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Autore: I m a witch    21/07/2014    1 recensioni
Lei è Alice, altrimenti nota come Deamon A, frontwoman della celebre band black metal The Six Deamons.
Vive per la sua band, canta per passione.
Lei e i suoi compagni vengono idolatrati in tutto il mondo grazie al loro fascino oscuro e maledetto; i testi delle loro canzoni parlano di demoni e come tali si fanno chiamare.
Scopriranno a proprie spese che i demoni delle loro canzoni sono più reali di quanto potessero mai immaginare.
Perché nessuno è al sicuro quando si avverte l'odore di ciliegie: l'odore di Cherry.
**Questa storia partecipa al contest "Il Romanticismo del 666" indetto da _LoveStory_ & _Stardust**
**Storia in gara agli "Oscar EFPiani 2015"**
Genere: Dark, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
 


 
Aprii appena gli occhi. La luce dell’oblò nella cuccetta di Ryan mi informò che era già giorno. Strinsi più forte a me il cuscino, accorgendomi di avere ancora le cuffie dell’I-Pod infilate nelle orecchie.
Distrattamente lo presi, facendo partire una canzone tutta growl e poco musica.
Avevo bisogno di arrabbiarmi, di sentire quel sentimento strisciare in me. Solo così potevo affrontare quella situazione assurda, prendendo a calci e a morsi ogni individuo che mi stava sul cazzo, come avevo sempre fatto.
Tuttavia, in quel momento mi sentivo totalmente svuotata, senza nemmeno la forza di incazzarmi. Ogniqualvolta cercassi di alzarmi in piedi, stringendo i pugni con violenza, finivo irrimediabilmente a terra. Le gambe non riuscivano a sostenere il mio peso, le mani erano troppo molli affinché potessero formare un pugno. Sembrava che il mio corpo fosse composto al 90% di gelatina, piuttosto che d’acqua, e mi ritrovavo in ginocchio su quel pavimento in laminato di simil-legno. Con l’occasione gettavo sguardi attenti attorno a me, esaminando quella superficie liscia e pulita, cercando quel cazzo di ormone della rabbia o che altro che, con ogni probabilità, ieri notte mi era scivolato via dal copro, nella confusione del momento.
Mi accorsi che adesso, nelle orecchie, era sparata una canzone fin troppo calma. Cambiai musica, mettendo la discografia dei Korn, tornando a distendermi sul materasso, tornando ad abbracciare quel cuscino.
«Alice… ti devi alzare. Forza, vieni a mangiare»
Ryan mi scosse con delicatezza, scostandomi i capelli dal viso e togliendomi un’auricolare dall’orecchio.
Ricacciai indietro le poche lacrime che mi erano rimaste, facendo “no” con la testa.
Per nessun apparente motivo ebbi di nuovo l’impulso di piangere. Cristo, non finivano mai, quelle lacrime?
Ryan sospirò, addolorato.
«Ti prego, torna in te… dov’è finita la ragazza che conoscevo? La leonessa pronta a saltare al collo di chiunque non gli andasse a genio?»
«È morta ieri» trovai la forza di sussurrare.
Della mia splendida voce, invidiata ed elogiata da tutto il mondo, non era rimasto altro con un fioco sussurro roco.
Che senso aveva, senza la mia voce? Che senso aveva senza Jason?
Strinsi ancora più forte il cuscino, affondando la faccia nel suo tessuto, grata che non fosse il mio: sapevo che sarebbe stato pregno del suo odore.
Mi sentivo ferita, umiliata nella mia dignità di donna, tradita da quello che era molto più di un fidanzato: era il mio amico di sempre, quel ragazzo della porta accanto, il mio io, il mio tutto.
Concetti banali, ma tremendamente veri, e Ryan lo sapeva bene; era l’unico, lì dentro, che sapesse davvero quanto amassi Jason. Eravamo il trio maledetto, noi, fin da piccoli, il terremoto dell’Arizona, i distruttori di quel buco di città chiamata Wellton. Si aggiunsero gli altri, col tempo, ma il nostro nucleo non cambiò mai.
Tra me e Jason c’era sempre stato quel qualcosa in più, fin da quando lui picchiava i ragazzi che mi prendevano in giro per la mia timidezza, fin da quando io strappavo i capelli a tutte le galline che gli erano sempre andate dietro, fin dalle medie. Ryan era sempre stato il nostro Galeotto, colui che cercava di far scoccare finalmente la scintilla. C’era riuscito, con lo stratagemma di chiuderci in una stanza, ubriachi fradici, durante il diciassettesimo compleanno di Jason. Quella fu la prima di mille e più notti.
Quei pensieri mi diedero nuovamente la forza di piangere. Odiavo sentirmi così debole…!
«Ok, hai il diritto di commiserarti, almeno per oggi, ma entro domani vedi di tornare in te, chiaro? Abbiamo un concerto, …»
«Concerto?» sbottai, alzandomi di scatto, sentendo nuovamente la rabbia ribollire. Bene, se voleva provocare una mia razione ci era riuscito, altroché.
«Saremo a Parigi, ricordi? Tra un’ora abbiamo il volo e…»
«Col cazzo! Non ci sarà nessun concerto, domani, né tra una settimana, né mai più nella vita!» urlai «Ho già sprecato abbastanza voce dietro alle puttane come quella, e so benissimo che ce ne saranno migliaia d’altre in giro per il mondo, inglesi, francesi o cino-coreane che siano, pronte a sbatterselo senza tregua. Perché dovrei offrire la mia voce a delle troie del genere?!»
Quando finii, mi accorsi che avevo gridato più del dovuto, attirando le occhiate impietosite di tre quarti di presenti, tra membri del gruppo e dello staff.
«Non mi guardate in quel mondo, porco mondo, non ho un tumore… mi riprenderò, prima o poi. Sparite!» urlai, raggomitolandomi di nuovo su me stessa. Sentii numerosi scalpiccii di piedi, segno che tutti stavano eseguendo il mio ordine. Tutti tranne Ryan.
«Va bene, se vuoi annulleremo il concerto di domani sera, così come quelli di tutta la prossima settimana. Per un po’ resteremo qui in zona, prenderemo delle camere in un albergo per stare più comodi e darti un po’ il tempo per farti riprendere» mi strinse una mano, con decisione «Ti prego, però, non rinunciare alla nostra musica! Sai bene che quelle troie sono solo una parte dei nostri fan, e nemmeno tanto consistente» continuò «Se devi cantare, lo devi fare per tutti gli altri fan, per quelli che ci hanno sempre rispettato come artisti. Se devi cantare lo devi fare per noi, per me, Ian, Steve e Cam. Se devi cantare lo devi fare per te stessa, perché è sempre stato quello che più ti è piaciuto fare al mondo, perché è ciò per cui sei nata, la tua ragione di vita»
Rimasi scossa da quelle parole, ma non lo diedi a vedere.
«Bel discorso del cazzo… ne riparliamo quando anche tu sarai talmente a pezzi da non avere nemmeno la forza di morire» sospirai, pentendomi subito di quelle parole: Ryan non meritava quel trattamento «Hai ragione, sai, sui fan, su di voi… e mi dispiace, davvero. Su un punto, però, ti sbagli. La mia ragione di vita non è il canto, o almeno non lo è più da un po’: la mia ragione di vita era Jason. Mi sono accorta troppo tardi, purtroppo, che non bisognerebbe mai considerare le persone come pilastri su cui fondare qualcosa, men che meno niente di così prezioso»
Ryan posò un bacio sulla mia fronte.
«So che ce la farai» disse, per poi scendere al piano inferiore.
«Come fai a dirlo?» chiesi, troppo piano perché mi potesse sentire.
Mi chiusi nuovamente in me stessa.


 
Tracy venne più volte a trovarmi, nell’arco della giornata. Vedevo chiaramente i suoi sforzi per tirarmi su di morale, arrivando persino a fare l’aeroplanino pur di farmi mangiare qualcosa.
«Guarda, ho fatto una torta per te, quella al triplo cioccolato con panna e fragole che ti piace tanto!» sorrise, porgendomi una fetta.
In quel momento, però, il mio stomaco era completamente chiuso.
«Mi dispiace, ma non ho fame»
Tracy mi abbracciò, con fare dolce.
«Alice, non sai quanto…»
«Non dire nulla, ti prego» mi scostai da lei, cercando di sorridere «Voglio solo essere lasciata un po’ in pace, avere il tempo di riflettere, riordinare le idee. Vedrai che mi riprenderò, promesso. Ora, però, voglio solo stare da sola»
Evidentemente capì la richiesta sottintesa dato che, dopo un ultimo abbraccio, abbandonò la cuccetta di Ryan in cui mi ero momentaneamente stabilita.
Tentennò, fece per dire qualcosa, infine scossa la testa, facendo danzare i suoi ricci biondi.
«Vieterò categoricamente a chiunque di mangiarla per cui, se dovessi cambiare idea, la troverai in frigo» sorrise, andandosene.
Sapevo che era anche un modo per dire che avrei trovato lei sempre al mio fianco, qualora ne avessi avuto bisogno.
Mi coricai, tornando ad abbracciare quel cuscino che, ormai, si era adattato perfettamente alle mie forme.
Ricaddi in un dormiveglia popolato di mostri e demoni.
 
 
Da quel giorno il nostro tour bus vantò un’inquilina in più, una troia con un degno nome da troia: Cherry.
Lo scoprii solo quando mi svegliai da un lungo coma, afflitta dai morsi della fame. Era l’una di notte, erano passate poco più di ventiquattro ore da quel tradimento, e mi ero appena ricordata che c’era ancora una torta al triplo cioccolato che aspettava solo me, in frigo. Scesi nel piccolo angolo adibito a cucina del pullman, per prenderne una fetta e rinfilarmi nella mia tana. Inutile dire che la fame passò subito dopo, non appena vidi quella sgualdrina, in piedi di fronte al frigo, con una fetta di torta tra le mani.
«Quella è la mia torta» sbottai, incrociando le braccia al petto.
Si finse ferita.
«Scusa, non lo sapevo… ti dispiace?»
«Ma no, figurati: vedo che ormai sei abituata a fregarmi tutto da sotto il naso» sbottai, dirigendomi verso il mobile bar lì vicino «Ancora qui?» chiesi, prendendo una bottiglia di whiskey. Cercavo di nascondere la sorpresa e l’irritazione che mi aveva provocato quella scoperta.
Lei mi sorrise tronfia, con quelle labbra rosso fuoco, quei gelidi occhi neri sotto le folte ciglia scure, ciocche di capelli rosso ciliegia le cadevano scomposti sul viso. Quanti anni aveva, all’incirca? Sui trenta, forse? Strano, ieri sera mi sembrava più giovane…
Forse era per via dell’effetto benefico del sesso con Jason; sapevo bene quanto potesse essere bravo, in quel campo. Quel pensiero mi fece tremendamente male, ma non glielo diedi a vedere: non le avrei mai dato la soddisfazione di vedermi ferita o debole.
«Sì, J ha ancora bisogno della mia compagnia» cinguettò.
«Jason ha solo bisogno di una forca» risposi, riempiendomi un bicchiere «e di un’evirazione immediata»
Cherry rise.
«Hai davvero un ottimo senso dell’umorismo, sai? Non sapevo che fossi così simpatica»
«Ci sono tante cose che non sai, di me, e che mi piacerebbe farti conoscere… ad esempio, sai che sono cintura nera di jujitsu?» chiesi, posando il bicchiere sul ripiano di legno e avvicinandomi a lei con fare minaccioso.
Sai che ho frequentato quei corsi, a quattordici anni, proprio per far soffrire le sciacquette come te?
Venni fermata per un braccio da una presa salda, fin troppo conosciuta.
«Levami le tue luride mani di dosso» sibilai, senza nemmeno voltarmi.
«Solo se tu non le metterai su di lei»
Mi girai di scatto.
«Che c’è, hai paura che ti rovini il tuo giocattolino nuovo?» chiesi, sprezzante. L’odio verso di lui, però, crollo di colpo.
Quello non era Jason. Non avevo idea di chi cazzo fosse, ma sicuramente non era lui.
Aveva delle profonde occhiaie sotto gli occhi, nel giro di un giorno sembrava aver perso almeno cinque chili. Era pallido come un morto, persino i suoi vivaci tatuaggi sembravano sbiaditi. Per non parlare degli occhi: neri come la pece, proprio come quelli di Cherry.
Spostai il mio sguardo da uno all’altra, sentendomi circondata da qualcosa di tremendamente malvagio. Senza sapere nemmeno perché, provai terrore allo stato puro.
Quelli non erano esseri normali. Era il primo pensiero che mi aveva colpita, non appena li vidi accanto.
«Chi siete?» chiesi, tremando appena.
Jason rise.
«Non mi riconosci? Eppure hai sempre detto di amarmi…!»
Anche Cherry si unì alla sua risata. Con movenze sinuose, si avvicinò pericolosamente a me.
«Sai, ti conviene andare via da qui, se non vuoi fare una brutta fine…» bisbigliò.
Rimasi immobile al mio posto, inchiodata da una forza oscura. I miei occhi erano fissi sui pozzi neri di Cherry e una morsa fredda mi avvolse le viscere. La donna alzò le mani all’altezza del mio viso. Vidi chiaramente e con orrore le dita affusolate di lei diventare dei piccoli serpenti sibilanti, che presero ad accarezzarmi il viso, minacciosi. Lei stessa sembrò tramutarsi in un serpente, la pelle leggermente squamosa, la lingua biforcuta che faceva capolino dal suo sorriso sardonico.
Urlai, come mai in vita mia.
«Che succede, qui?»
Steve. Oddio, Steve, scappa!
Scattai verso di lui, aggrappandomi al suo collo, respirando affannosamente. Alla fine, le lacrime avevano preso a scendere, sempre più copiose.
Ora avrebbe visto che Cherry, in realtà, era un mostro, un demone, una creatura infernale. Che Jason… cielo, Jason! Avevo dubitato di lui, del suo amore, quando invece era solo una vittima! Perché tutto questo, perché proprio a noi?
«Jason, te l’avevo detto che non sarebbe stata una buona idea portarla con noi» disse invece Steve, con voce fredda, ricambiando la mia stretta con fare protettivo.
Lo guardai, ma il suo viso tradiva solo fastidio, non l’orrore che avevo immaginato dovesse provare.
Fissai allora Jason e Cherry: erano abbracciati, ma relativamente normali. Gli occhi di Jason erano già meno scuri e la pelle di Cherry era tornata come prima, così come le dita e la lingua.
Che cazzo stava succedendo…? Era stato solo frutto della mia immaginazione?
Forse stavo semplicemente impazzendo.
Quell’ipotesi mi fece rabbrividire.
«Non me ne frega un cazzo, se non gli va bene se ne può anche andare» rispose Jason, stringendo ancora di più Cherry, la quale prese ad accarezzargli indolente il petto.
«Tu!» sibilai, rivolta a Cherry «Perché non ti fai vedere per quello che sei realmente? Sei un mostro, ecco cosa sei!»
No, non mi ero immaginata tutto, ne ero certa. La sensazione viscida di quei serpenti sulla mia pelle era ancora viva in tutta la sua ripugnanza.
«Alice, calmati» mi sussurrò dolcemente Steve «Andiamo, abbiamo prenotato delle stanze in un albergo qui vicino e…»
«No, ora mi starai a sentire!» urlai «Quel… mostro deve andarsene dal mio pullman, va bene?! Non è normale, è… non so cosa cazzo sia, ma non è una persona normale!»
Jason e Cherry risero, Steve mi guardò con la stessa compassione con cui si guardano i folli.
«Certo, sono d’accordo anche io sul fatto che sia un mostro…»
«Non parlavo in senso metaforico!»
«… però ora dobbiamo andare» continuò lui, ignorando le mie parole. Mi prese a forza, nonostante provassi a dibattermi, e mi condusse verso un taxi già lì davanti.
«Al St Martins Lane Hotel, Londra, per favore» disse all’autista.
«Io non sono pazza… so quello che ho visto… lei era un serpente, un cazzo di serpente, giuro…»
Lo dissi talmente tante volte che, alla fine, non credetti più nemmeno io a quelle parole.
Steve si limitava a stringermi tra le sue braccia, cullandomi.
«Sei solo sotto shock, è normale» diceva.
Continuavo a negare, ma era tutto inutile: soltanto io riuscivo a vedere quell’inferno intorno a noi.


 
Quella notte Steve continuò a starmi vicino, dormendo con me nella suite dell’albergo. Lo osservavo dormire profondamente, tanto da arrivare persino a russare sommessamente.
Sorrisi appena. Non sapevo che russasse, la notte.
Quel lieve rumore mi faceva compagnia, dato che non riuscivo a prendere sonno. Ripensavo alla scena di poco prima, sul tour bus. Gli occhi neri di Jason, la sua smorfia malvagia. Le dita di Cherry, la sua lingua biforcuta, le squame della sua pelle… possibile che avessi immaginato tutto, persino la sensazione viscida di quei serpenti? Era tutto così reale che, a ripensarci, riuscivo ancora a sentirli su di me.
Guardai l’orologio: erano le tre di notte. Ad un certo punto ebbi la sensazione di essere osservata, che Steve non fosse la mia sola compagnia, in quella stanza.
Mi coricai a pancia in su, chiudendo gli occhi. Forse stavo davvero impazzendo.
Di colpo avvertii un peso posarsi sulla mia pancia e delle morbide labbra poggiarsi delicatamente sulle mie. Aprii gli occhi di scatto: il viso di Cherry, seduta a cavalcioni su di me, era incollato al mio, le nostre labbra erano unite da una sostanza viscida e nera dal gusto amaro che non riuscii a definire.
«Ciao, mia piccola Alice» bisbigliò, interrompendo il bacio. Aveva di nuovo quelle sembianze demoniache: i serpenti che aveva al posto delle dita stringevano due pugnali neri, sibilando minacciosi contro di me.
Provai a gridare, a muovermi, ma era come se avessi perso qualsiasi potere sul mio corpo. Potevo solo restare lì, immobile, con gli occhi sbarrati fissi sui suoi.
Steve… ti prego, svegliati!
«È inutile, dorme profondamente» sussurrò Cherry. Rise «Sì, riesco a leggerti nella mente… sei sotto il mio controllo, adesso, così come Jason»
Se solo potessi muovermi…
«Non potresti fare nulla comunque, sono troppo forte per te, ragazzina»
Cercai di respirare con calma, ragionando con logica e razionalità. Non stava accadendo davvero, era solo una mia proiezione mentale, un’illusione…
«Sono più reale di quanto immagini» disse lei, incidendomi la carne del polso sinistro con uno dei pugnali. Bruciava, ma non riuscii comunque a gridare. Le lacrime sfuggirono dai miei occhi, mentre sentivo il sangue scorrere sulla mia pelle, bagnando e macchiando le lenzuola candide del letto.
Era tutto reale… non sapevo se essere felice per il fatto di non essere pazza o triste per la certezza che sarei morta a breve.
Puoi anche avere me, ma non avrai mai Jason.
Cherry rise, sollevando uno dei pugnali sopra il mio petto.
«Jason l’ho preso già… e adesso tu morirai»
«Alice» bisbigliò Steve, rigirandosi sul letto.
Di colpo Cherry sparì, lasciandomi libera dal suo incantesimo.
Non appena potei muovermi, cominciai a tossire forte. Scappai verso il bagno privato della suite, sentendo l’impulso di vomitare. Rigettai nel gabinetto quella schifosa sostanza nera che Cherry mi aveva infilato in bocca con quel bacio, risentendo quell’orribile gusto amaro invadermi.
«Alice!» chiamò Steve, raggiungendomi in bagno.
«Steve!» urlai, buttandomi su di lui «È tutto vero! Cherry è un demone, tiene Jason sotto il suo controllo! Dobbiamo aiutarlo, dobbiamo…»
«Calmati, Alice!» disse lui, ormai completamente sveglio e lucido. Il suo sguardo si puntò sul mio polso sanguinante.
«Cristo, che hai fatto?!» scattò, afferrando un asciugamano lì vicino e avvolgendoci il mio polso, più stretto che poté «Hai preso a tagliarti? Cazzo, che combini?»
«Non sono stata io, è stata Cherry!» spiegai, piangendo.
«Cherry?» chiese, stralunato.
«Sì! Era lì, fino a poco fa, nel letto! Era su di me e mi aveva come ipnotizzata, non so! Mi ha inciso il polso con un pugnale! Non riuscivo a muovermi e lei sembrava un serpente… ha detto che Jason è sotto il suo controllo, che vuole uccidermi…»
«Alice…» Steve sospirò, cercando di trovare le parole giuste.
Venni come investita da una doccia gelida.
«Non mi credi» dissi, e non era una domanda.
«Come cazzo posso credere a una storia del genere?» disse lui, stringendo gli occhi «Cherry è rimasta sul tour bus, a miglia di distanza, e anche quando non sarebbe potuta entrare qui dentro, senza considerare il fatto che io non ho sentito nulla…»
«Senti, so solo che me la sono ritrovata addosso, sul letto, okay? Mi stava baciando, mi ha infilato un qualcosa di nero e schifoso in bocca che ho appena vomitato… guarda nel gabinetto, se non mi credi!»
Steve fissò il gabinetto, scettico. Lo fissai anche io: era perfettamente pulito.
Merda!
«Alice, hai sognato ogni cosa…»
«No, non è vero! Dio, Steve, guardami!» dissi con decisione «Sai benissimo che Jason non è più lo stesso, da quando c’è lei… persino i suoi occhi sono cambiati!»
«Non vuol dire niente, può essere solo semplice stress! E poi spesso usa delle lenti colorate…»
«Non è lo stress, e non sono delle fottute lenti colorate!» gridai «C’è qualcosa che non va, me lo sento, e stanotte ne ho avuto la conferma! Quella Cherry è un demone…»
«Un demone!» sbottò Steve, scuotendo la testa.
«Mi devi credere! Cristo, scriviamo ogni giorno testi su demoni e diavoli! Le copertine dei nostri album ritraggono le creature più strane e spaventose, persino durante i live, nel palco, sono presenti delle loro riproduzioni, noi stessi ci definiamo “demoni”, o lo hai forse dimenticato, Deamon S
«Sai bene quanto me che quelle sono solo delle idee di marketing, Alice! I mostri hanno fascino, attirano la gente, ma non esistono!»
«Sono il nostro pane quotidiano!» gridai, prendendolo a pugni.
«Calmati!» urlò lui, bloccandomi le braccia contro le piastrelle del bagno, il polso bruciò terribilmente. I miei sessanta chili scarsi non potevano nulla contro i suoi novanta passati «Quello di Cherry è stato un incubo, il taglio sul polso te lo sei fatto da sola, forse incoscientemente, ma è opera tua»
«Tu non puoi sapere quello che ho visto io… stiamo cadendo dritti all’inferno!»
«L’inferno si trova dentro la tua testa!» urlò.
La presa sulle mie braccia si allentò appena. Mi accasciai sul pavimento, portandomi le ginocchia al petto.
Steve si chinò su di me, con sguardo ferito.
«Domani chiameremo uno psicologo»
«Non ho bisogno di uno psicologo!» urlai, ma non riuscii più a dire nulla. Improvvisamente ebbi una terribile crisi, e non riuscii più a parlare.
Steve mi prese in braccio, coricandomi sul letto. Prese il telefono sul comodino, chiamò qualcuno, forse i ragazzi. Non riuscii a capirlo. Persi i sensi.
Avrei tanto voluto che il pugnale di Cherry mi avesse trafitto il cuore…



“L’inferno si trova dentro la tua testa!”

 

“Non dimenticarlo mai: i sentimenti offuscano la capacità di giudizio”
 
 
Il dottore diceva che era tutto perfettamente normale.
«I sentimenti offuscano la nostra capacità di giudizio» continuava a dire, spiegando che non ero pazza, ma semplicemente scossa dal trauma subito. Erano chiari i primi segni di uno stadio depressivo, che potevano però ancora essere presi in tempo.
Quella notte con Cherry? Allucinazioni, dovuti a un fenomeno di paralisi ipnagogica, che spiegava anche perché non potessi muovermi a avessi difficoltà respiratorie. Anche questo era dovuto al forte stress.
I sentimenti offuscano la nostra capacità di giudizio.
I miei sentimenti, a sua detta, mi avevano condotto a considerare Cherry un demone.
Il fatto che la identificassi come un demone, disse, era solo una barriera costruita dalla mia mente come forma di tutela, visto che non accettavo il fatto di essere stata tradita per lei. In tal modo cercavo di giustificare Jason, cercando di “risolvere” i nostri problemi di coppia trascendendoli su una dimensione paranormale. Lo stesso principio valeva per il taglio che, inconsapevolmente, mi ero inflitta: la mia mente attribuiva la colpa a Cherry, per catalizzare su di lei la mia rabbia e la mia angoscia.
Era un demone, sì, ma solo nella mia testa.
“L’inferno si trova dentro la tua testa!”
“I sentimenti offuscano la nostra capacità di giudizio!”

Erano diventate come delle preghiere, per me, da recitare ogni notte, ogni istante del mio dormiveglia popolato da mostri e demoni.
Anti ansiolitici e riposo: le parole chiave da dover rispettare, in quel periodo.
Jon annullò tutti i concerti del mese entrante, scusandosi da parte nostra con i fan.
Per quanto riguarda Jason, lui e Cherry furono spostati in un albergo diverso dal nostro, per evitare che li potessi incrociare casualmente durante il giorno.
I primi dieci giorni di “cura” furono i peggiori della mia vita: trascorrevo le giornate a letto, senza nemmeno la forza di bere. Nonostante non mangiassi praticamente nulla, avevo iniziato a gonfiare a causa del cortisone, soprattutto all’altezza della gola. I farmaci mi inducevano in un continuo stato di dormiveglia e l’intero universo intorno a me era solo una realtà confusa e lontana. Non mi ero sentita in quel modo nemmeno sotto le droghe più pesanti: i mostri persistevano, e io venni lasciata da sola, in pasto a loro.
Col tempo iniziai ad abituarmi ai farmaci, cominciando ad essere sempre un po’ più lucida.
Cominciai a comprendere che ero davvero sola, in quella battaglia, che avrei dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
Dissi al dottore di non avere più allucinazioni né istinti suicidi, mi scusai con i miei amici, col mio staff, soprattutto con Steve. Assicurai a tutti loro che presto avremmo iniziato un nuovo tour, riprendendo le tappe annullate.
Tutti furono felici di quelle notizie: il dottore diminuì la dose di medicine, i miei amici e lo staff tornarono a fidarsi di me.
Era un pomeriggio assolato e, per la prima volta da giorni, ero davvero sola, senza nessuna guardia del corpo intorno. Stavo prendendo il sole su una delle sedie sdraio dell’albergo, a bordo piscina, con un semplice bikini blu addosso, fumando una sigaretta. Leggevo un manga misconosciuto quando, ad un tratto, temetti di avere un’altra allucinazione: Jason veniva verso di me, come se fosse la cosa più normale del mondo.
«Ciao! Hai visto Ian?» chiese, tranquillo, con le mani infilate nelle tasche dei bermuda grigi.
Per poco non mi affogai, il fumo a metà tra gola e polmoni. Spensi la sigaretta sul posacenere del tavolino alla mia destra, tossendo. Lo fissai, abbassando leggermente le lenti dei miei occhiali da sole.
Anche lui ne portava un paio, dei Ray Ban con lenti a specchio. Indossava un berretto in testa, una t-shirt nera con ampio scollo a “v” e delle semplici infradito ai piedi.
«Stai dicendo sul serio?» riuscii a chiedere.
Si sistemò il berretto, leggermente confuso.
«Sì. È da un po’ che lo cerco, ma non l’ho trovato da nessuna parte»
Mi aveva fraintesa. Certo.
«No, dico, “stai dicendo sul serio” nel senso “mi stai davvero rivolgendo la parola”?»
Allargò le braccia con fare teatrale, sollevando a tal punto le sopracciglia che riuscii a vederle da sopra le lenti.
«Vedi qualcun altro, intorno?»
Rimasi shockata, non sapendo spiegare quell’evento. Perché non c’era Cherry, con lui? Come mai mi aveva rivolto la parola? Avrei tanto voluto vedere il colore dei suoi occhi, per riuscire a capire se fosse ancora soggiogato da quella strega o meno.
Mi alzai dalla sdraio, gettando manga e occhiali da sole a terra. Lo presi per mano, senza riflettere, portandolo nella dépendance della piscina.
«Che stai facendo?» chiese, irritato.
Entrammo in uno spogliatoio minuscolo. C’era appena lo spazio per muoversi. Chiusi la porta a chiave e, con uno scatto, gli tolsi gli occhiali.
I suoi occhi, sospirai, sollevata.
Non erano color ghiaccio come al solito, ma si avvicinavano sempre più al celeste, seppur con qualche sfumatura nera.
«Jason» dissi, con voce tremante, prendendogli il viso tra le mani «ti prego, torna in te!»
«Non mi toccare!» sbottò, scostandosi con violenza «Vuoi capire che è finita, tra noi? Adesso amo Cherry!»
Ognuna di quelle parole fu una pugnalata in pieno petto, ma le ignorai. Non potevo mollare, non ora.
«No, tu non la ami! Sei solo stato… stregato, o qualcosa del genere!»
«Tu sei pazza. Dovrebbero imbottirti con un altro po’ di roba, sai?» ghignò, maligno.
No, quello non era Jason, e i suoi occhi erano sempre più scuri.
«Allora baciami» gettai, lì per lì.
Riuscii a prenderlo contropiede.
«Cosa?»
«Ho detto di baciarmi. Se è vero che non mi ami, allora non proverai niente per un semplice bacio… e poi te lo chiedo come un favore. Se proprio deve finire, tra noi, almeno concedimi un ultimo bacio. Vedilo come un addio»
Una lacrima sfuggì ai miei occhi perché, in fondo, era quello che pensavo davvero.
Lo vidi tentennare, combattuto. Alla fine si avvicinò a me, con cautela.
Vidi il suo viso perfetto avvicinarsi al mio, sentii il pizzetto solleticarmi piacevolmente il mento. Ricordai quando, una volta, aveva deciso di tagliarlo e io lo avevo costretto a farselo ricrescere, perché amavo quella sensazione ruvida sulla mia pelle.
Posò le labbra sulle mie, con delicatezza, e io mi aggrappai con forza a lui, avvolgendo le mie braccia dietro al suo collo robusto. Fu un bacio disperato e nostalgico. Piangevamo entrambi, stringendoci sempre di più. Le sue mani furono subito sul mio viso, sui miei capelli, sul mio corpo. Mi spinse contro la parete di quel minuscolo spogliatoio, un po’ rudemente. Ogni secondo che passava vedevo i suoi occhi farsi sempre più chiari, tornare quelli di sempre, come se quelle lacrime stessero lavando via il male che li aveva contaminati. Nel suo sguardo c’era sempre meno odio e sempre un po’ più del nostro amore.
«Alice…» sussurrò, sulle mie labbra. Sorrisi felice.
Prese a tremare, scosso da violenti conati. Si staccò da me, girandosi di lato, vomitando quella stessa sostanza nera che, giorni prima, avevo rigettato anche io in albergo.
Gli accarezzai le spalle, aspettando che avesse espulso ogni traccia di quello schifo.
Qualunque cosa fosse, dedussi che era attraverso quella sostanza che Cherry riusciva a manipolare le persone.
Finalmente compresi perché non era rimasta traccia di quella roba, nel gabinetto dell’albergo: evaporava all’istante, a contatto con qualsiasi superficie, senza lasciare traccia.
Non appena ebbe finito si accasciò a terra, il viso stravolto ma sollevato.
«Jason» gli accarezzai con delicatezza una guancia, fissandolo nei suoi splendidi occhi cristallini. Mi sorrise, ricambiando la carezza.
«Eccoti, finalmente» bisbigliò, con voce roca.
Lo strinsi a me, più forte che potei.
«Dovrei dirlo io…! Dio, quanto mi sei mancato!»
Piansi, stavolta di felicità. Inspirai a fondo il suo profumo e lui fece lo stesso con me.
«Anche tu» sospirò, accarezzandomi la schiena nuda, sistemandomi sulle sue gambe.
Riprese a baciarmi, le mani tra i miei capelli.  Mi fissava con i suoi occhi, quelli che avevo sempre amato, colmi di amore e desiderio.
In quel momento realizzai che erano passate più di due settimane dall’ultimo nostro momento d’intimità. Il pensiero che, durante tutto quel tempo, lui fosse stato con un’altra mi faceva morire, ma la consapevolezza che tutto ciò era accaduto contro la sua volontà mi spingeva a lavare via dalla sua pelle tutto quello che era successo.
«Voglio te… per favore…» sussurrò in un bacio, negli occhi era evidente la profondità di quella supplica.
Annuii, sfilandogli la maglietta, ripercorrendo il suo petto, la sua schiena, le sue braccia, disegnando i contorni di quei tatuaggi, rendendomi conto di conoscerli ormai a memoria, quasi come se glieli avessi fatti io stessa.
Le sue mani furono sui lacci del mio bikini. Sciolsero quei nodi, gettando di lato quegli inutili pezzi di stoffa scura.
Avvertivo distintamente tra le mie gambe quanto mi desiderasse in quel momento e di quanto la cosa fosse reciproca. I nostri baci erano sempre più passionali, sempre più famelici: le nostre labbra sembravano non volersi staccare un attimo, chiedendo sempre di più, quasi avessero il timore che, se si fossero allontanate, non si sarebbero ritrovate mai più.
Le mie mani slacciarono i suoi bermuda, e lui mi aiutò a  sfilarseli, alzandosi leggermente da terra. Come al solito non indossava niente, sotto di essi, e ci ritrovammo improvvisamente a contatto, pelle con pelle, eccitazioni diverse sovrapposte.
Gli accarezzai una guancia, sorridendo sulle sue labbra. Mi era mancato da morire.
Le sue labbra si staccarono dalle mie solo per avanzare verso i miei seni. Le mie dita afferrarono il berretto e lo gettarono via, stringendo poi i suoi lunghi capelli neri, ancora più scompigliati di quanto già non fossero normalmente.
Spinsi la sua testa verso di me, in un muto invito a continuare i suoi baci roventi sul mio seno, facendogli capire la mia impazienza.
Lo sentii ridacchiare, mentre, prendendomi per i fianchi, mi sistemava su di lui e, con un gesto ormai tremendamente familiare, fu dentro di me.
Sospirai, affondando il mio viso sui suoi capelli, e lo stesso fece lui, ancora tra i miei seni.
Amavo quella sensazione che ci legava, fisicamente e spiritualmente. La distanza tra noi si annullò di colpo, rendendoci nuovamente una cosa sola.
Le sue labbra furono sulle mie, le sue mani mi accarezzavano i fianchi, incitandomi a muovermi, e così feci.
Inizialmente provai qualche fitta al basso ventre, cosa che mi fece capire definitivamente che non eravamo davvero insieme da fin troppo tempo, ormai. Il dolore, però, si sciolse ben presto in calore e piacere, facendomi muovere sempre più velocemente, con maggior disinvoltura. Ansimavamo pesantemente, muovendoci in sincronia perfetta, come avevamo sempre fatto. Le sue dita artigliarono la carne dei miei fianchi, facendomi capire che aveva quasi raggiunto l’apice del suo piacere. Con un sorriso mi abbandonai anche io, lasciandomi travolgere insieme a lui da quell’orgasmo che, come un’onda, ci portò lontano da tutto quello che era successo, da tutta la malinconia, la solitudine e le stranezze di quei giorni.
Con pesantezza, respirando ancora affannosamente, mi abbandonai sul suo petto, aggrappandomi alle sue forti spalle. Lui mi cinse con le sue braccia, baciandomi con delicatezza il collo.
Avrei tanto voluto che quel momento durasse in eterno, lasciando oltre quella porta turchese il mondo intero.
Le mie dita artigliarono con un po’ troppa violenza i suoi capelli neri.
«Tu sei mio» sussurrai.
Lo sentii ridacchiare.
«Sono tuo, giuro, lo sono sempre stato»
Sorrisi, soddisfatta, baciandogli delicatamente la spalla destra, per poi tornare ad appoggiarmici sopra.
Le sue mani percorrevano lentamente la mia schiena, facendomi rabbrividire.
Non so quanto tempo restammo così, in quella posizione. Fin troppo presto le sue dita si fermarono. Si scostò leggermente, afferrando il mio bikini e porgendomelo.
Sospirando mi alzai, staccando i nostri corpi, ancora uniti. Rimisi il costume sotto l’attento sguardo dei suoi occhi, ancora famelici. Nonostante ciò lo vidi reprimere quella nuova ondata di desiderio e, alla fine, si rivestì anche lui, con mio sommo dispiacere.
 «Ascoltami bene, non abbiamo molto tempo» disse, fissandomi con espressione seria «Cherry ha nascosto qualcosa, nella mia cuccetta, sotto al materasso, una specie di libro o quaderno. In un momento di lucidità stavo cercando di prenderlo, ma lei, per poco, non mi ha staccato la testa a morsi. Credo che sia qualcosa a cui lei tiene molto, non so per quale motivo»
Mi sedetti nuovamente su di lui, accogliendo il dolce invito delle sue braccia tese verso di me, pronte a riacciuffarmi in quell’abbraccio.
«Pensi che, al suo interno, si trovi il suo punto debole?» chiesi, risentendo le sue mani sulla mia schiena, leggere.
«O magari un modo per trovarlo» confermò lui «Ti prego solo di fare molta attenzione. Se dovesse farti del male… non potrei mai perdonarmelo»
Mi accarezzò la cicatrice sul polso, con dolcezza.
«Farò attenzione, promesso» lo rassicurai, baciandolo.
«Alice… sappi che, anche quando sono sotto il suo controllo, non smetterò mai di amarti. Chiaro? Devi ricordarlo: non dubitare mai del mio amore per te»
«Non ho mai dubitato, infatti»
Mi fissò con un’espressione talmente scettica che scoppiai a ridere
«Beh, forse nei primi tempi…!»
Rise anche lui.
«Lo sapevo! Sei sempre stata sospettosa di me, vero?» stavolta i suoi occhi si fecero tristi.
«No, non lo sono mai stata. Sai benissimo che era solo un pretesto per essere gelosa» dissi, rendendomene conto anche io per la prima volta.
Non era vera e propria gelosia, solo un modo per manifestare il mio affetto.
«Sai, anche se ero mentalmente controllato da quel demone, ricordo benissimo la faccia che hai fatto quando ci hai scoperti… o quando, quella notte sul bus, in cucina, ha iniziato a minacciarti» si accigliò «È stato strano. Era come se… come se la mia personalità si fosse sdoppiata. Una parte di me avrebbe voluto cacciarla, picchiarla, ma non riuscivo più controllare il mio corpo. Sentivo che una potente entità, al suo interno, mi impediva di riprenderne il possesso »
«Lo capisco benissimo» dissi, ricordandomi quella terribile notte in albergo. Altro che paralisi ipnagogica…! Un terribile pensiero si fece largo nella mia testa «Dimmi… quando tu e lei… insomma, siete intimi…»
Sospirò, capendo dove volessi arrivare.
«Sì, purtroppo capisco ogni cosa» strinse i pugni« Non vorrei, davvero… penso a te e mi faccio schifo da solo. Come se mi stesse…»
«…violentando?» completai.
«Beh, è brutto sentir dire una cosa del genere da un uomo grande e grosso come me ma sì, credo che sia la stessa cosa.»
Lo baciai, determinata a cancellar via quell’espressione triste sul suo volto.
«Fortunatamente è tutto finito!» sospirai.
Mi scostò con delicatezza, alzandosi e porgendomi una mano, aiutandomi a mettermi in piedi. Mi abbracciò, lasciando un bacio sui miei capelli.
«No, non è finito… sento che è sempre più vicina» si agitò «Ricordati del diario… e che ti amo, va bene? Stai attenta!»
Mi diede un ultimo bacio, per poi uscire di scatto dallo spogliatoio.
«Jason, aspetta!»
No, ti prego… non tornare da lei!
Corsi via dalla dépendance, inseguendolo. Lo trovai in piscina, con Cherry appiccicata sopra. Lo stava baciando, passandogli con la lingua quella sostanza nera.
Gli occhi di Jason erano di nuovo neri, maligni. Lo avevo perso un’altra volta.
«Attenta a non spingerti troppo in là con i miei giochini, Alice» mi minacciò Cherry, portandoselo via con sé.
«Anche io ti amo, J. Ti salverò, stanne certo»


Quella sera riuscii a intrufolarmi nel pullman. Cherry e Jason erano fuori: era l’occasione perfetta per scoprire cosa si nascondesse in quella che, ormai, era diventata la loro cuccetta.
Sollevai il materasso, con gesti affrettati. Niente, non c’era nessun tipo di libro o quaderno. Tastai la base di legno, giusto per assicurarmi che gli occhi non mi stessero ingannando.
Rimisi a posto il materasso, avvilita.
Che Jason mi avesse mentito, magari per portarmi fuori strada? No, non avrebbe avuto senso… e poi era perfettamente in sé.
Oppure Cherry si era portata dietro quel libro, nell’albergo in cui alloggiavano lei e Jason? Beh, quello sarebbe stato un gran bel problema…
Gli occhi mi caddero sui cuscini. Li afferrai, tastandoli.
Chissà se… bingo!
Aprii la federa del cuscino di Cherry, cercando quella superfice rigida che avevo tastato dall’esterno.
Evidentemente dopo il tentativo di Jason doveva aver cambiato il nascondiglio del suo tesoro, per paura che lo scoprisse di nuovo.
Tirai fuori quello che si rivelò essere un quaderno nero, con delle ciliegie rosse sulla copertina. Che fantasia…!
Lo infilai all’interno del mio giubbotto di pelle e, tenendolo stretto al petto, uscii di corsa dal tour bus, risalendo sul taxi, pronta a tornare in albergo.
Lo avrei letto in tutta calma, sul letto della mia suite.
  
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