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Autore: RosenrotSide    25/08/2008    3 recensioni
Bill Kaulitz non è uno stinco di santo, suo fratello Tom non scopa come un riccio, il timido Gustav non è poi così timido e quando vuole parla a raffica e Georg Listing, l'hobbit che tutti prendono di mira, è quello più furbo e che conquista più ragazze. Se erano questi i ragazzi che conoscevate, dimenticateveli. Io che lavo la loro biancheria tutti i giorni posso giurarvelo davanti ad ogni Dio esistente.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Mi perdonerete mai quest'assenza senza avviso? Due mesi senza di voi, mie poche e spero fedeli lettrici. Ci siete ancora, da qualche parte in questo universo chiamato Internet? Spero di sì, lo spero tanto e spero che continuerete a leggere dopo questa vacanza troppo lunga. Un bacio, Alice

14.
Stella del mattino*



Bill si stropicciò le mani in un gesto nervoso mentre i suoi passi risuonavano attutiti dalla moquette bordeaux del corridoio. Tossì una volta e andò avanti, deciso.
Salutò con un lieve cenno del capo Dunja che usciva da una delle camere, non fece caso a quale e non fece caso a niente, lo sguardo fisso alla sua meta.
Spalancò la porta aperta della suite del gemello ed entrò senza tanti complimenti.
-Tom, devo parlarti- annunciò cupo.
Il rasta fissò il gemello, distogliendo lo sguardo dal soffitto che si era perso a guardare coricato sul letto, in attesa di prendere una decisione, la mano nella tasca dei jeans.
Ti devo parlare.
Realizzando ciò che il fratello aveva appena detto, Tom chiamò in soccorso tutta la sua forza di volontà per non tapparsi le orecchie e correre via urlando come un matto, scappando a gambe levate da quella camera in cui, lo sapeva, si stava per consumare una tragedia. Lo faceva presagire il tono di Bill.
Suo fratello, con le parole, era disarmante. Ti uccideva, con quella lingua.
Poteva benissimo iniziare a parlarti della guerra che sconvolgeva qualche parte lontana del mondo della quale era venuto a conoscenza grazie a Gustav, della condizione umana, oppure di quanto aveva stupidamente speso in abiti che non gli piacevano neanche, ma che aveva comprato per impulso momentaneo o perché non andiamo al cinema? dai, ci sono i pop corn, ho voglia di pop corn, perché quelli del supermarket fanno schifo. Oppure di quella remota volta, a quel concerto di secoli prima in cui aveva stonato, te lo ricordi Tom? E che figura, vero che te lo ricordi? Sì, Bill, sì sì .
Il vocalist ricambiò lo sguardo di suo fratello e si sedette sul letto su cui l’altro era ancora sdraiato. Curvò la schiena in avanti, poggiando il mento tra le mani che in quei giorni tentava di non far screpolare dal freddo.
-Voglio dare una festa- disse il ragazzo, rivolto più alla poltrona che gli stava davanti che a suo fratello.
-Una festa?- sorrise Tom, tirandosi su e sospirando di sollievo sapendo che sarebbe stato quello l’argomento della loro conversazione e non gli extraterresti o le giacche di Gucci.
Bill girò lo sguardo sul ragazzo accanto a lui. Che strano, erano uguali. Identici.
Annuì senza ricambiare il sorriso sollevato di Tom.
-A casa, sì- gli rispose.
-Nell’appartamento di Amburgo? Ma è piccolo, non potremmo aspettare di trovare quello nuovo? Oppure no, facciamola in un locale, quando torniamo in Germania, secondo me il Felix andrebbe bene, che ne dici?- iniziò a ipotizzare Tom, senza dar peso allo sguardo del fratello che sembrava aspettare solo che si tappasse il becco e smettesse di parlare a vanvera perché lui sapeva già quello che voleva.
-No Tom, a casa- ripetè, cocciuto.
Il rasta lo guardò senza capire, con l’aria confusa.
-A Loitsche?- domandò, scettico, perdendo tutto l’entusiasmo.
-Sì, a casa Tom-

L’idea di un blog era venuta a Dujna. Un’ottima trovata commerciale, l’aveva definita, semplice, facilmente gestibile, non originalissima, ma i risultati erano assicurati.
-Che cosa intendi per blog, precisamente?- aveva chiesto Bill
-Una pagina Web che potete aggiornare voi stessi raccontando le vostre esperienze, dialogando anche con le fan- gli aveva spiegato la ragazza.
Bill era apparso entusiasta e aveva subito scritto un primo intervento da inserire come pagina iniziale del blog, tradotto poi da Dujna e con delle foto allegate. La pagina Internet era di un bell’azzurro, molto algido, con uno spazio per i commenti dei fan.

“Buongiorno a tutti!
Il mio nome è Bill Kaulitz e sono il cantante dei Tokio Hotel, una rock band tedesca. Sono le 2.30 di giovedì mattina; io e i membri della band (mio fratello gemello Tom, Gustav e Georg) siamo appena tornati al nostro hotel a Berlino. Abbiamo avuto una serata fantastica ad un'importante premiazione televisiva qui in Germania. Abbiamo ricevuto il premio "Best Musica National" e abbiamo fatto la nostra canzone "1000 Meere". E' stato magnifico! Oltre alla nostra band, c'erano altri ospiti come Hilary Swan e Robert De Niro! E' stata un'esperienza interessante incontrare questa gente di persona, specialmente dopo aver visto così tanti loro film.
Adesso sono le 2.40 e farei meglio ad andare... ho ancora da preparare le mie valigie per domani. Dobbiamo lasciare l'hotel alle 5.20 per andare all'aeroporto di Berlino. La nostra destinazione è Montreal, Canada, per suonare il nostro primo concerto nordamericano sabato. E' piuttosto eccitante, ma spaventoso allo stesso tempo. Negli ultimi due anni ci siamo esibiti molto in tutta Europa, ma ora siamo pronti ad attraversare l'Atlantico e a fare del nostro meglio laggiù. E' un sogno che diventa realtà per noi il fatto che ci venga data un'opportunità del genere.
Restate in contatto - vi farò sapere com'è andato il primo concerto. Oddio, mancano dieci minuti alle tre adesso... devo andare!
Abbiate cura di voi e ciao.
Bill”

Non gli era stato possibile scrivere quello che voleva, aveva dovuto rispettare le norme impostegli da Dujna: chiaro, sobrio e corto. Molto sobrio e molto corto, soprattutto. Una tortura per uno che appena iniziava a parlare finiva per raccontare anche tutta la sua vita.
Ma Bill si era sforzato di entrare nella parte e aveva scritto pensando alle ragazze che avrebbero letto. Aveva pensato a quello che avrebbe voluto scrivere in realtà, che era eccitato, ma anche tanto spaventato, così almeno loro lo avrebbero consolato e tirato su, dicendogli che loro erano i migliori dell’universo e cose simili. Avrebbe voluto scrivere che era anche arrabbiato e deluso e si sentiva sconfitto. Perché Anya non sarebbe andata con loro e perché dopo il bacio lo aveva evitato.
Dopo quell’intervento, aveva scritto di rado, lasciando il posto a suo fratello, che già se ne intendeva un po’ di più di computer. Lui aveva avuto altro a cui pensare: quel malessere che continuava ad identificare nello stress ed era stressato davvero, lo sentiva in ogni osso del suo corpo. David, lievemente preoccupato, aveva iniziato a dargli qualche aspirina di tanto in tanto e a fargli portare qualcosa di caldo in camera ogni sera. Bill odiava quelle dannate camomille indesiderate e servite da sconosciuti e odiava quell’odiosissimo quotidiano americano al mattino che gli ricordava quanto in realtà fosse strano agli occhi della gente e quanto la sua musica facesse schifo. L’ultimo concerto era stato un disastro.

“Bene, ora devo andare perché devo riordinare la mia roba. Domani voleremo a L.A. Dovreste vedere la mia camera –i miei vestiti sono ovunque, mi ci vorranno ore per riordinarli.
Tom” aveva scritto il chitarrista, qualche giorno dopo.

Anya mancava a tutti. In un modo o nell’altro.


-Una festa- ripetè Tom. Bill annuì.
-A casa della mamma- aveva continuato il rasta e suo fratello aveva annuito di nuovo –Perché?-
Bill scrollò le spalle.
-Bè, le solite feste possiamo farle dove vogliamo, ma io ho bisogno di casa. Lo so che adesso comincerai a dire che sono il solito rompicoglioni, ma voglio una festa come quando eravamo piccoli, quelle dei compleanni in giardino, sulla casetta di legno. Tom, voglio sentirmi di nuovo a casa, ne ho bisogno, ti prego. Mi sto perdendo- Bill si prese la testa fra le mani, tentato di piangere di sconforto. Voleva tornare piccolo. Lo desiderava tanto ed era troppo che non vedeva Simone, che non scherzava con Gordon, che non faceva cazzate con Andreas che quasi sentiva il cuore straziarsi dalla nostalgia.
-Va bene, va bene- acconsentì Tom, chinandosi a cercare lo sguardo di suo fratello –Lo faremo Bill, ok?-
Il ragazzo annuì impercettibilmente.
-Chi invitiamo?- gli chiese Tom.
-I ragazzi e poi Andreas e i nostri vecchi amici, mamma ci deve essere e poi io e te- elencò Bill, sorridendo al gemello.
-E Anya, immagino- aggiunse il rasta.
-Sì, anche Anya- confermò Bill.
Tom si alzò, infrangendo l’atmosfera di confidenza e malinconia che quella conversazione gli aveva lasciato addosso e allungò una mano verso suo fratello. Il ragazzo si sollevò dal materasso e abbracciò l’altro.
-Grazie Tom- gli sussurrò ad un orecchio. Il rasta strinse forte le spalle esili di Bill e poi si sciolse dall’abbraccio.
-Adesso vai, che devo fare una telefonata-
Il vocalist sbadigliò.
-Va bene. E’ tardi, che ore sono?- chiese ancora.
-Quasi mezzanotte- controllò Tom sul quadrante dell’orologio che aveva preso l’abitudine di portare al polso. Lo faceva sentire più uomo.

*



Rispondi, pregò mentalmente. Era già al quinto squillo.
-Dai- sbottò, nervoso
Finalmente la chiamata venne accettata dall’interlocutore all’altro capo del telefono, ma nessuno rispose all’hallo di Tom.
-Mimi!- chiamò il ragazzo, cercando di abbassare il tono di voce per non svegliare tutto l’hotel.
La ragazza non rispose, Tom riusciva solo a sentire un rumore infernale di folla, di urla, confusione, che gli rimbombavano prepotentemente nell’orecchio, tanto che dovette allontanare un poco il cellulare per paura di rimanere sordo di quel vociare e del rumore di vetri rotti.
Un suono convulso gli giunse dall’altro capo della linea, come se qualcuno stesse soffocando.
-Mimi?- chiamò ancora.
-Bitch!- imprecò una voce maschile e poi rise. Il telefono cadde per terra.
Tom rimase immobile, i muscoli contratti, spaventato da ciò che sentiva, ma troppo coinvolto per staccare il telefono. Si accorse di star sudando.
-Hal…hallo?- la voce di Mimi tremava e sembrava più terrorizzata di Tom, sovrastata dal fracasso indefinito che riempiva i timpani del ragazzo e gli scavava il sistema nervoso.
-Mimi, sono Tom, ti-ti ricordi?- balbettò il ragazzo, aggrappandosi con due mani al cellulare.
-Tom…- biascicò lei –Sì, sì-
-Mimi?- chiamò, sentendo che la ragazza non respirava più nella cornetta.
-Vieni a prenderci- pregò lei, dopo un silenzio che al rasta parve interminabile.
-Dove? Dove sei? Lotte è con te?- urlò Tom, non controllando più l’ansia.
-Vieni, ti prego- pianse Mimi. Tom udì di nuovo quel rumore di vetro rotto e seppe che la ragazza era caduta da un tonfo sordo che lo colpì come una pugnalata.
-Dove? Dove?- urlò ancora.
-Lost Heaven- biascicò la ragazza e poi interrupe la comunicazione.
Paradiso perduto. No, assomigliava di più ad un purgatorio di anime corrotte, vestite da spiriti indemoniati, perduti in un limbo di rumore. Era un locale, Tom l’aveva sentito nominare e proprio in quei giorni, sui quotidiani, era stato pubblicato un articolo su quel covo di disperati.
Niente paura, niente-paura, si intimò il ragazzo, infilandosi la felpa e dirigendosi verso camera di Gustav quasi di corsa. Bussò forte tre volte e avrebbe continuato a tempestare la porta di pugni se il biondino non fosse comparso sulla soglia, in pigiama, ma sveglio.
-Che c’è?- borbottò, infastidito –Ti pare questa l’ora di fare scherzi?-
-Vestiti che dobbiamo andare- rispose Tom, non facendo caso all’irritazione dell’amico.
-Ma che diamine stai dicendo, è l’una di notte!- esclamò Gustav, cercando di fermare il rasta, che entrò nella stanza e si mise a cercare tra le valigie di Gustav un paio di jeans da fargli indossare.
-Sbrigati, io intanto vado a chiamare Saki- gli ordinò Tom.
Il biondino lo guardò precipitarsi fuori dalla suite con la stessa frenesia e la stessa agitazione con cui era entrato; si sbrigò a togliere il pigiama e infilare una maglietta a caso, per poi seguirlo fino alla camera del bodyguard.
-Tom, tu sei impazzito- continuava a ripetere sottovoce Saki, tirato fuori a forza dal letto.
-Saki, dobbiamo andare- protestava Tom con i suoi toni soavi, sottolineando con disperazione quel verbo dovere.
L’omone inforcò gli occhiali che teneva in tasca e il rasta interpretò quel gesto come il più desiderato dei sì. Saki sollevò le mani per impedire a Tom di abbracciarlo e chiese con un’occhiata eloquente almeno cinque minuti per infilarsi i vestiti e chiamare qualcuno che li potesse scortare.
-Ma almeno sai dov’è questo posto?- chiese al ragazzo.
-No, dobbiamo prendere un taxi-
-E taxi sia- acconsentì Saki, mettendo mano al cellulare in tasca e premendo un paio di tasti -Su, andiamo- fece cenno a Tom e Gustav che lo stavano guardando in attesa di ordini e i due si diressero precipitosamente verso l’ascensore.
-Posso chiederti una cosa, Tom?- domandò Gustav, mentre le porte dell’abitacolo si chiudevano davanti a loro accompagnate dal suono del campanello.
Tom annuì, premendo il tasto del pianoterra.
-A cosa ti servirei io?- il biondino si indicò portando l’indice al petto e sollevando un sopracciglio con fare dubbioso.
-Tu? Bè, tu non sei un metallaro?- indagò Tom, pur conoscendo già la risposta.
-Bè, sì- ammise Gustav –ma cosa c’entra?-
-C’entra. Stiamo andando ad una festa del genere- spiegò il rasta.
-E perché?-
-Perché là c’è Charlie-
Le mani di Tom sudavano quando scese nella hall e aspettarono insieme il taxi, sudarono all’idea che se David avesse scoperto qualcosa sarebbero finiti nei guai e, nonostante continuasse ad asciugarle nel tessuto interno della tasca gigantesca dei suoi jeans, sudarono anche durante tutto il tragitto, nel quale le strade illuminate e trafficate che tanto lo avevano affascinato all’inizio gli passarono accanto senza catturare neanche un briciolo della sua attenzione. Continuava a guardare Gustav e i suoi piedi e poi ancora Gustav e il conducente, che si desse una mossa, per la miseria.
Il taxi curvò di colpo in una strada diversa dalle altre, nel centro scuro della città e frenò in un vicolo di insegne al neon flebili e senza lampioni. Solo la luce che proveniva dagli edifici illuminavano la strada.
-Here- indicò loro il conducente, permettendo loro di scendere.
L’attenzione della stampa era stata probabilmente attratta non dal posto, che di notevole non aveva nulla, anzi, era alquanto anonimo, ma dalle persone, se si potevano definire così.
Tom indietreggiò, andando a sbattere contro l’automobile gialla.
All’entrata, segnalata da una luce al neon blu, del Lost Heaven, ciò che non potevano lasciare indifferenti erano quei volti. Bianchi, pitturati da ali nere, che disegnavano la loro pelle diafana e scarna di giochi scuri e neri tracciati e sbavati, sfumati dalla stessa mano. Alcuni di quei ragazzi si girarono verso Saki, Gustav e Tom, concentrando la loro attenzione soprattutto sull’ultimo. Per la prima volta nella sua vita, Tom maledisse i suoi capelli e i suoi vestiti. Sentiva gli occhi infuocati di quei tizi bruciargli la pelle, seguirlo minacciosi.
Impallidì notando le loro borchie e i loro anfibi.
-Saki- chiamò Tom, tirando una manica della giacca del bodyguard.
-Tom, ma dove cazzo ci hai portati?- domandò l’uomo.
-Entriamo dal retro- supllicò il rasta.
-Questo è il retro, pensavo dovessimo andare ad una qualche festa dove potevano riconoscervi e allora ho chiesto di portarci direttamente all’entrata secondaria- spiegò lui.
-Can I go away?- domandò il tassista, uscendo dalla vettura. Era già stato pagato, ma vedendo l’incertezza dei suoi clienti si era fermato ad aspettare che decidessero se restare o scappare.
-No, please, stay here and wait us- rispose Tom, ingarbugliando le parole. L’uomo annuì e si riaccomodò in macchina, per nulla turbato.
-Che facciamo?- chiese Gustav all’amico.
Tom chiuse gli occhi e respirò, buttando fuori l’aria dalla bocca.
-Entriamo-
Gustav lo trattenne per la maglietta, facendolo voltare verso di lui.
-Guarda che questi, Saki o non Saki, ci pestano- lo avvertì.
-Non m’importa- Tom si liberò della presa dell’amico –Entriamo- ripetè e deciso, si cacciò le mani in tasca e avanzò verso l’entrata del locale, cercando di non pensare alla poltiglia d’ossa che sarebbe diventato di lì a poco. Saki lo precedette, allontanando con lo sguardo le persone all’entrata che aspettavano di entrare o rimenevano lì a bere, già mezze ubriache. Prese per un braccio Tom e per l’altro Gustav ed insieme entrarono. Ci misero qualche minuto per abituarsi al buio e a rendersi conto che si trovavano di fronte ad un corridoio stretto e lungo, che dava su stanze diverse e affollate di gente. Passare per quel lungo cunicolo sembrava impossibile. All'estremità lontana, potevano vedere solo la flebile luce di un neon blu, come una cometa da seguire e raggiungere.
Sentirono il loro primo passo avanti pesante come se nelle scarpe avessero pietre, ma ciò che li ostacolava non era la pesantezza dei piedi, ma quella della paura. Altre maschere nere si ergevano ai loro lati, ma queste meno minacciose, più umane. A Tom sembrò che fossero i loro occhi a farlo sentire prigioniero e incapace di proseguire, trattenuto da mani invisibili che lo strattonavano per la giacca e lo alzavano da terra per schiantarlo con forza al suolo.
Una bottiglia volò sopra le loro teste, ma il tipo a cui era stata lanciata era già troppo ubriaco per riuscire ad afferrarla e quella precipitò e si ruppe in mille pezzi ai suoi piedi. Ci rise su, una risata da ubriaco accompagnata da un sonoro rutto, fin troppo consono a quel porcile. Il rumore del vetro rotto scosse Tom dal silenzio che lo aveva avvolto fino a quel momento e i rumori del Lost Heaven entrarono tutti contemporaneamente e con prepotenza nelle sue orecchie, stordendolo. C’era musica molto alta, ma non era il volume a fare pressione sui suoi timpani, bensì il lamento continuo di una chitarra elettrica che scuoteva le fondamenta dell’edificio e faceva traballare i muri.
Avanzarono a fatica e più volte Saki dovette cacciare a manate tizi ubriachi o rissosi che si avvicinavano e bloccavano loro il passo. Tom si riparava la testa con le mani, sentendosi affogare in un mare non suo, ma determinato a raggiungere la luce blu. Cercava con gli occhi Mimi, ma non l’aveva mai vista ed era come cercare uno spirito. L’entrata della sala in fondo al corridoio era occupata da un divano messo di traverso che dovettero scavalcare, aiutandosi a vicenda e lasciandosi alle spalle l’odore di alcool e sudore che impregnava il corridoio.
Il neon blu era sospeso su un tavolo basso di legno consumato, lungo e robusto che sembrava occupare con la sua superficie titanica tutta la stanza, illuminata in aggiunta al blu artificiale da una sola piccola finestra. La luce della luna invernale entrava dal vetro aperto e irradiava d’argento i suoi capelli. Tom, spinto da un tizio robusto, andò a cozzare contro il tavolo, sbattendo il fianco dolorosamente e sbiancando di colpo per il dolore. Cercò di non sputare il sangue che sentiva in bocca a forza di mordersi le labbra.
Con il sapore metallico che gli gonfiava la lingua, alzò gli occhi, reggendosi al tavolo.
La luna illuminava anche la schiena nuda della ragazza, fluida di raggi argentati su cui i capelli biondi cadevano sciolti e ribelli. Tante mani li continuavano ad accarezzare e scostare dal suo collo per morderlo, azzannarlo, leccarlo. In piedi sul tavolo, Charlie aveva gli occhi scuri persi nella luce dell’astro del cielo, le mani in alto in un gesto di donazione completa a quei corpi che opprimevano il suo celato appena dallo straccio di una maglietta strappata che le copriva ormai solo i fianchi. Inclinava la testa seguendo il ritmo dei baci sulla sua pelle, sul suo seno e tra le sue gambe, in uno stato di incoscienza completa. Non sapeva cosa aveva preso quella sera, ma era stato sufficiente a farla sentire libera come tutte le altre volte.
Quegli uomini che la lambivano con assuefazione non avevano un volto, né un nome, lo facevano e basta, l’avevano sempre fatto. Il corpo di donnola della ragazza scivolava da una mano all’altra fino a quando, per puro caso, non incontrò gli occhi di Tom, lacrimanti per il dolore al fianco. Ne lesse la sorpresa, l’imbarazzo, l’impotenza di fronte a quel mondo in cui era capitato per sbaglio. L’aveva trovata, non era scemo come lei pensava. Sorrise sensualmente.
Allargò le braccia per allontanare i corpi che si muovevano intorno a lei con gesto imperioso, da regina quale era e quale Tom l’aveva riconosciuta dal primo istante. Quelli si allontanarono mansueti come ombre e lei camminò sul tavolo, picchiando il legno con i tacchi alti. Arrivò al bordo e fece per scendere, barcollando. Tom l’afferrò prima che cadesse a terra.
La ragazza si aggrappò al collo del rasta, mentre le gambe le cedevano e lui la sorreggeva con tutte le sue forze, cercando di allontanarsi dal tavolo, allontanarsi dal quel posto e andarsene via, salvarla.
Charlie combatteva con i conati di vomito e il sudore freddo, stringendosi a Tom. Trovò abbastanza forza per guardarlo negli occhi, sentendo il suo seno nudo a contatto con la felpa del ragazzo e rabbrividendo dal freddo.
-Sei venuto qui per leccarmela anche tu?- gli chiese, sensuale e minacciosa, prima di cadere ancora.
-No- mormorò Tom al suo orecchio, accarezzandole dolcemente i capelli rassicurandola. Si tolse la maglia e gliela fece indossare a fatica e poi la prese in braccio. Una scarpa cadde dal piede di Charlie, ma nessuno dei due ci fece caso. Il ragazzo la strinse a sé e si diresse verso Saki e Gustav, alle prese con un gruppo di tizi che li minacciavano con le loro borchie e le loro bocche sporche d'alcool. Il batterista strabuzzò gli occhi davanti alla figura della ragazza in braccio a Tom, prese l’amico per una manica e incitati da Saki, imboccarono di nuovo il corridoio per il ritorno, scappando dalla ressa.
Questa volta lo superarono senza difficoltà, le persone si scostavano vedendo la nota chioma bionda di Charlie ondeggiare tra le braccia di quel ragazzo che, secondo loro, era venuto lì solo per cercare rogna.
Quando arrivarono a due metri dall’uscita, la ragazza sembrò riprendere i sensi sentendo l’aria pungente e fresca della notte entrare dall’ingresso e alzò il viso dalla spalla di Tom. Fissò le iridi nocciola del ragazzo e si sentì al sicuro.
-Tom, sei venuto a prendermi- sussurrò, roteando gli occhi. Il ragazzo le sorrise, rassicurando lei e se stesso e mormorò un sì incomprensibile, che la ragazza lesse sulle sue labbra tremanti. Charlie fece per ripiombare nel suo sonno ammalato, ma il ricordo di Mimi le attraversò la mente.
-Dobbiamo, dobbiamo… prendere Mimi- riuscì a biascicare, ad occhi chiusi e con la bile in bocca.
-Cosa?- cercò di scuoterla Tom.
-Ha detto che dobbiamo prendere Mimi, mi sembra-
rispose per lei Gustav.
Tom si voltò con ansia verso il corridoio che avevano appena superato, accarezzando ancora la testa bionda di Charlie. Inspirò per farsi coraggio.
-Aspetta, vado io- lo fermò Gustav.
-Non puoi da solo- cercò di fermarlo l’amico, ma il batterista stava già tornando indietro, mescolandosi tra la folla. Urlò un paio di volte il nome della ragazza, cercando di non farsi prendere dal panico. Non sapeva chi era, non sapeva com’era, non aveva mai sentito neanche la sua voce.
-Mimi!- urlò, con le mani a conchiglia davanti alla bocca. Il suo richiamo venne risucchiato dalla musica assordante. Gustav si guardò intorno, svoltò in una stanza che si affacciava sul corridoio, buia come le altre e chiamò ancora la ragazza.
-Scusa, conosci una certa Mimi?- chiese in inglese ad un tizio, prendendolo per la maglietta. Quello rise e gli indicò i divani tarmati in fondo alla sala. Gustav corse lì. Una ragazza mora e robusta stava vomitando l’anima vicino ad uno dei divani e, spossata, perse l’equilibrio, scivolando su un lago di birra versato sul pavimento. Il batterista la raggiunse e le sorresse la fronte mentre questa respirava profondamente, aspettando un altro conato, che però non venne.
-Sei Mimi?- le chiese il biondino. Questa barcollò, annuendo e tenendosi il ventre con le mani.
-Vieni, ti porto fuori di qui, ce la fai a camminare?-
La ragazza annuì ancora e alla luce dell’unica fonte di chiarore della sala Gustav vide che aveva un occhio nero e un taglio al labbro. La prese per mano e le passò un braccio intorno alle spalle, portandola via da quell’inferno.
L’aria fredda della notte fece indurire i capezzoli della ragazza attraverso la maglia leggera e Gustav la guidò fino alla macchina dove, con l’aiuto di Saki, riuscirono a farla salire. L’autista chiuse con un colpo secco gli sportelli del taxi e salì a sua volta; accese il motore e partì, sgommando nella notte.


*Il titolo originale è Morgenstern, la canzone dei Rammstein che accompagna la seconda parte di questo capitolo.
  
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