A volte mi accorgo di
sentire una terribile mancanza dello Hampshire. Spesso questo accade quando
sento una risata particolarmente argentina, o quando mangiando un'allodola
arrosto penso al meraviglioso canto di questi uccelli, che tanto mi era caro da
bambina. Più sovente succede se, per sbaglio, passando davanti alle cucine,
avverto il profumo irresistibile della melassa e del caramello.
È allo sbocciare della primavera, però, che la malinconia si fa più struggente,
quando tutto intorno a me resta grigio: alla mia vera casa il sole permetteva di
far vagare lo sguardo per miglia e miglia lungo la brughiera. E l'erica fioriva
rigogliosa, tingendo di rosa e lilla ogni cosa. Persino la collina. La nostra
collina viola.
Non so perché proprio
oggi mi sia messa a ripensare a quegli avvenimenti. Sono trascorsi molti anni.
Il giorno successivo alla morte di Sue, quello che sarebbe diventato il mio
amatissimo marito caricò Heather su una carrozza insieme a tutte le sue cose. Mi
abbracciò, giurandomi che sarebbe tornato per il funerale e mi lasciò sola in
quella casa diventatami improvvisamente ostile. Mio fratello non mi diede il
minimo aiuto: chiuso nel suo doppio dolore – quello provocato dall’unica donna
che l’avesse amato e quello, ancora più bruciante, di averne conosciuto la vera
natura e l’intimo tradimento – restò chiuso nel suo studio per interminabili
giorni.
Io passavo le giornate accogliendo i conoscenti venuti a partecipare al nostro
dolore, governavo la casa e prendevo disposizioni affinché il corpo della mia
adorata, adoratissima Sue venisse sepolto nella cappella di famiglia; ne aveva
tutti i diritti. Pulivo, cucinavo, andavo a prendere l’acqua: mi sfinivo,
cosicché, una volta coricatami, il sonno arrivasse veloce e privo si sogni.
Perché era nei sogni che rivivevo ossessivamente quegli istanti rubati alla
realtà, le mani di Heather fresche sulla mia pelle, le sue labbra umide sulle
mie…
Il giorno del funerale pioveva. Il cielo plumbeo si rifletteva sulla brughiera, fattasi improvvisamente silente e incolore. Julian venne con la sua famiglia: se i cittadini si meravigliarono di vedere una distinta Lady piangere la morte di una serva, non lo diedero a vedere. Furono, in realtà, molto cordiali e nella mia disperazioni vidi in quella cortesia un’ancora di salvezza. Approfittai volentieri dell’improvviso slancio di affetto di quella che sarebbe divenuta la mia famiglia, mi lasciai cullare dalle frivole chiacchiere su avvenimenti mondani di cui non mi importava poi nemmeno molto. Ricordo distintamente che una certa ragazza aveva a tal punto mortificato un impetuoso pretendente, da costringere il poverino, per la vergogna, ad emigrare nelle Americhe…
“… sempre meglio che
in India. Non so davvero come farà quella ragazzina a sopravvivere a quel clima
e agli insetti. Non ha mai goduto di ottima salute”.
“Sono certa che, invece, il caldo le gioverà senz’altro. E avere un marito
accanto sarà un altro motivo di gioia”.
“Più che altro le permetterà di allontanarsi da qui. Il padrone era davvero
arrabbiato, ha minacciato di diseredarla, ma poi è stato convinto che sarebbe
stato più vantaggioso semplicemente allontanarla… sembra che il vecchio Warren
cerchi una nuova, giovane moglie, e una Lloyd è pur sempre merce ambita al di
fuori di Londr…”.
“Scusatemi – Catherine emerse dalla nebbia di dolore e stanchezza che la
circondava come una manto – potrei sapere di chi state parlando?”.
Le due cameriere al seguito della madre di Julian strabuzzarono gli occhi.
“Ma come, Milady, non lo sapete? La signorina Heather è stata fatta imbarcare
ieri, per questo oggi non è qui a sostenerla. So che eravate molto amiche, mi
sembrava strano che non chiedesse di lei, credevo sapesse che…”.
“No… Sì… Scusate, lo sapevo, è che non vi ho pensato, vi ringrazio molto,
scusatemi…”.
E mentre le due donne guardavano con condiscendenza e simpatia a quella povera
creatura che, sola, cercava di arginare la marea, Catherine corse, scevra
d’interesse verso i propri abiti, verso il suo promesso sposo.
“Julian!”.
Gli si gettò contro, picchiando i pugni sul suo petto, piangendo e maledicendo
lui e la sua famiglia.
Braccia forti la
fermarono, sollevandola. Sentì qualcuno mormorare parole di conforto, suggerire
che i nervi avessero ceduto, che era naturale che una ragazza così fragile
reagisse così ad un momento di lutto, senza contare sull’appoggio del fratello .
Julian, intanto, non si era mosso di un passo: stava lì, sotto la pioggia, rosso
in viso, le braccia lungo il corpo: non aveva minimamente tentato di difendersi.
Venne portata in casa, le fu versato del tè forte e bollente e venne poi
accompagnata nella propria stanza. Sentì la voce del padre di Julian chiamare
suo fratello, intimargli di uscire dalla propria stanza e di venire a discutere
da uomo del futuro suo e della sua attività, oltre che del titolo. A lei non
interessava. Senza smettere un solo istante di piangere –
oh, Heather, Heather, è tutta colpa mia, mia e del mio
egoismo, amore mio, cosa ti hanno fatto! – e senza potersi confrontare con
l’unica persona che le avrebbe spiegato al verità, si addormentò.
Si risvegliò da un sogno che, ricorrente, l’aveva accompagnata nelle ultime
notti: le mani di Heather, le sue labbra, il suo collo morbido e il dolce
profumo di fiori di cui sembravano impregnati i suoi capelli. Una mano, gentile,
sfiorava appena i contorni del suo viso.
“Non ho potuto fare
altro – sussurrò Julian, immerso nella penombra azzurrognola che precede la
notte – io… io amo mia cugina, davvero. Ma non posso permettere che le sue
inclinazioni molestino – no, non parlare! – … molestino la futura madre dei miei
figli. Non potevo permetterle di restare con noi e mio padre non voleva più che
le maldicenze sul suo conto infestassero la nostra casa. Il signor Warren è un
vecchio amico di famiglia, Heather lo conosce, è molto ricco e influente,
sposarlo sarà un ottimo colpo per lei, le permetterà di agire con una libertà
che nella City non avrebbe mai potuto assaporare…”.
Catherine restò in silenzio, senza sapere cosa rispondere o se rispondere alla
confessione di quell’uomo che, nonostante tutto, comprendeva. Vedendo che da lei
non veniva nessuna reazione, continuò.
“Vostro fratello è giunto ad un accordo con mio padre: lasceremo questa tenuta,
lui prenderà alloggio in una delle residenze della mia famiglia, in modo da
poter essere più vicino al suo lavoro; tu abiterai nella nostra casa e non
dovrai vederlo mai più, se così desideri”.
Ancora silenzio. Voleva rivedere suo fratello? Lo amava, ma il suo amore era
avvelenato dalle sue azioni. Non provava nulla, in quel momento, nulla se non
vuoto e angoscia, un senso di perdita e di fallimento enormi: in poco meno di
una settimana aveva perso la certezza del proprio passato e la promessa di un
radioso futuro.
“Kate, vi prego,
parlatemi: so che provavate affetto per mia cugina, so che sapete che anche io
ne provavo, ma dovete capire che questa era l’unica scelta possibile, che non
c’era altro modo, per noi, di vivere serenamente… per me… di cambiare… per voi”.
“Avete agito come ci si aspettava da voi, Julian – rispose flebilmente la
ragazza – non posso condannarvi; ma se è un’assoluzione, che cercate, non è qui
che la troverete. Vi prego di lasciare la mia stanza, adesso”. L’uomo si alzò,
riluttante. Alla tenue luce, Catherine poté intuire u bagliore sulle sue gote,
quasi stesse piangendo. Ma non poté fare nulla: girata la maniglia, si chiuse la
porta dietro le spalle e sparì inghiottito dal buio della casa…
… i giorni passarono. Mi
trasferii a Londra con i pochi oggetti davvero cari che possedevo. Ricevetti
vari inviti da Elizabeth e dalla amiche di Heather, ma l’idea di vederle e di
pensare a lei mi feriva. Mi chiusi in quella grande casa, cercando di venire a
patti con la donna che sarei diventata. Il giorno del matrimonio si avvicinava.
Tom mi scriveva: lettere brevi e scarne relative alla sua salute sempre più
instabile, al cibo così tanto più caro e così insapore rispetto a quello che
mangiavamo a casa nostra, al lavoro. Io rispondevo sempre con sollecitudine,
infarcendo la mia di dettagli futili e piccole frivolezze che potessero
mostrargli quanto a mio agio mi trovassi in quell’enorme gabbia dorata. Gli
ricordai che, la settimana seguente, ci sarebbe stato il mio matrimonio; rispose
che, purtroppo, affari improrogabili lo portavano sul continente e che, quindi,
non sarebbe stato nemmeno in Inghilterra in quel periodo.
Ogni giorno la sarta mi provava l’abito, che ogni giorno era da stringere. In
poco meno di un mese ero passata dall’essere una ragazza forte, muscolosa,
avvezza alla rustica vita campagnola all’ombra di me stessa: pallida, smunta,
con profonde occhiaie nere sotto gli occhi. Non riuscivo a dormire: mi giravo e
rigiravo nel letto, richiamando ricordi che, beffardi, si rifiutavano di venire.
Ricordo una mattina in cui ruppi uno specchio, spaventata dall’immagine che
rifletteva; giusto la notte precedente avevo avuto un collasso nervoso
nell’accorgermi di aver già dimenticato il profumo della pelle dell’unica
persona che avessi mai amato.
Ci volle tutta l’abilità della servitù di casa Lloyd per rendermi quantomeno presentabile il giorno delle nozze: erano passati esattamente tre mesi dalla sera del mio fidanzamento, e le malelingue già malignavano che la fretta fosse dovuta alla possibilità che la sposa non fosse così pura come avrebbe dovuto. Non che la cosa mi interessasse: non ero certamente incinta, dato che non conoscevo nessun uomo e che l’unico contatto che avevo avuto era stato un bacio con il mio promesso sposo. L’abito di taffettà color vinaccia mi ricordava i paramenti delle chiese cattoliche durante i giorni precedenti alla pasqua, ma stava d’incanto vicino al completo viola di Julian, o, almeno, così mi disse lui quel giorno. Non ricordo nulla della cerimonia, né dei giorni precedenti e successivi. Si occupò di tutto mia suocera: delle damigelle – donne che non conoscevo e con cui non avrei praticamente mai stretto rapporti di amicizia – al ricevimento pomeridiano svoltosi il giorno dopo le nozze. Il mio status imponeva che venissi presentata alla Regina e quello è l’unico momento che ricordo con chiarezza: tutti erano in fermento per la nostra partenza e per la festa che si sarebbe tenuta quella sera, e l’unica cosa a cui io pensavo era a quanto apparissero vecchi e stanchi i miei regnanti, mentre la Regina in persona si complimentava per la splendida collana di smeraldi che indossavo. Subito dopo, partimmo; nonostante i miei timori, durante il viaggio Julian fu esemplare. Non tentò più un approccio, come aveva fatto quella sera dopo la festa e nonostante tanti anni siano passati e tante altre volte sia venuto meno ai suoi voti nuziali, devo riconoscergli che in quell’occasione non visitò nessuno dei bordelli in cui avrebbe potuto intrattenersi. Guardando il mare durante una tempesta decisi che era arrivato il momento di smetterla: non potevo vivere più in quel torpore. Avevo tentato di scrivere a Heather, ma nessuna lettera era mai giunta in risposta; se Julian sapeva qualcosa, me lo taceva. Le onde si infrangevano sulle rocce, assordanti quanto il dolore che avevo provato: ma cosa potevano, contro la dura pietra? Se nemmeno loro, con la loro imponenza e forza, potevano scalfirla, cosa poteva la mia indolenza contro il destino che così repentinamente aveva stravolto la mia esistenza? La mattina successiva Julian rimase stupito nel vedermi sorridete, con un mazzo di erbe e fiori in mano; per tutto il giorno fui allegra e ciarliera e, quella notte, per la prima volta seppi com’è amare un uomo. Fu doloroso e veloce, niente a che vedere con quello che avevo provato con Heather, ma con il passare degli anni compresi come ricavare piacere anche da quell’atto che, per tutta la mia vita, non ho comunque imparato ad apprezzare davvero.
Non che io non amassi
Julian, anzi: con il passare del tempo il nostro divenne un legame solido e
sereno, venni considerata al pari di alcuni suoi carissimi amici ed il mio
consiglio valeva tanto quanto i loro; grazie a lui potei studiare, appresi
nozioni che mai avrei immaginato di poter maneggiare. Il nostro salotto era
aperto ad amici e giovani talentuosi, intrattenevo una fitta corrispondenza con
le ragazze che da ragazza avevo snobbato. Cominciai a frequentare alcune feste,
ricominciai a parlare con al gente. Molte sere Julian dormiva accanto a me e
leggevamo insieme; altre sere no. Tom intanto aveva ampliato lo studio e
proseguiva la sua vita da scapolo impenitente, convinto più che mai che delle
donne – incluse sorelle e madri – non ci si potesse fidare. Lo vidi poche volte
negli anni a seguire, e sempre in occasioni ufficiali. Io e Julian passavamo
poco tempo insieme, a causa del suo lavoro, ma amavamo trascorrere l’estate in
località di mare. Scrivevamo tutti e due alle nostre conoscenze all’estero:
Warren rispondeva con solerzia, ci raccontava degli affari e di come i suoi due
maschietti e la femminuccia si divertissero a giocare coi piccoli indigeni. Lui
non approvava che i suoi figli giocassero con la servitù, ma sua moglie lo
redarguiva di lasciarli fare: aveva potuto vedere coi suoi stessi occhi i
salutari effetti di una tale libertà sul carattere di una persona. Ricordo
chiaramente che mi misi a piangere, leggendo quelle parole. Continuammo a non
scriverci mai direttamente, ma per tutti quegli anni rimanemmo in contatto
usando i nostri mariti come tramiti. Eventi particolari, nascite, morti,
pettegolezzi dalla City e racconti avventurosi dalle Indie: l’inchiostro parlava
per noi e rivelava fra le righe tutto quello che non potevamo più dirci. Ad un
certo punto, un paio di anni orsono, la situazione precipitò: la figlia minore
di Heather morì per una febbre che si portò via anche l’anziano marito. Lei
rientrò coi due figli più grandi in Inghilterra. Il padre di Julian, suo zio,
era morto da tempo: sua zia, invece, era ancora viva, ed accolse volentieri
nella propria dimora di campagna la nipote e i due prestanti e ormai ricchi
pronipoti.
Nonostante vivessimo ora entrambe a Londra, non ebbi mai occasione di
incontrarla.
Io fui molto fortunata: solo una delle mie sei gravidanze non arrivò al termine,
e tutti i miei figli sono cresciuti sani e forti, godendo di un agio che io non
avevo mai sperimentato, alla loro età.
Ma non hanno mai conosciuto la mia libertà né, temo, hanno mai conosciuto il
vero amore.
“Madame, avete visite”.
“Chi è Gerald?”.
“Una donna, si è presentata come Mrs. Warren… dice di aver saputo del vostro
recente lutto e di essere partita non appena ha potuto. Ha un aspetto molto
esotico, se posso permettermi” rispose il maggiordomo, un poco scandalizzato dai
colori brillanti che l’anziana donna davanti a lui indossava. Doveva essere
stata molto bella in gioventù, perché tracce di quella bellezza si vedevano
ancora nel viso maturo e nei tratti arrotondati della figura. I capelli erano
più grigi che biondi, ma conservavano tracce dello splendore dorato che doveva
averli contraddistinti.
La donna entrò nella stanza, guardandosi intorno, come se camminasse in una stanza già vista in sogno; poi alzò lo sguardo sulla padrona di casa, sorridendole e porgendole una mano.
“A quanto pare siamo tutte e due vedove – disse piano, la voce immutata, come se non fossero passati più di vent’anni dall’ultima volta che si erano parlate – mi dispiace così tanto, Kate, so che hai amato mio cugino, mi scriveva così spesso di…”.
E ora sono qui, davanti a questa poltrona, dando le spalle al cielo di Londra che prende una sfumatura leggermente più rosata che preannuncia il tramonto. Chiudo gli occhi, ripensando a quegli anni così fausti e sventurati, incapace di credere a quello che si trova davanti a me. A quegli occhi così particolari. Viola come il peccato, viola come la collina. La nostra collina.
Se volete
fare di me una fanwriter felice… no, non vi sto chiedendo di commentare. Se
avete tempo e voglia, certo, ma non è per questo che sto scrivendo queste
due righe.
È solo per gongolare un po’: sono riuscita a chiudere la storia là dove
l’aveva iniziata – e se rileggete la prefazione lo noterete.
E per scusarmi un po': non è forse il finale che avevo desiderato per questa
storia, né quello che, in partenza, avevo scritto. Ma come ho già detto
altrove: mi sono completamente disinnamorata di questo racconto. Non è colpa
dei personaggi: loro han fatto del loro meglio. È stata colpa (ma si può
parlare di colpa?) mia, se da due anni non mettevo una pietra sopra la loro
storia.
Ora l'ho fatto e, vi dirò: mi sento meglio. Non mi cambia la vita, lo so, ma
mi sento meglio.
E grazie per avermi seguita fin qui.
Grazie davvero.