Cercò di corrergli dietro, ma Ulrich la fermò.

«Non farlo, Mayu

«Ma, Joe…»

«Lo sta facendo per farci guadagnare tempo! Se non entri lì dentro sarà stato tutto inutile!».

Mayu tergiversò, indecisa, ma poi con i denti serrati e le lacrime agli occhi costrinse il proprio corpo a restare immobile.

 

Un nugolo di EDA, almeno un centinaio, come una mandria di iene attirate da una carcassa, procedeva ferocemente lungo i corridoi della stiva verso il centro della nave.

Raggiunto l’androne, i primi della fila si fiondarono nel corridoio che conduceva alla stanza di Morpheus resi folli dalla fame, ma subito dopo che furono scomparsi nel buio si udirono urla strazianti, poi il rumore di corpi che cadevano al suolo.

Qualche attimo dopo, Joe si fece avanti comparendo dall’oscurità, la lama ricurva stretta tra le mani e imbrattata di sangue e lo sguardo gelido, ma allo stesso tempo come vuoto, che parve persino spaventare quei mostri i quali, a rigor di logica, non avrebbero dovuto conoscere la paura.

Il ranger sfiorò con un dito il sangue sulla lama, e passatoselo sul volto vi disegnò una serie di linee e segni che accrebbero ancora di più la ferocia e la paura della sua apparizione. Sapendo la pericolosità di quelle creature per chi, come lui, non poteva contare su poteri magici, non avrebbe mai fatto una cosa del genere; ma quello era il suo ultimo atto, il suo Canto del Cigno, e voleva morire alla maniera dei suoi avi, quei guerrieri senza macchia e senza paura di cui aveva letto da piccolo nelle favole e nei libri.

«Non andrete oltre questo punto. Parola mia».

Quindi, fu lui a colpire per primo.

Con un salto arrivò in mezzo al gruppo, e menando un solo fendente riuscì a decapitare di netto tre EDA in un unico colpo, constatando con i propri occhi la superba fattura di quella spada; quando gli EDA si decisero finalmente a rispondere Joe se n’era già andato, lasciandogli però in regalo una granata stordente che esplodendo li mandò ulteriormente nel panico, producendo una esplosione di fumo che come una nebbia avvolse ogni cosa.

E da quella nebbia Joe appariva e scompariva come un fantasma, correndo e movendosi in modo così repentino che gli EDA, pur potendolo fiutare, non avevano il tempo di contrastarlo, cadendo uno dietro l’altro.

«È un Dio della Morte» disse sconvolto Ulrich assistendo allo scontro attraverso i monitor.

Purtroppo, Joe non era affatto un dio, e per quanto forte e resistente aveva anche lui il suo limite.

Quando il fumo si diradò i mostri attaccarono a testa bassa, e alla fine uno di loro riuscì ad affondare i propri denti nella sua spalla perforando la tuta, un momento prima di venire decapitato. Il sangue prese ad uscire a fiumi, e in pochi secondi il giovane si ritrovò a corto di energie, ma seguitò a battersi fino all’ultimo senza cedere di un millimetro.

Alla fine, stremato e morente, cadde in ginocchio, ma ancora una volta gli EDA, istintivamente spaventati, esitarono ad attaccare, aspettando forse il momento in cui la preda sarebbe morta da sé.

A fatica, e senza smettere un attimo di mulinare la spada, Joe riuscì a portarsi fino alla più vicina parete, contro la quale si lasciò cadere, e un po’ alla volta i nemici cominciarono a farsi avanti, stringendo sempre di più il cerchio attorno a lui; alzò gli occhi verso la telecamera, certo che qualcuno lo stesse guardando, rivolgendovi un’espressione quasi serena.

«Il mio nome… è Joe Debois. Quinto squadrone Ranger di Eldkin. Agente Cadetto della Magic Administation Bureau».

Detto questo, e cercando di contenere il tremore, prese dalla cintura la sua ultima granata, quella dalle striature rosse, stringendola a sé come fosse stato un grande tesoro.

«I ranger aprono la strada» disse con un sorriso, tirando la linguetta.

 

Mayu sentì la stanza tremare ed il fragore di una violenta esplosione, volgendosi verso l’ingresso con gli occhi sbarrati e l’espressione sconvolta.

«Joe!»

«È finita…» mormorò Ulrich.

Alla fine, Joe aveva resistito molto più di cinque minuti, ma né UlrichMayu ebbero voglia di festeggiare né si sentirono sollevati quando finalmente la porta di Morpheus si aprì; entrambi fecero appello alla volontà di concludere quanto prima quella maledetta missione, sì da fare in modo che il sacrificio di Joe e la morte di tanti poveri innocenti non risultasse vana, e messe da parte le lacrime Mayu varcò la soglia, che subito si richiuse alle sue spalle ripristinando l’inviolabilità del santuario.

La stanza, illuminata a giorno da decine di luci che si riflettevano su di una superficie interamente bianca, era del tutto spoglia, fatta eccezione per una grande poltrona posizionata esattamente al centro con braccioli, poggiatesta e schienale leggermente inclinato, circondata da apparecchiature informatiche.

«Sarebbe questo Morpheus?» domandò Mayu

«Non l’ho mai visto prima d’ora, ma suppongo di sì».

Avvicinatasi, Mayu notò una strana polvere simile a cenere che ricopriva sia la poltrona che il terreno tutto attorno, e per qualche motivo le salì una strana inquietudine che la fece esitare a lungo prima che, riavutasi, la ragazza decidesse alfine di sedersi.

«Okay, ci siamo» disse Ulrich armeggiando al computer. «Dovrei essere in grado di attivarlo da qui».

Mentre aspettava Mayu si guardò attorno, e lo sguardo le cadde su di una luce ad intermittenza che lampeggiava sul bracciolo di sinistra. Come la sfiorò, dinnanzi a lei comparve una finestra olografica contenente una nuova registrazione del viceComandante Shawn, il quale si presentava ora talmente pallido e devastato nella sua figura da risultare inquietante: gli occhi erano rossi, e colavano sangue, la bocca era tutta impastata da saliva mista a vomito, e la carne, oltre che pallida, sembrava quasi stare ribollendo, ricoprendo il volto di spaventose e grosse pustole.

«Non… non mi resta molto tempo. Ma questa è l’ultima… speranza.

Se riesco a ripristinare i sistemi, il motore potrà tornare a funzionare…

Potremmo far ripartire la nave. Non so se avrò la forza di farcela… ma è l’unica alternativa che mi resta» quindi, si lasciò andare al pianto fatto di sangue e lacrime, inquietante e devastante allo stesso tempo. «Se solo avessi saputo che sarebbe finita così.

Mi dispiace, Monika. Mi dispiace che sia finita così. Se potessi tornare indietro…».

Terminata quell’ultima registrazione, Mayu non riuscì a non provare una enorme compassione per quel giovane morto troppo presto, prima di poter correggere uno dei suoi tanti errori; perché morto doveva esserlo di sicuro, se di lui non era rimasta che cenere.

«Ce l’ho fatta» disse Ulrich. «Sono entrato nei sistemi di Morpheus.

Sei pronta?».

La ragazza trasse un respiro.

«Abbastanza.»

«D’accordo allora. Cominciamo».

Tutti i macchinari a quel punto si accesero, la stanza si riempì di uno strano ronzio, e la poltrona sembrò diventare improvvisamente più calda; poi, quando una specie di spinotto con una terminazione a forma di rete sbucò da dietro lo schienale avvolgendo interamente la testa di Mayu, la ragazza si sentì come strattonata, mentre una luce fortissima l’accecava.

Riaperti gli occhi, a prima vista si trovava nello stesso identico posto, seduta su quella poltrona bianca al centro della stanza sferica.

«Che è successo?» domandò guardandosi attorno. «È andato storto qualcosa?»

«Niente affatto».

Il solo fatto che la voce di Ulrich non arrivasse più dall’auricolare, sembrando invece una sorta di parlata ultraterrena che giungeva da ovunque e da nessun posto, fu la prova per Mayu che quello in cui si trovava forse non era più il Megonia.

«Aspetta, vuoi dire che ora mi trovo…»

«All’interno del sistema operativo centrale del Megonia. Esatto».

Confusa, Mayu provò a toccare la parete della stanza, sentendone la consistenza dura e la superficie fredda.

«Eppure qui sembra tutto così reale.»

«Protocollo di interfaccia. Il computer ha strutturato il sistema creando una simulazione virtuale che riproduce la nave in tutto e per tutto.

Il che significa che raggiungendo la sala del nucleo in cui mi trovo io, in linea di logica dovresti poter ottenere il controllo totale di ogni sistema.»

«La sala del nucleo, hai detto? D’accordo, ci vado subito».

 

  
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