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Autore: Niglia    28/07/2014    4 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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7.
Stranger Than You Dreamt It
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1877

L’estate in campagna poteva essere terribilmente monotona per una bambina di sei anni. Il territorio circostante non le permetteva alcuno svago, e malgrado gli adulti fossero abbastanza permissivi con lei e le permettessero di gironzolare più o meno a suo piacimento dentro e fuori il castello, la piccola Nora aveva ormai terminato tutte le attività che avrebbero dovuto intrattenerla, o semplicemente le erano venute a noia.
Mademoiselle Sophie, la sua istitutrice francese, si era ritirata per il suo riposo pomeridiano, e le aveva suggerito di fare lo stesso: com’era ovvio, Nora non aveva intenzione di rimanere rinchiusa nella sua camera per le due ore seguenti senza far nulla, così attese i minuti necessari che avrebbe impiegato mademoiselle a percorrere il corridoio e sparire nella sua stanza, prima di sgattaiolare di nuovo fuori.
Non aveva fatto che pochi passi, che una delle altre porte si aprì e la testa bionda e riccioluta di suo fratello maggiore Evan ne fece capolino.
«Guarda guarda chi sta disobbedendo alla sua istitutrice», esordì con un mezzo sorriso, parlando tuttavia a bassa voce. «Che cosa ci fai in corridoio a quest’ora? Non dovresti essere a letto?»
«Non ho sonno», ribatté la bambina imbronciandosi. «E sono annoiata! Voglio fare qualcosa, ma non so che cosa», aggiunse, storcendo il naso. Sfortunatamente tutti i giochi che avrebbe potuto fare le erano al momento preclusi, dato che tanto per cominciare non si sarebbe neppure dovuta trovare fuori dalla propria camera. E neanche uscire dal castello era da prendere in considerazione, dato che mademoiselle Sophie l’aveva avvertita che, quando il sole era così alto nel cielo e le cicale frinivano nel prato, la spaventosa Mère du soleil avrebbe rapito le fanciulline che avessero messo il naso fuori casa.
Sospirò, avanzando di qualche passo verso il fratello. «Tu vuoi giocare con me?» Chiese, rassegnata.
Evan la osservò di sottecchi, le dita macchiate di pittura impegnate a torturare un pennello sporco, riflettendo. Alla fine, con tono laconico, rispose: «No.» Ma, prima che Nora si mettesse a piangere dall’irritazione, il ragazzino riprese a sorridere e le fece cenno di avvicinarsi ancora. «Ho un’idea migliore. La vuoi sentire?»
Il viso di Nora si illuminò, raggiante: suo fratello aveva sempre qualche gioco interessante da farle fare! Quando gli si fu avvicinata abbastanza, Evan si chinò verso di lei per sussurrarle la sua idea all’orecchio, pregustando già la faccia che avrebbe fatto la piccola. «Ti sfido ad andare nell’ala Ovest.»
Come lui aveva immaginato, la bambina trattenne bruscamente il fiato, allontanandosi il tanto sufficiente per farle incontrare lo sguardo del fratello e farle capire che non stava scherzando. «Ma nostro padre l’ha proibito», disse piano, gli occhi sgranati.
Evan scrollò con noncuranza le spalle. «Hai già disobbedito a mademoiselle Sophie, qual è il problema?»
La osservò mentre Nora si dondolava sulle gambe sottili, torcendosi le dita e torturando i nastri del suo abitino azzurro, riflettendo se accettare o meno la proposta del fratello o forse sperando che egli cambiasse idea e le desse un qualche compito più semplice. Ma lui si ostinò a tacere, continuando a guardarla con quel sorrisetto arrogante che la sfidava a tirarsi indietro; e Nora, malgrado la tenera età, non amava perdere o rinunciare a una competizione. Inoltre si annoiava, e cos’altro avrebbe potuto fare per trascorrere il tempo, dunque?
«Bene», sbottò alla fine, sollevando il mento. «Andrò nell’ala Ovest.»
Il fratello ridacchiò, per nulla impressionato. «Però devi portarmi qualcosa da lì, o non crederò che tu ci sia stata», aggiunse, agitandole un dito davanti al naso.
Nora sbuffò, infastidita. «E che cosa ti devo portare?»
Evan scrollò le spalle, continuando a sorridere. «Quello che vuoi, sorellina. Sorprendimi.»
Senza più degnarlo di un’occhiata, Nora gli diede le spalle e si incamminò decisa, ma in punta di piedi, in direzione dell’ala Ovest.
Accedere a quell’interdetta parte del maniero fu più semplice di quanto avesse previsto: era bastato attendere che le cameriere finissero di spolverare là attorno e sparissero giù per la scala di servizio, e con l’andito del tutto vuoto a sua disposizione Nora oltrepassò la soglia che divideva quell’ala dal resto del maniero, lasciando pure che la porta si chiudesse alle sue spalle.
Mentre attraversava le gallerie cupe e disabitate, incerta su cosa fare e domandandosi per quale motivo il padre avesse deciso di chiudere quell’ala al pubblico, visto che non c’era nulla di particolare a parte vecchi quadri e tappeti impolverati, Nora si ripromise che avrebbe dato un bel pizzicotto a suo fratello Evan per averla fatta cacciare in quel guaio senza che peraltro ne valesse la pena. Ma aveva appena finito di formulare quel pensiero, che nel profondo silenzio si udì un rumore, dapprima debole, come fosse stato attutito da spesse pareti, e poi sempre più nitido e stentoreo: pareva il pianto di un bambino.
Perplessa, giacché era convinta, e a ragione, di essere l’unica fanciullina di Pemberley – se si escludeva il figlio della governante, che comunque non veniva mai portato all’interno del castello e che lei aveva veduto solo qualche volta, e da lontano, al limitare del giardino – Nora seguì il percorso indicato da quegli strazianti singhiozzi, terribilmente curiosa e insieme preoccupata.
I corridoi deserti di Pemberley non le facevano paura: era nata e cresciuta lì, e malgrado avesse udito i domestici bisbigliare costantemente di misteri di dubbia natura e strani eventi che si manifestavano nel castello, Nora era figlia di suo padre e non credeva a sciocchezze come i fantasmi. Evan non sarebbe stato così coraggioso, si ritrovò a pensare con un lieve sorriso; sarebbe fuggito come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, e non avrebbe più messo piede nell’ala Ovest. Ma lei non aveva paura, e glielo avrebbe dimostrato.
Dopo un lungo camminare si fermò con decisione davanti a una porta scura e decisamente pesante, e vi posò l’orecchio sopra, in ascolto: sì, non v’erano dubbi – il pianto proveniva da lì dentro.
Alzandosi sulle punte dei piedi e allungando il braccio, Nora riuscì ad aggrapparsi alla maniglia – così in alto, perché era così in alto? – e a tirarla il più possibile verso di se’, verso il basso, fin quando un roco schiocco non le fece capire di essere riuscita ad aprirla. Allora la spalancò, sbuffando e ansimando, e si affacciò curiosa all’interno; la sua sorpresa fu grande quando capì di essere in una sorta di nursery, molto meno ricca e lussuosa di quella dov’era cresciuta lei. Le tende erano chiuse, e dalle finestre non proveniva il più piccolo raggio di sole; solo poche candele rischiaravano l’ambiente, permettendole di vedere una sedia a dondolo, delle brocche da toilette, vari giocattoli sparsi per terra in condizioni più o meno disperate e una culla di legno scuro, rivestita con stoffe ingiallite dal tempo, e ricoperta da una tendina in pizzo che pendeva dal soffitto. Ed era da lì che proveniva il lamento disperato del bambino, chiunque egli fosse.
Si avvicinò con cautela al lettino, ma le sponde troppo alte le impedivano di affacciarsi; guardandosi intorno vide uno sgabello rovesciato poco lontano, che trascinò fino a un lato della culla per poi arrampicarvisi senza grosse difficoltà. Quando scostò la tendina che copriva il bambino, Nora dovette stringere gli occhi attraverso la penombra per riuscire a vederlo; poi all’improvviso il piccolo si voltò, tirando su col naso e istintivamente confortato dalla sua presenza, e allungò le mani verso di lei emettendo teneri versi di benvenuto che, tuttavia, non la intenerirono per niente. Anzi; lo shock di ciò che videro i suoi occhi fu tale che iniziò a strillare, terrorizzata, spaventando il bambino che sgranò gli occhi con un’espressione più scioccata della sua, facendolo scoppiare nuovamente in lacrime con un vigore notevole per una creaturina così piccola.
Continuò a gridare con gli occhi serrati e le lacrime che le scorrevano sulle guance, implacabili, incapace di muoversi, finché due mani non l’agguantarono con decisione ai fianchi e la fecero scendere dallo sgabello, allontanandola dalla culla e portandola direttamente fuori, nel corridoio. Quando Nora riaprì gli occhi, suo malgrado indignata per il modo in cui era stata presa e spostata, si ritrovò a fissare ora il volto familiare e adorato della signora Duncan, che tuttavia mai prima di allora aveva mai visto sfigurato da un’espressione così terribilmente furibonda.
«Voglio che torniate in camera vostra, milady, avete compreso bene? E sarà meglio che non diciate a nessuno quanto avete visto qui, se non volete che racconti a vostro padre di questa bravata», furono le uniche parole che le vennero rivolte dalla donna, in modo piuttosto gelido e sgarbato.
La pesante porta venne richiusa con un brusco tonfo, nascondendo alla sua vista l’orrore che celava. Nora rimase lì davanti, intontita e spaventata, mentre le lacrime che aveva inconsapevolmente trattenuto fino a quel momento scorrevano copiose sulle sue guance. Chi era quel mostro?, si chiese, confusa. Perché abitava nel castello, sotto il suo stesso tetto? E, soprattutto, chi aveva permesso a un simile abominio di vivere?
Una mano le si posò sulla spalla, facendola sussultare dallo spavento. Quando si voltò, Nora si ritrovò ad osservare una signora mai vista prima, bella ed elegante come il soggetto di un quadro, riccamente vestita e acconciata – seppur ci fosse qualcosa, nel suo abbigliamento, che stonava con ciò a cui la piccola era abituata, come se la donna appartenesse a qualche luogo al di fuori dal tempo.
«Vieni, bambina. Non dovresti essere qui», le disse dolcemente la sconosciuta, prendendole la mano con la sua, gelida, e conducendola via con fare gentile ma risoluto. Nora si voltò più volte, spiando la porta da sopra la spalla, ma non vide più nulla: e si lasciò trascinare, spaventata e confusa, senza ben sapere che cosa pensare di quanto aveva appena visto.
Benché si fosse dimenticata di prendere qualcosa dall’ala Ovest, suo fratello Evan non dubitò che ci fosse stata, dopo averla guardata in viso.



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Emma si svegliò spossata e infastidita, come se avesse trascorso la notte intera su un materasso di sassi appuntiti che le aveva reso impossibile riposare. Accolse come una benedizione la luce del giorno che filtrava da sotto le tende, e si alzò dal letto per spalancarle prima che arrivasse Lydia a occuparsene. Attraverso il vetro appannato si accorse che aveva piovuto, e che doveva aver smesso da poco: ciò la rassicurò sulla sua decisione di aver fatto restare Caledon al castello per la notte – ma adesso era mattina, e il suo ospite si sarebbe rimesso in viaggio tra non molto. Mentre osservava i raggi del sole che facevano luccicare la brina sull’erba e sulle foglie degli alberi, facendoli brillare come se l’intera vegetazione circostante fosse tempestata di diamanti, Emma si domandò se la partenza di Cal le stesse mettendo addosso più sollievo o dispiacere.
Non aveva che da prepararsi e scendere in sala da pranzo per scoprire che cosa le avrebbe riservato il giorno; e quando Lydia varcò la soglia della sua stanza, portando dei teli puliti e dell’acqua calda per le sue abluzioni mattutine, l’accolse con un piccolo sorriso.

A qualche metro di distanza, nella camera da letto Luigi Filippo, anche Caledon riapriva gli occhi a salutare il nuovo giorno. Non era abituato a svegliarsi così tardi – solitamente quando si alzava era ancora buio, poiché suo padre gli aveva da sempre inculcato la convinzione che un lord dovesse svegliarsi insieme alla propria servitù per non dare l’impressione di essere un fannullone ma, al contrario, un padrone dal polso rigido – ma la verità era che non aveva dormito molto bene: anzi, aveva l’impressione di non aver mai dormito così male in tutti i suoi trent’anni di vita su questa terra.
Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma c’era qualcosa nel castello che gli aveva messo addosso una certa inquietudine sin da quando vi aveva posato gli occhi, il giorno prima. Pur essendo avvezzo alle imponenti e antiche magioni in cui peraltro aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza, doveva riconoscere che Pemberley Manor era in diversi modi differenti: lo aveva fatto sentire a disagio, fuori luogo, e per un attimo - sì, per un attimo – aveva pensato di dire il cocchiere di fare dietro front e tornare alla stazione, per proseguire il suo viaggio senza dover sostare in quel luogo inconfortevole.
Forse si era lasciato suggestionare dalla lettera di Emma, o dagli sguardi preoccupati dei paesani che, alla sua richiesta di venire accompagnato al castello, si erano praticamente volatilizzati, fatto sta che il suo primo incontro con il castello non si era svolto sotto i migliori auspici. E la sensazione si era acuita una volta messo piede nell’enorme foyer, quando la governante lo aveva lasciato solo per pochi minuti per avvisare la padrona di casa del suo arrivo. Inutile dire che, in quei brevi istanti – che tuttavia in quel frangente gli erano sembrati eterni – aveva provato il terribile e inconscio presentimento di essere fissato. L’androne d’ingresso non era eccessivamente buio – una debole luce proveniva ancora dalle vetrate polverose, e qua e là i domestici avevano già iniziato ad accendere le candele – eppure quell’atmosfera soffusa non faceva che trascinare l’abitazione in un clima da incubo, assurdo, intollerabile. Il legno massello che rivestiva muri e pavimenti era talmente cupo che assorbiva la luce dei lucernai senza rifletterla, mentre a inghiottire qualsiasi suono ci pensavano arazzi e tappeti: avrebbe giurato che Mrs. Duncan fosse scomparsa nel corridoio se non l’avesse seguita con lo sguardo finché non ebbe girato l’angolo, tanto la donna si muoveva silenziosamente. L’immensa scalinata che si snodava alla sua sinistra, curvando dolcemente su se stessa nella sua ascesa al piano superiore, era a sua volta scarsamente illuminata, e dava l’impressione di poter essere il passaggio verso chissà quale luogo infernale.
Erano osservazioni futili e sciocche da fare, se ne rendeva benissimo conto, eppure Caledon si era sempre vantato di avere un istinto e un fiuto eccezionale per tutto ciò che non era come sarebbe dovuto essere. E c’era qualcosa, nel maniero di Pemberley, che sembrava volergli far rimpiangere la sua visita improvvisa.
Avrebbe quasi giurato… ma doveva essere stata la stanchezza a giocargli brutti scherzi… di udire un flebile sospiro che gli fece rizzare i peli della nuca, subito seguito da quello che gli era parso a tutti gli effetti una carezza sulla spalla. Eppure, quando si era voltato, non aveva visto che un corridoio vuoto… Di certo la governante non dovette trovarlo in un buono stato, quando tornò da lui per avvisarlo che la padrona lo stava aspettando, perché Caledon aveva l’impressione che tutto il sangue gli fosse defluito dal viso lasciandolo pallido e tremante; e malgrado ciò era riuscito a far buon viso a cattivo gioco, e a raddrizzare la schiena mascherando sotto una patina di amabilità e gentilezza il suo sconfortante malessere.
Sinceramente, si domandò con quale coraggio Emma continuava ad abitarvi. Quando questo castello passerà in mano mia, dopo il matrimonio, si ritrovò a pensare d’istinto, mentre si vestiva per poi poter scendere a fare colazione, mi assicurerò che diventi un luogo diverso. Più luminoso, tanto per cominciare, e meno lugubre. Emma sarà d’accordo con me, decise.
Non rientrava nei suoi desideri tornare a vivere nella casa di famiglia dei Suffolk, dopo il suo matrimonio – dover far convivere la propria già difficile vita matrimoniale con quella dei suoi genitori era una possibilità che non aveva neanche preso in considerazione – e di certo anche Emma sarebbe convenuta con lui al riguardo. I due giovani sposi avrebbero dovuto imparare a conoscersi e ad abituarsi l’uno all’altro senza che ogni loro gesto, parola o comportamento fosse minuziosamente passato al setaccio dagli sguardi pesanti e inquisitori di lady e lord Suffolk. Per cui, il fatto che vi fosse una proprietà del genere abbarbicata sopra di una collina nel bel mezzo della brughiera capitava davvero a fagiolo: qualcosa gli diceva che il suo futuro suocero, il caro lord Grantham, già prevedesse di regalarla agli sposi per le loro nozze, e in tutta onestà Caledon poteva ammettere che gli sarebbe piaciuto gestirla, e strapparle via quell’aria desolante e malsana che emanava come se fosse stata una carcassa in decomposizione.
Se lasciava la sua immaginazione libera di espandersi a proprio piacimento, Caledon poteva quasi vedere gli androni invasi dalla luce, i domestici che si prendevano cura del maniero e Emma, la sua Emma, seduta all’ombra di uno dei tigli del parco, con un libro tra le mani e due bambini distesi accanto a lei, tutti intenti ad ascoltare la voce melodiosa della madre mentre leggeva loro una delle sue storie preferite…
L’uomo sospirò, tornando bruscamente con i piedi per terra. Avrebbe fatto quanto in suo potere per far sì che un simile miraggio si avverasse, e che la sua futura moglie si innamorasse di lui – o perlomeno smettesse di trovarlo indifferente. Gli sarebbe bastato il più piccolo cenno di affetto da parte sua, per farlo sperare, per fargli capire che quel matrimonio si sarebbe fondato su basi più solide di un misero contratto stipulato dalle loro famiglie. Quella visita a sorpresa, tutto sommato, lo aveva fatto ben sperare; forse, rifletté mentre scendeva le scale in direzione della sala da pranzo, forse la solitudine la stava ammorbidendo?
Quando varcò la soglia della sala, la padrona di casa non era ancora arrivata. Il lungo tavolo in mogano scuro tuttavia era già stato abbondantemente apparecchiato, e il delizioso profumo di tè, pancetta, porridge e uova gli fece perdonare l’assenza del giornale del mattino – cosa che non lo sorprese del tutto: chi era il povero ragazzo che si sarebbe fatto di sua spontanea volontà tutta la strada fino a Pemberley?
Si era appena seduto quando da dietro un paravento sgusciò fuori uno scodinzolante Aramis, il cucciolo di Emma; il cane venne verso di lui ansimando allegramente, avvicinandosi baldanzoso per annusarlo e abbaiare due o tre volte in segno di riconoscimento. «Guarda un po’ chi c’è», sorrise Caledon, chinandosi per grattare l’animale dietro le orecchie e sotto il muso. «Non dovresti essere a far la guardia alla tua padrona, mh?»
Per tutta risposta Aramis abbaiò ancora, poi ruotò un paio di volte su se’ stesso e infine si mise seduto, il muso sollevato ad annusare l’aria e gli occhi castani fissati con infantile insistenza su di lui. «Ah, ho capito cosa vuoi», mormorò divertito. Allungò una mano verso il vassoio della pancetta e ne prese due fettine ancora fumanti, il cui profumo stava sicuramente facendo venire l’acquolina in bocca anche al cucciolo. «Tieni, fatti onore. Ma non dirlo a Emma, mi raccomando.»
«Dirmi che cosa?»
Non appena udì la voce della ragazza Caledon saltò subito in piedi facendo strisciare spiacevolmente la sedia sul pavimento, voltandosi verso di lei e accennando un inchino. Gli bastò un’occhiata per notare che adesso appariva molto più elegante e pronta a riceverlo di quanto non fosse stata la sera prima – il suo abito da giorno era stato scelto scuro come si conveniva a una fanciulla in lutto, e i capelli le erano stati intrecciati e raccolti in modo da non lasciare un solo ciuffo fuori posto. Era comunque la prima volta che la vedeva a quell’ora del mattino, e c’era una certa innegabile intimità nel ritrovarsi da soli a colazione. «Buongiorno. Perdonatemi, non vi ho sentita entrare», si scusò, andando subito a scostarle gentilmente una sedia per farla accomodare.
Emma fece un cenno con la mano come a dire che non era importante. «Non preoccupatevi. Come avete visto, Cal, qui in campagna non seguiamo in modo altrettanto rigoroso le regole della città. Oh», aggiunse poi, aprendosi in un sorriso non appena Aramis la raggiunse per posarle il muso in grembo in cerca di coccole. «Vedo che la signora Duncan l’ha già fatto rientrare.»
«Credevo che dormisse con voi», replicò l’uomo, tornando a sedersi e iniziando a versarsi delle salsicce e funghi trifolati nel piatto. Il profumo era inebriante – chissà per quale motivo in campagna tutto acquistava un diverso sapore?
«Aramis non dorme bene all’interno del castello», fu la vaga risposta di Emma, che riconquistò l’attenzione del suo ospite. «Le prime notti mi ha tenuto sveglia, e con Mrs. Duncan abbiamo convenuto che sarebbe stato meglio per lui dormire nelle stalle.»
«Probabilmente era solo innervosito dal nuovo ambiente. Si abituerà presto, vedrete», la rassicurò Caledon, offrendole un sorriso confortante.
Emma non riuscì a ricambiarlo. «Sapete, non me la sento di biasimarlo. Povero Aramis… Devo ammettere che questo castello mette i brividi anche a me», rispose piano, sperando che non ci fosse nessuno dei domestici in ascolto – non voleva risultare ingrata o patetica nel parlare così, ma in qualche modo sentiva che dirlo al suo fidanzato le avrebbe forse alleggerito lo spirito. «Sapete che i precedenti proprietari morirono proprio qui, all’interno del maniero, quindici anni fa?»
Caledon la osservò con aria perplessa e sorpresa, sia per quell’improvviso slancio di familiarità che per la notizia inquietante. «Ma è terribile», commentò gravemente, aggrottando la fronte. «Da ciò che mi ha detto vostro padre, avevo capito che il castello fosse rimasto abbandonato per l’assenza di eredi.»
«È stato così, in effetti», confermò Emma, ritrovando facilmente la loquacità che aveva già sfoggiato la sera prima e sentendo l’inevitabile disagio che aveva provato al suo risveglio scivolare via. «Il conte e i suoi tre figli morirono insieme, la stessa notte, a causa di un tragico incendio. E gli abitanti del villaggio sono molto superstiziosi, e nessuno di loro si è più avvicinato al castello per timore che i fantasmi dei Rochester si aggirino ancora tra queste stanze. Non vi dico quanto ho dovuto penare per far arrivare il dottore fin qui, per miss Radcliffe… È una fortuna che ci sia stato sir Carlisle.»
Il tono quasi affettuoso che avvolse un nome maschile che Caledon non aveva mai udito prima d’ora scatenò uno strano turbinio di emozioni nel giovane – emozioni che, benché confuse, potevano facilmente essere riconducibili a un unico sentimento: gelosia. «Sir Carlisle? Chi sarebbe?»
«Oh, è il mio unico vicino di casa. L’ho conosciuto qualche giorno dopo il mio arrivo, è venuto a fare visita alla nuova inquilina di Pemberley – doveri di buon vicinato, li aveva definiti. È stato lui a raccontarmi di ciò che è accaduto ai Rochester, e a convincere il dottore a venire al maniero.»
«Tuttavia non è stato molto delicato che venisse a trovare una ragazza sola e priva di chaperon. La trovo una cosa inappropriata, anche per gli standard della campagna», insisté senza guardarla, tagliando con ferocia un toast a metà.
A quel punto Emma non riuscì a frenare un sorriso. «Cal, avete fatto anche voi la stessa cosa», gli rammentò con dolcezza a mezza voce, in un tono che qualcuno avrebbe potuto definire complice.
Egli fu così preso alla sprovvista che arrossì lievemente, come un bambino. «È diverso», ribatté ostinato, guardandola dritta negli occhi per scacciare l’imbarazzo. «Io sono il vostro fidanzato.»
«E cosa credete che penserà mio padre quando scoprirà che il mio fidanzato è venuto da solo a trovarmi e ha poi trascorso la notte sotto il mio stesso tetto?» Il sorriso che continuava ad aleggiare sulle labbra della giovane e il suo tono scherzoso rassicurarono l’uomo sulla natura discorsiva della conversazione. «Se la mia reputazione resta intatta lo dovrò solo alla privacy della brughiera e alla promessa del vostro silenzio.»
«In tal caso, avete la mia parola che non gliene farò menzione. Non sia mai che io mi macchi di offendere il vostro buon nome», replicò sul suo stesso tono faceto, chinando il capo nel fantasma di un inchino. «Ad ogni modo, questo Carlisle… Viene a farvi visita spesso?» Indagò poi, con un’aria interrogativa e persino irritata che Emma non faticò a riconoscere.
Cercò quindi di non sorridere per non dare l’impressione di prendersi gioco di quell’aspetto del suo carattere, che in verità dovette ammettere di trovare in un certo senso premuroso: era la prima volta che vedeva il suo fidanzato ingelosito. «Cal, non fraintendete. Sir Carlisle è un gentiluomo sposato, e potrebbe essere mio padre. Si comporta da ottimo amico ed è di buona compagnia, e questo mi fa apprezzare le sue visite», gli spiegò serenamente.
La risposta di Emma lo rassicurò un poco, ma non poteva impedirsi di essere preoccupato e tormentato dall’idea della sua fidanzata da sola in un castello in mezzo alla brughiera, preda di chissà quali e quanti generi di malintenzionati. Buon Dio, ma cosa diavolo aveva in mente lord Grantham quando l’ha mandata qui? Solo ora che vedeva in modo tangibile il modo in cui stava trascorrendo il suo lutto, Caledon si rendeva conto della pericolosità dell’intera faccenda. Eppure lei era così serafica, così rilassata che quasi si sentiva uno sciocco nel provare la più piccola briciola di apprensione. Così, si limitò a porre fine all’argomento con una breve scrollata di spalle e un commento riguardo i tempi moderni e le donne indipendenti, che strappò a Emma la prima vera risatina che udì da parte sua da quando era arrivato, e che contribuì a rasserenare il suo spirito.
Fu costretto a prendere commiato subito dopo colazione, perché il treno sarebbe partito alle undici e con la carrozza del signor Duncan avrebbero impiegato almeno un paio d’ore per raggiungere la stazione. I suoi bagagli erano già stati imbarcati, ed Emma gli aveva preparato una sorta di cesto da picnic con gli avanzi della colazione, frutta e altre vivande che avrebbero reso il suo viaggio verso la Scozia meno lungo e noioso. Una volta usciti sul portico, sia Mrs. Duncan che Lydia erano già schierate ai lati della porta, e Mr. Duncan attendeva paziente accanto allo sportello aperto della carrozza. I cavalli scalpitavano inquieti, ma bastarono poche parole sussurrate e delle pacche gentili da parte dell’uomo per riportarli all’ordine.
Prima di separarsi definitivamente, Caledon prese Emma da una parte – cercando di stare il più lontano possibile dall’udito indiscreto dei domestici – e le prese le mani tra le sue, stringendole affettuosamente. «Mi promettete che continuerete a scrivermi, Emma?» Le chiese a mezza voce. «Ho letto la vostra ultima lettera fino a impararla a memoria, e adesso ho bisogno che mi forniate dell’altro materiale da memorizzare.»
La giovane sorrise, suo malgrado divertita. «Ho paura che le mie future lettere saranno di una noia mortale, visto che qui a Pemberley non succede nulla di interessante, ma cercherò di fare del mio meglio per mettervi al corrente di ogni cosa», acconsentì, ricambiando la stretta. Ovviamente non gli aveva raccontato del carillon, né della musica che di tanto in tanto risuonava ancora tra i corridoi, durante la notte, e neppure del figlio dalla mente semplice dei signori Duncan che ormai non vedeva da diversi giorni e che l’aveva spaventata, durante il loro primo incontro; simili dettagli lo avrebbero soltanto messo in allarme, e preoccupare lui voleva dire far preoccupare anche suo padre, giacché Emma non aveva dubbi che le voci si sarebbero poi sparse a macchia d’olio. Aveva come l’impressione di essere il centro della preoccupazione di fin troppi uomini.
«Sapete, ho davvero sentito la vostra mancanza in queste settimane», continuò lui dopo un momento di silenzio, abbassando la voce come se ciò potesse rendere meno imbarazzante tale confessione.
Emma arrossì appena, allisciandosi delle pieghe inesistenti sul vestito mentre si sforzava di ricambiare lo sguardo dolorosamente sincero del suo fidanzato. «Cal…»
«No, vi prego. Fatemi finire», la supplicò con un mezzo sorriso. «Voi conoscete già i miei sentimenti, non dev’essere una sorpresa udirli. Quando mi hanno riferito che avreste trascorso il lutto in una residenza in campagna, lontana da tutti, lontana da me… Non nego che ciò mi abbia addolorato, Emma.»
«Non sono venuta qui per starvi lontana, Caledon», ribatté lei a mezza voce, e tuttavia con un tono severo. «Non oserei mai fare una cosa del genere, e sinceramente mi dispiace che ciò possa avervi offeso.»
«Non mi sono offeso. Il fatto è che mi sono sentito inutile... Credevo, forse troppo ingenuamente, che in questo periodo di dolore mi sarebbe stato permesso starvi accanto, confortarvi, essere il sostegno di cui potevate avere bisogno, e invece… Siete semplicemente sparita», le spiegò, più con un’aria triste e dispiaciuta che rancorosa. «Ora, lo so che il nostro rapporto è nato su basi forzate, ma io voglio che sappiate che per qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, io sarò al vostro fianco – non per giudicarvi, ma per sostenervi. Per cui, se c’è qualcosa che vi pesa e che sentite il bisogno di dirmi, fatelo, fatelo senza timore. Voglio solo il meglio per voi, Emma… Un giorno sarete mia moglie, sì, ma io sarò vostro marito. Sarò vostro, mi capite? Qualunque cosa succeda, io sarò la vostra roccia nella tempesta. Ecco, volevo solo dirvi questo», concluse, con un breve sospiro di sollievo. Sembrava che un simile discorso gli fosse costato particolarmente, ma era stato abbastanza eloquente da privare lei di qualsiasi replica.
Emma si limitò ad osservarlo, gli occhi inevitabilmente lucidi a causa di quella frettolosa confessione che non si era aspettata, e le mani che ancora stringevano con forza rinnovata quelle guantate dell’uomo, come se, in effetti, in esse avesse trovato il suo appiglio. Cercò di non commuoversi, e fu tremendamente difficile; ma riuscì a sorridergli, annuendo appena, e tanto parve bastare. «Vi ringrazio, Cal. Davvero, con tutto il cuore», mormorò, senza distogliere gli occhi dai suoi.
Egli annuì a sua volta, cercando di ricambiare il sorriso; non si era aspettato una risposta diversa da lei, in fondo, ma in quel momento la sua espressione era molto più significativa di qualsiasi dichiarazione d’amore. «Vi manderò un telegramma non appena raggiungo Inverness», le promise alla fine, alleggerendo l’atmosfera. Emma annuì, ancora frastornata, e rilasciò lentamente le mani del fidanzato, con un gesto che parve riluttante.
Forse fu quello che gli diede il coraggio necessario: prima di voltarsi e raggiungere la carrozza, Caledon si chinò su di lei e le posò le labbra sulla fronte, in un bacio delicato e nel quale indugiò a lungo, gli occhi socchiusi – assaporando quel gesto che lei gli aveva permesso senza discostarsi, ma anzi tendendosi un poco, oh, non molto, verso di lui. La sua pelle era tiepida e liscia, come seta, e sapeva vagamente di gelsomino.
Il momento rimase sospeso fin quando non si allontanarono, e Caledon si ricordò di avere degli spettatori. A quel punto le sorrise, si sfiorò il cappello in direzione delle domestiche e accennò un inchino verso di lei, per poi raggiungere la carrozza senza pronunciare una singola parola. Emma rimase ad osservarlo in silenzio, e restò sul portico fino a che la vettura guidata dal signor Duncan non scomparve dietro il primo angolo del vialetto tortuoso, tuffandosi nella fitta vegetazione selvaggia che pareva divorare metri di terreno nuovi di giorno in giorno, quasi che volesse raggiungere e inghiottire il castello.
Quando si voltò nuovamente verso il portico, si accorse che Lydia e la governante la stavano osservando in disparte, in attesa: Mrs. Duncan pareva avere un’espressione incerta e preoccupante, persa com’era in chissà quali pensieri, mentre la ragazza si limitava a torcersi le mani e a fissare un punto imprecisato del giardino, quasi attendendo disperatamente di venir congedata.
Con un sospiro, già dispiaciuta dell’essere stata lasciata ancora una volta sola con i domestici, Emma si incamminò verso il portone. «Se avete bisogno di me, signora Duncan, mi trovate in biblioteca», l’avvisò, precedendo le due domestiche all’interno della casa.
La governante annuì, accennando un inchino col capo. «Verrò da voi più tardi per farvi approvare il menù del pranzo, milady», fece; malgrado cercasse di non darlo a vedere, era palese che preferisse sapere la padrona di casa al sicuro in un’unica stanza – o, meglio, fuori dai piedi. Anche se doveva ammettere che, dopo la visita notturna della sua antica signora, il suo animo era assai più tranquillo – poteva contare che ci fosse sempre qualcuno a tenerla sotto controllo e lontana dalle grinfie dell’oscurità che permeava il maniero.
Ciò che non poté impedirsi di chiedersi, tuttavia, fu quando essa si sarebbe decisa a serrare gli artigli intorno alla giovane lady, spezzando la loro apparente quiete.



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Otto giorni dopo.

Il reverendo Randall Sibley, settantanove primavere, di Peterborough, era il personaggio più influente di Heatherfield. Di mente sorprendentemente aperta e pragmatica, usava prestarsi come confidente e consigliere in tutti i campi, poiché la sua raffinata istruzione ecclesiastica gli aveva permesso in più occasioni di utilizzare le sue conoscenze a favore di ciascuno dei parrocchiani – che, come egli stesso ammetteva con un umile sorriso, conosceva ad uno ad uno. Non vi erano segreti per lui, giacché era un uomo che, principalmente, ascoltava senza giudicare; e la sua fama era tale che talvolta venivano membri di altre parrocchie per scambiare con lui qualche parola e chiedere consiglio.
Egli sapeva chi frequentava la messa e chi la disertava, e con quale frequenza; dall’alto del suo pulpito in legno massello aveva una visuale perfetta di tutti i parrocchiani, dai contadini ai pastori, dal mercante alla sarta e dal becchino al cocchiere della diligenza. Fu anche per questo che notò subito le due presenze inattese, quella mattina: la chiesa era pressoché vuota, ovviamente – era pur sempre un lunedì – se si escludeva la presenza costante di una decina di vedove del villaggio che trascorrevano nella casa di Dio gran parte della giornata. Li osservò da dietro l’anonimato concesso dalla grata del confessionale, seguendoli con gli occhi mentre prendevano posto in una delle panche più appartate – in cerca come al solito di un angolo nascosto. Quella routine andava avanti da tre lustri, ormai: tutti gli anni, il ventiquattro di ottobre, il signore e la signora Duncan varcavano la soglia dell’unica chiesa di Heatherfield per pregare, poi accendevano un cero in memoria di coloro che vennero uccisi nella terribile tragedia del maniero e se ne andavano nuovamente, con la tacita promessa di ritornare per il medesimo appuntamento l’anno seguente.
Da qualche tempo a quella parte, inoltre, il reverendo aveva notato che i due custodi parevano cercare di evitarlo il più possibile: e generalmente riuscivano anche nel loro intento, visto che l’anniversario di solito cadeva in qualche giornata festiva o in qualche domenica. Stavolta tuttavia avevano avuto la sfortuna di trovare la chiesa vuota, e con essa la possibilità che padre Randall li raggiungesse era notevolmente alta; probabilmente era per quello che i due coniugi si stavano guardando nervosamente intorno, timorosi forse di vederselo piombare alle spalle come un avvoltoio affamato.
L’uomo li spiò ancora un poco, pensieroso; com’era ovvio, sapeva che Pemberley ora ospitava due nuove inquiline, e trovò strano che esse non fossero venute a loro volta in chiesa. Certo, visto il loro status sociale era possibile che appartenessero a un’altra confessione religiosa, ma perché preferire la solitudine del castello alla possibilità di passeggiare nel villaggio e nella campagna circostante, e di fare la conoscenza con i paesani? Probabilmente, conoscendo Mrs. Duncan, tale invito non era neanche stato esteso alla giovane lady; e quest’ultima, in tutta ingenuità e buona fede, aveva dato loro il permesso di assentarsi dal loro luogo di lavoro per un giorno e una notte interi senza neanche avanzare qualche perplessità. Se solo avesse già avuto modo di conoscere questa misteriosa lady Moore che nessuno aveva mai neanche veduto in faccia, se si escludeva quello sciocco del dottor Carew, allora avrebbe anche potuto presentarsi a Pemberley con una scusa qualsiasi, ma così… Non poteva lasciare che una sua preoccupazione prendesse in tal modo il sopravvento sulle buone maniere e sulla delicatezza che doveva avere nei confronti di ciascuno dei suoi parrocchiani.
Comunque il rapporto che aveva con i Duncan era di ben altra natura, e andava oltre il semplice legame tra confessore e confessante; oltre a conoscerli da prima che si sposassero – cerimonia che aveva, peraltro, celebrato egli stesso – avevano faccende in comune di cui era bene di tanto in tanto discutere. Per questo motivo, aprì silenziosamente la porticina del confessionale e attraversò la chiesa deserta, raggiungendoli così in fretta che, quando infine si accorsero della sua presenza con un pallore che andava accentuandosi sui loro volti, era ormai troppo tardi per alzarsi e andarsene indisturbati.
«Buongiorno, Margareth. Randolph», li salutò a mezza voce, prendendo posto accanto a loro con assoluta noncuranza. La donna si mosse a disagio sulla panca, ma riconobbe la sua presenza con un breve e secco cenno del capo che venne subito imitato dal marito.
Il reverendo dovette trattenere un sospiro d’impazienza. «Sono lieto che abbiate deciso di farmi visita ancora una volta», proseguì, puntando lo sguardo sull’altare e giungendo le mani in grembo. «Mi fa piacere scambiare qualche parola con voi, sapete. Ed è una fortuna che non mi abbiate trovato impegnato in una delle funzioni, così posso dedicarmi interamente a voi.»
Mrs. Duncan sembrava decisa a portare avanti il suo testardo silenzio, ma l’anziano pastore non era uomo che si lasciava intimidire e scoraggiare con così poco. «Che cosa sta succedendo su a Pemberley, signora Duncan?» Aggiunse quindi, abbassando ulteriormente il tono di voce e spostando stavolta lo sguardo sui due custodi che si ostinavano – o almeno ci provavano – a ignorarlo. «Sapete bene che ho a cuore il vostro bene e quello del nostro comune amico, e gradirei se queste vostre brevi visite fossero devolute a mettermi a parte di ciò che avviene tra quelle mura. Soprattutto adesso, che vi sono nuovi pezzi nella scacchiera.»
A quel punto per Mrs. Duncan fu impossibile continuare a tacere. «Padre, vi prego, non chiedete. Avete cessato di avere il diritto di sapere quanto avviene al castello nel momento in cui ci avete lasciati al nostro destino», ribatté seccamente, senza distogliere gli occhi dall’altare.
«Non insultate la mia intelligenza, Margareth. Sapete bene che non c’è molto che io possa fare, se l’anima da salvare non vuole essere salvata», replicò egli con forza, trattenendosi dal picchiare il pugno contro la panca in legno. «Egli sa che può venire da me ogni volta che desidera, eppure sono trascorsi anni dalla sua ultima visita. Per questo motivo, se avete a cuore il suo benessere, voi mi direte che cosa sta macchinando!»
Fu il signor Duncan allora a prendere la parola, per la prima volta durante quell’incontro. «Vi prego di non rivolgervi in quel modo a mia moglie, padre, perché come vi ha già detto noi non vi dobbiamo niente», mormorò con la sua voce grossa e rauca. «Se vi fosse interessato davvero di noi e del vostro pupillo avreste tanto per cominciare potuto impedire che il padre lo vendesse a quella specie di squilibrato…»
La donna si guardò intorno con aria agitata, temendo che quella conversazione potesse essere udita da orecchie indiscrete, e rilassandosi leggermente non appena si fu resa conto che nella chiesa non erano rimasti che loro, ormai. «Questo non è in assoluto il luogo adatto per discuterne», intervenne nervosa, mettendo a tacere il marito e attirando lo sguardo del reverendo. «Padre Randall, avete avuto la vostra occasione. Ma il passato non si può cambiare, e se davvero vi importa di noi come dite, allora non vi impiccerete più di ciò che avviene al castello. Io e Dolph abbiamo la situazione sotto controllo», concluse, con un tono severo che non ammetteva repliche.
Ciò detto si alzò in piedi, e i due uomini si alzarono d’istinto a loro volta in memoria delle buone maniere. «Dunque, buona giornata», aggiunse, per poi prendere sotto braccio il marito e dirigersi frettolosamente verso l’uscita. Il reverendo Sibley rimase a guardarli, assorto, mentre un vago senso di inquietudine prendeva a farsi largo nel suo spirito: adesso aveva praticamente la certezza che a Pemberley ci fosse qualcosa che non andava – se c’era qualcosa di cui era capace, era leggere negli animi delle persone. Doveva solo scoprire che cosa.
Dal canto loro, i Duncan non avevano nessuna intenzione di lasciare che un altro estraneo si intromettesse nelle loro faccende. Erano scesi a Heatherfield come facevano ogni anno, nell’anniversario della tragedia, solo per poter rimanere lontani dal maniero in attesa che tutto fosse passato: l’esperienza gli aveva infatti insegnato che era meglio stare lontani da Pemberley in quella lugubre notte. Purtroppo, e questa era anche una delle ragioni che avevano spinto l’anziana governante ad andare in chiesa, quella mattina, non aveva potuto far niente per avvisare lady Emma e la sua istitutrice: non le avrebbero mai creduto, e con quale coraggio lei avrebbe potuto disubbidire così agli ordini degli abitanti del castello?



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Dodici rintocchi di un orologio a pendolo risuonarono sordi da qualche parte intorno a lei, strappandola alle spire di un sonno senza sogni. Era la prima volta che li udiva, e nel dormiveglia era indecisa se attribuirli alla realtà o a qualche rimasuglio onirico; nel dubbio, visto che ormai s’era svegliata, spostò le coperte da un lato e si mise a sedere sul letto, tendendo l’orecchio con attenzione per accertarsi che i rintocchi fossero cessati.
La camera, com’era ovvio, era immersa nel buio: dovette cercare a tentoni la lampada a gas sul comodino, per accenderla maldestramente finché la debole fiammella non rischiarò l’ambiente. C’era qualcosa di strano nell’aria, un’atmosfera di attesa, il presentimento che qualcosa dovesse accadere da un momento all’altro. Ogni rumore pareva essere stato risucchiato dalle pareti mentre il castello rimaneva immobile, in un silenzio ovattato, trattenendo il respiro, pronto all’esplosione.
Perfino il vento sembrava essere cessato, e dall’esterno non proveniva neanche più il frinire cantilenante dei grilli. Tutto taceva, in modo così definitivo che si sarebbe potuto udire un ragno tessere la tela.
Quel silenzio era spaventoso.
E poi, così com’era giunta, la quiete cessò: i comuni rumori della sera ripresero, sotto forma di scricchiolii del legno, di fruscii leggeri e del frullio d’ali di uccelli notturni. Perplessa, Emma rimase seduta, tendendo l’orecchio verso la porta, sperando quasi di udire bussare da un momento all’altro per poi osservare il viso assonnato e stanco di Mrs. Duncan e udire la sua voce rassicurarla sul fatto che non vi fosse nulla di cui avere paura, e che i rumori che aveva udito li avevano fatti loro rientrando nel maniero. Ma ciò non accadde; e prima che potesse capire cosa stesse accadendo, una forza estranea, invisibile, l’attirò verso sé al pari del serpente che esce ondeggiando dalla cesta al suono del flauto del proprio padrone, ed Emma si ritrovò trascinata lontano dal letto, verso la porta della camera, e poi fuori, nel freddo corridoio, non completamente in controllo del proprio corpo. Non sapeva dove stava andando, non sapeva neanche perché si stesse muovendo, ma al momento la sua mente era annebbiata da una volontà estranea e non era abbastanza lucida da mettere in discussione l’urgenza della sua passeggiata notturna.
Si ritrovò così a percorrere l’intero corridoio fino a raggiungere l’estremità opposta, laddove Caledon aveva riposato solo qualche notte prima, e che adesso era misteriosamente illuminato come se qualcuno fosse appena passato ad accendere tutte le candele. Una delle porte era stata lasciata socchiusa – altra stranezza che Emma non si premurò di registrare subito – e d’istinto la sua mano scivolò sulla maniglia, spingendola in avanti per spalancare l’uscio e affacciarsi all’interno di una camera da letto esageratamente illuminata, con suppellettili bianche e dorate e pizzo in ogni angolo, avvolta dal fumo inodore di centinaia di candele
Incuriosita si guardò intorno, avanzando di qualche passo e cercando di ignorare la sgradevole sensazione di estemporaneità che emanava ogni oggetto della camera – finché una voce improvvisa non la gelò sul posto.
«Anne?»
Emma si bloccò sulla soglia della porta, sorpresa e incerta, poiché nell’entrare nella stanza non aveva notato alcuna donna. «Chi siete voi? Come siete entrata qui?»
La sconosciuta – adesso la vedeva bene – non la degnò di una risposta. Si alzò velocemente dallo sgabellino dello scrittoio, pallida e spaventata, con i capelli biondi scarmigliati e raccolti in una treccia – segno che stava per andare a letto – e si diresse verso di lei talmente tanto in fretta, come se scivolasse incorporea sul pavimento, che Emma indietreggiò d’istinto, spostandosi dalla sua traiettoria.
«Anne?» Continuò a chiamare, con un tono sempre più urgente. Si voltò di scatto verso Emma, e i loro occhi si scontrarono per un breve istante – eppure la sconosciuta sembrava non vederla, come se fosse in trance, o cieca. Il momento passò e la ragazza allungò una mano verso il pomello della porta, ruotandolo fino a farlo scattare e spalancare l’uscio: si precipitò nel corridoio come se stesse fuggendo dal diavolo in persona, con il nome di quella Anne ancora sulle labbra.
Rimase per un attimo indecisa sul da farsi – sarebbe stato più saggio rinchiudersi nella sua stanza, senza alcun dubbio, ma chi diavolo era quella donna che si aggirava per il maniero nel cuore della notte? – e alla fine optò per andarle dietro, non fosse che per scoprire come diavolo aveva fatto ad entrare a Pemberley.
Non dovette inseguirla per molto: la trovò poco dopo, inginocchiata in mezzo al corridoio sopra quello che doveva essere – buon Dio, no, non è possibile – un cadavere, immerso in una pozza di sangue.
«Dio mio, Anne», stava singhiozzando.
Emma era talmente sconvolta che rimase immobile a pochi metri da lei, pietrificata, incapace di distogliere lo sguardo da quell’orrendo spettacolo e ancor meno abile di comprendere qualcosa. Nello sforzo di trattenere il grido che premeva contro la sua gola per uscire, si lasciò scappare un gemito, e ciò fu sufficiente per attirare su di sé l’attenzione della sconosciuta.
«Guarda!» Strillò quest’ultima, il volto furioso rigato di lacrime e le braccia allungate verso di lei a mostrarle le mani macchiate di sangue. «Guarda che cosa ci ha fatto!»
In che razza di incubo era finita? Cercò di indietreggiare, terrorizzata, ma la sua fuga si interruppe quando la sua schiena si scontrò con un corpo, e due mani forti – incredibilmente forti – si strinsero sulle sue braccia, facendola voltare bruscamente e costringendola a guardare il nuovo intruso.
«Già, guarda che cosa ci ha fatto», ripeté lui, con un sibilo gorgogliante che pareva giungere dalle profondità stesse dell’inferno. Gli occhi di Emma vennero inevitabilmente attratti dal sangue che colava copioso da una larga ferita che gli apriva la gola da parte a parte, e andava a inzuppare un elegante completo scuro, da sera, come se l’essere – buon Dio, Emma non aveva idea di come chiamarlo – avesse appena partecipato alla cena del diavolo. Fu quella vista a farla strillare come non aveva mai fatto in vita sua, e persino lui dovette esserne sorpreso, perché rilasciò la presa sulle sue spalle talmente all’improvviso che lei crollò per terra, incapace di reggersi ancora in piedi.
Anche così, però, non si arrese – rimanere ferma tra quei folli era la cosa più sbagliata che potesse fare, così cercò di allontanarsene, strisciando a fatica sopra il tappeto che ricopriva l’andito, i piedi annodati nella stoffa della sua ingombrante camicia da notte. Respirava a fatica, con la bocca aperta, inghiottendo lacrime e gemiti; il cuore le batteva talmente forte che pareva di udire i rimbombi dei tuoni prima di un temporale, e sperò terrorizzata di resistere e non perdere i sensi fin quando non avesse trovato un luogo sicuro dove nascondersi in attesa del mattino, quando i signori Duncan sarebbero tornati alla tenuta.
Riuscì a raggiungere le scale, e lì si rizzò in piedi a fatica aggrappandosi al corrimano: dopodiché volse le spalle a quell’orrido spettacolo – forse nella vana speranza che potesse scomparire una volta che ne avesse distolto lo sguardo – e si precipitò giù per le due dozzine di gradini così velocemente che sarebbe bastato mettere un piede in fallo per cadere e rompersi l’osso del collo.
Senza ben sapere perché, d’impulso si diresse in biblioteca – come se quello potesse essere il luogo più sicuro di tutto il maniero. Attraversando corridoi e gallerie si accorse che ogni candela era stata accesa – da chi, per l’amor di Dio? – e ogni angolo del castello era illuminato a giorno da migliaia di piccole fiammelle: stranamente, questa luce non la rassicurò per niente, anzi, ebbe l’effetto contrario di accrescere il suo terrore. I domestici non erano in casa, dunque chi diavolo si era preso la briga di accendere ogni singolo candelabro?
Senza fiato per la paura e per la corsa, Emma si fermò davanti all’ingresso della biblioteca. Si aggrappò alla maniglia d’ottone come se fosse stata la sua ancora di salvezza e spalancò di scatto la porta, precipitandosi all’interno dell’immensa sala certa – o meglio, speranzosa – di poter essere al sicuro dalle terribili creature che vagavano al piano di sopra. Ma quando tuttavia aprì gli occhi su quello che sarebbe dovuto essere il suo porto sicuro, Emma trattenne il fiato, sconvolta, e si portò le mani a tapparsi la bocca per seppellire l’ennesimo grido.
Oh Dio, ti supplico, pregò silenziosamente, tra le lacrime, fa’ che sia solo un sogno. Fammi risvegliare!
Davanti a lei si era presentato un incubo di fiamme e disfacimento. Un terribile incendio divampava dappertutto – il fuoco divorava implacabile mobilio e suppellettili, facendo schizzare scintille in ogni angolo della stanza, e il fumo acre saliva in nere e pesanti volute fino al soffitto a volta, rendendo l’aria irrespirabile.
Gli occhi di Emma saettarono da una parte all’altra della biblioteca, increduli e terrorizzati; l’intera situazione era a tal punto fuori dall’ordinario che la fanciulla non riuscì neanche a pensare a una soluzione per porre fine a quell’inferno. E, dopotutto, che cosa avrebbe potuto fare da sola? Miss Radcliffe era ancora impossibilitata a muoversi, e nel castello non c’era anima viva a cui chiedere aiuto; forse, se fosse riuscita a raggiungere le cucine e a prendere qualche secchio d’acqua… Ma prima sarebbe dovuta scampare al fuoco.
«Non verrà nessuno a salvarti.» Una voce sconosciuta, mai udita prima, si levò al di sopra del crepitio delle fiamme, facendola sussultare. Apparteneva a un giovane elegantemente vestito che la fissava dal lato opposto della sala, ritto contro una colonna del camino, il viso ancora in ombra, nascosto alla sua vista.
«Chi siete?» Domandò Emma, tremante, cercando di aggrapparsi a quel breve barlume di realtà. «Come avete fatto ad entrare? Chiamate aiuto, vi prego! La mia istitutrice…»
Le parole le morirono bruscamente in gola quando egli iniziò ad avvicinarsi, lentamente, e lei poté iniziare a distinguere vari dettagli che prima le erano sfuggiti: il suo abbigliamento era sì ricco ed elegante, ma vecchio, impolverato, e fuori tempo; i polsini e il colletto della camicia erano ingialliti, e attraverso la giacca aperta si vedeva chiaramente la macchia scura che gli inzuppava il panciotto, nonché lo squarcio che partiva dallo sterno all’ombelico e che denudava persino la carne mutilata.
Emma non riuscì neanche più ad urlare; si limitò a fissarlo, agghiacciata, senza staccare gli occhi da lui e lasciandosi sfuggire il lento e inquietante sorriso che prese forma sulle sue labbra livide.
«Sei spaventata, fanciulla?» Chiese il giovane, andando a sedersi con noncuranza su una delle poltrone circondate dalle fiamme. Lei non rispose, pietrificata dal macabro spettacolo cui i suoi occhi erano obbligati ad assistere – il fuoco, come se non stesse aspettando occasione migliore, avviluppò il giovane trasformandolo in una torcia umana, eppure non un gemito provenne da lui, non un grido, non un richiamo d’aiuto.
Soltanto un’ennesima battuta sarcastica, una voce cupa proveniente da dentro le fiamme, un assaggio di inferno. «Dovresti esserlo. È saggio avere paura.»
Il grido che eruppe dalle sue labbra fu talmente forte e improvviso da indolenzirle le orecchie. Malgrado fosse paralizzata dallo spavento cercò di indietreggiare, allontanandosi dall’oscena visione sulla poltrona che aveva iniziato persino ad emanare un puzzo di carne bruciata, ma si accorse che era impossibile: le fiamme avevano iniziato a circondarla, qualche lingua di fuoco le aveva lambito la camicia da notte, e il calore era asfissiante, intollerabile. Strillò ancora, senza fiato, strillò fin quando non riuscì più a udire la sua stessa voce e la gola prese a dolerle dallo sforzo. Il fumo le aveva invaso la bocca, inaridendola, e gli occhi, facendoli lacrimare: Emma credette che sarebbe morta lì e ora, senza più rivedere suo padre, o miss Radcliffe, o Caledon. Per un attimo, stranamente – doveva essere il suo inconscio che si faceva beffe di lei – tale pensiero la riempì di sollievo: non si sarebbe dovuta sposare, in quel modo, sarebbe stata libera.
Ma a quale prezzo? Poteva forse recare un tale dolore a suo padre, a Caledon persino?
No, decise, guardandosi intorno con gli occhi sgranati, tossendo per liberare i polmoni da quel soffocante e acre miasma. No, non sarebbe morta. Non così, non adesso!
Eppure il suo corpo gridava pietà dal dolore, nello sforzo di respirare attraverso il fumo e di mantenerla sveglia, di non farla crollare; la gola bruciava a ogni colpo di tosse e ormai aveva l’impressione di avere cenere dappertutto, tra i capelli e tra i lembi della propria veste da notte. Cercò di tornare indietro, di raggiungere di nuovo la porta, ma le fiamme la circondavano da ogni lato e parevano volerla volontariamente imprigionare: non aveva più alcuna via di scampo.
In quel caos infernale avvertì l’esatto momento in cui il proprio corpo ebbe deciso di abbandonarla; lunghi tremiti le percorsero le gambe, un sottile velo di sudore gelido le ricoprì la pelle e il cuore accelerò al punto da sentirselo quasi premere sulla gola, portandole via il già debole respiro. Benché la sua mente desiderasse con tutte le sue forze lottare per farla rimanere sveglia, il suo fisico non le fu d’aiuto. Si sentì crollare su se’ stessa come un burattino al quale delle forbici crudeli avessero tagliato bruscamente i fili, e sarebbe rovinata sul pavimento come un corpo morto se qualcosa – qualcuno? – non avesse frenato la sua caduta.
Fece appena in tempo a rendersi conto che erano state due braccia ad avvolgersi intorno a lei con una presa solida e decisa, prima di perdere definitivamente i sensi.












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Note.
- Mére du Soleil: L'ho tradotta in francese perché la bambinaia era francese, ma in realtà questa è una cosa che mia nonna mi raccontava da piccola per non farmi uscire fuori casa di pomeriggio, in estate - probabilmente perché c'era troppo caldo e non voleva farmi venire un'insolazione. Diceva che "la mamma del sole" mi avrebbe portato via, perché era cattiva eccetera, e che di solito si manifestava nelle api - ah, cara vecchia saggezza popolare - e quindi, niente, mi convinceva a stare dentro casa. L'ho trovata una cosa carina da aggiungere, fa molto "tempi antichi", no?
- Il titolo del capitolo è un palese riferimento alla strofa di una canzone del musical The Phantom of the Opera.

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Angolo Autrice.
Lo sentite questo profumo? E' il profumo di un capitolo appena aggiornato! xD
Comunque, visto che siamo da parecchio senza sentirci, innanzitutto, bentornate! E, a chi tra voi è appena giunto su questi lidi, benvenuto! Aah, sono tanto contenta di essere tornata con un nuovo capitolo *_* Ovviamente, se sono riuscita a pubblicare entro quest'estate, dovete andare a ringraziare la mia cara Christine23, che mi ha minacc- pardon, volevo dire, ispirato ad andare avanti. u_u
Parlando di cose serie: anche se questa storia si trova nella categoria Noir, devo ammettere che è in assoluto la prima volta che cerco di scrivere qualcosa con dei temi così dark e misteriosi eccetera, e man mano che si va avanti con la narrazione in teoria "the darkness" dovrebbe crescere e crescere... Ma siccome sono alle prime armi, ecco, voglio farvi sapere che accetto consigli di tutte le nature e che, anzi, qualsiasi cosa possiate dirmi per indirizzare verso quel genere la mia scrittura è ben accetto, ecco! Detto ciò, spero che l'ultima parte del capitolo sia stata tutto sommato di vostro gradimento - personalmente è la parte che preferisco, ne sono molto orgogliosa in verità. *_*
Non ho granché da aggiungere: se avete dubbi o domande sentitevi liberi di farmele! Lo so che non ho mai tempo per rispondere alle recensioni, ma ho facebook sempre aperto, per cui se volete venire a trovarmi direttamente lì siete tutti i benvenuti. :)
E ora, una promessa: nel prossimo capitolo faremo finalmente la conoscenza della "Bestia"! Lo so che non vedevate l'ora ù__ù
Bene, con la speranza di essere all'altezza delle vostre aspettative, vi lascio! Ovviamente ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Figlia di una Guerriera, Jolly J, Eva7, Berserksgangr, Sylphs e Se7f - le vostre recensioni sono una più bella dell'altra, siete splendide et meravigliose e non so davvero che cosa farei senza di voi! *___* E un grazie grande grande come sempre va anche a voi che seguite silenziosi, miei cari lettori *_* Lo so che ci siete, anche se fate i timidi. ù_ù
E ora, bon! Si va a cena :D Buon proseguimento di serata, buone vacanze e tante care cose! Ci sentiamo al prossimo aggiornamento ;)
Vostra, come al solito
Niglia.
   
 
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