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Autore: Framboise    31/07/2014    8 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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CAPITOLO 9:


Eufemia era seduta sul vecchio muretto di mattoni di una cascina abbandonata poco fuori dalla città. Nonostante il vento freddo che a tratti soffiava, sollevando la polvere della strada, il sole splendeva nel cielo, illuminando i campi circostanti. Dal suo punto di osservazione, la ragazza poteva vedere i contadini che camminavano lentamente dietro all’aratro trascinato dai buoi. Le loro case erano scampate all’iniziale distruzione portata dai nemici quando avevano attaccato il Comune. A questo pensiero, Femia si morse il labbro inferiore, pensierosa. I primi giorni della licenza erano stati un sollievo, doveva ammetterlo: dopo un anno di combattimenti, trovarsi lontano dal campo di battaglia e non rischiare la vita ogni giorno avevano nettamente rialzato il morale delle truppe, sia nei veterani che nelle nuove reclute. Il cambiamento più radicale era senza dubbio quello di Antonio. Lontano dalla guerra, sembrava un’altra persona: quel ragazzo sempre impaurito, pallido e nervoso si era trasformato in una giovane tranquillo ed allegro, che talvolta sorprendeva i suoi commilitoni con un commento serio o con una battuta salace. Molti di loro, abituati a considerarlo quasi alla stregua di un bambino spaventato, sembravano rendersi conto per la prima volta che in realtà era un uomo. “Decisamente la vita del militare non fa per lui. Chissà perché si è unito ai mercenari... forse la sua famiglia era in cerca di onore, o magari immaginava un futuro di gloria e di ricchezza” ragionò lei, ricordando i suoi occhi stralunati dopo la prima battaglia. Certamente in breve tempo doveva aver capito che le sue speranze erano del tutto infondate...
Certo, quello non era il suo caso. Sapeva che avrebbe dovuto essere felice per la tregua. Il sollievo era l’unico sentimento ragionevole... d’altronde, la guerra comportava solo sangue e morte, se ne era resa conto da molto tempo. Nonostante l’iniziale gioia che aveva provato nei primi giorni del suo ritorno in città, però, cominciava a provare una strana sensazione, un’irrequietezza che non sapeva spiegarsi. Era come se avesse nostalgia della battaglia. Le sembrava assurdo, ma sentiva che il suo posto era lì, in mezzo ai combattimenti ed agli assedi. Sapeva che non sarebbe più tornata alla vita civile, dopo aver provato la libertà di poter decidere da sola cosa fare della sua vita, ma rendersi conto che le mancavano gli scontri la metteva a disagio. Era un pensiero che la tormentava da qualche tempo a quella parte: ogni volta che ci pensava, si sentiva irrimediabilmente sbagliata, crudele.

Mentre era immersa in questi pensieri, un uomo la raggiunse e si sedette accanto a lei.
«Ciao, Lodovico. Ecco dov’è che sparisci, la mattina...»
La ragazza sobbalzò e si voltò, trovandosi faccia a faccia con Wiligelmo. Nel vederlo, si tranquillizzò e gli sorrise.
«Sì, di solito vengo qui. Non c’è mai nessuno, a volte è bello stare da soli».
«Hai ragione, però sono preoccupato. Da quando hai seguito quella ragazza, quella sera in città, mi sembri strano. La conoscevi?»
«Sì. È mia sorella, volevo parlarle. Sai, non eravamo molto... uniti, quando vivevamo insieme, ma volevo sapere se lei e mio padre stavano bene. È stato strano rivederla, dopo tanto tempo. Come mai mi hai fermato, quando volevo seguirla?»
«A volte, quando sono in licenza, i soldati si lasciano andare ad azioni ignobili. Cerco sempre di evitare che finiscano nei guai, o che facciano qualcosa di male. La nostra reputazione non è delle migliori, non vorrei aggravare la situazione» replicò il falconiere, con espressione grave.
«Pensavi davvero che avrei fatto qualcosa del genere?» gli domandò la ragazza, sconvolta.
«In realtà no, so che non sei il tipo, ma non si sa mai. Un giorno un mio commilitone, una brav’uomo che non aveva mai dato problemi, nel tornare a casa in licenza scoprì che la sua fidanzata durante la guerra aveva sposato un altro. Quella notte stessa cercò di entrare in casa loro, armato. Se io ed un altro soldato ci fossimo accorti della sua assenza e non l’avessimo fermato in tempo, non so cosa avrebbe potuto fare... o forse lo so fin troppo bene» spiegò lui.
«Santo cielo. Non preoccuparti, io non ho promesse spose da cui tornare, quindi non rischio brutte sorprese. Anche la mia famiglia sta bene e gli affari vanno a gonfie vele, quindi non rischio di fare qualcosa di sconsiderato».
I due rimasero seduti per un po’ in silenzio, poi improvvisamente la ragazza parlò.
«Wiligelmo... posso chiederti una cosa?»
«Certo».
«Probabilmente penserai che sono impazzito e forse è così. Mi sembra quasi che la guerra mi manchi. Non so come spiegarlo... non è che mi piaccia uccidere o qualcosa di simile, ma è come se quello che facevo prima di arruolarmi, tutto ciò che mi sembrava importante, adesso non lo sia più così tanto. Com’è possibile? So che dovrei essere felice per la tregua, ma non so se riuscirò a tornare alla mia vita di prima, quando gli scontri finiranno» raccontò Eufemia in un fiato, confidandogli i suoi pensieri di quei giorni e ciò che provava. Le costava molto esporsi in quel modo, ma allo stesso tempo le sembrava di liberarsi di un peso che la opprimeva da qualche tempo. Il falconiere la ascoltò attentamente, poi le sorrise con dolcezza.
«Non stai impazzendo, Lodovico. Certo, tutti dicono che la guerra è terribile, ma chi non l’ha mai provata non può capire che è qualcosa che ti cambia e che ti resta dentro. C’è chi, durante i combattimenti, non vede l’ora di poter tornare a condurre una vita tranquilla e senza pericoli, tu invece evidentemente sei una di quelle persone nate per combattere. È normale che ciò di cui ti occupavi prima ora ti sembri insignificante: ora che hai trovato il tuo posto, riesci forse ad immaginare di tornare indietro, o di fare qualcosa di diverso?»
«No...»
«Capisci? È ciò che ti stavo spiegando. Semplicemente, ci sono uomini che non sono fatti per combattere ed altri che invece hanno la battaglia nel sangue: tu sei uno di questi ultimi. Questo non vuol dire che tu sia pazzo. Agilulf, per esempio, inizialmente non era questo tipo di persona: lo è diventato con il tempo. Ruggero invece sì, lo è» terminò Wiligelmo, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
«Mi stai forse paragonando a lui?» domandò irritata la ragazza.
«No. So che lo odi e posso capirti, perché nemmeno a me piace particolarmente, ma devi ammettere che è un ottimo soldato e che il suo intervento spesso è stato decisivo per la vittoria».
Eufemia cercò di ribattere, ma alla fine rinunciò. Sapeva che l’uomo aveva ragione, anche se riconoscerlo la infastidiva. In quel momento, i due udirono un rumore di passi dietro di loro: era Alois, che li raggiunse e si lasciò cadere sul muretto.
«Disturbo voi?»
«Sembra che ormai abbiamo usurpato la tua tranquillità, Lodovico. Dovrai cercarti un altro posto per stare da solo, temo» rise il falconiere.
«Credo che tu abbia ragione. Non ci sono più posti in cui possa pensare in pace!» sospirò teatralmente lei, con un mezzo sorriso.

«Di che cosa stavate parlando tu e Wiligelmo, quando io arrivavo?» domandò Alois a Femia, mentre tornavano in città. Ormai stava facendo buio, e i due camminavano fianco a fianco sulla strada deserta. Il falconiere aveva fatto ritorno prima di loro, perché doveva discutere con il capitano di alcune faccende relative alla fine della tregua, che si avvicinava sempre di più.
«In realtà si dice “quando io sono arrivato”. Comunque mi aveva solamente chiesto chi è quella ragazza con cui ho parlato qualche giorno fa, quindi gli ho spiegato che è mia sorella Maria» replicò lei. Nonostante si fidasse dell’amico, preferiva non raccontargli il resto della conversazione: sentiva che era qualcosa di personale, che voleva tenere per sé.
«Capisco. Lei ti mancava, giusto?»
Sì... un po’. Ero preoccupato per lei e per mio padre, volevo sapere come se la passavano» rispose la ragazza, dopo pochi secondi di silenzio. «Tu invece hai una famiglia? Non me ne hai mai parlato» gli domandò poi. Si era improvvisamente resa conto che, nonostante avessero combattuto insieme per più di un anno, sapeva poco o niente del passato dell’amico. Le poche volte che avevano affrontato l’argomento con i propri compagni d’arme, c’erano alcuni di loro che sembravano non vedere l’ora di parlare della famiglia che avevano lasciato, invece lui spesso aveva borbottato qualcosa di inintelligibile e subito aveva cambiato argomento. Naturalmente non era l’unico e in questi casi gli altri non insistevano mai, perché sapevano che per alcuni uomini quello era un argomento delicato: c’era chi aveva perso tutti i propri famigliari a causa di una razzia dei nemici o di un’epidemia, chi era stato tradito dalla moglie, chi aveva visto un figlio morire di fame per le tasse troppo alte imposte da un signore desideroso di finanziare la propria guerra.
«Io... ho due sorelle, lontano da qui. Loro vivono nell’Impero» disse lentamente lui, facendo un vago cenno con la mano per indicare il nord. «Hanno marito, figli che sono miei... nipoti
«Sì, nipoti» confermò Femia, guardandolo interrogativa. Il ragazzo sembrava voler aggiungere dell’altro, ma doveva essere qualcosa di spiacevole, perché fece una smorfia ed abbassò lo sguardo.
«Avevo anche un fratello, lui si chiamava Karl. Nostro padre era morto e noi ci unimmo ai mercenari per portare soldi a nostra famiglia, ma lui... non voleva combattere. Ci provava, ma era come Antonio: le battaglie lo spaventavano. Un giorno scappò, ma lo ritrovarono. Venne giustiziato, perché era disertore. Non potevo fare niente... avevo detto lui di non farlo, ma non mi aveva ascoltato» raccontò, con voce spezzata.
La ragazza si morse il labbro. Non sapeva cosa fare: era Wiligelmo la persona adatta a consolare le persone, non lei. Le sembrava allo stesso tempo strano ed orribile vedere Alois, di solito allegro e tranquillo in modo rassicurante, lottare per trattenere le lacrime. Si avvicinò a lui e gli appoggiò goffamente le mani sulle spalle.
«Alois, ascoltami. Lo so che gli volevi bene, ma ciò che gli è successo è solo colpa sua e lo sai. Non potevi fare altro: anche se l’avessi fermato quella volta, ci avrebbe provato di nuovo. Era giovane e spaventato. Non era cattivo, ma ha fatto la sua scelta ed ha pagato» disse, scrollandolo leggermente. « Io avevo un’altra sorella, Violante. Era una monaca... da quando era andata in convento, la vedevo pochissime volte. Mi mancava molto. Un giorno, quando ero andato a trovarla, mi dissero che era malata e che non poteva vedere nessuno. Poco dopo morì... non sapevo cosa fare. Avevamo un rapporto molto stretto, le volevo molto bene. Anche Maria ha sofferto molto quando Violante è morta. Avrei voluto fare qualcosa per lei, ma non potevo certo prendere il posto di nostra sorella».
“Perché gli sto raccontando queste cose?” si chiese. Non le aveva mai confidate a nessuno, prima. Forse era solo per distoglierlo dal pensiero di suo fratello, per mostrargli che in qualche modo che poteva capirlo, anche se le loro esperienze non potevano essere più diverse. “E pensare che non volevo più confidarmi con nessuno... devo fare attenzione. Non devo rivelare troppo, rischio di farmi scoprire».
Il ragazzo la guardò, più tranquillo.
«Mi dispiace per tua sorella» mormorò.
«Grazie. Anche a me dispiace per Karl» replicò Eufemia con inconsueta dolcezza.
Poco dopo, i due si rimisero in cammino verso il centro della città, fianco a fianco.

La tregua era terminata. Gli eserciti di entrambi i Comuni da qualche tempo avevano cominciato a muoversi, elaborando nuove tattiche. L’armata guidata da Agilulf avanzava in silenzio in un bosco, costeggiando un fiume. I capitani dei vari plotoni avevano deciso che la strategia migliore per vincere la battaglia era quella di accerchiare i contingenti nemici, per questo molti gruppi di soldati erano in viaggio per raggiungere le posizioni concordate in precedenza. I mercenari si muovevano cauti, tendendo l’orecchio per udire eventuali suoni che tradissero la presenza dei nemici, ma non si sentiva niente se non il rumore dei loro passi e quello dell’acqua che scorreva poco distante. Sembrava tutto tranquillo, ma ad un tratto si udirono delle grida e dei soldati caddero a terra, colpiti da delle frecce. I mercenari impugnarono subito le armi per difendersi, ma all’improvviso i loro avversari uscirono dal folto del bosco, circondandoli completamente. Qualcuno doveva aver intuito i loro piani, o forse tra di loro c’era un traditore, ma non c’era tempo per pensare a ciò che poteva aver causato l’imboscata: bisognava rompere l’accerchiamento e tentare di chiamare dei rinforzi. Femia brandì la propria spada, abbattendola poi con forza addosso ad un uomo che la stava per colpire. I due ingaggiarono subito uno scontro. Combattere nel folto del bosco era difficile: i rami ed i cespugli ostacolavano i movimenti, rendendo lo scontro più duro. La ragazza impugnò l’arma con entrambe le mani per imprimere più forza al colpo, ma l’uomo lo parò con lo scudo e tentò un affondo. Femia riuscì a schivarlo, ma nell’indietreggiare inciampò in una radice, cadendo a terra. Riuscì a rialzarsi e a respingere i seguenti attacchi, ma doveva essersi slogata una caviglia nella caduta, perché non riusciva più ad appoggiare bene il piede.
Lo scontro continuava. A terra si vedevano già alcuni corpi, ma la ragazza non riuscì a capire a che esercito appartenessero perché non poteva permettersi di distrarsi: il suo rivale era un ottimo spadaccino. Si guardò intorno, sperando che qualcuno dei suoi commilitoni la aiutasse, ma tutti loro erano impegnati a duellare con altri nemici. La loro situazione era disperata: erano stati colti di sorpresa dall’attacco e si trovavano in una posizione di svantaggio. Ad un tratto cercò di colpire l’uomo al collo, ma nel farlo si appoggiò con tutto il proprio peso alla caviglia ferita. Il dolore sembrò saettarle lungo la gamba come una scarica elettrica, facendole mancare il respiro. Il suo avversario approfittò di quell’attimo per colpirla: la punta della spada ruppe la vecchia cotta di maglia arrugginita, penetrando in profondità nella carne. La ragazza cadde a terra, perdendo la presa sulla spada. L’uomo estrasse la propria arma dalla ferita e si allontanò, pronto ad attaccare qualcun altro, certo che in poco tempo sarebbe morta dissanguata. Eufemia tentò di alzarsi, ma il dolore al petto glielo impedì. Si portò una mano alla ferita, che sanguinava copiosamente, poi strinse i denti e cercò di muovo di sollevarsi. Tutto il paesaggio sembrava vorticarle intorno: non riusciva a trovare la sua spada e vedeva delle forme confuse muoversi attorno a lei, senza riuscire a distinguerne nessuna. Ricadde pesantemente a terra in preda alla nausea, respirando affannosamente. Chiuse gli occhi, ma subito li riaprì, sentendo qualcuno che le sollevava la testa. Mise faticosamente a fuoco due occhi verdi e preoccupati e dei capelli biondi: era Alois.
«Lodovico! Sei ferito... alzati. Devi venire via!» esclamò, afferrandola per un braccio e tentando di sollevarla. La ragazza si ritrovò in piedi, appoggiandosi pesantemente all’amico, ma dopo pochi passi barcollanti le gambe le cedettero di nuovo. Si rese vagamente conto che l’altro l’aveva afferrata e stava cercando di trascinarla via dal campo di battaglia, ma a quel punto tutto si fece nero.

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Anche se all'ultimo minuto, eccomi di ritorno con il nuovo capitolo! Spero che vi piaccia.

  
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