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Song sembrava essersi calmato dopo il diretto
rifilatogli da Klaus, che oltre al dente gli aveva portato via anche il
rispetto e la considerazione di cui aveva goduto fino a quel momento tra una
ristretta cerchia di superstiti, ma in realtà non aveva ancora rinunciato
all’idea di risolvere quella situazione alla sua maniera.
Stava
semplicemente aspettando il suo momento, e con il tempo la sua pazienza sembrò
incominciare a venir premiata.
Quel duo
di ragazzini infatti stavano diventando nervosi a causa della perdita del
contatto radio con la squadra inviata alla sala motori, si ipotizzava a causa
dell’alto tasso di particelle magiche emesse dagli stessi che disturbava le
comunicazioni, e il tentativo continuo di ricontattare il loro nerboruto
caposquadra nero li stava tenendo impegnati.
Al
momento giusto, fece la sua mossa.
Approfittando
del fatto che la ragazza stava dandogli le spalle, e che quelli tutto attorno
si stavano facendo ognuno i fatti propri, si avvicinò camminando basso, gli
occhi ben fissi sulla pistola riposta nella fondina alla cintura.
Solo Hilda, seduta in terra poco lontano, se ne accorse, ma
quando ormai era troppo tardi.
«Attenta,
Amanda!» strillò, ma a quel punto Song aveva già
l’arma tra le mani.
Istintivamente
la bambina tentò di fermarlo, ma lui senza difficoltà riuscì a liberarsi della
sua stretta esitante, mettendola fulmineo davanti a sé e puntandole la pistola
alla testa.
«Che
diavolo stai facendo, pazzo incosciente?» urlò Klaus
«Mi
salvo la vita. Non so voi, ma io non intendo restare qui un minuto di più. Ora
aprirò quella porta e me ne andrò per conto mio.»
«Se apri
quella porta, metterai a rischio tutte queste persone» lo ammonì Amanda. «Gli
EDA ti salteranno addosso in massa.»
«Sempre
meglio che restare chiusi in questa cazzo di trappola aspettando di fare la
fine del topo. E sono sicuro di non essere il solo a pensarla così, dico
bene?».
Di
nuovo, una parte dei sopravvissuti si mostrò accondiscendente nei riguardi
dell’uomo, rivelando, chi palesemente chi in maniera più sommessa, di
condividerne il pensiero.
Quelli
più audaci si fecero avanti, e su ordine del loro autoproclamato capo presero
quante più armi possibili per poi raccogliersi attorno alla porta nel tentativo
di aprirla. Tuttavia, forse per la tensione o per inesperienza, uno di loro
aprì l’ultimo chiavistello con troppa veemenza, dimenticandosi inoltre di
trattenere il battente, che infatti privato da un istante all’altro di ciò che
lo bloccava si aprì con inaudita violenza producendo forte rumore.
Song si
rivolse quindi nuovamente alla folla.
«Signori!
Chiunque volesse venire con noi, è libero di seguirci! Almeno avrete una
possibilità!».
Klaus
era sicuro che nessuno sarebbe stato tanto incosciente da dare retta a quel
pazzo, ma la paura e la voglia sconfinata di far finire quanto prima
quell’incubo furono la molla che spinse più di un centinaio di superstiti ad
accettare la proposta di Song.
«Non
fatelo» tentò di dire Amanda mentre questi, uno per volta, se ne andavano. «Non
arriverete mai alle scialuppe, e condannerete a morte queste persone.»
«Sai che
ti dico, non me ne frega niente».
Quasi
senza volerlo Song allentò un momento la presa, ed Hilda immediatamente ne approfittò per mordergli la mano
più forte che poteva, un morso potentissimo che per poco non gli portò via un
pezzo di carne.
«Maledetta
mocciosa!» tuonò iracondo scaraventandola contro il muro.
Più per
rabbia che per necessità vera Klaus sparò fulmineo al nemico, centrandolo ad
una spalla, e questi rispose a sua volta con un colpo che, se non fosse stato
per la tuta antiproiettile, avrebbe provocato al ragazzo ben più che un
tremendo dolore al petto, abbastanza forte da farlo cadere in ginocchio mezzo
svenuto.
«Addio,
signori» ringhiò Song andandosene con una mano
stretta sulla ferita.
Song faceva tanto lo spaccone, ma in realtà
non aveva la minima idea di come fare per raggiungere le scialuppe.
Per
fortuna c’erano le indicazioni affisse sulle pareti, e volendole seguire a
tutti i costi lui e i suoi fedelissimi non esitarono ad aprire manualmente, a
volte mettendoci solo un po’ di forza a volte con qualche scarica di mitra,
tutte le porte che Ulrich aveva chiuso nel tentativo
di confondere e bloccare gli EDA.
Se non altro,
il gruppo riuscì a salire di due ponti senza incontrare anima viva, e quando
arrivarono nel grande ristorante a quattro stelle, ultima stanza da superare
prima di arrivare ai ponti di salvataggio, i più pensarono che ormai fosse
fatta.
«Sembra
che non ci sia nessuno.» osservò uno
«E
quelli laggiù erano tanto preoccupati» commentò cinico Song.
«Peggio per loro. Che crepino. Muoviamoci».
Tra i
pochi esaltati c’era però anche tanta gente spaventata, che seguiva il gruppo
stando nelle ultime file e guardandosi costantemente attorno.
Solo le
luci sceniche erano accese, e gettavano sulla stanza un’atmosfera spettrale,
minacciosa, fatta di ombre sinuose che potevano nascondere ovunque potenziali
minacce.
Una
anziana coppia di coniugi erano gli ultimi della fila, ed erano anche i più
terrorizzati, tanto che quelli che gli stavano davanti dovevano continuamente
richiamarli perché non si perdessero.
«Caro,
ho visto qualcosa.» disse ad un certo punto la donna
«Eudora,
è la centesima volta che lo dici. È già abbastanza difficile così. Hai deciso
di farmi prendere un colpo?».
L’anziano
fu assalito alle spalle e sbranato prima che potesse rendersene conto, e l’urlo
della signora le rimase strozzato in gola quando un altro EDA le saltò addosso
uccidendola come era accaduto al marito.
Da un
secondo all’altro, una trentina di EDA sbucarono da alcune delle porte
secondarie che immettevano nei vari corridoi, circondando completamente il
gruppo e prendendo a farne scempio. I sopravvissuti, terrorizzati e colti di
sorpresa, tentarono a malapena di resistere, ma quasi subito la loro difesa si
tramutò in una fuga incontrollata in ogni direzione che, come accaduto quando
tutto quell’orrore aveva avuto inizio, ebbe il solo risultato di spingerli più
facilmente tra le braccia di quei mostri segnando la loro fine.
Song dal
canto suo sparò tutti i colpi che aveva nel caricatore, e quando rimase a secco
senza pensarci corse a perdifiato verso l’uscita secondaria, chiudendosela alle
spalle e bloccandola gettandovi contro un pesante armadio.
Così,
quando uno di quelli che lo avevano seguito fin dall’inizio riuscì a sua volta
a raggiungere la via di salvezza, con suo grande sgomento la trovò bloccata.
«Figlio
di puttana, torna indietro!» urlò all’indirizzo dell’uomo che scappava
attraverso l’oblò, per poi venire assalito alle spalle da due mostri, con uno
che gli portò via mezza gola e l’altro che gli strappò il braccio a forza di
tirare.
Rimasto
solo, e barcollante per la ferita che non smetteva di sanguinare, Song raggiunse infine i portelli delle scialuppe di
salvataggio. Era solo questione di un altro sforzo, l’ultimo, e tutto sarebbe
finalmente finito.
Certo,
non poteva immaginare che un passeggero sopravvissuto miracolosamente
all’assalto iniziale si fosse rifugiato proprio nella scialuppa che Song scelse di aprire, ma fosse morto prima di riuscire ad
azionare il distacco.
Song ebbe
giusto il tempo di visualizzare nella mente due occhi assatanati e una fila
spaventosa di denti, e subito dopo nell’area tutto attorno risuonò un acuto e
straziante urlo di dolore.
Morpheus era stato in grado di replicare il Megonia con una fedeltà quasi disarmante.
Dalle
porte ai corridoi, dalle scale agli ascensori, tutto era perfettamente
riprodotto, al punto che per Mayu risultava quasi
difficile immaginare che si trattasse di un mondo virtuale.
L’unica
conferma al fatto che quella non fosse la realtà veniva, oltre che dalla voce
ultraterrena di Ulrich, dalla forte luce bianca che
proveniva dagli oblò e dalle vetrate che la ragazza incontrava lungo la strada,
come se la nave si fosse trovata a galleggiare sul nulla.
Altra
cosa erano il silenzio, oltre alla totale assenza di qualsivoglia anima viva,
ma era una cosa piuttosto naturale. Quello che appariva insolito, invece, era
lo stato in cui la ragazza trovò alcune parti di quella specie di nave
virtuale, completamente devastate come se ci fosse passato un uragano.
«È colpa
del virus» le spiegò Ulrich. «Il computer ha
riprodotto le alterazioni causate ai server sottoforma di danni fisici.»
«Ehi,
aspetta un momento! Se è vero quello che dici, allora anche il virus dovrebbe
essere qui da queste parti! Che faccio se lo incontro!?»
«Non
preoccuparti. Per poter accedere al programma di rielaborazione digitale è
necessario accedere al software di Morpheus, e a
quanto mi risulta questo non è stato toccato».
Almeno,
pensò Mayu, non c’era il rischio di incontrare
qualche cyber-EDA ansioso di farsi una sana mangiata
con la sua carne virtuale.
Dalla
stiva, con uno dei tanti ascensori la giovane arrivò nel salone centrale, o
almeno nella sua riproduzione, da dove avrebbe potuto raggiungere l’ascensore
di servizio che l’avrebbe condotta alla sala del nucleo.
«Ci sei
quasi. Prendi la porta al terzo piano dall’altra parte della balconata, scendi
di tre livelli e ci sei».
Mayu fece per
obbedire, ma all’improvviso udì un rumore metallico molto strano, e certamente
inquietante, che la particolare conformazione della stanza tramutò in un eco
impossibile da localizzare.
«Che è
stato!?» domandò guardandosi attorno spaventata.
Contemporaneamente,
anche Ulrich notò qualcosa di insolito nel flusso di
dati, ma dapprincipio non gli venne neanche lontanamente da pensare che potesse
trattarsi proprio del virus.
Passò un
attimo, e alzato lo sguardo Mayu si vide letteralmente
piovere addosso un pezzo di colonna che riuscì ad evitare per il rotto della
cuffia rotolando sul pavimento, e quando risollevò lo sguardo dinnanzi a lei
era comparso un essere ributtante: l’aspetto era ancora umano, ma il volto e le
braccia lasciate scoperte erano di un colore olivastro e pieni di piaghe; gli
occhi, quasi invisibili tra le pustole e i capelli arruffati, erano rossi e
minacciosi, la bocca quasi priva di labbra, e i vestiti, oltre che strappati,
erano anche lordi di sangue.
«Ma questo…» disse impietrita la ragazza riconoscendo in
quell’essere deforme i tratti del viceComandante Shawn.
Ulrich rimase
a propria volta basito, non riuscendo a capire come potesse essere possibile;
la risposta però, a pensarci, poteva essere solo una.
«Oh, mio
Dio. Allora è lui il virus».
Ora era
chiaro. Era per questo che quel virus, se così lo si poteva chiamare, aveva
attaccato a casaccio senza seguire una logica; era furia bestiale pura e
semplice, tipica di un qualunque EDA.
Senza
tanti complimenti Shawn caricò Mayu,
che istintivamente sfoderò la pistola premendo due volte il grilletto, ma tutto
quello che uscì dalla canna fu aria.
«Ma che…».
Il pugno
che ricevette fu come una cannonata, talmente forte da spararla addosso alle
scale quasi svenuta; ma la cosa più sconvolgente fu, quando tentò di
riprendersi, vedere parte del proprio corpo che per un attimo sembrò svanire,
dissolvendosi in una sorta di effetto nebbia.
«Sta
attenta! Quell’avatar è la proiezione della tua mente! Se ti danneggia troppo
il legame si spezzerà e resterai intrappolata lì dentro!»
«Potevi
anche dirmelo prima, dannazione!».
L’EDA
tentò un secondo assalto, ma stavolta Mayu lo prese
in controtempo e se la diede a gambe, salendo la scalinata e iniziando a
correre in ogni direzione.
«Ma si
può sapere che ci fa lui qui?» domandò mentre scappava
«Deve
essersi connesso quando l’infezione era sul punto di consumarlo. Sia il corpo
che la mente sono stati danneggiati dal virus, e quando il corpo fisico è morto
la mente è rimasta intrappolata lì dentro.»
«E
perché le mie armi non funzionano?»
«Quello
non è il mondo reale. È solo una proiezione virtuale. La tua pistola è solo
decorativa.»
«Fantastico!
E ora come ce ne sbarazziamo?».
Ulrich provò
a lanciare un antivirus, che apparve nel mondo virtuale come una sorta di
nuvola rossa simile ad un denso cumulo di vapore, ma come temeva questo si
rivelò del tutto inefficace, transitando da una parte all’altra della stanza
per poi scomparire senza prestare la minima attenzione all’EDA, che imperterrito
continuò ad inseguire Mayu.
«È come
temevo. Non si tratta di un bug vero e proprio, quindi gli antivirus e i
firewall non lo riconoscono.»
«Fantastico,
e ora che faccio?».
Klaus e gli altri, passata
la tempesta, tentarono in ogni modo di richiudere la porta e ripristinare
l’inviolabilità della stanza, ma per quanto si sforzassero di tirare il
battente non voleva saperne di muoversi, e il varco seguitava a rimanere
aperto.
«È
inutile» mugugnò contrariato uno. «Il meccanismo di scorrimento è saltato. Questa
porta non si muoverà.»
«Fanculo!» strillò Klaus prendendola a calci.
Amanda
sorvegliava il buio, usando le sue abilità di maga per scorgere prima di altri
eventuali minacce.
«Arriva
qualcuno.» disse notando un’ombra in lontananza e conseguente rumore di passi.
Tutti
quelli che avevano un’arma la puntarono verso la porta, e per lunghissimi
istanti l’aria fu carica di una tensione allucinante.
«Non
sparate, sono io!» si sentì urlare.
I due
agenti abbassarono le armi, e dopo poco Vincent sbucò dall’ultima barricata di
fortuna, un po’ ammaccato ma in buona salute.
«Allora
siete ancora vivi.»
«Potremmo
dire lo stesso di te» replicò Klaus. «E Jacob?»
Vincent
chinò il capo; la sua espressione diceva tutto.
«Mi
dispiace.» disse Amanda
«Abbiamo
altri problemi. Ulrich aveva detto di aver bloccato
questo posto, ma ho trovato un sacco di porte aperte venendo qui.»
«È colpa
di quello stronzo di Song» disse Ulrich.
«Hai visto anche degli EDA?»
«Non da
queste parti. Ma se non troviamo il modo di isolare nuovamente questa stanza,
temo che non resteremo soli molto a lungo».
Ulrich, prima di essere un Agente, era stato un
hacker; uno dei tanti modi con cui un rampollo di buona famiglia senza molto da
fare e con poche attenzioni da parte dei genitori poteva ammazzare il tempo.
Per
questo era entrato nell’agenzia: perché quando infine lo avevano colto sul
fatto l’avevano costretto a scegliere tra un lungo periodo di detenzione e
mettere le proprie capacità al servizio dell’Agenzia.
E come
amava dire sempre, se si sa come creare una cosa, nella fattispecie un bug da
computer, si sa anche come distruggerla.
Dovette
pensarci qualche minuto, dal momento che si trattava di un virus che definire
anomalo era poco, ma alla fine pensò di aver trovato la soluzione, e subito si
mise al lavoro.
Nel
mentre, Mayu attendeva, nascosta in un anfratto del
salone, le ginocchia raggomitolate e il volto ben infilato nell’incavo per
nascondere quanto più possibile il rumore del suo respiro.
Il
silenzio tutto attorno sembrava totale, ma di quando in quando poteva udire
distintamente i passi pesanti e l’ansimare animalesco di quella creatura, che
come una tigre in caccia fiutava l’aria e tendeva l’orecchio alla ricerca della
sua preda aggirandosi lentamente per il salone.
Di
tentare la fuga non se ne parlava. C’era ancora una rampa di scale da salire
per arrivare all’ascensore che l’avrebbe condotta al nucleo, e con la sua
agilità sovrumana quel mostro le sarebbe saltato addosso prima ancora che
avesse potuto raggiungerla.
«Mayu, ascoltami» disse Ulrich,
che grazie al cielo solo lei poteva sentire. «Forse ho trovato il modo per
liberarci di lui.
Ho
riprogrammato un antivirus installato nel software perché possa distruggere la
mente contaminata del viceComandante.»
«E
allora muoviti a usarlo. Quella bestiaccia non ci metterà molto a trovarmi.»
«Qui sta
il problema. In questo momento mi è impossibile lanciarlo direttamente da qui.»
«Che
cosa!?»
«Potrei
farlo, ma mi ci vorrebbe del tempo. Tempo che non abbiamo. L’unica possibilità
è caricarlo all’interno dell’interfaccia che stai usando per mettertelo a
disposizione.»
«In
altre parole, dovrei usarlo io.»
«Praticamente.
Lo programmerò perché tu possa attivarlo a distanza, altrimenti potresti
venirne colpita anche tu.
Aspetta
solo altri due minuti».
Furono i
due minuti più lunghi della vita di entrambi, con Ulrich
che pregava tutti gli dèi dell’universo di aiutarlo a non sbagliare nulla e Mayu che temeva di vedersi comparire davanti quel mostro da
un momento all’altro, tremando di paura come quando da piccola si rannicchiava
sotto al letto durante i temporali.
«Finito!
Eccolo che arriva!».
Un tenue
bagliore apparve attorno alle mani di Mayu, nelle
quali comparvero quella che sembrava una carica al plastico poco più piccola di
un mattone e il relativo detonatore a pulsante.
«Mi
raccomando, non devi essere nelle vicinanze al momento dell’attivazione. È
programmata per riformattare e cancellare tutte le proiezioni avatar. Se ti
colpisse, per te non ci sarebbe scampo.»
«Strepitoso».
In quel
momento il mostro passò proprio davanti all’ingresso dell’anfratto, e Mayu silenziosamente si appiattì ancora di più
nascondendosi nel buio. Mosse qualche detrito, attirando l’attenzione dell’EDA,
che però dopo aver gettato uno sguardo nel buco senza vedere niente, ringhiando
ricominciò a camminare.
«Giuro
che dopo questo firmo il congedo e me ne torno alle corse clandestine» imprecò
la ragazza uscendo dal buco.
Silenziosa,
e trattenendo il respiro, si avvicinò lentamente alle spalle del mostro, che
malgrado l’udito e la vista molto sviluppati non parve accorgersi di lei; per
un attimo pensò di potercela davvero fare, ma proprio all’ultimo momento l’EDA
si voltò fulmineo, lasciandola impietrita per la paura, e battendosi i pugni
sul petto come un gorilla caricò a testa bassa.
Questa
volta però, Mayu scelse di non fuggire, perché sapeva
che continuare a scappare era inutile: doveva combattere.
Sfruttando
la sua forma minuta e quell’agilità che, per quanto non al livello del suo
avversario, non le faceva comunque difetto, schivò due pugni in successione,
quindi scivolò sotto le gambe del nemico, e quando questi si girò ricevette un
tremendo calcio a piedi uniti sotto il mento che, anche a causa del tacco
leggero, gli portò via di netto la mascella. Purtroppo questo non bastò a
fermarlo, rendendolo anzi ancor più spaventoso e infuriato per via di quella
vistosa menomazione, e mentre Mayu cercava ancora di
tornare in equilibrio ricevette un secondo, spaventoso pugno che oltre a
spararla via produsse ancora quell’inquietante effetto nebbia sul suo corpo,
molto più lungo ed esteso del precedente.
«Sta
attenta, la tua mente ormai è al limite!» le intimò Ulrich.
«Un altro colpo e sarai consumata!».
Fuori di
sé dalla rabbia l’EDA partì nuovamente alla carica, ma stavolta Mayu riuscì a spostarsi all’ultimo e quel poveretto si fece
crollare addosso un’intera balconata portandosi via una delle colonne di
supporto per poi andarsi a schiantare contro la parete.
Una
simile pioggia di detriti avrebbe ucciso chiunque, ma quello restava pur sempre
un mondo virtuale, e l’EDA nonostante tutto ne uscì senza un graffio; tuttavia,
quando riuscì finalmente a liberarsi delle macerie, la sua preda sembrava
sparita.
Ringhiando,
si guardò attorno, alla ricerca di un qualunque indizio, e non gli servì molto
per notare un bordo di tuta gommosa che emergeva a malapena da dietro una
colonna poco distante.
La terza
carica doveva essere quella decisiva, e stavolta il mostro centrò in pieno il
proprio bersaglio, provocando un nuovo crollo ma riuscendo ad afferrare la
preda; tuttavia, quando provò a stringerla, si accorse non senza stupore di
avere tra le mani solo il busto di una statua, cui era stata malamente infilata
la tuta di gomma e con un minaccioso pacchetto biancastro infilato nella cerniera
semichiusa.
Un
attimo dopo, uno strano bip lo spinse a guardare alla
propria destra.
Mayu era lì,
a qualche metro di distanza, con indosso i soli slip, una mano a coprire il
seno e l’altra che stringeva una specie di telecomando.
«Oyasumi, stronzo.»
Una
grossa sfera di elettricità si generò dall’ordigno non appena la ragazza spinse
il bottone, e l’EDA, lanciando urla di dolore, finì letteralmente polverizzato,
dissolvendosi in un pulviscolo luminoso.
Vedendolo
scomparire così, Mayu e Ulrich
non riuscirono a non provare un po’ di pena nei suoi confronti; in fin dei
conti, quel poveretto aveva cercato fino all’ultimo di salvare migliaia di
vite, anche a costo di sacrificare la propria, ed entrambi gli augurarono col
pensiero di poter riposare in pace.
«Avanti
ora. Adesso non dovresti incontrare altri ostacoli.»
«Lo
spero. Questo mi basterà per qualche secolo.»
Raggiunto
l’ascensore, fortunatamente senza nuovi imprevisti, Mayu
scese al livello desiderato, percorse per intero il corridoio e aprì la porta
del nucleo, immergendosi non senza qualche esitazione nella luce che comparve
dall’altra parte dell’ingresso.
Un
attimo dopo, Ulrich vide la figura a mezzobusto della
ragazza materializzarsi su uno dei monitor.
«Sono
dentro».
Era
incredibile. Era come se il suo corpo fosse diventato un tutt’uno con la nave;
come se la nave stessa fosse diventata il suo corpo. Poteva essere ovunque,
vedere ovunque, aprire e chiudere porte a suo piacimento, accendere luci,
azionare scale mobili, e persino comandare erogatori d’acqua o macchine del
caffè.
«Ottimo»
disse Ulrich. «Ora ripristina i sistemi di
alimentazione».
Helen vide tutte le
apparecchiature del ponte riaccendersi come d’incanto, riprendendo a funzionare
senza apparente motivo.
«Ulrich, sei stato tu?»
«Non proprio.
Ad ogni modo, ora per favore segua le mie istruzioni. Le spiegherò come ridare
energia ai motori».
Per
prima cosa fu necessario riprogrammare la rotta, e secondo le direttive fornitele da Ulrich, Helen ne
impostò una che con le macchine a pieno regime avrebbe condotto il Megonia fuori dalla Zona Oscura nel giro di pochi minuti,
quindi fu il momento di ripristinare l’afflusso di energia.
La
giovane donna stava per avviarsi al relativo pannello di controllo, quando da
sopra la sua testa giunse un sinistro rumore di qualcosa che strisciava.
Alzò gli
occhi, e per un attimo le parve di vedere il soffitto scricchiolare sotto la
spinta di qualcosa: qualcosa di molto grosso.
Di
qualunque cosa si trattasse, si muoveva così velocemente che era difficile
stargli dietro, e la tensione nel petto di Helen, nonostante il suo comprovato
autocontrollo, salì rapidamente, tanto che appena notò distintamente un’asse
metallica ondeggiare immediatamente sparò, ricevendo in cambio una specie di
sibilo dolorante.
«Che
diavolo era quello?».
La
risposta alla domanda arrivò quando la grata dell’aria sopra la sua testa per
poco non le piovve addosso sotto la spinta di una sorta di lunga protuberanza
carnosa simile ad un tentacolo che scattando verso il basso tentò di
afferrarla.
Helen
riuscì ad evitare la presa per un soffio, e istintivamente consumò il
caricatore contro quell’ignoto aggressore, che colpito in pieno apparentemente
si ritirò abbandonando il campo.
«Qui
siamo oltre la comprensione» disse attonita.
Ma il
vero dramma, pensò Ulrich dopo aver assistito alla
scena, era un altro.
«I
condotti dell’aria!» esclamò. «Quei bastardi sono nei condotti!».