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Autore: Framboise    24/06/2014    6 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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CAPITOLO 7:

 

Era passato quasi un mese da quando l’assedio era cominciato. Di fronte all’avanzata degli avversari, gli abitanti delle campagne avevano cercato rifugio dal signore della vicina fortezza, un uomo influente che era riuscito a mantenere il controllo di buona parte delle terre circostanti nonostante esse appartenessero formalmente al Comune. Le spesse mura del castello, che inizialmente erano sembrate agli assediati l’unica e la più sicura possibilità di salvarsi, si erano però lentamente trasformate nella loro prigione: i viveri cominciavano a scarseggiare e le persone da sfamare erano molte, inoltre le condizioni di vita dei rifugiati sembravano peggiorare a vista d’occhio e gli attacchi degli assedianti si intensificavano giorno dopo giorno. Il terrore delle malattie era sempre presente: se fosse scoppiata un’epidemia, la capitolazione sarebbe stata inevitabile. Forse le uniche persone la cui vita non aveva subito un cambiamento drastico erano il signore del castello ed i suoi famigliari, che dall’inizio dell’assedio vivevano rinchiusi nelle proprie stanze, attorno alle quali si affaccendavano i servitori; gli altri abitanti, invece, vivevano accampati nell’ampio cortile o nei saloni del maniero. Inizialmente gli avversari avevano tentato di negoziare una resa, ma i messaggeri che erano riusciti a tornare incolumi dalla città vicina avevano detto che l’ordine era quello di resistere a qualunque costo, perché poteva essere una battaglia di vitale importanza: entro breve tempo sarebbero stati mandati in loro aiuto dei contingenti di soldati. Quando seppero che gli abitanti intendevano combattere, i nemici avevano dichiarato che non ci sarebbe stata nessuna pietà quando il castello sarebbe stato espugnato. I loro attacchi erano sempre più difficili da respingere, in più dal Comune alleato non arrivava alcun soccorso, nonostante la promessa: sembrava che il mondo si fosse dimenticato della loro strenua battaglia per la sopravvivenza. Gli arcieri, appostati sulle mura o all’interno del castello, lanciavano frecce incendiarie contro le armate rivali che avanzavano riparandosi con gli scudi o usando il gatto* per proteggersi dai dardi o dall’acqua bollente che veniva scagliata loro addosso dai difensori della fortezza. Le mura in alcuni punti erano danneggiate dai proiettili della catapulta, ma sembravano in grado di reggere per qualche giorno ancora, inoltre fino a quel momento nessun nemico era ancora riuscito a penetrare nel castello ed ogni offensiva era stata respinta: potevano ancora resistere per un po’. Se solo l’aiuto militare promesso dal Comune fosse arrivato in fretta!

Eufemia, seduta su un albero dell’accampamento, guardava il castello che si ergeva in lontananza. Nonostante fosse avvolto dalla bruma del mattino e si vedessero solamente dei vaghi contorni, dava comunque un’impressione di solidità e sembrava inespugnabile. I mercenari cominciavano a pensare che lo fosse davvero: nonostante l’assedio procedesse ormai da lungo tempo, i suoi abitanti continuavano a resistere strenuamente. Certo, la parte dell’esercito che era stata mandata ad intercettare i possibili aiuti che la città avversaria poteva inviare in aiuto degli assediati era riuscita nel suo intento, ma nonostante ciò non erano ancora riusciti a conquistare la fortezza. Neppure le armi più sofisticate erano riuscite ad abbattere le mura, quindi Agilulf e gli altri comandanti delle varie armate avevano deciso di tentare una strategia diversa, quella delle mine: mentre alcuni reparti tenevano occupati gli arcieri e le sentinelle del castello tentando di superarle dall’alto, altri uomini avrebbero scavato delle gallerie fino ad arrivare al di sotto del muro di cinta, dove avrebbero dato fuoco alle fondamenta. Questa operazione avrebbe dovuto provocare il crollo di alcune torri. L’idea era buona, ma i difensori avevano previsto un simile tentativo e rispondevano con le contromine, cioè scavando a loro volta dei cunicoli in modo da sbucare in quelli degli avversari. Quando ciò accadeva, si ingaggiava un vero e proprio combattimento sotterraneo: fortunatamente non era successo quando lei ed il suo gruppo erano stati mandati a dare il cambio agli scavatori, ma aveva sentito raccontare da un sopravvissuto che durante uno di questi scontri l’intera galleria era crollata, sommergendo buona parte dei combattenti di entrambe le fazioni. Anche in quel momento alcuni soldati erano sottoterra, impegnati nell’ennesimo tentativo di distruggere le fondamenta.
La ragazza sospirò. Sapeva cosa significava essere sotto assedio: era successo anche a loro poco tempo prima. Fortunatamente la parte dell’esercito che non si era rifugiata dentro le mura era riuscita ad attaccare i nemici, riuscendo così a rompere l’accerchiamento. Ciò che ricordava meglio di quei giorni era l’angoscia che la perseguitava senza interruzione. Peggio degli attacchi, delle sconfitte subite e delle possibilità di una fine lenta dovuta alla fame o di una capitolazione e della conseguente prigionia, la cosa peggiore per lei era stata sopportare le ore che separavano gli assalti nemici senza poter fare niente: Femia aveva vagato tra le mura come un leone in gabbia, aspettando di udire i rumori che segnalavano l’inizio di una nuova battaglia. Nel castello la sua abilità con la spada era inutile: siccome non aveva una buona mira e non poteva essere di aiuto agli arcieri, si era appostata poco oltre le merlature, pronta ad intervenire in caso gli avversari fossero riusciti a scalare le mura con le loro torri, ma questo non era mia successo. Oltre a ciò, la paura che provavano i civili rifugiati lì si propagava negli animi come una pestilenza, riempiendo l’aria di una tensione quasi palpabile. Probabilmente anche i loro nemici adesso dovevano affrontare una situazione simile: le sarebbe piaciuto sentirsi dispiaciuta per loro, ma in realtà gli unici sentimenti che provava, o almeno i più forti, erano un rancore sordo contro quella maledetta fortezza che aveva provocato la morte di così tanti suoi commilitoni e la speranza che una delle loro strategie finalmente funzionasse, permettendo loro di conquistare il castello.

Immersa in questi pensieri, la ragazza trasalì quando udì il suono di una voce che la chiamava.
«Ragazzo! Smetti di fare il cuculo e scendi da quell’albero, tra poco toccherà a noi!» esclamò con voce tonante Agilulf, picchiando una mano sul tronco.
Eufemia obbedì e scese agilmente, afferrando il ramo sul quale era seduta e calandosi giù. Atterrò proprio davanti al comandante, che la guardò con un mezzo sorriso.
«A cosa stavi pensando?»
«All’assedio, signore. Spero che finirà presto... comincio a pensare che resteremo qui per sempre!» si lasciò sfuggire. Improvvisamente si rese conto che avrebbe potuto essergli sembrata impudente e si preparò a scusarsi, ma l’uomo non la rimproverò, anzi, rimase pensieroso per pochi secondi, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Hai ragione, Lodovico, è stato un lungo assedio. Ma sento che non rimarremo qui ancora per molto: in qualche modo la situazione si risolverà. Dobbiamo solo cercare di fare in modo che lo faccia in modo a noi favorevole» replicò infine, fermamente.
La ragazza annuì, osservando il volto serio di Agilulf. In poco più di un anno di guerra, non lo aveva mai visto perdere la calma: sembrava sapere perfettamente cosa fare in ogni occasione, che si trattasse di un attacco a sorpresa o di una ritirata. Nonostante la sua tranquillità, però, era sempre all’erta. Lo sguardo attento ad ogni movimento e le orecchie che udivano ogni suono, pareva che niente di ciò che accadeva tra le truppe potesse rimanergli nascosto.
In quel momento l’uomo si incamminò, mormorando: «È ora».
Eufemia lo seguì, afferrando la sua spada. Ormai era abituata alle battaglie ed alla confusione che regnava durante gli scontri, quindi non perse la calma né si fece distrarre quando il combattimento cominciò. Nascosta sotto un gatto insieme ad altri soldati, si avvicinò alle mura nemiche. Le frecce incendiarie non riuscivano ad appiccare il fuoco alle pelli fresche ed al legno bagnato che lo costituivano, quindi riuscirono ad arrivare molto vicini alla fortezza. Accanto a loro degli uomini con una torre mobile tentarono di scalare le mura, ma la maggior parte di loro vennero abbattuti dai dardi scagliati dagli arcieri. Mentre i mercenari più vicini cominciarono ad accanirsi a colpi di piccone contro i ciottoli che le costituivano, Femia udì uno scroscio: poco lontano da loro era caduta della pece bollente che aveva colpito alcuni degli assalitori, che giacevano a terra contorcendosi dal dolore. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato dall’inizio della battaglia, ma ad un tratto udì un rumore assordante e lei e tutti gli altri soldati vennero avvolti da una nube di polvere. Una parte delle mura vicino a dove si trovava lei era crollata: le mine avevano funzionato. Subito i soldati si riversarono all’interno della breccia che si era appena aperta come un fiume in piena, travolgendo i difensori del castello. Nella fortezza, i rifugiati fuggivano in preda al panico in tutte le direzioni. La ragazza attaccò un uomo armato che stava combattendo contro Antonio: in due riuscirono a sconfiggerlo in breve tempo. A lui ne seguirono altri, ma il morale delle truppe restava alto: dopo tanto tempo, il castello sarebbe stato conquistato.

Quando la battaglia terminò ed anche coloro che si erano rifugiati nel mastio furono catturati, Eufemia cominciò subito a trasportare i feriti attraverso il cortile, cercando con gli occhi se tra di loro si trovava qualcuno che conosceva. Notò alcuni volti conosciuti, ma fortunatamente non vide nessuno dei suoi amici. Quando si avvicinò al punto in cui i medici stavano medicando gli uomini, notò che davanti ad uno di loro si trovava un uomo dalla pelle abbronzata e dai capelli neri, che sanguinava copiosamente da una ferita su un fianco. Ad un tratto il ferito si voltò verso di lei ed i loro occhi si incrociarono.
«Wiligelmo!» gridò la ragazza, correndo verso di lui.
«Lodovico» mormorò l’altro, cercando di sorridere ma facendo subito una smorfia di dolore.
Il medico afferrò una spugna imbevuta in un liquido e la premette sul volto del falconiere, che tentò di spostarsi ma cessò di muoversi dopo alcuni secondi, quindi scostò la ragazza di malagrazia. Vedendo la sua espressione angosciata, sollevo per un attimo la testa, rivelando un volto teso e due occhi stanchi e segnati dalle occhiaie.
«Adesso dovrò ricucire la ferita, l’ho addormentato con la belladonna in modo che non senta dolore.  Quando avrò finito si risveglierà. Non preoccuparti» le spiegò, in tono sorprendentemente dolce, quindi tornò a chinarsi sul suo paziente.
Femia si allontanò, preoccupata. Ad un tratto, venne raggiunta da Alois.
«Ce l’abbiamo fatta!» esclamò il ragazzo, allegro.
«Già...»
«Tu viene con me?» le domandò improvvisamente lui.
«Dove?» replicò lei, stupita.
«Fuori, nei campi. Ora gius... giustizieranno i soldati nemici, non mi piace. Loro hanno combattuto, ma ora hanno perso. Non hanno armi... non è giusto, se uccidono uomini disarmati» mormorò Alois, abbassando lo sguardo ed arrossendo lievemente.
La ragazza lo osservò. Aveva ragione, di lì a poco coloro che avevano difeso il castello sarebbero stati giustiziati. Non era nuova a scene del genere, ma le esecuzioni capitali le trasmettevano sempre un senso di disagio, anche se sapeva che ogni combattente era consapevole che, in caso di sconfitta, il destino che lo attendeva era la morte. Non aveva mai fatto parola di questa sensazione con gli altri mercenari perché era qualcosa che nemmeno lei stessa riusciva a spiegarsi appieno: non aveva remore di questo tipo durante il combattimento ed aveva già ucciso un numero considerevole di uomini, l’idea di provare dispiacere per i prigionieri solo perché disarmati le sembrava una follia. Era strano, ma allo stesso tempo rassicurante, scoprire che anche qualcun altro provava lo stesso sentimento. Guardò l’amico, che la fissava di sottecchi, quindi sul suo volto si aprì un sorriso.
«Hai ragione, neanche io voglio vedere le esecuzioni. Andiamo!» esclamò, afferrandolo per un polso ed accelerando il passo.
I due uscirono dalle mura e si incamminarono lungo un sentiero che si allontanava dal castello. Aveva appena cominciato a piovigginare: delle gocce sottili cadevano su di loro, rimbalzando sulle armature e bagnando i campi spogli. Dalla fortezza alle loro spalle proveniva una cacofonia di voci concitate e la bandiera dei nemici che inizialmente sventolava sulla torre più alta era stata sostituita da quella del Comune di provenienza di Eufemia.
«Pensi che Wiligelmo se la caverà?» domandò ad un tratto la ragazza all’amico, mentre camminavano.
«Sì» replicò lui con decisione. «Si è salvato anche con ferite più gravi, starà bene».
Proseguirono il cammino in silenzio, godendosi la sensazione di felicità che la vittoria aveva portato con sé.
Quando tornarono indietro aveva smesso di piovere, il sole stava tramontando ed il castello in controluce risaltava massiccio contro il cielo rosso scuro. Non sembrava più minaccioso come era stato nei giorni precedenti alla sua conquista, ma pareva quasi accogliente. Non appena entrarono, un soldato che combatteva nel loro stesso contingente corse loro incontro, con un’espressione tra l’incredulità e la gioia.
«Ragazzi, avete sentito?» gridò, non appena si trovò davanti a loro.
«Che cosa?»
«I nemici hanno chiesto una tregua di un mese... da domani saremo in licenza!» esultò lui.
Femia spalancò gli occhi, sorpresa: dopo un anno di battaglie, sarebbe potuta tornare nella sua città.
“Ma... se mi riconosceranno?”

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Come promesso, stavolta sono (finalmente) riuscita ad aggiornare in tempo! Spero che il capitolo vi piaccia...

*gatto: arma d'assedio munita di ruote e priva di pavimentazione, che poteva essere mossa dai soldati al suo interno. Essa serviva per consentire alle truppe di avvicinarsi il più possibile possibile alle mura, per poi consentire ai genieri e ai minatori di demolirle. Era costituito di legno di quercia bagnato e ricoperto di pelli fresche di animali per renderlo ignifugo.


  
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