7.
Stranger Than You Dreamt It
1877
L’estate in
campagna poteva essere terribilmente monotona per una bambina di sei
anni. Il
territorio circostante non le permetteva alcuno svago, e malgrado gli
adulti
fossero abbastanza permissivi con lei e le permettessero di gironzolare
più o
meno a suo piacimento dentro e fuori il castello, la piccola Nora aveva
ormai
terminato tutte le attività che avrebbero dovuto
intrattenerla, o semplicemente
le erano venute a noia.
Mademoiselle
Sophie, la sua istitutrice francese, si era ritirata per il suo riposo
pomeridiano, e le aveva suggerito di fare lo stesso: com’era
ovvio, Nora non
aveva intenzione di rimanere rinchiusa nella sua camera per le due ore
seguenti
senza far nulla, così attese i minuti necessari che avrebbe
impiegato
mademoiselle a percorrere il corridoio e sparire nella sua stanza,
prima di
sgattaiolare di nuovo fuori.
Non aveva fatto che
pochi passi, che una delle altre porte si aprì e la testa
bionda e riccioluta
di suo fratello maggiore Evan ne fece capolino.
«Guarda guarda chi
sta disobbedendo alla sua istitutrice», esordì con
un mezzo sorriso, parlando
tuttavia a bassa voce. «Che cosa ci fai in corridoio a
quest’ora? Non dovresti
essere a letto?»
«Non ho sonno»,
ribatté la bambina imbronciandosi. «E sono
annoiata! Voglio fare qualcosa, ma
non so che cosa», aggiunse, storcendo il naso.
Sfortunatamente tutti i giochi
che avrebbe potuto fare le erano al momento preclusi, dato che tanto
per
cominciare non si sarebbe neppure dovuta trovare fuori dalla propria
camera. E
neanche uscire dal castello era da prendere in considerazione, dato che
mademoiselle Sophie l’aveva avvertita che, quando il sole era
così alto nel
cielo e le cicale frinivano nel prato, la spaventosa Mère
du soleil avrebbe rapito le fanciulline che avessero
messo il naso fuori casa.
Sospirò, avanzando
di qualche passo verso il fratello. «Tu vuoi giocare con
me?» Chiese,
rassegnata.
Evan la osservò di sottecchi,
le dita macchiate di pittura impegnate a torturare un pennello sporco,
riflettendo. Alla fine, con tono laconico, rispose:
«No.» Ma, prima che Nora si
mettesse a piangere dall’irritazione, il ragazzino riprese a
sorridere e le
fece cenno di avvicinarsi ancora. «Ho un’idea
migliore. La vuoi sentire?»
Il viso di Nora si
illuminò, raggiante: suo fratello aveva sempre qualche gioco
interessante da
farle fare! Quando gli si fu avvicinata abbastanza, Evan si
chinò verso di lei
per sussurrarle la sua idea all’orecchio, pregustando
già la faccia che avrebbe
fatto la piccola. «Ti sfido ad andare nell’ala
Ovest.»
Come lui aveva
immaginato, la bambina trattenne bruscamente il fiato, allontanandosi
il tanto
sufficiente per farle incontrare lo sguardo del fratello e farle capire
che non
stava scherzando. «Ma nostro padre l’ha
proibito», disse piano, gli occhi
sgranati.
Evan scrollò con
noncuranza le spalle. «Hai già disobbedito a
mademoiselle Sophie, qual è il
problema?»
La osservò mentre
Nora si dondolava sulle gambe sottili, torcendosi le dita e torturando
i nastri
del suo abitino azzurro, riflettendo se accettare o meno la proposta
del
fratello o forse sperando che egli cambiasse idea e le desse un
qualche compito più
semplice. Ma lui si ostinò a tacere, continuando a guardarla
con quel
sorrisetto arrogante che la sfidava a tirarsi indietro; e Nora,
malgrado la
tenera età, non amava perdere o rinunciare a una
competizione. Inoltre si
annoiava, e cos’altro avrebbe potuto fare per trascorrere il
tempo, dunque?
«Bene», sbottò alla
fine, sollevando il mento. «Andrò
nell’ala Ovest.»
Il fratello
ridacchiò, per nulla impressionato.
«Però devi portarmi qualcosa da lì, o
non
crederò che tu ci sia stata», aggiunse, agitandole
un dito davanti al naso.
Nora sbuffò,
infastidita. «E che cosa ti devo portare?»
Evan scrollò le
spalle, continuando a sorridere. «Quello che vuoi, sorellina.
Sorprendimi.»
Senza più degnarlo
di un’occhiata, Nora gli diede le spalle e si
incamminò decisa, ma in punta di piedi, in
direzione dell’ala Ovest.
Accedere a quell’interdetta
parte del maniero fu più semplice di quanto avesse previsto:
era bastato
attendere che le cameriere finissero di spolverare là
attorno e sparissero giù
per la scala di servizio, e con l’andito del tutto vuoto a
sua disposizione
Nora oltrepassò la soglia che divideva quell’ala
dal resto del maniero,
lasciando pure che la porta si chiudesse alle sue spalle.
Mentre attraversava
le gallerie cupe e disabitate, incerta su cosa fare e domandandosi per
quale
motivo il padre avesse deciso di chiudere quell’ala al
pubblico, visto che non
c’era nulla di particolare a parte vecchi quadri e tappeti
impolverati, Nora si
ripromise che avrebbe dato un bel pizzicotto a suo fratello Evan per
averla
fatta cacciare in quel guaio senza che peraltro ne valesse la pena. Ma
aveva
appena finito di formulare quel pensiero, che nel profondo silenzio si
udì un
rumore, dapprima debole, come fosse stato attutito
da spesse pareti, e poi sempre più nitido e stentoreo:
pareva il pianto di un
bambino.
Perplessa, giacché
era convinta, e a ragione, di essere l’unica fanciullina di
Pemberley – se si
escludeva il figlio della governante, che comunque non veniva mai
portato
all’interno del castello e che lei aveva veduto solo qualche
volta, e da
lontano, al limitare del giardino – Nora seguì il
percorso indicato da quegli strazianti
singhiozzi, terribilmente curiosa e insieme preoccupata.
I corridoi deserti di
Pemberley non le facevano paura: era nata e cresciuta lì, e
malgrado avesse
udito i domestici bisbigliare costantemente di misteri di dubbia natura
e strani eventi che si manifestavano nel castello, Nora era figlia di
suo padre e non credeva
a sciocchezze come i
fantasmi. Evan non sarebbe stato così
coraggioso, si ritrovò a pensare con un lieve sorriso;
sarebbe fuggito come se
avesse avuto il diavolo alle calcagna, e non avrebbe più
messo piede nell’ala
Ovest. Ma lei non aveva paura, e glielo avrebbe dimostrato.
Dopo un lungo
camminare si fermò con decisione davanti a una porta scura e
decisamente
pesante, e vi posò l’orecchio sopra, in ascolto:
sì, non v’erano dubbi – il
pianto proveniva da lì dentro.
Alzandosi sulle
punte dei piedi e allungando il braccio, Nora riuscì ad
aggrapparsi alla
maniglia – così in alto, perché era
così in alto? – e a tirarla il più
possibile verso di se’, verso il basso, fin quando un roco
schiocco non le fece
capire di essere riuscita ad aprirla. Allora la spalancò,
sbuffando e ansimando,
e si affacciò curiosa all’interno; la sua sorpresa
fu grande quando capì di
essere in una sorta di nursery, molto meno ricca e lussuosa di quella
dov’era
cresciuta lei. Le tende erano chiuse, e dalle finestre non proveniva il
più
piccolo raggio di sole; solo poche candele rischiaravano
l’ambiente,
permettendole di vedere una sedia a dondolo, delle brocche da toilette,
vari
giocattoli sparsi per terra in condizioni più o meno
disperate e una culla di
legno scuro, rivestita con stoffe ingiallite dal tempo, e ricoperta da
una
tendina in pizzo che pendeva dal soffitto. Ed era da lì che
proveniva il
lamento disperato del bambino, chiunque egli fosse.
Si avvicinò con
cautela al lettino, ma le sponde troppo alte le impedivano di
affacciarsi;
guardandosi intorno vide uno sgabello rovesciato poco lontano, che
trascinò
fino a un lato della culla per poi arrampicarvisi senza grosse
difficoltà.
Quando scostò la tendina che copriva il bambino, Nora
dovette stringere gli
occhi attraverso la penombra per riuscire a vederlo; poi
all’improvviso il
piccolo si voltò, tirando su col naso e istintivamente
confortato dalla sua
presenza, e allungò le mani verso di lei emettendo teneri
versi di benvenuto
che, tuttavia, non la intenerirono per niente. Anzi; lo shock di
ciò che videro
i suoi occhi fu tale che iniziò a strillare, terrorizzata,
spaventando il
bambino che sgranò gli occhi con un’espressione
più scioccata della sua,
facendolo scoppiare nuovamente in lacrime con un vigore notevole per
una
creaturina così piccola.
Continuò a gridare
con gli occhi serrati e le lacrime che le scorrevano sulle guance,
implacabili,
incapace di muoversi, finché due mani non
l’agguantarono con decisione ai
fianchi e la fecero scendere dallo sgabello, allontanandola dalla culla
e
portandola direttamente fuori, nel corridoio. Quando Nora
riaprì gli occhi, suo
malgrado indignata per il modo in cui era stata presa e spostata, si
ritrovò a
fissare ora il volto familiare e adorato della signora Duncan, che
tuttavia mai
prima di allora aveva mai visto sfigurato da un’espressione
così terribilmente
furibonda.
«Voglio che
torniate in camera vostra, milady, avete compreso bene? E
sarà meglio che non
diciate a nessuno quanto avete visto qui, se non volete che racconti a
vostro
padre di questa bravata», furono le uniche parole che le
vennero rivolte dalla
donna, in modo piuttosto gelido e sgarbato.
La pesante porta
venne richiusa con un brusco tonfo, nascondendo alla sua vista
l’orrore che
celava. Nora rimase lì davanti, intontita e spaventata,
mentre le lacrime che
aveva inconsapevolmente trattenuto fino a quel momento scorrevano
copiose sulle
sue guance. Chi
era quel mostro?, si chiese, confusa. Perché
abitava nel castello, sotto il suo stesso tetto? E,
soprattutto, chi aveva permesso a un simile abominio di vivere?
Una mano le si posò
sulla spalla, facendola sussultare dallo spavento. Quando si
voltò, Nora si
ritrovò ad osservare una signora mai vista prima, bella ed
elegante come il
soggetto di un quadro, riccamente vestita e acconciata –
seppur ci fosse
qualcosa, nel suo abbigliamento, che stonava con
ciò a cui la piccola era abituata, come se la donna
appartenesse a qualche
luogo al di fuori dal tempo.
«Vieni, bambina.
Non dovresti essere qui», le disse dolcemente la sconosciuta,
prendendole la
mano con la sua, gelida, e conducendola via con fare gentile ma
risoluto. Nora
si voltò più volte, spiando la porta da sopra la
spalla, ma non vide più nulla:
e si lasciò trascinare, spaventata e confusa, senza ben
sapere che cosa pensare
di quanto aveva appena visto.
Benché si fosse
dimenticata di prendere qualcosa dall’ala Ovest, suo fratello
Evan non dubitò
che ci fosse stata, dopo averla guardata in viso.
Emma
si svegliò spossata e infastidita, come se avesse trascorso
la notte intera su
un materasso di sassi appuntiti che le aveva reso impossibile riposare.
Accolse
come una benedizione la luce del giorno che filtrava da sotto le tende,
e si
alzò dal letto per spalancarle prima che arrivasse Lydia a
occuparsene.
Attraverso il vetro appannato si accorse che aveva piovuto, e che
doveva aver
smesso da poco: ciò la rassicurò sulla sua
decisione di aver fatto restare
Caledon al castello per la notte – ma adesso era mattina, e
il suo ospite si
sarebbe rimesso in viaggio tra non molto. Mentre osservava i raggi del
sole che
facevano luccicare la brina sull’erba e sulle foglie degli
alberi, facendoli
brillare come se l’intera vegetazione circostante fosse
tempestata di diamanti,
Emma si domandò se la partenza di Cal le stesse mettendo
addosso più sollievo o
dispiacere.
Non
aveva che da prepararsi e scendere in sala da pranzo per scoprire che
cosa le
avrebbe riservato il giorno; e quando Lydia varcò la soglia
della sua stanza,
portando dei teli puliti e dell’acqua calda per le sue
abluzioni mattutine,
l’accolse con un piccolo sorriso.
A
qualche metro di distanza, nella camera da letto Luigi Filippo, anche
Caledon
riapriva gli occhi a salutare il nuovo giorno. Non era abituato a
svegliarsi
così tardi – solitamente quando si alzava era
ancora buio, poiché suo padre gli
aveva da sempre inculcato la convinzione che un lord dovesse svegliarsi
insieme
alla propria servitù per non dare l’impressione di
essere un fannullone ma, al
contrario, un padrone dal polso rigido – ma la
verità era che non aveva dormito
molto bene: anzi, aveva l’impressione di non aver mai dormito
così male in
tutti i suoi trent’anni di vita su questa terra.
Non
lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma c’era qualcosa nel
castello che gli
aveva messo addosso una certa inquietudine sin da quando vi aveva
posato gli
occhi, il giorno prima. Pur essendo avvezzo alle imponenti e antiche
magioni in
cui peraltro aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza,
doveva
riconoscere che Pemberley Manor era in diversi modi differenti: lo
aveva fatto
sentire a disagio, fuori luogo, e per un attimo - sì, per un
attimo – aveva
pensato di dire il cocchiere di fare dietro front e tornare alla
stazione, per
proseguire il suo viaggio senza dover sostare in quel luogo
inconfortevole.
Forse
si era lasciato suggestionare dalla lettera di Emma, o dagli sguardi
preoccupati dei paesani che, alla sua richiesta di venire accompagnato
al
castello, si erano praticamente volatilizzati, fatto sta che il suo
primo
incontro con il castello non si era svolto sotto i migliori auspici. E
la
sensazione si era acuita una volta messo piede nell’enorme
foyer, quando la
governante lo aveva lasciato solo per pochi minuti per avvisare la
padrona di
casa del suo arrivo. Inutile dire che, in quei brevi istanti
– che tuttavia in
quel frangente gli erano sembrati eterni – aveva provato il
terribile e
inconscio presentimento di essere fissato.
L’androne d’ingresso non era eccessivamente buio
– una debole luce proveniva
ancora dalle vetrate polverose, e qua e là i domestici
avevano già iniziato ad
accendere le candele – eppure quell’atmosfera
soffusa non faceva che trascinare
l’abitazione in un clima da incubo, assurdo, intollerabile.
Il legno massello
che rivestiva muri e pavimenti era talmente cupo che assorbiva la luce
dei
lucernai senza rifletterla, mentre a inghiottire qualsiasi suono ci
pensavano
arazzi e tappeti: avrebbe giurato che Mrs. Duncan fosse scomparsa nel
corridoio
se non l’avesse seguita con lo sguardo finché non
ebbe girato l’angolo, tanto la
donna si muoveva silenziosamente. L’immensa scalinata che si
snodava alla sua
sinistra, curvando dolcemente su se stessa nella sua ascesa al piano
superiore,
era a sua volta scarsamente illuminata, e dava l’impressione
di poter essere il
passaggio verso chissà quale luogo infernale.
Erano
osservazioni futili e sciocche da fare, se ne rendeva benissimo conto,
eppure
Caledon si era sempre vantato di avere un istinto e un fiuto
eccezionale per
tutto ciò che non era come sarebbe dovuto essere. E
c’era qualcosa, nel maniero
di Pemberley, che sembrava volergli far rimpiangere la sua visita
improvvisa.
Avrebbe
quasi giurato… ma doveva essere stata la stanchezza a
giocargli brutti scherzi…
di udire un flebile sospiro che gli fece rizzare i peli della nuca,
subito
seguito da quello che gli era parso a tutti gli effetti una carezza
sulla
spalla. Eppure, quando si era voltato, non aveva visto che un corridoio
vuoto… Di
certo la governante non dovette trovarlo in un buono stato, quando
tornò da lui
per avvisarlo che la padrona lo stava aspettando, perché
Caledon aveva
l’impressione che tutto il sangue gli fosse defluito dal viso
lasciandolo
pallido e tremante; e malgrado ciò era riuscito a far buon
viso a cattivo
gioco, e a raddrizzare la schiena mascherando sotto una patina di
amabilità e
gentilezza il suo sconfortante malessere.
Sinceramente,
si domandò con quale coraggio Emma continuava ad abitarvi. Quando
questo castello passerà in mano mia, dopo il matrimonio, si
ritrovò a pensare d’istinto, mentre si vestiva per
poi poter scendere a fare
colazione, mi assicurerò che diventi un
luogo diverso. Più luminoso, tanto per cominciare, e meno
lugubre. Emma sarà
d’accordo con me, decise.
Non
rientrava nei suoi desideri tornare a vivere nella casa di famiglia dei
Suffolk, dopo il suo matrimonio – dover far convivere la
propria già difficile
vita matrimoniale con quella dei suoi genitori era una
possibilità che non
aveva neanche preso in considerazione – e di certo anche Emma
sarebbe convenuta
con lui al riguardo. I due giovani sposi avrebbero dovuto imparare a
conoscersi
e ad abituarsi l’uno all’altro senza che ogni loro
gesto, parola o
comportamento fosse minuziosamente passato al setaccio dagli sguardi
pesanti e
inquisitori di lady e lord Suffolk. Per cui, il fatto che vi fosse una
proprietà del genere abbarbicata sopra di una collina nel
bel mezzo della
brughiera capitava davvero a fagiolo: qualcosa gli diceva che il suo
futuro
suocero, il caro lord Grantham, già prevedesse di regalarla
agli sposi per le
loro nozze, e in tutta onestà Caledon poteva ammettere che
gli sarebbe piaciuto
gestirla, e strapparle via quell’aria desolante e malsana che
emanava come se
fosse stata una carcassa in decomposizione.
Se
lasciava la sua immaginazione libera di espandersi a proprio
piacimento,
Caledon poteva quasi vedere gli androni invasi dalla luce, i domestici
che si
prendevano cura del maniero e Emma, la
sua Emma, seduta all’ombra di uno dei tigli del
parco, con un libro tra le
mani e due bambini distesi accanto a lei, tutti intenti ad ascoltare la
voce
melodiosa della madre mentre leggeva loro una delle sue storie
preferite…
L’uomo
sospirò, tornando bruscamente con i piedi per terra. Avrebbe
fatto quanto in
suo potere per far sì che un simile miraggio si avverasse, e
che la sua futura
moglie si innamorasse di lui – o perlomeno smettesse di
trovarlo indifferente.
Gli sarebbe bastato il più piccolo cenno di affetto da parte
sua, per farlo
sperare, per fargli capire che quel matrimonio si sarebbe fondato su
basi più
solide di un misero contratto stipulato dalle loro famiglie. Quella
visita a
sorpresa, tutto sommato, lo aveva fatto ben sperare; forse,
rifletté mentre scendeva le scale in direzione della sala da
pranzo, forse la solitudine la stava
ammorbidendo?
Quando
varcò la soglia della sala, la padrona di casa non era
ancora arrivata. Il
lungo tavolo in mogano scuro tuttavia era già stato
abbondantemente
apparecchiato, e il delizioso profumo di tè, pancetta,
porridge e uova gli fece
perdonare l’assenza del giornale del mattino – cosa
che non lo sorprese del
tutto: chi era il povero ragazzo che si sarebbe fatto di sua spontanea
volontà
tutta la strada fino a Pemberley?
Si
era appena seduto quando da dietro un paravento sgusciò
fuori uno scodinzolante
Aramis, il cucciolo di Emma; il cane venne verso di lui ansimando
allegramente,
avvicinandosi baldanzoso per annusarlo e abbaiare due o tre volte in
segno di
riconoscimento. «Guarda un po’ chi
c’è», sorrise Caledon, chinandosi per
grattare l’animale dietro le orecchie e sotto il muso.
«Non dovresti essere a
far la guardia alla tua padrona, mh?»
Per
tutta risposta Aramis abbaiò ancora, poi ruotò un
paio di volte su se’ stesso e
infine si mise seduto, il muso sollevato ad annusare l’aria e
gli occhi castani
fissati con infantile insistenza su di lui. «Ah, ho capito
cosa vuoi», mormorò
divertito. Allungò una mano verso il vassoio della pancetta
e ne prese due
fettine ancora fumanti, il cui profumo stava sicuramente facendo venire
l’acquolina in bocca anche al cucciolo. «Tieni,
fatti onore. Ma non dirlo a
Emma, mi raccomando.»
«Dirmi
che cosa?»
Non
appena udì la voce della ragazza Caledon saltò
subito in piedi facendo
strisciare spiacevolmente la sedia sul pavimento, voltandosi verso di
lei e
accennando un inchino. Gli bastò un’occhiata per
notare che adesso appariva
molto più elegante e pronta a riceverlo di quanto non fosse
stata la sera prima
– il suo abito da giorno era stato scelto scuro come si
conveniva a una
fanciulla in lutto, e i capelli le erano stati intrecciati e raccolti
in modo
da non lasciare un solo ciuffo fuori posto. Era comunque la prima volta
che la
vedeva a quell’ora del mattino, e c’era una certa
innegabile intimità nel
ritrovarsi da soli a colazione. «Buongiorno. Perdonatemi, non
vi ho sentita
entrare», si scusò, andando subito a scostarle
gentilmente una sedia per farla
accomodare.
Emma
fece un cenno con la mano come a dire che non era importante.
«Non
preoccupatevi. Come avete visto, Cal, qui in campagna non seguiamo in
modo
altrettanto rigoroso le regole della città. Oh»,
aggiunse poi, aprendosi in un
sorriso non appena Aramis la raggiunse per posarle il muso in grembo in
cerca
di coccole. «Vedo che la signora Duncan l’ha
già fatto rientrare.»
«Credevo
che dormisse con voi», replicò l’uomo,
tornando a sedersi e iniziando a
versarsi delle salsicce e funghi trifolati nel piatto. Il profumo era
inebriante – chissà per quale motivo in campagna
tutto acquistava un diverso
sapore?
«Aramis
non dorme bene all’interno del castello», fu la
vaga risposta di Emma, che
riconquistò l’attenzione del suo ospite.
«Le prime notti mi ha tenuto sveglia,
e con Mrs. Duncan abbiamo convenuto che sarebbe stato meglio per lui
dormire
nelle stalle.»
«Probabilmente
era solo innervosito dal nuovo ambiente. Si abituerà presto,
vedrete», la
rassicurò Caledon, offrendole un sorriso confortante.
Emma
non riuscì a ricambiarlo. «Sapete, non me la sento
di biasimarlo. Povero
Aramis… Devo ammettere che questo castello mette i brividi
anche a me», rispose
piano, sperando che non ci fosse nessuno dei domestici in ascolto
– non voleva
risultare ingrata o patetica nel parlare così, ma in qualche
modo sentiva che
dirlo al suo fidanzato le avrebbe forse alleggerito lo spirito.
«Sapete che i precedenti
proprietari morirono proprio qui, all’interno del maniero,
quindici anni fa?»
Caledon
la osservò con aria perplessa e sorpresa, sia per
quell’improvviso slancio di
familiarità che per la notizia inquietante. «Ma
è terribile», commentò
gravemente, aggrottando la fronte. «Da ciò che mi
ha detto vostro padre, avevo
capito che il castello fosse rimasto abbandonato per
l’assenza di eredi.»
«È
stato così, in effetti», confermò Emma,
ritrovando facilmente la loquacità che
aveva già sfoggiato la sera prima e sentendo
l’inevitabile disagio che aveva
provato al suo risveglio scivolare via. «Il conte e i suoi
tre figli morirono
insieme, la stessa notte, a causa di un tragico incendio. E gli
abitanti del
villaggio sono molto superstiziosi, e nessuno di loro si è
più avvicinato al
castello per timore che i fantasmi dei Rochester si aggirino ancora tra
queste
stanze. Non vi dico quanto ho dovuto penare per far arrivare il dottore
fin
qui, per miss Radcliffe… È una fortuna che ci sia
stato sir Carlisle.»
Il
tono quasi affettuoso che avvolse un nome maschile che Caledon non
aveva mai
udito prima d’ora scatenò uno strano turbinio di
emozioni nel giovane –
emozioni che, benché confuse, potevano facilmente essere
riconducibili a un
unico sentimento: gelosia. «Sir Carlisle?
Chi sarebbe?»
«Oh,
è il mio unico vicino di casa. L’ho conosciuto
qualche giorno dopo il mio
arrivo, è venuto a fare visita alla nuova inquilina di
Pemberley – doveri di
buon vicinato, li aveva definiti. È stato lui a raccontarmi
di ciò che è
accaduto ai Rochester, e a convincere il dottore a venire al
maniero.»
«Tuttavia
non è stato molto delicato che venisse a trovare una ragazza
sola e priva di
chaperon. La trovo una cosa inappropriata, anche per gli standard della
campagna», insisté senza guardarla, tagliando con
ferocia un toast a metà.
A
quel punto Emma non riuscì a frenare un sorriso.
«Cal, avete fatto anche voi la
stessa cosa», gli rammentò con dolcezza a mezza
voce, in un tono che qualcuno
avrebbe potuto definire complice.
Egli
fu così preso alla sprovvista che arrossì
lievemente, come un bambino. «È
diverso», ribatté ostinato, guardandola dritta
negli occhi per scacciare
l’imbarazzo. «Io sono il vostro
fidanzato.»
«E
cosa credete che penserà mio padre quando
scoprirà che il mio fidanzato è
venuto da solo a trovarmi e ha poi trascorso la notte sotto il mio
stesso
tetto?» Il sorriso che continuava ad aleggiare sulle labbra
della giovane e il
suo tono scherzoso rassicurarono l’uomo sulla natura
discorsiva della
conversazione. «Se la mia reputazione resta intatta lo
dovrò solo alla privacy
della brughiera e alla promessa del vostro silenzio.»
«In
tal caso, avete la mia parola che non gliene farò menzione.
Non sia mai che io
mi macchi di offendere il vostro buon nome»,
replicò sul suo stesso tono faceto,
chinando il capo nel fantasma di un inchino. «Ad ogni modo,
questo Carlisle…
Viene a farvi visita spesso?» Indagò poi, con
un’aria interrogativa e persino
irritata che Emma non faticò a riconoscere.
Cercò
quindi di non sorridere per non dare l’impressione di
prendersi gioco di
quell’aspetto del suo carattere, che in verità
dovette ammettere di trovare in
un certo senso premuroso: era la prima volta che vedeva il suo
fidanzato
ingelosito. «Cal, non fraintendete. Sir Carlisle è
un gentiluomo sposato, e
potrebbe essere mio padre. Si comporta da ottimo amico ed è
di buona compagnia,
e questo mi fa apprezzare le sue visite», gli
spiegò serenamente.
La
risposta di Emma lo rassicurò un poco, ma non poteva
impedirsi di essere
preoccupato e tormentato dall’idea della sua fidanzata da
sola in un castello
in mezzo alla brughiera, preda di chissà quali e quanti
generi di
malintenzionati. Buon Dio, ma cosa
diavolo aveva in mente lord Grantham quando l’ha mandata qui?
Solo ora che
vedeva in modo tangibile il modo in cui stava trascorrendo il suo
lutto,
Caledon si rendeva conto della pericolosità
dell’intera faccenda. Eppure lei
era così serafica, così rilassata che quasi si
sentiva uno sciocco nel provare
la più piccola briciola di apprensione. Così, si
limitò a porre fine
all’argomento con una breve scrollata di spalle e un commento
riguardo i tempi
moderni e le donne indipendenti, che strappò a Emma la prima
vera risatina che
udì da parte sua da quando era arrivato, e che
contribuì a rasserenare il suo
spirito.
Fu
costretto a prendere commiato subito dopo colazione, perché
il treno sarebbe
partito alle undici e con la carrozza del signor Duncan avrebbero
impiegato
almeno un paio d’ore per raggiungere la stazione. I suoi
bagagli erano già
stati imbarcati, ed Emma gli aveva preparato una sorta di cesto da
picnic con
gli avanzi della colazione, frutta e altre vivande che avrebbero reso
il suo
viaggio verso la Scozia meno lungo e noioso. Una volta usciti sul
portico, sia
Mrs. Duncan che Lydia erano già schierate ai lati della
porta, e Mr. Duncan
attendeva paziente accanto allo sportello aperto della carrozza. I
cavalli
scalpitavano inquieti, ma bastarono poche parole sussurrate e delle
pacche
gentili da parte dell’uomo per riportarli
all’ordine.
Prima
di separarsi definitivamente, Caledon prese Emma da una parte
– cercando di
stare il più lontano possibile dall’udito
indiscreto dei domestici – e le prese
le mani tra le sue, stringendole affettuosamente. «Mi
promettete che
continuerete a scrivermi, Emma?» Le chiese a mezza voce.
«Ho letto la vostra
ultima lettera fino a impararla a memoria, e adesso ho bisogno che mi
forniate
dell’altro materiale da memorizzare.»
La
giovane sorrise, suo malgrado divertita. «Ho paura che le mie
future lettere
saranno di una noia mortale, visto che qui a Pemberley non succede
nulla di
interessante, ma cercherò di fare del mio meglio per
mettervi al corrente di
ogni cosa», acconsentì, ricambiando la stretta.
Ovviamente non gli aveva
raccontato del carillon, né della musica che di tanto in
tanto risuonava ancora
tra i corridoi, durante la notte, e neppure del figlio dalla mente
semplice dei
signori Duncan che ormai non vedeva da diversi giorni e che
l’aveva spaventata,
durante il loro primo incontro; simili dettagli lo avrebbero soltanto
messo in
allarme, e preoccupare lui voleva dire far preoccupare anche suo padre,
giacché
Emma non aveva dubbi che le voci si sarebbero poi sparse a macchia
d’olio.
Aveva come l’impressione di essere il centro della
preoccupazione di fin troppi
uomini.
«Sapete,
ho davvero sentito la vostra mancanza in queste settimane»,
continuò lui dopo
un momento di silenzio, abbassando la voce come se ciò
potesse rendere meno
imbarazzante tale confessione.
Emma
arrossì appena, allisciandosi delle pieghe inesistenti sul
vestito mentre si
sforzava di ricambiare lo sguardo dolorosamente sincero del suo
fidanzato. «Cal…»
«No,
vi prego. Fatemi finire», la supplicò con un mezzo
sorriso. «Voi conoscete già
i miei sentimenti, non dev’essere una sorpresa udirli. Quando
mi hanno riferito
che avreste trascorso il lutto in una residenza in campagna, lontana da
tutti,
lontana da me… Non nego che ciò mi abbia
addolorato, Emma.»
«Non
sono venuta qui per starvi lontana, Caledon»,
ribatté lei a mezza voce, e
tuttavia con un tono severo. «Non oserei mai fare una cosa
del genere, e
sinceramente mi dispiace che ciò possa avervi
offeso.»
«Non
mi sono offeso. Il fatto è che mi sono sentito inutile...
Credevo, forse troppo
ingenuamente, che in questo periodo di dolore mi sarebbe stato permesso
starvi
accanto, confortarvi, essere il sostegno di cui potevate avere bisogno,
e
invece… Siete semplicemente sparita», le
spiegò, più con un’aria triste e
dispiaciuta che rancorosa. «Ora, lo so che il nostro rapporto
è nato su basi
forzate, ma io voglio che sappiate che per qualsiasi cosa, in qualsiasi
momento, io sarò al vostro fianco – non per
giudicarvi, ma per sostenervi. Per
cui, se c’è qualcosa che vi pesa e che sentite il
bisogno di dirmi, fatelo,
fatelo senza timore. Voglio solo il meglio per voi, Emma… Un
giorno sarete mia
moglie, sì, ma io sarò vostro marito.
Sarò vostro, mi capite? Qualunque cosa
succeda, io sarò la vostra roccia nella tempesta. Ecco,
volevo solo dirvi
questo», concluse, con un breve sospiro di sollievo. Sembrava
che un simile
discorso gli fosse costato particolarmente, ma era stato abbastanza
eloquente
da privare lei di qualsiasi replica.
Emma
si limitò ad osservarlo, gli occhi inevitabilmente lucidi a
causa di quella
frettolosa confessione che non si era aspettata, e le mani che ancora
stringevano con forza rinnovata quelle guantate dell’uomo,
come se, in effetti,
in esse avesse trovato il suo appiglio. Cercò di non
commuoversi, e fu
tremendamente difficile; ma riuscì a sorridergli, annuendo
appena, e tanto
parve bastare. «Vi ringrazio, Cal. Davvero, con tutto il
cuore», mormorò, senza
distogliere gli occhi dai suoi.
Egli
annuì a sua volta, cercando di ricambiare il sorriso; non si
era aspettato una
risposta diversa da lei, in fondo, ma in quel momento la sua
espressione era
molto più significativa di qualsiasi dichiarazione
d’amore. «Vi manderò un
telegramma non appena raggiungo Inverness», le promise alla
fine, alleggerendo
l’atmosfera. Emma annuì, ancora frastornata, e
rilasciò lentamente le mani del
fidanzato, con un gesto che parve riluttante.
Forse
fu quello che gli diede il coraggio necessario: prima di voltarsi e
raggiungere
la carrozza, Caledon si chinò su di lei e le posò
le labbra sulla fronte, in un
bacio delicato e nel quale indugiò a lungo, gli occhi
socchiusi – assaporando
quel gesto che lei gli aveva permesso senza discostarsi, ma anzi
tendendosi un
poco, oh, non molto, verso di lui. La
sua pelle era tiepida e liscia, come seta, e sapeva vagamente di
gelsomino.
Il
momento rimase sospeso fin quando non si allontanarono, e Caledon si
ricordò di
avere degli spettatori. A quel punto le sorrise, si sfiorò
il cappello in
direzione delle domestiche e accennò un inchino verso di
lei, per
poi raggiungere la carrozza senza pronunciare una singola
parola. Emma
rimase ad osservarlo in silenzio, e restò sul portico fino a
che la vettura guidata
dal signor Duncan non scomparve dietro il primo angolo del vialetto
tortuoso,
tuffandosi nella fitta vegetazione selvaggia che pareva divorare metri
di
terreno nuovi di giorno in giorno, quasi che volesse raggiungere e
inghiottire il castello.
Quando
si voltò nuovamente verso il portico, si accorse che Lydia e
la governante la
stavano osservando in disparte, in attesa: Mrs. Duncan pareva avere
un’espressione incerta e preoccupante, persa
com’era in chissà quali pensieri, mentre
la ragazza si limitava a torcersi le mani e a fissare un punto
imprecisato del
giardino, quasi attendendo disperatamente di venir congedata.
Con
un sospiro, già dispiaciuta dell’essere stata
lasciata ancora una volta sola
con i domestici, Emma si incamminò verso il portone.
«Se avete bisogno di me,
signora Duncan, mi trovate in biblioteca»,
l’avvisò, precedendo le due
domestiche all’interno della casa.
La
governante annuì, accennando un inchino col capo.
«Verrò da voi più tardi per
farvi approvare il menù del pranzo, milady», fece;
malgrado cercasse di non darlo
a vedere, era palese che preferisse sapere la padrona di casa al sicuro
in
un’unica stanza – o, meglio, fuori dai piedi. Anche
se doveva ammettere che,
dopo la visita notturna della sua antica signora, il suo animo era
assai più
tranquillo – poteva contare che ci fosse sempre qualcuno a
tenerla sotto
controllo e lontana dalle grinfie dell’oscurità
che permeava il maniero.
Ciò
che non poté impedirsi di chiedersi, tuttavia, fu quando
essa si sarebbe decisa
a serrare gli artigli intorno alla giovane lady, spezzando la loro
apparente
quiete.
Otto giorni dopo.
Il
reverendo Randall Sibley, settantanove primavere, di Peterborough, era
il
personaggio più influente di Heatherfield. Di mente
sorprendentemente aperta e
pragmatica, usava prestarsi come confidente e consigliere in tutti i
campi,
poiché la sua raffinata istruzione ecclesiastica gli aveva
permesso in più
occasioni di utilizzare le sue conoscenze a favore di ciascuno dei
parrocchiani
– che, come egli stesso ammetteva con un umile sorriso,
conosceva ad uno ad
uno. Non vi erano segreti per lui, giacché era un uomo che,
principalmente,
ascoltava senza giudicare; e la sua fama era tale che talvolta venivano
membri
di altre parrocchie per scambiare con lui qualche parola e chiedere
consiglio.
Egli
sapeva chi frequentava la messa e chi la disertava, e con quale
frequenza;
dall’alto del suo pulpito in legno massello aveva una visuale
perfetta di tutti
i parrocchiani, dai contadini ai pastori, dal mercante alla sarta e dal
becchino al cocchiere della diligenza. Fu anche per questo che
notò subito le due
presenze inattese, quella mattina: la chiesa era pressoché
vuota, ovviamente –
era pur sempre un lunedì – se si escludeva la
presenza costante di una decina
di vedove del villaggio che trascorrevano nella casa di Dio gran parte
della
giornata. Li osservò da dietro l’anonimato
concesso dalla grata del
confessionale, seguendoli con gli occhi mentre prendevano posto in una
delle
panche più appartate – in cerca come al solito di
un angolo nascosto. Quella
routine andava avanti da tre lustri, ormai: tutti gli anni, il
ventiquattro di
ottobre, il signore e la signora Duncan varcavano la soglia
dell’unica chiesa
di Heatherfield per pregare, poi accendevano un cero in memoria di
coloro che
vennero uccisi nella terribile tragedia del maniero e se ne andavano
nuovamente,
con la tacita promessa di ritornare per il medesimo appuntamento
l’anno
seguente.
Da
qualche tempo a quella parte, inoltre, il reverendo aveva notato che i
due
custodi parevano cercare di evitarlo il più possibile: e
generalmente
riuscivano anche nel loro intento, visto che l’anniversario
di solito cadeva in
qualche giornata festiva o in qualche domenica. Stavolta tuttavia
avevano avuto
la sfortuna di trovare la chiesa vuota, e con essa la
possibilità che padre
Randall li raggiungesse era notevolmente alta; probabilmente era per
quello che
i due coniugi si stavano guardando nervosamente intorno, timorosi forse
di
vederselo piombare alle spalle come un avvoltoio affamato.
L’uomo
li spiò ancora un poco, pensieroso; com’era ovvio,
sapeva che Pemberley ora ospitava
due nuove inquiline, e trovò strano che esse non fossero
venute a loro volta in
chiesa. Certo, visto il loro status sociale era possibile che
appartenessero a
un’altra confessione religiosa, ma perché
preferire la solitudine del castello
alla possibilità di passeggiare nel villaggio e nella
campagna circostante, e
di fare la conoscenza con i paesani? Probabilmente, conoscendo Mrs.
Duncan,
tale invito non era neanche stato esteso alla giovane lady; e
quest’ultima, in
tutta ingenuità e buona fede, aveva dato loro il permesso di
assentarsi dal
loro luogo di lavoro per un giorno e una notte interi senza neanche
avanzare
qualche perplessità. Se solo avesse già avuto
modo di conoscere questa
misteriosa lady Moore che nessuno aveva mai neanche veduto in faccia,
se si
escludeva quello sciocco del dottor Carew, allora avrebbe anche potuto
presentarsi a Pemberley con una scusa qualsiasi, ma
così… Non poteva lasciare
che una sua preoccupazione prendesse in tal modo il sopravvento sulle
buone
maniere e sulla delicatezza che doveva avere nei confronti di ciascuno
dei suoi
parrocchiani.
Comunque
il rapporto che aveva con i Duncan era di ben altra natura, e andava
oltre il
semplice legame tra confessore e confessante; oltre a conoscerli da
prima che
si sposassero – cerimonia che aveva, peraltro, celebrato egli
stesso – avevano
faccende in comune di cui era bene di tanto in tanto discutere. Per
questo
motivo, aprì silenziosamente la porticina del confessionale
e attraversò la
chiesa deserta, raggiungendoli così in fretta che, quando
infine si accorsero
della sua presenza con un pallore che andava accentuandosi sui loro
volti, era
ormai troppo tardi per alzarsi e andarsene indisturbati.
«Buongiorno,
Margareth. Randolph», li salutò a mezza voce,
prendendo posto accanto a loro
con assoluta noncuranza. La donna si mosse a disagio sulla panca, ma
riconobbe
la sua presenza con un breve e secco cenno del capo che venne subito
imitato
dal marito.
Il
reverendo dovette trattenere un sospiro d’impazienza.
«Sono lieto che abbiate
deciso di farmi visita ancora una volta»,
proseguì, puntando lo sguardo
sull’altare e giungendo le mani in grembo. «Mi fa
piacere scambiare qualche
parola con voi, sapete. Ed è una fortuna che non mi abbiate
trovato impegnato
in una delle funzioni, così posso dedicarmi interamente a
voi.»
Mrs.
Duncan sembrava decisa a portare avanti il suo testardo silenzio, ma
l’anziano
pastore non era uomo che si lasciava intimidire e scoraggiare con
così poco. «Che
cosa sta succedendo su a Pemberley, signora Duncan?» Aggiunse
quindi,
abbassando ulteriormente il tono di voce e spostando stavolta lo
sguardo sui
due custodi che si ostinavano – o almeno ci provavano
– a ignorarlo. «Sapete
bene che ho a cuore il vostro bene e quello del nostro comune amico, e
gradirei
se queste vostre brevi visite fossero devolute a mettermi a parte di
ciò che
avviene tra quelle mura. Soprattutto adesso, che vi sono nuovi pezzi
nella
scacchiera.»
A
quel punto per Mrs. Duncan fu impossibile continuare a tacere.
«Padre, vi
prego, non chiedete. Avete cessato di avere il diritto di sapere quanto
avviene
al castello nel momento in cui ci avete lasciati al nostro
destino», ribatté
seccamente, senza distogliere gli occhi dall’altare.
«Non
insultate la mia intelligenza, Margareth. Sapete bene che non
c’è
molto che
io possa fare,
se l’anima da salvare non vuole essere salvata»,
replicò egli con forza,
trattenendosi dal picchiare il pugno contro la panca in legno.
«Egli sa che può
venire da me ogni volta che desidera, eppure sono trascorsi anni dalla
sua
ultima visita. Per questo motivo, se avete a cuore il suo benessere,
voi mi
direte che cosa sta macchinando!»
Fu
il signor Duncan allora a prendere la parola, per la prima volta
durante
quell’incontro. «Vi prego di non rivolgervi in quel
modo a mia moglie, padre,
perché come vi ha già detto noi non vi dobbiamo
niente», mormorò con la sua
voce grossa e rauca. «Se vi fosse interessato davvero di noi
e del vostro
pupillo avreste tanto per cominciare potuto impedire che il padre lo
vendesse a
quella specie di squilibrato…»
La
donna si guardò intorno con aria agitata, temendo che quella
conversazione
potesse essere udita da orecchie indiscrete, e rilassandosi leggermente
non
appena si fu resa conto che nella chiesa non erano rimasti che loro,
ormai. «Questo
non è in assoluto il luogo adatto per discuterne»,
intervenne nervosa, mettendo
a tacere il marito e attirando lo sguardo del reverendo.
«Padre Randall, avete
avuto la vostra occasione. Ma il passato non si può
cambiare, e se davvero vi
importa di noi come dite, allora non vi impiccerete più di
ciò che avviene al
castello. Io e Dolph abbiamo la situazione sotto controllo»,
concluse, con un
tono severo che non ammetteva repliche.
Ciò
detto si alzò in piedi, e i due uomini si alzarono
d’istinto a loro volta in
memoria delle buone maniere. «Dunque, buona
giornata», aggiunse, per poi
prendere sotto braccio il marito e dirigersi frettolosamente verso
l’uscita. Il
reverendo Sibley rimase a guardarli, assorto, mentre un vago senso di
inquietudine prendeva a farsi largo nel suo spirito: adesso aveva
praticamente
la certezza che a Pemberley ci fosse qualcosa che non andava
– se c’era
qualcosa di cui era capace, era leggere negli animi delle persone.
Doveva solo
scoprire che cosa.
Dal
canto loro, i Duncan non avevano nessuna intenzione di lasciare che un
altro
estraneo si intromettesse nelle loro faccende. Erano scesi a
Heatherfield come
facevano ogni anno, nell’anniversario della tragedia, solo
per poter rimanere
lontani dal maniero in attesa che tutto fosse passato:
l’esperienza gli aveva
infatti insegnato che era meglio stare lontani da Pemberley in quella
lugubre
notte. Purtroppo, e questa era anche una delle ragioni che avevano
spinto
l’anziana governante ad andare in chiesa, quella mattina, non
aveva potuto far
niente per avvisare lady Emma e la sua istitutrice: non le avrebbero
mai
creduto, e con quale coraggio lei avrebbe potuto disubbidire
così agli ordini
degli abitanti del castello?
Dodici
rintocchi di un orologio a pendolo risuonarono sordi da qualche parte
intorno a
lei, strappandola alle spire di un sonno senza sogni. Era la prima
volta che li
udiva, e nel dormiveglia era indecisa se attribuirli alla
realtà o a qualche
rimasuglio onirico; nel dubbio, visto che ormai s’era
svegliata, spostò le
coperte da un lato e si mise a sedere sul letto, tendendo
l’orecchio con
attenzione per accertarsi che i rintocchi fossero cessati.
La
camera, com’era ovvio, era immersa nel buio: dovette cercare
a tentoni la
lampada a gas sul comodino, per accenderla maldestramente
finché la debole
fiammella non rischiarò l’ambiente. C’era
qualcosa di strano nell’aria, un’atmosfera di
attesa, il presentimento che
qualcosa dovesse accadere da un momento all’altro.
Ogni rumore pareva
essere stato risucchiato dalle pareti mentre il castello rimaneva
immobile, in
un silenzio ovattato, trattenendo il respiro, pronto
all’esplosione.
Perfino
il vento sembrava essere cessato, e dall’esterno non
proveniva neanche più il
frinire cantilenante dei grilli. Tutto taceva, in modo così
definitivo che si
sarebbe potuto udire un ragno tessere la tela.
Quel
silenzio era spaventoso.
E
poi, così com’era giunta, la quiete
cessò: i comuni rumori della sera
ripresero, sotto forma di scricchiolii del legno, di fruscii leggeri e
del
frullio d’ali di uccelli notturni. Perplessa, Emma rimase
seduta, tendendo
l’orecchio verso la porta, sperando quasi di udire bussare da
un momento
all’altro per poi osservare il viso assonnato e stanco di
Mrs. Duncan e udire
la sua voce rassicurarla sul fatto che non vi fosse nulla di cui avere
paura, e
che i rumori che aveva udito li avevano fatti loro rientrando nel
maniero. Ma
ciò non accadde; e prima che potesse capire cosa stesse
accadendo, una forza
estranea, invisibile, l’attirò verso sé
al pari del serpente che esce
ondeggiando dalla cesta al suono del flauto del proprio padrone, ed
Emma si
ritrovò trascinata lontano dal letto, verso la porta della
camera, e poi fuori,
nel freddo corridoio, non completamente in controllo del proprio corpo.
Non
sapeva dove stava andando, non sapeva neanche perché si
stesse muovendo, ma al
momento la sua mente era annebbiata da una volontà estranea
e non era
abbastanza lucida da mettere in discussione l’urgenza della
sua passeggiata
notturna.
Si
ritrovò così a percorrere l’intero
corridoio fino a raggiungere l’estremità
opposta, laddove Caledon aveva riposato solo qualche notte prima, e che
adesso
era misteriosamente illuminato come se qualcuno fosse appena passato ad
accendere tutte le candele. Una delle porte era stata lasciata
socchiusa –
altra stranezza che Emma non si premurò di registrare subito
– e d’istinto la sua
mano scivolò sulla maniglia, spingendola in avanti per
spalancare l’uscio e
affacciarsi all’interno di una camera da letto esageratamente
illuminata, con
suppellettili bianche e dorate e pizzo in ogni angolo, avvolta dal fumo
inodore
di centinaia di candele
Incuriosita
si guardò intorno, avanzando di qualche passo e cercando di
ignorare la sgradevole
sensazione di estemporaneità che emanava ogni oggetto della
camera – finché una
voce improvvisa non la gelò sul posto.
«Anne?»
Emma
si bloccò sulla soglia della porta, sorpresa e incerta,
poiché nell’entrare
nella stanza non aveva notato alcuna donna. «Chi siete voi?
Come siete entrata
qui?»
La
sconosciuta – adesso la vedeva bene – non la
degnò di una risposta. Si alzò
velocemente dallo sgabellino dello scrittoio, pallida e spaventata, con
i
capelli biondi scarmigliati e raccolti in una treccia – segno
che stava per
andare a letto – e si diresse verso di lei talmente tanto in
fretta, come se
scivolasse incorporea sul pavimento, che Emma indietreggiò
d’istinto,
spostandosi dalla sua traiettoria.
«Anne?»
Continuò a chiamare, con un tono sempre più
urgente. Si voltò di scatto verso
Emma, e i loro occhi si scontrarono per un breve istante –
eppure la
sconosciuta sembrava non vederla, come se fosse in trance, o cieca. Il
momento
passò e la ragazza allungò una mano verso il
pomello della porta, ruotandolo
fino a farlo scattare e spalancare l’uscio: si
precipitò nel corridoio come se
stesse fuggendo dal diavolo in persona, con il nome di quella Anne
ancora sulle
labbra.
Rimase
per un attimo indecisa sul da farsi – sarebbe stato
più saggio rinchiudersi
nella sua stanza, senza alcun dubbio, ma chi diavolo era quella donna
che si
aggirava per il maniero nel cuore della notte? – e
alla fine optò per andarle dietro, non fosse che per
scoprire come diavolo aveva fatto ad entrare a Pemberley.
Non
dovette inseguirla per molto: la trovò poco dopo,
inginocchiata in mezzo al
corridoio sopra quello che doveva essere – buon
Dio, no, non è possibile – un cadavere,
immerso in una pozza di sangue.
«Dio
mio, Anne», stava singhiozzando.
Emma
era talmente sconvolta che rimase immobile a pochi metri da lei,
pietrificata,
incapace di distogliere lo sguardo da quell’orrendo
spettacolo e ancor meno
abile di comprendere qualcosa. Nello sforzo di trattenere il grido che
premeva
contro la sua gola per uscire, si lasciò scappare un gemito,
e ciò fu
sufficiente per attirare su di sé l’attenzione
della sconosciuta.
«Guarda!»
Strillò quest’ultima, il volto furioso rigato di
lacrime e le braccia allungate
verso di lei a mostrarle le mani macchiate di sangue. «Guarda
che cosa ci ha
fatto!»
In che razza di
incubo era finita?
Cercò di indietreggiare, terrorizzata, ma la sua fuga si
interruppe quando la
sua schiena si scontrò con un corpo, e due mani forti
– incredibilmente forti –
si strinsero sulle sue braccia, facendola voltare bruscamente e
costringendola
a guardare il nuovo intruso.
«Già,
guarda che cosa ci ha fatto», ripeté lui, con un
sibilo gorgogliante che pareva
giungere dalle profondità stesse dell’inferno. Gli
occhi di Emma vennero
inevitabilmente attratti dal sangue che colava copioso da una larga
ferita che
gli apriva la gola da parte a parte, e andava a inzuppare un elegante
completo
scuro, da sera, come se l’essere – buon Dio, Emma
non aveva idea di come
chiamarlo – avesse appena partecipato alla cena del diavolo.
Fu quella vista a
farla strillare come non aveva mai fatto in vita sua, e persino lui
dovette
esserne sorpreso, perché rilasciò la presa sulle
sue spalle talmente
all’improvviso che lei crollò per terra, incapace
di reggersi ancora in piedi.
Anche
così, però, non si arrese – rimanere
ferma tra quei folli era la cosa più
sbagliata che potesse fare, così cercò di
allontanarsene, strisciando a fatica
sopra il tappeto che ricopriva l’andito, i piedi annodati
nella stoffa della
sua ingombrante camicia da notte. Respirava a fatica, con la bocca
aperta,
inghiottendo lacrime e gemiti; il cuore le batteva talmente forte che
pareva di udire i rimbombi dei
tuoni prima di un temporale, e sperò terrorizzata di
resistere e non perdere i
sensi fin quando non avesse trovato un luogo sicuro dove nascondersi in
attesa
del mattino, quando i signori Duncan sarebbero tornati alla tenuta.
Riuscì
a raggiungere le scale, e lì si rizzò in piedi a
fatica aggrappandosi al
corrimano: dopodiché volse le spalle a
quell’orrido spettacolo – forse nella
vana speranza che potesse scomparire una volta che ne avesse distolto
lo
sguardo – e si precipitò giù per le due
dozzine di gradini così velocemente che
sarebbe bastato mettere un piede in fallo per cadere e rompersi
l’osso del
collo.
Senza
ben sapere perché, d’impulso si diresse in
biblioteca – come se quello potesse
essere il luogo più sicuro di tutto il maniero.
Attraversando corridoi e
gallerie si accorse che ogni candela era stata accesa – da
chi, per l’amor di
Dio? – e ogni angolo del castello era illuminato a giorno da
migliaia di
piccole fiammelle: stranamente, questa luce non la rassicurò
per niente, anzi,
ebbe l’effetto contrario di accrescere il suo terrore. I
domestici non erano in casa, dunque chi diavolo si era preso la briga
di accendere ogni singolo candelabro?
Senza
fiato per la paura e per la corsa, Emma si fermò davanti
all’ingresso della
biblioteca. Si aggrappò alla maniglia d’ottone
come se fosse stata la sua
ancora di salvezza e spalancò di scatto la porta,
precipitandosi all’interno
dell’immensa sala certa – o meglio, speranzosa
– di poter essere al sicuro
dalle terribili creature che vagavano al piano di sopra. Ma quando
tuttavia
aprì gli occhi su quello che sarebbe dovuto essere il suo
porto sicuro, Emma
trattenne il fiato, sconvolta, e si portò le mani a tapparsi
la bocca per
seppellire l’ennesimo grido.
Oh Dio, ti supplico, pregò
silenziosamente, tra le
lacrime, fa’ che sia solo un sogno. Fammi
risvegliare!
Davanti
a lei si era presentato un incubo di fiamme e disfacimento. Un
terribile
incendio divampava dappertutto – il fuoco divorava
implacabile mobilio e
suppellettili, facendo schizzare scintille in ogni angolo della stanza,
e il
fumo acre saliva in nere e pesanti volute fino al soffitto a volta,
rendendo
l’aria irrespirabile.
Gli
occhi di Emma saettarono da una parte all’altra della
biblioteca, increduli e
terrorizzati; l’intera situazione era a tal punto fuori
dall’ordinario che la
fanciulla non riuscì neanche a
pensare a una soluzione per porre fine a quell’inferno. E,
dopotutto, che cosa
avrebbe potuto fare da sola? Miss Radcliffe era ancora impossibilitata
a
muoversi, e nel castello non c’era anima viva a cui chiedere
aiuto; forse, se
fosse riuscita a raggiungere le cucine e a prendere qualche secchio
d’acqua… Ma
prima sarebbe dovuta scampare al fuoco.
«Non
verrà nessuno a salvarti.» Una voce sconosciuta,
mai udita prima, si levò al di
sopra del crepitio delle fiamme, facendola sussultare. Apparteneva a un
giovane
elegantemente vestito che la fissava dal lato opposto della sala, ritto
contro
una colonna del camino, il viso ancora in ombra, nascosto alla sua
vista.
«Chi
siete?» Domandò Emma, tremante, cercando di
aggrapparsi a quel breve barlume di
realtà. «Come avete fatto ad entrare? Chiamate
aiuto, vi prego! La mia
istitutrice…»
Le
parole le morirono bruscamente in gola quando egli iniziò ad
avvicinarsi,
lentamente, e lei poté iniziare a distinguere vari dettagli
che prima le erano
sfuggiti: il suo abbigliamento era sì ricco ed elegante, ma
vecchio,
impolverato, e fuori tempo; i polsini e il colletto della camicia erano
ingialliti, e attraverso la giacca aperta si vedeva chiaramente la
macchia
scura che gli inzuppava il panciotto, nonché lo squarcio che
partiva dallo
sterno all’ombelico e che denudava persino la carne mutilata.
Emma
non riuscì neanche più ad urlare; si
limitò a fissarlo, agghiacciata, senza
staccare gli occhi da lui e lasciandosi sfuggire il lento e inquietante
sorriso
che prese forma sulle sue labbra livide.
«Sei
spaventata, fanciulla?» Chiese il giovane, andando a sedersi
con noncuranza su
una delle poltrone circondate dalle fiamme. Lei non rispose,
pietrificata dal
macabro spettacolo cui i suoi occhi erano obbligati ad assistere
– il fuoco,
come se non stesse aspettando occasione migliore, avviluppò
il giovane
trasformandolo in una torcia umana, eppure non un gemito provenne da
lui, non
un grido, non un richiamo d’aiuto.
Soltanto
un’ennesima battuta sarcastica, una voce cupa proveniente da
dentro le fiamme,
un assaggio di inferno. «Dovresti esserlo. È
saggio
avere paura.»
Il
grido che eruppe dalle sue labbra fu talmente forte e improvviso da
indolenzirle le orecchie. Malgrado fosse paralizzata dallo spavento
cercò di
indietreggiare, allontanandosi dall’oscena visione sulla
poltrona che aveva
iniziato persino ad emanare un puzzo di carne bruciata, ma si accorse
che era
impossibile: le fiamme avevano iniziato a circondarla, qualche lingua
di fuoco
le aveva lambito la camicia da notte, e il calore era asfissiante,
intollerabile. Strillò ancora, senza fiato,
strillò fin quando non riuscì più a
udire la sua stessa voce e la gola prese a dolerle dallo sforzo. Il
fumo le
aveva invaso la bocca, inaridendola, e gli occhi, facendoli lacrimare:
Emma
credette che sarebbe morta lì e ora, senza più
rivedere suo padre, o miss
Radcliffe, o Caledon. Per un attimo, stranamente – doveva
essere il suo
inconscio che si faceva beffe di lei – tale pensiero la
riempì di sollievo: non
si sarebbe dovuta sposare, in quel modo, sarebbe stata libera.
Ma
a quale prezzo? Poteva forse recare un tale dolore a suo padre, a
Caledon
persino?
No, decise, guardandosi intorno con
gli occhi sgranati, tossendo per liberare i polmoni da quel soffocante
e acre
miasma. No, non sarebbe morta. Non così,
non adesso!
Eppure
il suo corpo gridava pietà dal dolore, nello sforzo di
respirare attraverso il
fumo e di mantenerla sveglia, di non farla crollare; la gola bruciava a
ogni
colpo di tosse e ormai aveva l’impressione di avere cenere
dappertutto, tra i
capelli e tra i lembi della propria veste da notte. Cercò di
tornare indietro,
di raggiungere di nuovo la porta, ma le fiamme la circondavano da ogni
lato e
parevano volerla volontariamente imprigionare: non aveva più
alcuna via di
scampo.
In
quel caos infernale avvertì l’esatto momento in
cui il proprio corpo ebbe
deciso di abbandonarla; lunghi tremiti le percorsero le gambe, un
sottile velo
di sudore gelido le ricoprì la pelle e il cuore
accelerò al punto da sentirselo
quasi premere sulla gola, portandole via il già debole
respiro. Benché la sua
mente desiderasse con tutte le sue forze lottare per farla rimanere
sveglia, il
suo fisico non le fu d’aiuto. Si sentì crollare su
se’ stessa come un burattino
al quale delle forbici crudeli avessero tagliato bruscamente i fili, e
sarebbe
rovinata sul pavimento come un corpo morto se qualcosa – qualcuno?
– non avesse frenato
la sua caduta.
Fece appena in tempo a rendersi conto che erano state due braccia ad avvolgersi intorno a lei con una presa solida e decisa, prima di perdere definitivamente i sensi.
___________________________________________________________________________
Note.
- Mére du Soleil: L'ho tradotta in francese perché la bambinaia era francese, ma in realtà questa è una cosa che mia nonna mi raccontava da piccola per non farmi uscire fuori casa di pomeriggio, in estate - probabilmente perché c'era troppo caldo e non voleva farmi venire un'insolazione. Diceva che "la mamma del sole" mi avrebbe portato via, perché era cattiva eccetera, e che di solito si manifestava nelle api - ah, cara vecchia saggezza popolare - e quindi, niente, mi convinceva a stare dentro casa. L'ho trovata una cosa carina da aggiungere, fa molto "tempi antichi", no?
- Il titolo del capitolo è un palese riferimento alla strofa di una canzone del musical The Phantom of the Opera.
___________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Lo sentite questo profumo? E' il profumo di un capitolo appena aggiornato! xD
Comunque, visto che siamo da parecchio senza sentirci, innanzitutto, bentornate! E, a chi tra voi è appena giunto su questi lidi, benvenuto! Aah, sono tanto contenta di essere tornata con un nuovo capitolo *_* Ovviamente, se sono riuscita a pubblicare entro quest'estate, dovete andare a ringraziare la mia cara Christine23, che mi ha minacc- pardon, volevo dire, ispirato ad andare avanti. u_u
Parlando di cose serie: anche se questa storia si trova nella categoria Noir, devo ammettere che è in assoluto la prima volta che cerco di scrivere qualcosa con dei temi così dark e misteriosi eccetera, e man mano che si va avanti con la narrazione in teoria "the darkness" dovrebbe crescere e crescere... Ma siccome sono alle prime armi, ecco, voglio farvi sapere che accetto consigli di tutte le nature e che, anzi, qualsiasi cosa possiate dirmi per indirizzare verso quel genere la mia scrittura è ben accetto, ecco! Detto ciò, spero che l'ultima parte del capitolo sia stata tutto sommato di vostro gradimento - personalmente è la parte che preferisco, ne sono molto orgogliosa in verità. *_*
Non ho granché da aggiungere: se avete dubbi o domande sentitevi liberi di farmele! Lo so che non ho mai tempo per rispondere alle recensioni, ma ho facebook sempre aperto, per cui se volete venire a trovarmi direttamente lì siete tutti i benvenuti. :)
E ora, una promessa: nel prossimo capitolo faremo finalmente la conoscenza della "Bestia"! Lo so che non vedevate l'ora ù__ù
Bene, con la speranza di essere all'altezza delle vostre aspettative, vi lascio! Ovviamente ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Figlia di una Guerriera, Jolly J, Eva7, Berserksgangr, Sylphs e Se7f - le vostre recensioni sono una più bella dell'altra, siete splendide et meravigliose e non so davvero che cosa farei senza di voi! *___* E un grazie grande grande come sempre va anche a voi che seguite silenziosi, miei cari lettori *_* Lo so che ci siete, anche se fate i timidi. ù_ù
E ora, bon! Si va a cena :D Buon proseguimento di serata, buone vacanze e tante care cose! Ci sentiamo al prossimo aggiornamento ;)
Vostra, come al solito
Niglia.
Fece appena in tempo a rendersi conto che erano state due braccia ad avvolgersi intorno a lei con una presa solida e decisa, prima di perdere definitivamente i sensi.
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Note.
- Mére du Soleil: L'ho tradotta in francese perché la bambinaia era francese, ma in realtà questa è una cosa che mia nonna mi raccontava da piccola per non farmi uscire fuori casa di pomeriggio, in estate - probabilmente perché c'era troppo caldo e non voleva farmi venire un'insolazione. Diceva che "la mamma del sole" mi avrebbe portato via, perché era cattiva eccetera, e che di solito si manifestava nelle api - ah, cara vecchia saggezza popolare - e quindi, niente, mi convinceva a stare dentro casa. L'ho trovata una cosa carina da aggiungere, fa molto "tempi antichi", no?
- Il titolo del capitolo è un palese riferimento alla strofa di una canzone del musical The Phantom of the Opera.
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Angolo Autrice.
Lo sentite questo profumo? E' il profumo di un capitolo appena aggiornato! xD
Comunque, visto che siamo da parecchio senza sentirci, innanzitutto, bentornate! E, a chi tra voi è appena giunto su questi lidi, benvenuto! Aah, sono tanto contenta di essere tornata con un nuovo capitolo *_* Ovviamente, se sono riuscita a pubblicare entro quest'estate, dovete andare a ringraziare la mia cara Christine23, che mi ha minacc- pardon, volevo dire, ispirato ad andare avanti. u_u
Parlando di cose serie: anche se questa storia si trova nella categoria Noir, devo ammettere che è in assoluto la prima volta che cerco di scrivere qualcosa con dei temi così dark e misteriosi eccetera, e man mano che si va avanti con la narrazione in teoria "the darkness" dovrebbe crescere e crescere... Ma siccome sono alle prime armi, ecco, voglio farvi sapere che accetto consigli di tutte le nature e che, anzi, qualsiasi cosa possiate dirmi per indirizzare verso quel genere la mia scrittura è ben accetto, ecco! Detto ciò, spero che l'ultima parte del capitolo sia stata tutto sommato di vostro gradimento - personalmente è la parte che preferisco, ne sono molto orgogliosa in verità. *_*
Non ho granché da aggiungere: se avete dubbi o domande sentitevi liberi di farmele! Lo so che non ho mai tempo per rispondere alle recensioni, ma ho facebook sempre aperto, per cui se volete venire a trovarmi direttamente lì siete tutti i benvenuti. :)
E ora, una promessa: nel prossimo capitolo faremo finalmente la conoscenza della "Bestia"! Lo so che non vedevate l'ora ù__ù
Bene, con la speranza di essere all'altezza delle vostre aspettative, vi lascio! Ovviamente ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Figlia di una Guerriera, Jolly J, Eva7, Berserksgangr, Sylphs e Se7f - le vostre recensioni sono una più bella dell'altra, siete splendide et meravigliose e non so davvero che cosa farei senza di voi! *___* E un grazie grande grande come sempre va anche a voi che seguite silenziosi, miei cari lettori *_* Lo so che ci siete, anche se fate i timidi. ù_ù
E ora, bon! Si va a cena :D Buon proseguimento di serata, buone vacanze e tante care cose! Ci sentiamo al prossimo aggiornamento ;)
Vostra, come al solito
Niglia.