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Autore: Yandeelumpy    12/07/2014    3 recensioni
Ispirata alla creepypasta di Jeff the killer. Perché non continuare la storia della sua vita ora che è diventato uno spietato assassino ricercato in America? No, la sua famiglia non è stata la sua unica banda di vittime. Conterà corpi come pecore, a ritmo dei tamburi di guerra.
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Twisting and turning,
unable to sleep.
Do the voices ever stop?


Bruciava. Bruciava da morire. Faceva male, un male così forte da togliermi il fiato. Era un dolore acuto, le grida mi morivano in gola. Le fiamme mi divoravano molto più che solo all’esterno, come la gente credeva nel vederni. Mordevano, tiravano e strappavano dentro, spezzavano ciò che era rimasto di quel me innocente, di quello splendore che ero una volta.

My thoughts speak louder,
the more I resist.


Lo sentivo sulla pelle. Sentivo colare il sangue lungo il profilo del mento, scorreva caldo e diretto verso il basso. La mia stretta sul coltello era salda, ferrea. L’incisione decisa, sicura, con una tale precisione da risultare quasi irreale. Le lacrime salate che si mescolavano al sapore e all’odore del liquido rosso.

And they’re driving me insane.
Do they ever go?


Non avvertivo più il peso delle palpebre, né quel senso di stanchezza che prende all’improvviso. I miei occhi aperti per sempre, su un mondo a cui sarei appartenuto fino alla fine dei miei giorni. Spalancati sulla gabbia in cui sarei rimasto rinchiuso a vita, dove non avrei mai conosciuto la mia vera libertà. No, io non sarei mai stato libero davvero. Era la mia gabbia. Io ero prigioniero della mia mente. Ero e sarò sempre prigioniero del mio stesso inferno.




Inside, I’m a danger to myself!
I’m a danger to myself!
Inside, I’m a prisoner of my own hell!

My own hell!
 
 
 
 
Tre giorni.
Tre lunghi giorni passati in strada. Il mio terzo giorno di fuga, l’ennesimo tentativo fallito. Erano tre giorni che tentavo la fuga da New York, ma senza alcun risultato soddisfacente. Le strade mi sembravano tutte uguali, i grattacieli troppo alti per vedere cosa c’era dall’altra parte, le vie troppo affollate ed il caos generale del traffico. Le luci abbaglianti dei locali, degli enormi avvisi pubblicitari affissi ai muri degli edifici e i lampioni che illuminavano di varie sfumature chiare quella città che viveva di notte.
Strappai i  mille pezzi i grossi fogli di carta stampata che tenevo nervosamente tra le mani, gettando in direzione di un cassonetto vicino a me i resti del giornale che avevo trovato su una panchina. Parlava dei tre ragazzi che avevo ucciso poco tempo fa e delle vittime che avevo messo a tacere per sempre all’interno delle loro stesse camere da letto. La notizia che ero lì si stava diffondendo velocemente, forse troppo velocemente, ma potevo ritenermi soddisfatto, poiché ero a quota sette.
Avevo fatto già sette vittime a New York, in soli tre giorni di fila. L’unica cosa che mi preoccupava davvero, che mi teneva ancora lo stomaco come annodato, inchiodato ad essa, erano i piani dell’agente che avevo visto in volto prima di lanciarmi nel vuoto. Sentivo che la mia vera nemica era lei, e non mi sarei dato pace fino al giorno in cui non l’avrei trovata e messa a dormire per sempre.
Era lei che dovevo cercare, lei che mi intralciava la strada e lei che dovevo far fuori prima dello scadere del tempo. Aveva un senso della giustizia così forte da farmi sentire la nausea. Ringhiai sonoramente al pensiero, gettando il mozzicone dell’ultima sigaretta che mi era rimasta, proveniente dal pacchetto che avevo recuperato da uno di quei tre idioti che avevo fatto fuori tre giorni fa.
Era seccante, dannatamente seccante trovarsi in un luogo così grande, così sconosciuto, senza sapere dove andare, e con un buco nella pancia per via della fame. Non potevo andare avanti in quel modo, avrei dovuto trovare del cibo decente, invece che recuperarlo dalla spazzatura. Ah, cosa mi toccava fare per tirare avanti.
Fortunatamente, la notte era vicina, e di conseguenza, potevo finalmente divertirmi con qualcuno. Già che c’ero, mi ronzava in testa l’idea di rubare del cibo dopo aver fatto fuori la mia prossima vittima, ed in questo modo, avrei preso due piccioni con una fava. Si, ero decisamente un genio, e la cosa mi faceva sorridere soddisfatto. Tornando alla realtà, mi decisi a darmi una mossa, affacciandomi finalmente dal quartiere in cui mi ero rintanato.
Le luci fioche dei lampioni illuminavano la stradina davanti a me, il tutto contornato da vari cortili recintati bellamente, e case moderne che davano l’idea che lì ci fosse della gente piuttosto ricca. Tanto meglio per me, avrei avuto cibo e soldi, anche se della seconda non me ne facevo assolutamente niente.
Decisi che finalmente era tempo di poter rimettere la mia amata felpa, che avevo tenuto per giorni all’interno del sacco che avevo trovato in quella vecchia baracca abbandonata, nel bosco. L’avevo tenuto con me tutto il tempo, anche se di tanto in tanto, lo lasciavo lì dietro al cassettone, poiché quella era diventata la zona in cui mi nascondevo dagli occhi indiscreti della gente.
Tornai indietro, per recuperare ciò che c’era all’interno del sacco, sostituendo finalmente ciò cha avevo addosso con i miei indumenti ufficiali. Passato tutto il tempo necessario per asciugarsi dopo quel giorno di pioggia,  l’unica cosa che mi dispiacque, fu notare che le macchie rosse si erano scolorite, lasciando posto al colore quasi naturale della felpa.
Sbuffai per disapprovazione, ma sapevo che presto avrei rimediato. Afferrai solo il manico del coltello che avevo preso alla mia prima vittima di New York, quello a cui avevo inciso uno splendido sorriso, prima di lanciare via il sacco, ormai inutile, e di avviarmi verso la strada.

Da chi cominciare? Quale casa scegliere? Su cosa o chi puntare? Ero stranamente indeciso, ma fatto sta che la mia linea di pensiero venne interrotta da…una risata? No, due risate. Divertite e sconnesse, ogni tanto cambiavano tono, ma non riuscivo a capire cosa dicessero da così lontano.
Mi guardai intorno, individuando con lo sguardo una stradina stretta e buia, priva di luci, se non una sola che sembrava illuminare il tutto con scarso successo. Sembravano provenire da lì, e la curiosità mi spinse a proseguire verso quella via, ma di certo senza abbassare la guardia. Non potevo sapere se lì dietro ci fosse qualcuno ancor più pazzo di me, qualcuno pronto a piombarmi addosso e a farmi fuori, oppure a catturarmi e a consegnarmi di nuovo a quei cani bastardi. Svoltai l’angolo, stavolta le voci si fecero più nitide, le risate più chiare. Chiunque fosse, sembrava divertirsi parecchio. Che diamine era, una specie di party hard segreto?

« Sta ferma, dai! Guarda che così non possiamo fare niente! »
« Haha, certo che è proprio carina, vero? Non potevamo trovare di meglio a quest’ora. »

Scossi la testa, confuso. Non sembrava ciò che avevo pensato stupidamente in precedenza, ma di certo lì c’era qualcuno poco contento di partecipare a quello che avevo considerato un “party”.
Mi chinai dietro un vecchio mobile usato, abbandonato lì, ed anche se puzzava tremendamente d’urina e la cosa mi faceva a dir poco schifo, la curiosità fu tale da farmi ignorare quella spiacevole situazione. Posai gli occhi su due figure maschili…no, tre, ma l’altra sembrava decisamente più piccola, non mi ricordava un uomo. Si dimenava, scalciava, tentava di liberarsi dalla presa di uno dei due.
Non capivo.

« Lasciatemi…stare…vi prego! »
« Lasciarti stare? Non so tu Deuce, ma la ragazzina qui ha dei problemi se la fa così facile. »

Un’altra risata di quelle seriamente poco di buono, venne sputata fuori da entrambi quelli che mi parevano due ragazzi. Sembravano avere su per giù una ventina d’anni, dalla statura, ma il resto mi era sconosciuto. Non vedevo molto al buio, nonostante la mia abitudine. Forse era la fame, forse la stanchezza.
Un gemito simile ad un lamento mi fece drizzare il capo corvino e sgranare gli occhi per il leggero sussulto avuto, notando che uno dei due stava tentando di strappare via i jeans di quella ragazza nell’ombra, sovrastata da entrambi.
Singhiozzava e si lamentava, riusciva a parlare poco, probabilmente perché una delle due presenze le copriva la bocca con qualcosa. Parlava solo a tratti, e quel poco che poteva, lo faceva con il fiatone. Adesso era evidente il fatto che si trattasse di uno stupro, ne leggevo di svariate notizie su questi casi: Non era affar mio. Mi voltai contrariato, facendo un passo avanti per allontanarmi dal posto.
Non era affar mio. Non mi riguardava.

« Aiuto! Aiutatemi…! Lasciatemi stare, vi prego! »

Un altro passo, ed un altro ancora, quando sentì la stoffa di qualche indumento strapparsi violentemente. La voce di quella ragazza disperata mi rimbombava in testa. Non mi riguardava, non era affar mio. Io la gente la uccidevo…non la salvavo.
Altre risate si facevano spazio alle mie spalle, rimbombavano in quella stradina abbandonata, chiusa da un angolo cieco.
Sentivo il pianto basso e disperato di quella persona, così diverso da quelle risate divertite. Provavano piacere nel sentire il dolore di quella ragazza, piacere nel vederla in quello stato pietoso, ed io…
Cosa provavo, io? Cosa avrebbe provato una persona normale, nella mia situazione? Che cosa avrebbe fatto? Chiamerebbe la polizia? Andrebbe lì a fermarli? Griderebbe “aiuto!” senza risolvere nulla, perché verrebbe presa anche lei? Sarebbe scappata a gambe levate? Si sarebbe veramente allontanata senza provare niente? Come stavo facendo io?

« …AIUTO!! »

Sgranai gli occhi chiari, e con un gesto deciso e fulmineo afferrai il manico del coltello, voltandomi e strusciando violentemente le scarpe contro l’asfalto, producendo un rumore di sbandata contro le pietre.
“Uccidili. Uccidili! LASCIA CHE LI UCCIDA TUTTI!”
Mi lanciai in una corsa violenta, raggiungendo in un attimo, come un lampo, quelle due figure. Ciò che vidi furono solo ombre. Ombre che si voltarono verso di me, quelle risate trasformate in grida.
Sapevo che stavo sorridendo, perché solo io potevo farlo in quel momento. NESSUNO doveva permettersi di ridere di gioia o di divertimento, se c’ero io. Io soltanto era l’unico che poteva farlo, solo io potevo ridere della loro disperazione. Io soltanto potevo concedermi tanto, in una fase tanto dolorosa e rapida, come la morte che concedevo ad ogni mia vittima.
Mi scagliai con forza brutale contro il primo, avvertendo un tonfo sordo sotto di me. Alzai il coltello, tenendone il manico con entrambe le mani, prima di udire qualcosa, forse un altro di quei tanti “aiuto”. Si, era questo che volevo. La gente doveva gridare aiuto per me, PER ME! Non doveva ridere in mia presenza, doveva disperarsi e chiamare aiuto! Ogni singola, fottuta persona che incrociava il mio cammino doveva…morire! Tutti dovevano morire!
“LASCIA CHE LI UCCIDA TUTTI! UCCIDILI TUTTI!”
Piantai con violenza il coltello in ciò che doveva essere il torace della mia vittima, ripetutamente, ringhiando a denti serrati. Sorridevo, ma provavo rabbia. La rabbia, il nervosismo scatenato da quelle risate che avevo ascoltato fino ad un minuto fa. Sentivo la lama che squarciava, tagliava e sminuzzava la carne sotto di me, grida acute alle mie spalle, il sangue che mi macchiava di nuovo la felpa bianca, ormai pezzata di un rosso scuro ed evidente. L’odore di quella sostanza che mi invadeva le narici, l’udito che ogni volta, in quei momenti, andava a rallentatore, privandomi della possibilità di ascoltare ciò che c’era veramente intorno a me.
Mi voltai verso la seconda figura che gridava nell’ombra, lanciandomi contro di essa. La vidi fuggire, ma non l’avrei permesso. Nessuno sarebbe mai fuggito da me. Loro dovevano morire, dovevano morire tutti. Dal primo all’ultimo.
Lo inseguì fino a quel vecchio mobile dov’ero nascosto prima, ed approfittando del fatto che stava inciampando, probabilmente per la troppa paura, mi lanciai su di lui, riuscendo ad afferrare un lembo dei pantaloni, all’altezza del polpaccio. Caddi a terra, battendo il petto, ma in quel momento non sentivo neanche il dolore.
Il cuore mi rimbombava dentro all’impazzata, il respiro voleva uscire fuori, come se il mio corpo non potesse più contenerlo regolarmente.
Tirai verso di me quel pezzo di stoffa, e vidi cadere in avanti, automaticamente, quella figura nera. Sentì un altro urlo, un grido di disperazione, un “lasciami, bastardo!” che riuscì ad arrivarmi alle orecchie per poco. Condussi nuovamente in alto il coltello, piantandolo nella parte più vicina al mio volto, probabilmente la coscia. Avvertivo di nuovo l’odore del sangue, potevo sentirne il sapore, poiché era letteralmente schizzato da quella parte troppo vicina al mio volto. Ringhiai ancora, stavolta più forte, come un cane randagio che proteggeva la carcassa di qualche animale appena ucciso per divorarla da solo.
Risalì in avanti, sentendomi afferrare il ciuffo di capelli neri sul volto, con forza e decisione. Le grida acute mi rimbombavano in testa, e né il gesto che sentivo addosso né quelle, sarebbero bastate a fermarmi. Estrassi il coltello dal pezzo di carne da cui sgorgava copiosamente del sangue, ripiantandolo alla cieca. Colpì miseramente l’asfalto, potevo capirlo dal rumore metallico prodotto dalla lama della mia arma. Mi sentì colpire al fianco sinistro, da ciò che doveva essere la gamba sana di quel fottuto serpente che insisteva nello strisciare fin troppo.
No, non sentivo dolore. Non l’avrei provato, in quel momento. Non avvertivo niente…niente. Niente poteva scalfirmi, niente l’avrebbe mai fatto.
Tirai in alto il coltello, ancora una volta, e per un attimo mi parve di vedere qualcosa. Così, affondai la lama dritta dello stomaco della mia vittima, quando la vista ritornò come assente. Non vedevo nulla, c’erano solo grida nella mia testa, che rimbombavano. Potevo sentire su pelle il dolore del mio avversario, ma non del mio per quel calcio al fianco. Non era il momento di ricevere dolore, quello era il momento di darlo. Più forte, più intenso, doveva sentirsi fin dentro le ossa.
Piantai il coltello alla stessa altezza del punto colpito in precedenza, una, due, tre, forse arrivando ad otto volte, nello stomaco della figura sottostante. La presa sui miei capelli divenne debole, talmente debole che fu totalmente annullata.
Ansimai forte, e lentamente, tutto si fece più chiaro. C’era un ragazzo morto, lì davanti a me, e quando spostai lo sguardo, ne vidi un altro poco distante. Li avevo uccisi, li avevo uccisi entrambi, e non sentivo più quella voce nella testa che mi ordinava ripetutamente di farlo. Era scomparsa, sparita totalmente, come una nottata di tempesta che andava a dissolversi per lasciar posto al tempo sereno. Ritirai il coltello da quella che ormai era una futile carcassa umana, agitandolo appena per levare via il sangue in eccesso.
Perché l’avevo fatto? Perché così di colpo? Non doveva riguardarmi, eppure l’avevo fatto. Potevo evitare, non erano a letto per andare a dormire, né mi avevano minacciato o dato fastidio, né avevano commentato il mio meraviglioso aspetto. Perché l’avevo fatto? Che motivo avevo di farlo?

« Cosa…cosa…sei…tu…? »

Una voce leggera, spezzata forse dal pianto, giunse alle mie orecchie, distruggendo quelli che erano i miei pensieri finalmente regolari. Quando voltai lo sguardo, ciò che vidi, fu quella ragazza, conciata così male da far pena. No, non avrebbe fatto pena a me, io l’avevo fatto solo perché…perché l’avevo fatto?
Ah, fanculo! Non importava, dovevo uccidere anche lei. Lei era di troppo, non potevo permettermi di lasciarla in vita, avrebbe rivelato tutto alla polizia e sarei finito di nuovo in quella stanza maledetta, preso a sprangate e torturato con quegli aggeggi elettrici. Mi leccai uno degli squarci, emettendo un verso di disappunto per quella vita ancora lì presente, avvicinandomi minacciosamente a lei, come un lupo intorno ad un indifeso agnello.
Quando la raggiunsi, la vidi a terra. Si stringeva nelle spalle, mi guardava nell’ombra, con due grandi occhi verdi che riflettevano anche sotto la scarsa illuminazione di un lampione rotto. Mi chinai sulle ginocchia per guardarla, e notai che lei non si tirò indietro, ma al contrario, si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ancora con gli occhi bagnati di lacrime. Avevo il coltello in mano, puntato verso di lei, ma non sembrò accusare gravemente del gesto.
Tremava, si vedeva da come il suo corpo fremeva contro il muro freddo e da come il suo respiro fosse ormai così irregolare. Era spaventata, ma…non da me. Come faceva a non essere spaventata da me? Mi aveva visto, li avevo uccisi entrambi sotto i suoi occhi, non era possibile! Come? Come diavolo faceva a…!?

« Mi hai…salvato…la vita…? Chi sei…tu? »

…Cosa? Che cazzo andava a pensare!? Certo che no, di lì a poco l’avrei tolta anche a lei, quella che chiamava “vita”. Non le avevo salvato la vita, né sapevo perché avevo agito in quel modo, ma non le avevo salvato la vita. Un killer non salva, un killer ammazza. Un killer non mette speranze, un killer le strappa via senza farsi troppi problemi. Scossi violentemente il capo, rigirando il coltello nella mano destra.
Avvicinai la punta della lama al suo volto rovinato dalla polvere e dalle lacrime, ampliando il mio sorriso, come per farle timore.

« Io sono Jeff. Conosciuto come Jeff the killer. Killer. Ti pare che un killer possa salvare qualcuno? »

Mi guardò per un lungo attimo. Sembrava…confusa, disorientata, pareva non capire cosa volevo dirle. Cos’era, ritardata? Cosa c’era da capire nella parola “killer”?! La vidi inclinare il capo su di un lato, e per un attimo parve…sorridere. Stava sorridendo? Sorrideva…a me? Perché a me? Non capiva che la sua vita era appesa ad un filo, dannazione?

« Sei…il mio eroe… »

…Non potevo crederci. Che cazzo le avevano dato quei due, della droga!? Feci per rispondere, ma ancora una volta, per la terza notte, il suono delle sirene rimbombava nell’aria. Probabilmente, i vicini nel quartiere avevano chiamato quei maledetti bastardi per il troppo casino. Sbuffai appena, posando poi lo sguardo sulla ragazza. Mi fissava con gli occhi socchiusi, ancora lucidi per via delle lacrime, e con quel leggero, maledetto sorriso che non voleva sparire dalle sue labbra.
Perché mi guardava così? Una persona che uccide senza pietà non può essere considerata un eroe.
Quasi mi venne da domandarmi se sarebbe sopravvissuta, lì da sola, in un posto come quello. Non capivo perché lo pensavo, non m’importava di lei, eppure…

« Io ti…io ti ho già visto…tu sei…il ragazzo del parco…»

Sgranai gli occhi chiari, puntandoli su quelli verdi della ragazza. Gli occhi verdi…quegli occhi verdi. Era lei? Possibile? La stessa ragazza che mi aveva guardato in faccia al parco? Quel sorriso…lo stesso sorriso che mi aveva rivolto in quel posto, dopo avermi guardato per tanto tempo, senza accennare un singolo segno di disgusto, se non quella che sembrava pura ed innocente sincerità?
Indietreggiai appena, come afferrato da qualcosa che voleva portarmi via. C’era qualcosa che non tornava. Perché…perché non riuscivo a reagire? Perché non le piombavo addosso per ucciderla con tutta la facilità del mondo, come avevo fatto con quei due? Perché…!?
Mi alzai in piedi per andare via, ma qualcosa mi afferrò un lembo della felpa. Mi voltai, e rividi il suo volto. Era lei, che tentava disperatamente di tirarsi in piedi, muovendo le labbra e pronunciando qualcosa del tipo “…a casa” o “con me”, oppure “ti aiuterò”. Non avevo bisogno d’aiuto, ma quel rumore di serene impazzite mi preoccupava. Cercava un sostegno, un sostegno che…le diedi. Stavo agendo in un modo totalmente sbagliato. Era come se le stessi offrendo il mio aiuto, lasciando che si appoggiasse a me. Il suono delle sirene si faceva sempre più forte, ed io non potevo perdere tempo.
Mi chinai appena, tentando di caricarmela sulle spalle, prima di lanciarmi in una delle tante corse della mia vita, solo…con un peso in più. Uno strano, inutile peso in più, che mai mi sarei aspettato di portare addosso.
Perché lo stavo facendo?
Non era affar mio, non mi riguardava.
Un killer uccide, non salva
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Grazie per essere arrivati fino a questo punto della storia! Qui è l'autrice. Allora, come avrete notato, non ho pubblicato capitoli per un bel po' di tempo, per motivi personali, che fortunatamente si stanno risolvendo. Dunque, oggi sono felice di poter pubblicare questo quinto capitolo della storia, che non ho intenzione di abbandonare. In caso vogliate sapere il titolo della canzone messa all'inizio, è "My own hell", dei "Five finger death punch", una delle canzoni che trovo fin troppo perfette per il serial killer in questione.
Spero semplicemente che questa seconda parte più movimentata vi sia piaciuta! Pare proprio che adesso ci sia una nuova presenza nella vita di Jeff the killer, che gli tornerà utile...oppure altro! Al prossimo capitolo! ;)
  
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