CAPITOLO
TREDICI
John
si svegliò dopo uno strano sogno. Non era sulla
guerra in Afghanistan questa volta, era su qualcos’altro.
C’era Sherlock nel
suo sogno e succedeva qualcosa di spiacevole, di brutto, ma si
dimenticò quasi
tutto non appena aprì gli occhi. E forse era meglio
così.
Gli ci volle qualche secondo per riprendere completamente coscienza e
quando lo
fece si accorse che qualcosa pesava sul suo corpo. Abbassò
lo sguardo e si
scontrò subito coi neri ricci dell’amico che gli
solleticavano il mento.
Non ricordava quando si era addormentato esattamente, sapeva solo di
non aver
chiuso occhio finché Sherlock non si era completamente
rilassato contro il suo
corpo facendogli capire di aver esaurito tutte le lacrime a sua
disposizione
per quella notte. E poi erano rimasti in quella posizione fino a quella
mattina, John disteso sulla schiena e il detective con la testa
poggiata sul
suo petto e una mano sul suo fianco, lì dove gli aveva
stretto la maglietta.
Il
dottore gli affondò una mano nei capelli e prese
ad accarezzarlo dolcemente. In fondo era questo che gli serviva, no? Un
po’ di
conforto, di rassicurazione… di coccole. Se voleva dargli
una dimostrazione di
essere umano, be’, ci era riuscito alla grande. John non se
la sarebbe più
scordata quella notte, non solo per le lacrime di Sherlock, ma anche
per la
sensazione di impotenza che aveva provato, e di dolore, di…
Basta,
John, alzati da ‘sto letto e fai qualcosa di concreto per
aiutare Sherlock.
Cercò
di scivolare da sotto il corpo dell’amico
senza svegliarlo. Quest’ultimo doveva essere veramente stanco
perché non sembrò
aver sentito niente, dormiva della grossa. O forse faceva finta. In
ogni caso
era meglio lasciarlo riposare, chissà da quanto tempo non si
faceva un sonno
decente.
Prima
di alzarsi dal letto, poggiò una mano sulla
fronte di Sherlock constatando che era piuttosto calda. Dopo la pioggia
di ieri
sera era abbastanza normale che si fosse preso la febbre. Allora
afferrò le
coperte e lo rimboccò come avrebbe fatto con un bambino.
Poi scese al piano di sotto, incontrando Connie e Greg in salotto;
nessuno dei
due sembrava aver dormito granché.
“Ciao,
John”, salutò la ragazza seduta sul divano.
“Ti va del caffè?” chiese facendo per
alzarsi, ma John la bloccò sul posto.
“No, lascia. Faccio io”.
“Come
sta Sherlock?” fece lei allora, senza perdere
tempo.
John
si versò del tè caldo in una tazza e si
voltò
per guardare Connie. “Sta dormendo. Credo abbia un
po’ di febbre”.
La
ragazza annuì, ma non sembrava molto attenta alle
parole dell’amico. “Non l’ho mai visto
così”, sospirò, gli occhi puntati per
terra. “Non l’ho mai visto piangere
così, nemmeno quando era piccolo”.
Greg,
che per tutto quel tempo se n’era rimasto in
piedi vicino alla finestra, si sedette accanto a Connie e
l’abbracciò per le
spalle, cercando di confortarla. E lei sembrò gradire
perché si rilassò subito
contro il suo petto.
“Non
appena si sarà svegliato cercherò tutta la
droga che tiene in casa e gliela farò buttare
via”, decise lei e il tono serio
non ammetteva repliche. Non che gli altri due avessero qualcosa da
dire. John
si sedette sulla sua poltrona e strinse forte la tazza che teneva fra
le mani,
non curandosi del fatto che scottava. “Sono un
idiota!” pronunciò senza
guardare nessuno dei presenti. “Me ne sarei dovuto accorgere
prima”.
“John,
non è colpa tua”, cercò di rassicurarlo
Connie, gli occhi puntati su di lui.
“Invece
sì. È il mio coinquilino, il mio migliore
amico ed è la persona…”. Si interruppe
all’improvviso. Non voleva dire quello
che stava per dire, non davanti a Greg. Non era ancora pronto.
“Me ne sarei
dovuto accorgere. Viviamo insieme e io…”.
“Sherlock
è bravo a nascondere le cose quando vuole.
Nessuno se n’era accorto”.
“Sì,
ma se me ne fossi accorto prima non sarebbe
arrivato a questo punto”.
Non
se la sarebbe mai perdonata una cosa del genere.
Non era solo il suo migliore amico, era anche la persona che amava e se
ne
sarebbe dovuto accorgere fin da subito, che in Sherlock qualcosa non
andava. E
invece lui era stato troppo occupato a pensare a se stesso e ai suoi
sentimenti,
al fatto che Sherlock lo evitasse perché non lo volesse
avere più attorno per
colpa di quel bacio, perché lo volesse allontanare
perché lui non provava le
stesse cose.
E invece tutto quello non c’entrava niente.
“Ascoltate!”
esclamò Connie tutto d’un tratto,
saltando in piedi come punta da una vespa. “Non dobbiamo
farne una tragedia,
non fa bene né a noi né a Sherlock. Non ha ancora
superato il limite, non come
prima, quindi si può ancora recuperare. E noi lo aiuteremo,
d’accordo?” Fece un
sorriso ai due uomini guardandoli speranzosa e loro non potevano far
altro che
essere contagiati dalla sua tenacia. In fondo, non aveva tutti i torti.
“Certo,
tesoro”, acconsentì Greg, alzandosi anche
lui e sistemandosi la camicia. “Io però ora dovrei
andare al lavoro. Ce la fate
voi due da soli?”
“Sì,
vai pure”.
“Chiamami
se hai bisogno di qualcosa”.
“D’accordo”.
Lestrade
si avvicinò alla ragazza e le diede un
rapido bacio sulle labbra. Poi afferrò la sua giacca e
uscì dall’appartamento.
Connie allora si diresse a passo spedito verso la cucina e
aprì il rubinetto
del lavello per lavare le tazze e i piatti che erano rimasti ancora
dall’altra
sera.
“Devo
chiamare Mycroft e dirgli quello che è
successo”.
“Vuoi
che lo faccia io?”
“No,
gli manderò un messaggio. Gli dirò di venire
qui così glielo dico in faccia. Sono proprio curiosa di
vedere la sua
espressione”.
John
non poté fare a meno di notare una certa nota
ironica nell’ultima parte della frase. Forse questa sarebbe
stata la volta
buona per capire che cosa non andasse tra i due. Non poteva solo
trattarsi di
quel bacio che si erano scambiati per sbaglio Sherlock e Connie.
“D’accordo.
Io vado a vedere se Sherlock si è
svegliato”.
“Portagli
una tazza di tè”.
Quando
John entrò nella stanza di Sherlock, trovò il
detective ancora addormentato, questa volta sdraiato sulla schiena, i
capelli
scuri sparsi sul cuscino. Era piuttosto pallido, tanto che quasi si
poteva
confondere con le lenzuola, se non fosse stato per i capelli.
Poggiò
la tazza di tè fumante sul comodino e si sedette
sul bordo del letto, rimanendo a guardarlo. Gli piaceva guardarlo
dormire, non
sembrava più lui. E in quel momento pareva così
piccolo e indifeso.
Dopo
poco, però, lo vide aprire gli occhi,
lentamente, come se stesse cercando di abituarsi alla debole luce che
entrava
dalle finestre. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di
inquadrare il viso
di John.
“Ciao”,
lo salutò questi. “Come ti senti?”
Sherlock
lo guardò leggermente confuso, poi si portò
un braccio alla fronte e richiuse di nuovo gli occhi. “Ho mal
di testa”.
“Hai
la febbre. Ti porto delle pastiglie”, poggiò le
mani sul letto per aiutarsi ad alzarsi, quando ci ripensò.
“O forse è meglio di
no”.
Il detective inclinò il capo come incuriosito.
“Ti
ho portato del tè. E dovrei misurarti la febbre.
E dovrei anche…”.
“Sei
arrabbiato con me?” lo interruppe il moro
guardandolo con quei suoi penetranti occhi azzurri. John rimase
leggermente
basito. “Arrabbiato con te? No”.
“Allora
sei deluso. Il che forse è peggio. O forse
no. Non lo so”.
“Sherlock,
ma che stai dicendo? Non sono né
arrabbiato né deluso. Sono solo preoccupato e spaventato
perché tu ora hai un
problema, come qualsiasi altro essere umano, ed è
perfettamente normale. Non
c’è niente di cui vergognarsi. Ti
aiuterò… ti aiuteremo”.
Il
detective si mise seduto di scatto, le mani
poggiate sul letto perché lo sostenessero.
“Perché sei sempre così, John?
Perché… perché mi giustifichi sempre?
Avrei preferito che ti fossi arrabbiato e
che mi avessi gridato contro. Non puoi sempre essere dalla mia parte,
non
puoi…”.
John
aveva ascoltato quelle parole rimanendo
impassibile, nonostante il tono decisamente contrariato
dell’amico. Capiva
perfettamente la reazione di Sherlock. Ma al detective ancora non era
chiara
una cosa: che era ora di smetterla di avere paura.
Avvicinò
il proprio viso a quello dell’amico, così
vicino che avrebbe potuto baciarlo, e fissò i propri occhi
in quelli dell’altro.
“Sherlock, tu sei il mio migliore amico e
io…”.
“E
tu?”
Io
ti amo.
“…
ti voglio bene. Quindi, non mi interessa che cosa
farai, ti aiuterò. Sempre”.
Sherlock
aprì bocca per aggiungere qualcos’altro, ma
venne interrotto dall’arrivo di Connie che restò
perplessa per qualche attimo
nel vederli così… intimi.
“Scusate,
ho interrotto qualcosa?”
Era
tutta la mattina che la più piccola della
famiglia Holmes cercava di mettersi in contatto col fratello maggiore;
gli
aveva mandato una decina di messaggi, chiamato almeno cinque volte, ma
quello
si ostinava a non rispondere.
Sperava solo che non lo stesse facendo perché non voleva
parlare con lei. Ma se
così fosse stato, lo avrebbe preso a pugni fino a staccargli
tutti i denti. Non
poteva ignorarla, gli aveva scritto in maiuscolo che c’era un
problema e che si
trattava di Sherlock. Mycroft sarebbe accorso, per forza.
Aveva
chiamato persino Molly, pregandola di venire e
di aiutarli e la ragazza si era precipitata da loro arrivando in Baker
Street in
venti minuti. E solo perché aveva un lavoro urgente da
finire, altrimenti
sarebbe arrivata prima.
John
era di nuovo in stanza con Sherlock quando la
patologa bussò alla porta. Il detective era rimasto a letto
praticamente tutto
il tempo, troppo spossato per alzarsi a causa della febbre e del mal di
testa.
Era mezzo addormentato persino quando il dottore gli legò un
laccio emostatico
attorno al braccio per fargli un prelievo di sangue. Infilò
l’ago nella vene,
trovandola un po’ dura, ma il moro non reagì.
Doveva esserci abituato.
Riempì qualche provetta, poi estrasse l’ago e gli
attaccò un cerotto. Stava per
rimettergli il braccio sotto le coperte quando qualcosa
attirò la sua
attenzione: c’erano delle cicatrici bianche sul polso di
Sherlock. Sembravano essere
piuttosto vecchie, ma erano chiaramente delle cicatrici. Ed erano
presenti su
entrambi i polsi.
Non le aveva mai notate perché il detective portava sempre
le maniche lunghe o
i guanti. A questo punto un atroce dubbio lo assalì.
Scese
al piano di sotto dove consegnò le provette a
Molly, raccomandandole di fare in fretta nell’analizzarle.
“Non
ti preoccupare, John, farò prima che posso. Piuttosto,
come sta Sherlock?”
“Non
molto bene. Ma si riprenderà”. John
cercò di
sorridere rassicurante all’amica, ma non credette di esserci
riuscito granché.
Il
campanello della porta suonò di nuovo e Connie si
precipitò sperando che fosse Mycroft. Invece era solo
Lestrade, seguito dalla
Signora Hudson, la quale era rimasta piuttosto scioccata nello scoprire
che
Sherlock aveva fatto uso di droghe.
Mycroft
arrivò finalmente nel tardo pomeriggio,
impeccabile come sempre, con l’immancabile ombrello appeso al
braccio e quella
faccia che alla sorella faceva sempre venire voglia di prenderlo a
sberle.
“Ero
bloccato ad una riunione importante”, disse
come scusa, piuttosto incuriosito nel vedere l’appartamento
pieno di tutta
quella gente. “Che è successo?”
“Già,
il lavoro è più importante della tua dannata
famiglia”, lo riprese Connie, incrociando le braccia al petto
e guardandolo di
sbieco.
Mycroft
sembrò fare appello a tutto il suo
autocontrollo per non dire o fare qualcosa di cui poi si sarebbe
pentito. “Non
girarci troppo attorno, Constance e dimmi cos’è
successo”.
Connie
attese per un po’
prima di rispondere, guardando il fratello dritto in viso:
“Nostro fratello ha
ripreso a drogarsi”.
MILLY’S
SPACE
Lo
so, Mycroft non sta facendo una bella presentazione.
Ma si rifarà, lo prometto. È solo che mi
è uscito così, non posso farci niente
^^
Vi
ho fatto attendere troppo, scusate, ma avevo gli esami
da finire. E ora sono libera come l’aria XD
Bene,
è molto tardi, quindi non mi dilungo troppo.
Ma vi prego, lasciatemi una recensione, please :3
Ah,
prima di andare volevo chiedervi una cosa: avevo
pensato di pubblicare dei Missing Moments su questa fanfic per
raccontare
qualche episodio dell’infanzia e dell’adolescenza
di Sherlock. Vi piacerebbe?
Vi avverto già che sarà molto angst ^^
Fatemi
sapere.
Un bacio,
M.