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Autore: Molly182    09/07/2014    1 recensioni
«Perché non mi hai mai detto che il tuo vero nome è Thomas?»
«Perché non me l'hai mai chiesto…»
«Spiegami perché avrei mai dovuto chiederti se quello fosse il tuo vero nome?»
«Perché pensavo che mi avessi riconosciuto»
«È piuttosto difficile vedere chi ho davanti, sai?», mi disse mentre stava riempendo due tazze di caffè caldo. «Soprattutto se il locale ha luci basse e quello che mi sta davanti ha un maledetto cappello che gli copre metà volto»
«Hai ragione», le dissi ridendo e appoggiando il cappello sul ripiano.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom DeLonge
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Chapter five.
Do you feel alive?
 
Thomas P.O.V
Una cosa era certa: questa ragazza non doveva essere in macchina con me.
Non perché non dovessi dare dei passaggi a delle ipotetiche amiche, ma le mie intenzioni erano totalmente diverse da quelle che i miei gesti cercavano di suggerirle e osservarla mentre distrattamente guardava fuori dal finestrino le vie che scorrevano, non mi aiutavano a rimanere concentrato sul mio obiettivo. Speravo di raggiungere l’indirizzo che mi aveva dato prima che iniziassero a spuntarmi pensieri malati su quanto fosse carina, simpatica e così dannatamente giovane per me.
Il suo volto riflesso sul finestrino era perfettamente tracciato e mostrava ogni minimo particolare come il suo sguardo che la faceva apparire come se fosse lontana mille miglia e sembrava così assolutamente innocente.
E in quell’istante capii che non potevo farlo. Non era giusto né nei suoi confronti e tanto meno in quelli di Jennifer. Dopotutto non avevo ancora chiarito con lei e per il bene di entrambi dovevamo fare al più presto una bella chiacchierata.
«Tutto okay?», le domandai parcheggiando poco più avanti di un cancello di ferro, probabilmente una delle entrate del residence.
«Cosa?»
«Tutto apposto?», le domandai di nuovo. «Sembri distaccata…»
«Sono solo un po’ stanca, scusa.»
«Figurati», dissi spegnendo la macchina.
«Grazie per il passaggio», asserì slacciandosi la cintura di sicurezza e portando poi la mano alla maniglia per aprire la portiera ma lasciò il gesto sospeso a causa del mio monologo che venne in seguito.
«Non mi sembri molto in vena di parlare, presumibilmente è colpa mia che ho il vizio di attaccare subito bottone con le persone e tu probabilmente non hai voglia di stare qui con me quindi forse è meglio se sto zitto e ti lascio andare», dichiarai quasi tutto di un fiato, pentendomi di quello che avevo appena detto. Non avevo la minima voglia di tornare a casa e affrontare il medesimo interrogatorio di Jennifer. Sarebbe stato più facile presentarsi quando lei fosse già a letto addormentata.
Eppure il sorriso che mi rivolse dopo mi fece dimenticare tutto quello che avevo appena detto e senza che me ne resi conto la mia voce disse: «Posso salire?»
Quello che accadde dopo non me lo sarei mai aspettato.
Non era esattamente il comportamento che mi ero promesso all’inizio, tantomeno l’idea di lasciarla perdere del tutto. Mi ritrovai seduto sullo sgabello davanti al piano che divideva la cucina dal soggiorno a fissarla mentre preparava il caffè.
«Perché non mi hai mai detto che il tuo vero nome è Thomas?»
«Perché non me l'hai mai chiesto…»
«Spiegami perché avrei mai dovuto chiederti se quello fosse il tuo vero nome?»
«Perché pensavo che mi avessi riconosciuto.»
«È piuttosto difficile vedere chi ho davanti, sai?», mi disse mentre stava riempendo due tazze di caffè caldo. «Soprattutto se il locale ha luci basse e quello che mi sta davanti ha un maledetto cappello che gli copre metà volto.»
«Hai ragione», le dissi ridendo e appoggiando il cappello sul ripiano.
«Quindi non ti arrenderai sul dirmi la tua vera identità?»
«Potrei rivelarti chi sono, ma poi non avremmo più niente da dirci.»
«Quindi ti presenterai ogni sera al locale?»
«Se vuol dire vederti e parlare con te, beh, si», dissi sorridendole. Abbassò lo sguardo e notai un lieve rossore sulle sue guance. Era da tempo che non vedevo qualcuno arrossire per così poco. «Posso farti una domanda personale?», le domandai facendole alzare gli occhi e costringendola a guardare i miei. «Quanti anni hai?», le chiesi senza aspettare un suo consenso.
«Ventidue.»
«Sul serio?», dissi passandomi una mano tra i capelli. Erano molti di meno di quelli che mi ero immaginato. Mi ricordai che non dovevo essere lì, che dovevo essere a casa da quella che in un futuro sarebbe diventata mia moglie e non a casa di una ragazza di ventidue anni che non aveva la minima idea di chi io fossi e di cosa fossi capace di fare.
Era tutto terribilmente sbagliato. Eppure, tecnicamente, non stavo facendo nulla di male.
«Sei piuttosto giovane», osservai.
«Tu invece dovresti averne… ventisette?»
«Trentadue.»
«Sei un vecchietto!», scherzò ridendo e portandosi poi la tazza alle labbra.
E capii in quell’istante che non era importante l’età, il sesso, la razza o la bellezza di una persona ma bensì il trovarsi bene con essa. E nonostante io la conoscessi da tre settimane e che il nostro primo vero discorso lo avessimo fatto qualche ora fa, mi trovavo perfettamente a mio agio con questa sconosciuta. Sentivo di poter essere rilassato e che non dovevo misurare ogni parola che dicevo per non far arrabbiare chi le ascoltasse.
Mi sentivo decisamente più libero.
Osservai Cassie. Osservai come si muoveva con disinvoltura. Osservai come si sedette sul piano al lato della mia tazza e di come allontanò la sua dalle labbra.
Istintivamente mi alzai dal mio posto e poggiai le mani ai lati dei suoi fianchi e bastò qualche secondo, il tanto da creare quel momento così strano prima del bacio dove gli occhi continuano a fissarsi ed entrambi sapete che cosa sta per succedere, ma nessuno dei due vuole fare la prima mossa perché teme che l’altro non voglia. Eppure quell’intesa che si crea dovrebbe bastare ad afferrarla e a spingere le proprie labbra sulle sue perché, infondo, sapete entrambi che deve andare esattamente così. Sapete che è giusto ed è quello che volete tutti e due.
Le afferrai la mano e la tirai a me. Le sue labbra erano saldamente serrate, pronte per iniziare, così la baciai per primo.
La baciai.
La baciai di nuovo.
Feci scivolare le mie mani una tra i suoi capelli e l’altra dietro al collo così da non dovermi separare da lei.
Fu un tremendo errore e me ne accorsi soltanto quando mi allontanai da lei, ma il suo sorriso imbarazzato sapeva di gran lunga quello che stavo pensando.
«Non avremmo dovuto, vero?», domandò scendendo dal piano e posando le sue delicate mani sul mio petto facendosi spazio.
«Sono un musicista», dissi di colpo senza rendermene conto. «Suono in una band da parecchi anni, in effetti, è strano che tu non ci conosca, siamo piuttosto famosi nel mondo e soprattutto qui in California», continuai a dire senza fermarmi. «Anche il ragazzo che è venuto a prendermi l’altra sera, Mark, è nella band, lui suona il basso e canta e anch’io canto, ma suono la chitarra…»
«Perché mi stai dicendo tutto questo?»
«Perché quando vado in panico inizio a parlare e a farneticare di cose stupide e che non interessano a nessuno e mi sento così stupido, dannazione!»
«Quindi ora che mi hai detto ciò non verrai più al locale?»
«Non dovrei neanche essere qui stasera», dissi passandomi nervosamente una mano tra i capelli e scompigliandomeli tutti.
«Si è fatto piuttosto tardi.»
«Non è poi così tardi.»
«Invece dovresti tornare a casa…», disse prendendo le due tazze di caffè e posandole nel lavandino. Non sembrava né arrabbiata né delusa. Potevo immaginare cosa pensasse: perché mi ero comportato così, perché avevo iniziato a parlare di cose inutili, perché ero ancora qui a fissarla e non ero sparito come avrei dovuto fare….
Una parte di me voleva restare lì, con lei, anche a non fare niente, ma l’altra parte di me, quella più razionale, che dovrei ascoltare più spesso, mi diceva di tornare casa da Jennifer e di dimenticarmi di quella ragazza.
E per una volta gli diedi ascolto.
«Buonanotte Cassie.»
«Notte Thomas.»
   
 
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