Nick
Autore: LazySoul
Titolo Storia: Il mondo è bello
perché vario
Rating: Arancione
Genere: Introspettivo,
Romantico, Sentimentale
Introduzione: Ginger Gail
desiderava solo una cosa: voleva che Chase Sundale si ricordasse della notte
che avevano passato insieme, anche se entrambi erano mezzi ubriachi e lui aveva
passato l’ultima settimana ad evitarla.
Ovviamente Ginger sa di
non essere il tipo di Chase, sono troppo diversi, troppo agli antipodi, eppure
non può fare a meno di pensare a lui.
Pacchetto Scelto: Arietty il mondo segreto sotto il pavimento
Fandom: Originale
Il mondo è bello
perché vario
Chase Sundale qual giorno indossava
jeans strappati al ginocchio e una t-shirt degli Avenged Sevenfold. Per quanto
mi sforzassi di ignorarlo non riuscivo a fare a meno di voltarmi quando entrava
alla lezione di fisica che avevamo in comune.
La mia migliore amica, Sylvia, diceva
che era troppo diverso da me, che avrei dovuto smetterla di fantasticare
inutilmente su di lui e che sbavargli dietro ventiquattr’ore su ventiquattro
non era un buon modo per aumentare la mia autostima.
Ovviamente aveva perfettamente ragione,
peccato che la mia testardaggine mi impedisse di lasciarlo perdere.
Chase Sundale era il tipico ragazzaccio
con tatuaggi e piercing, non che avessi mai avuto l’onore di vedere la “famosa”
figura a forma di drago che occupava gran parte della sua schiena o quella di
uno scheletro stilizzato sul suo addome, ma ormai la voce che aveva sparso in
giro la sua ex ragazza la conoscevano tutti, o forse sarebbe stato meglio dire
tutte, anche quelle del primo anno. Gli unici tre piercing visibili facevano
bella mostra di sé sul suo viso, due pendeva dall’orecchio sinistro, mentre
l’altro dal sopracciglio destro.
La mia perversione a volte mi portava
ad immaginare di tirare coi denti quei minuscoli affarini d’argento, ma non
l’avrei detto mai e poi mai a Sylvia; avrei finito per farla sbiancare e
inorridire. Lei faceva parte di una setta religiosa, o forse sarebbe stato
meglio dire che i suoi l’avevano fatta entrare fin da piccola in un comunità
religiosa, che considerava il sesso solo come un mezzo di procreazione e perciò
si doveva aspettare il matrimonio prima di poter perdere la verginità. Questo
era uno dei motivi principali per cui non le parlavo mai dei miei sogni poco
casti che comprendevano Chase Sundale o qualsiasi attore sexy che mi capitava
di ammirare in qualche film.
Pensare che non le avevo neanche detto
di non essere più vergine. In effetti prima o poi avrei dovuto parlargliene,
anche se probabilmente mi avrebbe considerata figlia del diavolo per circa una
settimana per aver osato fare sesso senza essere sposata.
Sospirai, un po’ per le continue
incomprensioni tra me e Sylvia, un po’ perché quella maledetta maglietta degli
Avenged Sevenfold a Chase Sundale stava dannatamente bene e metteva in mostra
il suo fisico asciutto e ben allenato.
Mi arrischiai ad alzare lo sguardo fino
alla sua bocca ed arrossii di colpo. Accidenti a lui! Possibile che si dovesse
passare la lingua sulle labbra proprio quando io stavo guardando? Ma non aveva
un po’ di pudore?
Abbassai lo sguardo, conscia di averlo
guardato troppo a lungo e mi concentrai sul libro di fisica aperto davanti a
me, dove il titolo: “Primo principio della dinamica” faceva bella mostra di sé.
In quel momento della fisica non
avrebbe potuto importarmene di meno, soprattutto perché forse avevo scoperto
dove teneva nascosto il quarto piercing: possibile che quel baluginio argenteo
che avevo scorto mentre si inumidiva le labbra provenisse proprio dalla sua
lingua?
Ci rimuginai a lungo, perdendomi le
spiegazioni del professore ed ignorando caldamente il mio compagno di banco che
continuava a passarsi la manica della camicia sotto il naso e a starnutire,
sperai che non mi passasse nessuna malattia e per precauzione restai il più
lontano possibile da lui.
Chase era davvero troppo diverso da me,
dovevo smettere di pensare a lui e a quanto fosse sexy e a quanto mi facesse
impazzire e...
Eh, basta!
Mi presi il viso tra le mani e ve lo
seppellii per un po’, nascondendo il sorriso idiota che mi era comparso sul
viso.
Se mai avessi portato a casa un ragazzo
come Chase Sundale mio padre avrebbe tirato fuori il vecchio fucile di nonno
Hank e gliel’avrebbe puntato contro senza mostrare nemmeno un briciolo di
pietà, mentre mamma sarebbe semplicemente scoppiata a piangere dicendo che non
mi riconosceva più...
Ecco Sylvia si poteva definire come una
copia più giovane di mia mamma, sicuramente avrebbero fatto la stessa scenata
se avessi detto loro della mia perduta verginità o di chi fosse stato a “rubarmela”.
Disseppellii il mio viso e, con orrore,
vidi il professor Rolcher fissarmi con uno sguardo pieno di rimprovero dalla
sua postazione dietro la cattedra: «Signorina Gail, pensa di poter prestare
attenzione alla lezione di oggi? O vuole che le vada a prendere un caffè?»
Arrossii come non mai, ignorando tutti
gli sguardi dei miei compagni, tranne uno.
Chase Sundale mi stava guardando con un
sopracciglio sollevato, i suoi occhi color nocciola illuminati da una luce di
divertimento, mentre io lo stavo fulminando con lo sguardo, come se volessi
fargli sapere che il motivo della mia distrazione era proprio lui.
«Bene, ora torniamo a fare lezione»,
disse il professore, richiamando l’attenzione di tutti gli studenti, compreso
quella di Chase che, prima di voltarsi mi fece l’occhiolino.
Mi sciolsi, letteralmente, sul banco,
fingendo di fare attenzione alla lezione, mentre in realtà continuavo a
chiedermi cosa volesse dire il gesto di quello strano ragazzo.
Non che io fossi del tutto normale; in
effetti da questo punto di vista ci assomigliavamo abbastanza, ma, per quanto
riguardava il resto, eravamo davvero diversi.
La sua pelle era lattea, la mia
mulatta; il suo fisico era asciutto ed allenato, i miei muscoli invece erano
nascosti da uno strato di ciccia nient’affatto trascurabile; lui era alto un
metro e ottanta abbondante, io raggiungevo a mala pena il metro e sessanta; lui
era pieno di piersing e tatuaggi, io avrei dovuto aspettare (come minimo) di
andarmene di casa prima di poter fare del mio corpo quel che volevo; lui amava
l’hard rock, io mi scioglievo ad ogni canzone commerciale che parlasse d’amore;
lui sfogliava riviste automobilistiche, io divoravo romanzi rosa come se
fossero popcorn; lui amava le materie scientifiche, io quelle letterarie; lui
era nella squadra di football della scuola, io non possedevo la minima
coordinazione necessaria per svolgere un qualsiasi tipo di sport; lui era
circondato da amici, io ne avevo una; lui era stato messo in punizione varie
volte, io invece ero la cocca di tutti (o quasi) i professori; lui...
Scossi la testa. Basta pensare a lui e
a quanto fossimo diversi, in questo modo non facevo altro che perdere tempo
inutilmente.
Al suono della campanella un coro di
Alleluia invase la mia mente mezza addormentata. Quella lezione era la peggiore
di tutta la giornata e non solo perché odiavo la fisica in maniera viscerale,
ma anche perché, essendo l’unica ora che condividevo con Chase Sundale, la mia
concentrazione era per il 99,9% destinata a lui e solo un misero 0,1% alla lezione
del professor Rolcher.
Raccolsi in fretta e furia libro e
astuccio, perfettamente conscia che, se non mi fossi data una mossa, avrei
rischiato di non trovare posti a sedere in mensa.
La mia pessima coordinazione
mano-cervello pensò bene di dare una dimostrazione di quanti danni potesse
provocare in due secondi, facendomi scivolare dalle dita l’astuccio, che sparse
il suo contenuto sul pavimento dell’aula.
Rimasi un secondo o due imbambolata a
guardare tutte le penne e le matite a terra, prima di lasciarmi cadere a terra
in ginocchio e di iniziare a raccogliere tutto.
Tutti gli studenti, nessuno escluso,
uscirono dall’aula ignorandomi, compreso il professor Rolcher, che, dopo avermi
salutato con uno scocciato: «Buona giornata», scomparve chiudendosi la porta
alle spalle.
Assottigliai lo sguardo mentre
sbattevo, accidentalmente, in modo violento nell’astuccio ogni matita che
raccoglievo.
«Perfetto», borbottai tra me e me,
dando prova di quanto la mia sanità mentale fosse solida: «Ora mi toccherà fare
una coda infinita prima di poter avere il pranzo e...», alzai lo sguardo,
immobilizzandomi un istante, prima di tornare a borbottare: «Ci mancava solo
che il professor Rolcher dimenticasse la giacca. E ora che faccio? Vado a
cercarlo per dargliela?»
«A chi vuoi darla?»
Sussultai al suono di quella voce,
rimanendo con la bocca spalancata, un po’ per la rabbia causata da
quell’insinuazione stupida, un po’ perché avevo riconosciuto perfettamente a
chi appartenesse quella voce.
Alzai nuovamente lo sguardo e vidi
Chase Sundale appoggiato alla porta dell’aula chiusa dietro di lui e una strana
sensazione di déjà-vu mi fece arrossire.
«Che ci fai tu qui?», chiesi, alzandomi
con l’astuccio ben riempito e chiuso in mano.
«Dobbiamo parlare», disse con tono di
voce serio.
Sbarrai appena gli occhi: «E cosa
dovremmo dirci? Non ci siamo mai parlati!»
«Pensi che durante la festa di Garrett
fossi troppo ubriaco per ricordarmi cosa abbiamo fatto?»
Il rossore sulle mie guance aumentò in
modo imbarazzante, mentre brandivo l’astuccio come un’arma e gliela puntavo
contro con mano tremante: «Di cosa vuoi parlare? È stato un errore».
Ecco, l’avevo fatto: avevo mentito a
Chase Sundale.
Cosa si aspettava? Che gli cadessi ai
piedi e gli dicessi che quella passata insieme era stata la più bella notte
della mia vita? Che mentre facevamo l’amore mi sentivo dilaniata dal pensiero
che poi lui non si sarebbe ricordato di nulla?
Era una ragazza, ma non una stupida.
Sapevo che per ragazzi come lui fare
sesso con la prima che capitava non era niente di straordinario e non volevo
umiliarmi ulteriormente facendogli capire quanto in realtà io avessi voluto che
quella notte passata insieme non giungesse mai al termine.
“Siamo troppo diversi, siamo troppo
diversi...”, continuavo a ripetermi, guardando la mia pelle scura, quella
stessa pelle che per anni mi aveva costretta a stare in disparte per la maggior
parte della mia vita.
Quella pelle che di sicuro lui non
avrebbe mai accettato.
«Il più bell’errore della mia vita»,
disse, avvicinandosi: «Eravamo entrambi ubriachi, ma da quel che ricordo mi è
piaciuto parlare con te».
L’umiliazione che quelle parole mi
fecero provare mi portò ad un passo dalle lacrime.
“Parlare? Parlare?!” continuavo a
ripetermi in testa, mentre chiudevo le mani pugno: “Tutto quello che si
ricordava era di aver parlato con me?!”
«Ed è stato ancora più bello fare
l’amore insieme».
Quella parole mi fecero rilassare
appena, prima di sentire di nuovo una fitta di dolore, mentre provavo in tutti
i modi a non sciogliermi alle sue parole, ma di analizzare tutti i fatti con
mente lucida.
“L’amore? Noi non avevamo fatto
l’amore! Avevamo fatto sesso e se dovevo dire la mia era stato anche abbastanza
squallido! Non l’avevo neanche visto tutto nudo, santo cielo! Si era
semplicemente abbassato i pantaloni, aveva alzato il mio vestito e poi fatto i
suoi porci comodi!”
Per quanto continuassi a ripeterlo però
non riuscivo a convincere me stessa e questo mi dava sui nervi; perché, anche
se continuavo a lamentarmi, non era vero che era stato squallido. Lui era stato
dolce e io mi ero sciolta tra le sue braccia senza pensare a nulla. Non mi
pentivo affatto di aver perso la verginità con lui, ma dovevo evitare di
lasciarmi coinvolgere troppo, altrimenti avrei rischiato di soffrire
inutilmente...
«Penso che abbiamo ricordi diversi
della stessa serata», dissi, chiedendomi se non avessi dovuto semplicemente
mandarlo a stendere ed andarmene.
«Oh, non penso», sussurrò.
Mi resi conto di quanto fosse vicino
solo quando la sua mano si chiuse intorno all’astuccio, levandomelo di mano e
posandolo sul mio banco.
«Eravamo ubriachi ed è stato tutto
piuttosto confuso, ma so che non è stato un errore. Tu mi piaci».
Spalancai la bocca, mentre il disco
rotto che avevo in testa e che continuava a ripetere: “Troppo diversi, troppo
diversi, troppo diversi” andava affievolendosi fino a zittirsi.
«Io t-ti piaccio?», balbettai, prima di
sospirare: «Hai perso una scommessa vero? È per questo che ora devi fingere di
provare qualcosa per me?»
Questa volta fu il suo turno di rimanere
a bocca aperta: «Ma certo che no! Tu mi piaci veramente!»
«Siamo troppo diversi», mi lasciai
scappare, prima di tapparmi la bocca con entrambe le mani.
«Troppo diversi?», ripeté, squadrandomi
da capo a piedi: «Probabile», acconsentì, prima di afferrarmi le mani e di
scostarmele dalle labbra: «Ma è una settimana che ti sogno».
Era troppo romantico, quasi più di
tutti i romanzi rosa che avevo letto nell’ultimo periodo.
«Mi dispiace, Ginger», sussurrò,
facendomi rabbrividire al ricordo di come avesse pronunciato il mio nome quando
avevamo fatto l’amore: «Vorrei tornare indietro nel tempo per comportarmi in
modo diverso».
«Diverso?», ripetei, chiedendomi a cosa
si riferisse.
«Sì, sarei rimasto con te tutta la
notte, non sarei fuggito come un ladro lasciandoti sola... me ne sono andato
perché avevo paura, paura di quanto mi fosse piaciuto stare con te...»
«Davvero ti ricordi anche di quando
abbiamo parlato?», gli chiesi, lasciandogli la possibilità di stringere le sue
dita tra le mie.
«Certo! Quella sera avevo bevuto solo
tre birre, ero più che cosciente di ciò che facevo. Tu invece?», domandò,
appoggiando la fronte contro la mia, così da permettermi di sentire con più
chiarezza l’odore di bucato misto a quello della sua pelle.
«Io mi ero lasciata tentare solo da un
po’ di succo di pera, ma non so cosa c’era lì dentro. La prossima volta dovrò
fare più attenzione», ammisi, vedendolo sorridere.
«Bene, ora che ne diresti di fare un
patto io e te?», mi chiese, prendendomi alla sprovvista.
«Un patto?»
Questa sì che era una conversazione
diversa dal solito.
«Il patto consiste nello stare insieme,
io e te, per un po’ di tempo... diciamo una settimana e vedere come va. Tu che
dici?»
«Mi stai chiedendo di essere la tua
ragazza temporanea?», il modo in cui mi stava proponendo di stare insieme non
era uno dei migliori, ma cosa pretendevo da un ragazzo che ascoltava musica
piena di urla e insulti?
Lui sorrise, baciandomi a fior di
labbra: «No, ho cambiato idea».
Aggrottai le sopracciglia: altro che
conversazione diversa dal solito, se continuava con questo tira e molla avrei
finito coll’impazzire.
«Voglio che tu si la mia ragazza a
tempo indeterminato. Ti voglio mia e solo mia».
A quelle parole sentii chiaramente un
sorriso da ebete comparirmi in viso: «Bene, perché anche io voglio che tu sia
mio e solo mio», ammisi, baciandolo a mia volta.
Totalmente dimentica del pranzo e del
fatto che avrei finito col mangiare in piedi, non lo fermai quando approfondì
il bacio, permettendomi di sentire chiaramente il piercing che aveva sulla
lingua a contatto con la mia.
Quando appoggiò con fin troppa fretta
una mano sul mio seno, mi ritrassi: «Non sono abbastanza ubriaca», gli dissi,
facendogli l’occhiolino.
Ridemmo insieme della mia battuta e
durante i due baci successivi Chase tenne le mani a posto.
La cantilena che mi metteva in guardia
sulla nostra diversità e sul fatto che mia mamma sarebbe svenuta se avesse
visto una scena del genere, era scomparsa del tutto, evaporata nel nulla.
Non che non sapessi perfettamente di
essere l’esatto opposto di Chase, ma in quel momento non me ne importava nulla.
«È severamente vietato dalle regole della
scuola avere appuntamenti romantici all’interno dell’edificio scolastico», la
voce del professor Rolcher ci fece sussultare e allontanare in meno di un
secondo.
Ero più rossa di un pomodoro ben
maturo, mentre Chase sorrideva, facendomi l’occhiolino. Il suo comportamento
infantile mi fece, malgrado tutto, ridere tra i baffi.
«Non succederà più, professore, ci
scusi» disse il mio ragazzo, afferrando i miei libri, mentre
consegnava a me l’astuccio.
«Per questa volta farò finta di non
aver visto niente», disse il signor Rolcher, afferrando la sua giacca: «Non
dovreste essere in mensa?»
«Ci andiamo subito», assicurai: «Buona
giornata».
Spinsi con poca grazia Chase fuori
dall’aula e, una volta arrivati al mio armadietto ritirai subito tutti i volumi
e l’astuccio, mentre lui se ne stava tranquillo mezzo appoggiato alla parete
accanto a me.
«Hai fame?», mi chiese con un radioso
sorriso stampato in faccia.
«Molta», confessai, facendogli
l’occhiolino.
Mentre ci avviavamo alla mensa mano
nella mano mi sentii la ragazza più felice del mondo.
Anche se la settimana appena trascorsa
era stata la più orribile della mia vita, dato che avevo avuto per tutto il
tempo il dubbio che lui non si ricordasse della notte passata insieme, ora
potevo finalmente tirare un sospiro di sollievo e rilassarmi.
«Quella sera non avevi il piercing alla
lingua», gli dissi, anche se dall’intonazione della frase sembrava che gli
avessi posto una domanda.
«No, l’avevo tolto... Perché? Ti dà
fastidio?»
Arrossi alle sue parole.
E ora come facevo, senza sembrare una
pervertita, a dirgli che in realtà quello stupido ferretto nella lingua mi
eccitava come non mai? E che non facevo altro che immaginarmi come sarebbe
stato sentirlo a contatto con il resto della mia pelle?
«No no», dissi, nascondendo il mio
imbarazzo dietro un tono di voce tranquillo.
«Sai penso che tu non abbia del tutto
ragione».
«Su cosa?», chiesi, sperando che la
parentesi “piercing alla lingua” fosse chiusa.
«In fondo non siamo molto diversi».
Sorrisi alle sue parole, mentre
lanciavo un’occhiata ai miei sobri jeans chiari e al golfino color pesca che
indossavo, per poi spostare lo sguardo sulla sua maglietta nera dove c’era disegnato
un teschio con le ali.
«Tu dici?», chiesi con tono ironico.
Lui seguì il mio sguardo e sorrise:
«Intendevo interiormente».
«Oh, come fai a dirlo?»
Avvicinò le labbra al mio orecchio: «Lo
dico perché so perfettamente a cosa hai pensato mentre parlavamo del mio
piercing e posso assicurarti che ho pensato lo stesso».
Tornai ad arrossire: «E cosa avrei
pensato?»
Non mi rispose, continuando a guidarmi
fino alla mensa, dove, afferrati dei vassoi e qualcosa di commestibile fummo
costretti ad uscire in cortile per occupare uno dei tavoli da picnic, quasi
del tutto vuoti, a causa delle nuvole grigie che oscuravano il cielo.
«Stavi pensando a come sarebbe stato
sentire il piercing in altre parti del tuo corpo... e io non vedo l’ora di
assaggiare ogni centimetro della tua pelle per vedere quanto riesco a farti
urlare forte»
Arrossi di colpo e, come reazione
all’imbarazzo, la coordinazione mano-cervello tornò a fare cilecca, se non
fosse stato per lui avrei rovesciato l’intero vassoio per terra, per fortuna i
suoi riflessi non lasciavano a desiderare quanto i miei e gli permisero di
salvare il mio pranzo.
Si mise immediatamente a ridere e io lo
seguii a ruota.
Non ero mai stata tanto felice in vita
mia.
Due settimane dopo
«Gingin, ti conviene dire al più presto
ai tuoi genitori che hai un ragazzo, non puoi sempre usarmi come capro
espiatorio per passare le giornate con Sundale».
La voce della mia migliore amica mi
fece sospirare. Sapevo che aveva ragione, ma sapevo anche come avrebbero
reagito mamma e papà e per il momento preferivo continuare a fingere di essere
single ai loro occhi.
Se Sylvia, come avevo previsto, mi
aveva considerata il diavolo in persona per qualche giorno, non osavo
immaginare la furia dei miei genitori che mi avrebbero voluta felicemente
sposata col figlio della vicina di casa: “Un bravo ragazzo con la testa sulle
spalle”, come dicevano loro.
«Magari lo presento ai miei la sera del
ballo di fine anno», dissi, aiutando la mia amica a dosare gli ingredienti per
l’esperimento di chimica.
«Ma mancano ancora cinque mesi!»,
esclamò Sylvia, facendo voltare verso di noi la professoressa Mars che ci
lanciò uno dei suoi sguardi indagatori.
Rimanemmo zitte per qualche secondo,
prima che la mia amica tornasse all’attacco: «Fidati, è meglio se confessi
tutto al più presto!»
«Non ho voglia di confrontarmi coi
miei, soprattutto da quando mamma ha perso il lavoro; è diventata isterica»,
ammisi, ricordando con orrore le sue scenate se ritardavo di qualche minuto nel
tornare a casa la sera.
«Ma io intendevo di confessare i tuoi
peccati a Dio».
Sospirai.
Ecco che la parte religiosa e puritana
di Sylvia faceva il suo ingresso nella conversazione.
«Mi dovrei confessare?», chiesi
confusa: «Ma se non metto piede in chiesa da mesi! Il prete mi riderebbe in faccia»,
non le permisi di rispondermi e continuai a parlare: «E poi cosa dovrei
confessare? Di essermi innamorata?»
«Guarda che fornicare prima del
matrimonio è peccato»
Alzai gli occhi al cielo e mi beccai un
becquer contro il braccio: «Ahi!»
Per fortuna la professoressa sembrava
intenta a sgridare un paio di nostri compagni più in là e non si accorse del
nostro litigio.
«E comunque uno dei compiti del prete è
accogliere sempre le pecorelle smarrite come te», aggiunse.
Alzai gli occhi al cielo, ma non dissi
nulla, non volevo incoraggiare la continuazione di quella conversazione più
assurda che mai.
Rimanemmo un po’ in silenzio, seguendo
ogni punto dell’esperimento e, giungendo al termine di esso, potemmo vedere il
DNA di una banana galleggiare in un liquido giallognolo.
«Gingin?», mi chiamò Sylvia, facendomi
voltare verso di sé.
«Si?», chiesi, notando la sua
espressione corrucciata.
«Tu e Sundale siete così diversi...
Questo non vi porta a litigare spesso?»
Sorrisi, passandole una mano intorno
alle spalle mi avvicinai al suo orecchio, quasi le stessi confessando un
segreto: «Può sembrare che lo siamo, ma in realtà abbiamo scoperto di avere
molte cose in comune... e poi comunque gli opposti si attraggono, no?»
Sylvia annuì, come se stesse elaborando
le informazioni che le stavo dando.
«È ovvio che litighiamo», continuai: «E
molte volte vorrei picchiarlo a sangue per le stupidate che dice, ma la parte
migliore del litigio e fare pace subito dopo».
Le feci l’occhiolino e la vidi fare una
piccola smorfia, prima di sorridermi.
In fondo anche Sylvia ed io eravamo
molto diverse, sia fisicamente che caratterialmente, ma il mondo è bello perché
vario e non avrei cambiato l’affetto tra me e lei o l’amore tra me e Chase per
nulla al mondo.
Fine