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Autore: icered jellyfish    01/08/2014    1 recensioni
[ 73esimi Hunger Games | Original characters | Distretti 5 • 7 • 2 ]
• | Capitolo O1 | Le possibilità che siate piaciuti e la gente faccia il tifo per voi sono molto alte. Quella frase era pazzesca, e continuò a rimbombare pesantemente tra le pareti interne della sua testa – sbattendo come una pallina di gomma da una parte all'altra e facendola innervosire.
Il plurale che aveva usato fu un pugno in pieno stomaco per lei, un'offesa che indossava lo stesso make up dorato che adornava il volto di Edwin in sfarzosi ghirigori sparsi un po' ovunque.

• | Capitolo O2 | [...] ormai, pensò, il suo giudizio non aveva più importanza per nessuno. Perché nessuno l'avrebbe tenuto da conto. Nemmeno in arena, perché per quanto quello sarebbe stato l'unico momento in cui avrebbe ripreso finalmente il possesso delle sue capacità decisionali – ammesso e concesso che superasse la fase del martirio alla Cornucopia –, ogni strategia, ogni tattica, ogni piano, avrebbe dovuto adottarli sapendo che doveva piacere a loro. E questo la privava nuovamente della sua libertà.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo II







C A P I T O L O   II

“ Dovresti imparare ad usarla,
se vuoi avere qualche possibilità







Si guardò i piedi scalzi, sospesi appena sopra il pavimento rialzato laddove era posizionato il letto sul quale ancora se ne stava seduta – nonostante si fosse svegliata da una mezz'ora abbondante.
Diverse ciocche di capelli si appoggiavano sulle sue cosce scoperte, e la lussuriosa atmosfera – talmente confortevole da risultare insopportabile –, con le sue colorazioni fredde e bluastre, le conferiva alla pelle qualche gradazione di saturazione in meno – facendo risaltare i nei sparsi un po' ovunque sul suo corpo.
Si portò infine la mano sinistra sul volto, appoggiandola con consistente pressione sulla guancia per poi massaggiarla in modo da convincere i suoi muscoli e i suoi sensi a svegliarsi.
Distrattamente, attraverso un movimento fluido e automatico, con la stessa mano si portò indietro i capelli che le solleticavano il viso, rimanendo per qualche secondo con la presa sul capo e con il respiro bloccato nei polmoni – come se stesse accumulando un carico di aria che, una volta rilasciato, sarebbe stato in grado di depurarla da ogni ogni paura ed insicurezza.
Espirò, infine, ma nulla sembrò cambiare, perché per quanto li avesse osservati – con forse l'incoscente illusione di motivarli a muoversi con il solo uso dello sguardo e dei messaggi mentali che disperatamente gli mandava –, i suoi piedi parevano ancora congelati nella loro vibrante incertezza di riuscire a sostenerla, una volta poggiati a terra.
Scocciata di se stessa, però, emise un ultimo e pesante sospiro, decretando infine che alzarsi ed ignorare i suoi conflitti interiori e i suoi timori riguardo tutto, sarebbe stata la cosa migliore.
Con passo frettoloso, si recò nel suo personale bagno – in marmo nero e rosa, con al suo interno i sanitari più all'avanguardia che avesse mai visto o anche ipotizzato esistessero – per poi buttarsi sotto l'ampia doccia di cristallo, nella speranza di rinfrescarsi
e lavarsi via quella terribile sensazione di marcio, di morte che si sentiva incollata addosso.
Il vestito che l'attendeva in camera – appeso su un apposito gancio incastonato sul muro della stanza, appena accanto al gigantesco televisore da parete – non la convinceva per niente, ma per quanto non apprezzasse particolarmente gli abiti eleganti e prettamente femminili, non si oppose a quella scelta di altri che voleva vederla avvolta in un corto e comodo abito
di preziosa e madreperlata stoffa bianca – ormai, pensò, il suo giudizio non aveva più importanza per nessuno. Perché nessuno l'avrebbe tenuto da conto. Nemmeno in arena, perché per quanto quello sarebbe stato l'unico momento in cui avrebbe ripreso finalmente il possesso delle sue capacità decisionali – ammesso e concesso che superasse la fase del martirio alla Cornucopia –, ogni strategia, ogni tattica, ogni piano, avrebbe dovuto adottarli sapendo che doveva piacere a loro. E questo la privava nuovamente della sua libertà.
Subdolo. Riuscivano ad appropriarsi dei loro corpi, svuotandoli e riempiendoli di personaggi che non erano loro – e tutto solo per saziare la superficialità di Capitol City, l'ingordigia del suo ingnorante ed esoso modo di vivere.
Pronta per recarsi in sala da pranzo, Catherine diede un'occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio che riempiva la parete vicina – l'espressione sul suo volto non tradiva alcun emozione, poiché di emozioni non ne aveva.
Si sentiva scavata dentro, come se nulla contasse più, ma allo stesso tempo come se la sua anima non l'avesse ancora abbandonata – come invece aveva ipotizzato fin da quanto il suo nome era stato estratto alla mietitura
– e le fosse ancora accanto, le fosse da guida, in quel terribile tragitto di sfarzo ed esuberanza, che altro non avrebbe fatto se non condurla, alla fine, sulla x disegnata per lei nel suo campo di morte.
Abbandonandosi poi ogni pensiero alle spalle, si avviò con forza verso la porta della stanza, richiudendola alle sue spalle.
Una decina di gradini la dividevano dal piano a vista sottostante, dove già riusciva a intravedere la tavola da pranzo stracolma di leccornie di ogni tipo e tutti quanti seduti lì attorno – proprio come Edwin si era raccomandato di fare, perché quelle erano le 08.00 in punto della mattina.
Scese lentamente, scrutando con freddezza i volti di tutti i presenti e scorgendo anche quello di Ashan Prill, il suo stilista – assente, per motivi a lei sconosciuti, al banchetto della sera precedente.
La sua pelle era ancora più bianca e opaca di come se la ricordava, e il trucco argentato pennellato sia sue labbra che sulle sue palpebre, gli conferivano un aspetto che Catherine osò definire lunare – anche per via dei buffi capelli dalla stessa tonalità, sistemati sofficemente in un taglio piuttosto antiquato, ma che su di lui appariva calzante.
Era stato gentile nei suoi confronti, ma gli strascichi dissennati e volubili di Capitol City si facevano sentire anche con lui – perché, probabilmente, la sua cordialità era semplicemente quella di uno esteta con il suo cliente, quella di uomo che vuole donare al suo prodotto e alla sua professionalità l'immagine perfetta di qualità e unicità. Quella di chi vuole incollare su se stesso il sapore migliore sul mercato – e non era sicura che non si comportasse allo stesso modo anche con i capitolini. Loro, almeno, potevano tornare da lui, a contrario suo.
«Buongiorno stellina» la salutò Edwin con la bocca piena, accorgendosi della sua silenziosa entrata in scena.
Il silenzio fu però l'unica risposta che ottenne, e non per maleducazione o presa di posizione; Catherine, semplicemente, non sapeva come altro poter rispondere – buongiorno era fin troppo ipocrita e fuori luogo, ormai.
Si avvicinò a quella che era la sua postazione, accanto a Friedrich, per poi sedersi e sistemarsi ancora una volta i capelli dietro l'orecchio – un gesto a lei fin troppo necessario, per scaricare ogni volta la tensione.
«La tua bellezza è imbarazzante. Sono così soddisfatto della parata di ieri!» Ashan non perse tempo, e le si rivolse con orgoglio lampante tra le sue corde vocali – che stridevano ogni volta che apriva bocca, esattamente come quelle di tutti i capitolini e di Codette – e, come era solito fare, lodò una volta di più l'aspetto fisico della ragazza  che a suo avviso era estremamente attraente. Il più attraente in cui si fosse mai imbattuto. Appena l'aveva vista ne era rimasto folgorato, definendola come 'il suo miglior tributo di sempre'. Ma per Catherine, quel commento, la faceva sentire solamente l'ennesimo manichino da addobbare.
Lui era però sinceramente ammaliato da quei lineamenti decisi, ma dolci al contempo – assolutamente non volgari, magnetici 
–, e fu proprio questo che lo convinse a cambiare qualsiasi tipo di piano avesse in mente per gli abiti del Distretto 5, perché per quanto giorni addietro avesse optato per la solita divisa da operai di centrale elettrica  forse solamente più sgargiante, più elaborata e memorabile , nonappena aveva visto – anche solo attraverso lo schermo del suo modernissimo ed ultra piatto televisore – lei, il tributo femmina del 5, si convinse che non poteva che creare qualcosa di spettacolare proprio come lo era la sua presenza.
Ed effettivamente, il loro debuto agli occhi di tutta Capitol City era stato notevole, perché – sorprendendo qualsiasi aspettativa – quel che era stato a loro riservato fu una sfilata all'interno di un'enorme teca di vetro 
ricolma di così tanta concentrazione elettrica sintetica, che loro restavano sospesi lì dentro. Come se i poli nord e sud di quella gabbia li costringessero a rimanere pressati nel vuoto in mezzo – nudi, coperti solamente nelle intimità dalle saette accecanti che li attraversavano e che da loro si generavano. Proprio come le evolutissime ed incantevoli lampade al plasma di cui la capitale era piena – e i lunghi e fluenti capelli di Catherine, fulgidamente si estendevano ovunque, in quella prigione che aveva portato sia a lei che a Friedrich la gloria e l'attenzione di tutti.
Timidamente, Catherine ingoiò della saliva – totalmente imbarazzata davanti agli apprezzamenti spudorati di Ashan – per poi abbozzargli un sorriso.
«Grazie.» Fu l'unica cosa che gli riuscì a dire, perché lei non riusciva davvero a condividere il suo modo di vederla – per quanto riservatamente ne fosse lusingata.
Un piatto pieno di piccole palline rosa – soffici e apparentemente in pandispagna – sembravano incitarla a scegliere loro come primo bocconcino della giornata, e così fece infatti.
Sapevano di rosa misto violetta, e forse c'era addirittura un retrogusto al gelsomino – non sapeva dirlo con esattezza, cibi del genere non ne aveva mai mangiati prima, ma sicuramente quello era un miscuglio di sapidità floreali.
«Tesoro» la chiamò poi Codette, e appena Catherine si girò verso di lei si accorse solo in quel momento che l'orrenda struttura di capelli sulla sua testa era cambiata – in una altrettanto orrenda. Un cono di trecce si ergeva sulla cima, ed era di una colorazione stranamente normale, essendo che tendeva al cacao puro, ma per quanto come particolare potesse in qualche modo salvare una piccolissima percentuale di quella composizione disgustosa, gli innumerevoli diamanti e foglie secche che l'adornavano, sotterravano ogni speranza e parvenza di normalità – senza contare il ricercato trucco dello sguardo, esteso fino agli zigomi in un paio di fiamme accuratamente riprodotte con ombretti e quant'altro.
Rimase in attesa che continuasse a parlare e, il silenzio venutosi a creare in quei piccoli e rabbrividenti frangenti, venne colmato dall'appunto più insistente ed irritante che le fosse mai stato rivolto in tutta la sua vita – e che da quando aveva lasciato casa sembrava perseguitarla.
«I capelli... » le disse solamente, accennando chiaramente ad un taglio che ancora non era stato fatto, e abbozzando genericamente un piccolo disegno concentrico davanti a sé, col dito.
Catherine non riusciva davvero più a sopportare che la sua rappresentante continuasse a torturarla con il suo ossessivo interesse per come tenesse o meno i capelli, ma non aveva né il coraggio né la voglia di replicare a tanta persistenza.
Senza dir nulla, assente come al suo solito restò a guardarla per diversi secondi, finché non decise di alzare la chioma per legarla in una coda alta con un elastico che si era infilata al polso prima di uscire dal bagno.
Ridedicò allora un'occhiata a Codette, sperando che con il solo uso dello sguardo e di un sorriso forzato riuscisse a domandarle se fosse soddisfatta o meno, ora – sperando proprio che la risposta fosse un no, e fortunatamente ne era anche abbastanza sicura.
Una piccola risatina scappò dalla bocca di Friedrich, al suo fianco, e Cathrine a quel punto si sentì appagata dalla sua insonora risposta – perché aveva capito bene che replicare contro la mentalità di Capitol City, equivaleva a sbattere la testa contro il muro del bigottismo, ed era solo così come aveva fatto che poteva sperare di manifestarsi ancora, in qualche modo, con la sua personalità.
«Bene» si intromise a quel punto Edwin, «manca poco, ci conviene sbrigarci. Atala non è una persona paziente.»
«Chi è Atala?» domanda Friedrich, ma nonostante la curiosità, Catherine era piuttosto sicura che anche lui, come lei, avesse intuito l'identità e il ruolo della citata.
Edwin si pulì la bocca dai rimasugli dell'ultima cosa mangiata – uno strano rotolo color mandarino – e, mentre Codette si esibì nuovamente con l'inarcamento delle sue sopracciglia, la risposta del mentore non tardò a saziare l'effimera curiosità del ragazzo.
«E' la capo istruttrice delle sale addestramento. E' una donna molto atletica e alta. Viso dolce, aspetto comune, ma è molto esigente e precisa. Non lasciatevi ingannare dal suo sguardo disponibile e compassionevole.»
Come delucidazione sembrò essere sufficiente per tutti i seduti al tavolo, tanto che il silenzio tornò sovrano e durò fino a che non si alzarono per recarsi fuori dall'alloggio – diretti all'ascensore in vetro che li avrebbe fatti scendere e condotti al luogo prestabilito. Dove si sarebbero rivisti con gli altri ventidue tributi mancanti all'appello.
Appena giunti, degli incaricati presero in custodia Catherine e Friedrich, accompagnandoli in appositi e privati camerini per fornire loro un'aderente tuta nera super elasticizzata con la quale cambiarsi
– ancora.
Una cerniera partiva dalla zona ombelico per salire fino al collo alto dell'abito, e un paio di stivali scuri – comodi e leggeri che quasi non si sentivano ai piedi – completavano il tutto.
Osservandosi allo specchio, Catherine notò il numero del suo distretto impresso dietro le spalle, al centro, e sul petto appena sopra il seno sinistro.
Lei era un numero, proprio come tutti gli altri. Si riferivano e rivolgevano nei suoi confronti chiamandola per nome – e talvolta cognome –, ma ormai aveva smesso di essere una persona, perché era diventata un semplice pezzo di carne identificato con una cifra e il pronome femminile.
Era una coscia suina appesa in una macelleria assieme a tante altre – ad altre ventitré –, ed era desiderata da diversi clienti, che si esagitavano davanti alla sua presenza – elogiandola ed indicandola pieni di foga.
Una contrazione all'altezza dello stomaco la fece quasi rigettare, davanti a quell'idea, ma con ogni forza tentò di riprendere possesso del suo corpo e di rimandare giù qualunque tipo di malessere, per poi uscire da lì e venir guidata al vero centro d'allenamento.
Una volta oltrepassate le tre grandi porte automatiche in acciaio, si aggiunse dunque al gruppo di tributi degli altri distretti già presenti – rimanendo con loro ad aspettare che anche i mancanti arrivassero.
Non sapeva per quale motivo, ma in un certo senso si sentiva come se fosse dentro ad un gigantesco calderone ricolmo di brodo bollente – un ingrediente, come gli altri, di una qualche zuppa che di lì a poco sarebbe stata mescolata per vedere cosa poteva succedere, per vedere quale, tra tutti loro bocconcini di carne, fosse il migliore. Quale fosse quello che sarebbe stato lasciato per ultimo da mangiare.
Il discorso di Atala rubò loro solo una piccola fetta di tempo, di un quarto d'ora all'incirca. Fu semplice e accademico, e non sapeva se lo fosse perché era ormai fin troppo abituata a ripeterlo, o se perché quella era semplicemente lei – rigida e senza sfumature –, ma con chiarezza era riuscita a spiegar loro ogni cosa utile ed ogni regola da rispettare per quelle due settimane.
C'erano diverse armi, lì dentro, e loro potevano utilizzare quelle che più preferivano – migliorandosi con l'uso di una soltanto, o sperimentandone qualcun'altra per aprirsi nuove possibilità.
Potevano addirittura allenarsi tra di loro – innocuamente, purché non si facessero del male –, ma dubitava che sarebbe arrivata a fare una cosa del genere; per quanto Friedrich fosse del suo stesso distretto, era un estraneo esattamente come tutti gli altri. E non si fidava.
Una volta terminate le raccomandazioni e le istruzioni sul quieto vivere, tutti quanti si sparpagliarono sull'immediato in vari punti della grossa, immensa stanza circolare. Sembravano parecchio sicuri su quale fosse l'arma con la quale adoperarsi, addestrarsi e, senza che nemmeno se ne rendesse conto, Catherine si ritrovò da sola nell'esatto punto in cui ancora stazionava.
Atala la guardò come se stesse aspettando una qualche domanda che di lì a poco le sarebbe stata fatta – come se avesse interpretato l'attendere della ragazza, il suo rimanere lì, come una sorta di richiesta per un piccolo colloquio privato a fine discorso –, ma la realtà dei fatti era semplicemente che Catherine si sentiva totalmente spaesata, in mezzo a quell'overdose di lame, frecce e quant'altro. Lei, non sapeva fare nulla. Non sapeva da che parte cominciare né su cosa concentrarsi con esattezza.
Allontanandosi
dalla donna senza proferir parola, iniziò allora a camminare lentamente, guardandosi attorno nella stanza; i due tributi dell'1, animatamente si fronteggiavano a vicenda nella zona alla sua sinistra – simulando molto realisticamente una lotta con l'uso di un paio di tridenti. La loro complicità era tanto ammirevole quanto allarmante, perché era palese quanto duramente si fossero allenati nel loro distretto, in vista del loro offrirsi volontari. Erano letali, e non ci voleva un genio per capirlo.
Non si soffermò a lungo su di loro; non ne sentiva la necessità né tantomeno voleva che male interpretassero la sua curiosità e si ricordassero di lei, segnandola magari, per divertimento, sulla lista dei primi da ammazzare, una volta cominciati i giochi.
Continuò ad avanzare, e il suo sguardo si posò a quel punto sulla coppia del 4 che, in maniera un poco più blanda, si cimentava in una prova di resistenza, caricandosi contro come due rinoceronti inferociti e scontrando ripetutamente le loro mani con quanta più forza riuscirono ad esercitare – spingendosi reciprocamente le salde prese ed evidenziando i muscoli sulle loro braccia.
Loro non sapeva come catalogarli; sicuramente avevano una corporatura notevole e potenzialmente pericolosa – soprattutto in uno scontro diretto dove era richiesta la forza come unica via di salvezza –, ma nei loro sguardi c'era paura e incertezza, e nonostante si sforzassero di apparire forti e incuranti della ghigliottina sulla quale erano poggiate le loro teste, non era sicura lo fossero davvero.
Sul fondo riuscì poi a scorgere un piccolo angolo verde, caratterizzato da una forte concentrazione di piante di ogni tipo – con al centro del terreno un tavolo sfoggiante diversi materiali che, dalla sua lontananza, non riuscì a riconoscere con esattezza.
Si avvicinò allora più svelta, aumentando l'andatura e lasciando che la lunga coda di capelli le sbattesse sulla schiena al ritmo del suo passo. Sembrava sicura di sé, ma in realtà era solo curiosa – e una zona tranquilla come quella, comunque, l'attirava sicuramente di più rispetto a quella brutale appena attraversata.
Non fece però in tempo ad arrivare, perché poco prima che giungesse davanti all'ingesso dell'area, i tributi dell'8 e del 12 lo varcarono prendendone possesso.
Non che l'avessero vista, di certo la loro non fu una scelta mirata a tagliarla fuori o altro – ad impadronirsi di quell'oasi escludendo chiunque si fosse accostato –, ma la sala era quella, ed erano quelli sia loro che ciò che avevano a disposizione. Non poteva certamente aspettarsi di avere l'esclusiva su qualcosa. Non lei.
Rimase comunque immobile a guardarli mentre, dal ripiano, tiravano su un filo di acciaio arrotolato e un paio di corde.
Non sapeva a cosa potessero servire rifornimenti di quel tipo – né in quel caso, né nell'arena –, ma restare ad osservare le sembrò comunque la cosa più giusta da fare – nonché l'unica che sapesse fare per il momento. La più plausibile.
Il tributo femmina del 12, Dreda – se mal non ricordava –, iniziò a sciogliere la corda rossa vicino a lei, per poi riallacciarla in un nodo più tattico e apparentemente utile da lanciare, forse, su qualche albero per arrampicarsi con più facilità. Il maschio dell'8, invece, iniziò ad intrecciare con rapidità il rotolo di acciaio in una grossa tessitura, articolata e compatta – precisa, degna di uno del suo distretto –, per fabbricarne così una spessa arma che anche solo a guardarla appariva pericolosa.
Si chiese come avesse potuto progettarla, in così breve tempo; i distretti più remoti, in genere, avevano una popolazione decisamente inoffensiva e non proiettata in pianificazioni assassine – come lo erano invece quelli dei distretti favoriti. Che quel ragazzo avesse supposto di essere pescato, alla mietitura? E si fosse allenato per crearsi qualche possibilità di sopravvivenza in più? Le bobine di acciaio, in fondo, c'erano sempre state in tutti gli anni. Ipotizzare che anche in quello sarebbero state presenti, non era né difficile né insensato.
Avrebbe tanto voluto anche lei essersi preparata, in via della possibile uscita del suo nome al giorno del pescaggio – e invece, era rimasta in attesa che questo arrivasse, con la speranza che anche quell'anno, l'ultimo, le sarebbe andata bene come nei precedenti.
Si sentì una stupida per essere stata così tanto ottimista, ma a ben poco le sarebbe servito ormai il suo rammarico e i suoi auto rimproveri, perché ormai era lì adesso, e doveva trovare un'accidenti di arma che l'aiutasse a sopravvivere almeno per la prima ora di gioco, appena questo sarebbe iniziato.
Un grido di carica catturò la sua attenzione, alla sua destra, e istintivamente si voltò in quella direzione, accorgendosi dunque che non vi era molta distanza tra lei e Friedrich – dietro una parete di vetro assieme a Dave, il tributo maschio del 3.
Molto bene, pensò. Ci mancava solo che l'unico suo possibile compagno – il solo che, magari, in fondo non le avrebbe fatto del male. Non subito almeno – si alleasse con uno dei peggiori presenti lì dentro – e sembrava addirittura a suo agio, visto il sorriso che sfoggiava in viso.
Stavano combattendo con delle spade piuttosto strane, come non ne aveva ancora mai avuto modo di vedere.
Non molto lunga, l'arma si presentava nera e incredibilmente lucida – solamente l'elsa aveva una colorazione appena più chiara, sul grigio cenere – e, se la si roteava, le tre lame di cui era fatta si aprivano creando un effetto che Catherine definì molto simile a quello di un ventilatore azionato.
Non sapeva niente su Friedrich, ma anche non conoscendo che tipo di personalità avesse con esattezza 
quanto falso potesse essere o quanto facilmente riuscisse a interagire con qualsivoglia tipo ti persona , quella scena non lasciava molto spazio all'interpretazione: si stava facendo insegnare a combattere, e l'idea di venir infilzata con quella specie di coltello gigante – proprio da lui, poi – la fece trasalire e al tempo stesso convincere che non poteva fa sì che l'immagine che gli altri avrebbero avuto di lei, era quella di un succulento bocconcino facile da spazzare via.
L'occhio le cadde poi sull'espositore in acciaio appena all'entrata della sezione sul piano rialzato. Sopra, vi era accuratamente riposta una balestra con rifiniture scrure e una faretra con dentro diverse frecce.
Spedita, si avviò dunque verso quella direzione, decisa ad iniziare a provare almeno con qualcosa – e quella, per il momento, pareva essere l'unica risorsa libera. E sembrò bastarle per convincersi che sarebbe stata perfetta.
Una volta davanti all'oggetto, lo raccolse tra le mani – riservandosi giusto qualche secondo per osservarla nella sua completezza e complessità.
Era estremamente accurata; il manico era stato costruito con un qualcosa di molto simile a della gomma nera – per evitare lo scivolamento della presa, suppose –, mentre il resto del corpo, sebbene non fosse un'esperta, azzardò ipotizzare fosse in titanio.
Prese al ché una freccia, tentando di incoccarla sulla montatura e, dopo alcune prove fallimentari, riuscì infine a posizionarla nella maniera corretta – tirando la briglia e il crocco indietro attraverso l'uso del martinetto.
La verretta fu dunque perfettamente incastrata con la cremagliera, pronta per essere scoccata, e nel vedere il tutto finalmente efficacemente messo assieme dalla sua attenzione, dalla sua perseveranza e dalla sua logica, fece sentire Catherine un gradino più sopra, su quella lunga scala dove si era ritenuta, fino a quel momento, il più incapace dei tributi mai estratti ai giochi della fame – e probabilmente lo era ancora, ma almeno per quel piccolo istante, si sentiva fiera di sé per essere riuscita a caricare una balestra. Anche se fu una sensazione che durò relativamente poco.
Sotto il teniere vi stava una sorta di leva anch'essa in titanio, e Catherine si disse mentalmente che probabilmente poteva essere utile, scoprire anche a cosa sarebbe servita anche quella. Purtroppo, non fece in tempo a comprendere
che quell'apparentemente innocua asticella metallica, fosse in realtà esattamente la chiave, la leva da sgancio che avrebbe azionato tutta quella giostrina.
Senza calcolare la pressione esercitata, infatti, la schiacciò erroneamente con la stessa mano con cui sorreggeva la balestra, e la freccia montata sopra a quel punto partì come una saetta, fendendo l'aria e provocando un rumore pungente e vibrante, che le si insidiò nelle orecchie come un fischio mozzato. Poco più in là, la vide conficcarsi sulla parete di fronte, esattamente accanto alla testa del tributo maschio che sulla schiena aveva stampato il numero 7.
Questi si girò. Piano, cauto. Stordito e incredulo. La guardò con gli occhi spalancati e la bocca dischiusa – contenente probabilmente un'imprecazione che non trovò nemmeno la forza di uscire.
Catherine si ritrovò completamente spiazzata a seguito di quel risultato decisamente inaspettato e assolutamente non voluto. Così tanto che rimase immobile, paralizzata in maniera completa – con gli occhi che trasudavano una cascata di emozioni che si susseguivano senza riuscire a dar spazio a nessuna di queste di essere distinta con esattezza.
Il malcapitato, a pochi metri di distanza da lei, emise infine il respiro che gli si era palesemente bloccato in gola l'attimo prima, per poi esordire con un piccolo sorriso – probabilmente in funzione di scarica adrenalinica.
Si portò poi una mano sulla fronte, troncando più volte altri respiri – come se si fosse dimenticato in che modo funzionasse quell'azione naturale e involontaria.
Catherine sentiva di dovergli chiedere scusa, ma nessuna parola sembrava voler abbandonare la sua bocca – né tantomeno nessuna frase pareva volersi formulare a senso compiuto nella sua mente.
Ma avrebbe dovuto davvero chiedergli scusa?, si domandò. In fondo, fra meno di due settimane si sarebbero ammazzati l'un l'altro; cercare perdono non le avrebbe risparmiato il primo posto che si era appena guadagnata sul suo elenco nero da spuntare.
Il suo buonsenso continuava però a suggerirle che, per educazione, una venia andava fatta, e questo lo trovava contrastante e frustante – soprattutto in vista del fatto che, sette, si era incamminato verso di lei e le era ormai di fronte.
«S–scus... Scusam─»
«Ehi, ehi! Abbassa quell'arma, risparmiami per l'arena!»
Catherine, d'istinto, abbozzò delle balbettanti ed umili scuse, ma prima ancora che potesse finire quella frase a fil di voce, il ragazzo dei pini le abbasso il braccio con l'arma – ancora puntata, non volendo, in sua direzione – e, scherzosamente, la riprese con una battuta ironica.
Tra le sue labbra si poteva quasi scorgere un incerto 'come?' nascente che non ebbe però il coraggio di uscire – poiché mangiato dall'incertezza di aver compreso bene o meno che colui che le stava di fronte le si fosse davvero rivolto tanto serenamente e, anzi, con addirittura l'intento di tranquillizzare lui, lei.
«I–io, non volevo. Davvero... » continuò comunque, non sapendo che altro fare, ma nonostante i suoi sforzi, a quel ragazzo sembrava davvero non interessare nulla di quanto appena accaduto.
«Loro ti guardano, cerca di stare calma» se disse ad un certo punto, indicando le fine finestre poste in alto alla sala e dietro le quali vi stavano tutte le cariche importanti dei giochi – stratega compreso.
Lo sguardo di Seneca Crane riuscì a intimorirla nonostante la distanza e nonostante la lastra trasparente che li divideva; aveva della percepibile preoccupazione sul volto mista a curiosità
– così come tutti gli altri presenti con lui – e, palesemente allarmati dalla sua involontaria azione, la osservavano per comprendere quale fosse la situazione e quali provvedimenti, probabilmente, prendere sia sull'immediato che dopo in campo. E lei, in tutto quello, si era completamente scordata che i loro sguardi indiscreti erano proprio sopra di loro e li scrutavano e valutavano sempre.
«Se vedono che non è successo nulla, non faranno nulla.» le disse il ragazzo a quel punto, ricatturando la sua attenzione. «Tu sei Catherine, giusto? Catherine Heach. » le domandò, subito dopo, cambiando totalmente discorso e focalizzandosi direttamente su di lei.
«Sì.»
Catherine non sapeva bene cos'altro dire, e 'sì' le sembrava una risposta tanto sufficiente quanto lacunosa. Scarsa, forse, così tanto che infatti si vennero a creare una manciata di secondi pieni di imbarazzante silenzio – farciti dallo sguardo sorridente e in attesa, di quel tributo di almeno un metro e novanta.
Probabilmente, dai suoi dieci centimetri in meno di altezza, il distacco che li separava non era così evidente, ma di certo non si poteva negare che fosse davvero imponente, per quanto non particolarmente muscoloso – e, chissà, questo poteva addirittura essere un fattore a favore di lui quanto suo. In fondo, poteva incutere un fasullo ed apparente timore sugli altri, grazie a questo fattore.
Distolse però i suoi pensieri da quella tattica basata su incerte possibilità psicologiche, per ritornare alla realtà di quel momento ancora privo di parole, finché questo non venne infine spezzato dal suo interlocutore.
«Io sono Tailer Dros» si presentò dopo una prima fase di esitazione e non del tuto convinto potesse interessarle conoscerlo, o così pareva da quel che gli si poteva leggere in viso . Quel che Tailer forse non aveva valutato, non era però quanto Catherine potesse essere entusiasta o meno di fare la sua conoscenza, ma quanto assurdo e inappropriato fosse familiarizzare tra di loro con tanta semplicità e in quella circostanza – come se non avrebbero mai provati ad uccidersi l'un l'altro, presto. E questo sembrò essere un pensiero che attraversò solamente le preoccupazioni di Catherine perché, a contrario suo, Tailer sembrava invece estremamente rilassato – come se si trovasse in una piazza di paese, come se tutte le armi attorno a loro, compresa che quella che lei ancora teneva tra le mani, non fossero nulla più che giocattoli con i quali si stavano dilettando per chissà qualche gara delle domenica di festa. E questo la inquietava a dir poco, poiché le risultava estremamente difficile capire se fingesse, se avesse accettato il suo destino, o se fosse semplicemente psicopatico – soprattutto per quel che le suggerì dopo.
«Dovresti imparare ad usarla, se vuoi avere qualche possibilità.»
Sembrava aver compreso senza particolari sforzi tutta la sua inettitudine, e questo lei non riusciva a capire se fosse un bene o un male, perché l'ampio sorriso sfoggiato da Tailer tutto pareva tranne che pericoloso, inaffidabile. Ma quanto vero poteva essere?
Fu come ricevere un'invisibile carezza, con quello sguardo. Un'invisibile rassicurazione, un invisibile abbraccio che sembrava volerle dire che non era sola, che gli dispiaceva che fosse lì e che non fosse affatto preparata – non solo psicologicamente, come la maggior parte di loro.
Sembrava volerle dire che forse si sarebbe dovuta scegliere un'arma e farla sua, in quelle due settimane. Che avrebbe dovuto concentrarsi su uno di quei letali attrezzi messi a loro disposizione – per imparare ad usarlo quanto meglio sarebbe riuscita a fare –, e non fece nemmeno in tempo a rendersi conto che ormai non aveva più la balestra tra le mani perché, Tailer, ormai dentro l'area di allenamento simulato alle sue spalle, ne era ora in possesso e, con lo stesso sorriso di prima e con occhi accoglienti – che attendevano un suo qualsiasi movimento –, la incitava a raggiungerlo. E Catherine non riusciva assolutamente a capire cosa stessero facendo e cosa significasse tutto quello – ma per quanto il suo cervello si rifiutasse di accettare quell'idea stramba e disconnessa, lui, il ragazzo che aveva quasi ucciso prima ancora di entrare in arena, la stava aiutando.






C O N T I N U A




    » N O T E    A U T R I C E ;

Secondo capitolo. E NO, SAPPIATE CHE NON AVETE ANCORA CAPITO NIENTE PERCHE' VI STO TRAENDO TUTTI IN INGANNO. (?)
No, a parte gli scherzi, nulla è ancora definitivo, qui. C'è ancora da scoprire molto altro con i capitoli a seguire.
Che posso dire? Grazie a chi ha commentato la scorsa volta e grazie a chi ha aggiunto la storia alle seguite/preferite/ricordate! :))
Spero che Catherine sia risultata piacevole qui
– e un po' più chiara, per quanto verrà fuori man mano e, a scanso di equivoci, il suo 'essere bella' non influirà in alcun modo ai fini della storia. Semplicemente, la volevo obiettivamente bella. Non credo sia un male. x°
Ashan non le va dietro
– semplicemente riconosce le sue qualità estetiche e ne è affascinato, tutto qui e nessuno le va dietro. Non avrà gente ai suoi piedi schioccando le dita, anche perché non è questo lo scopo della storia. Assolutamente.
Il nome Tailer so bene che si scrive Tyler in realtà, ma in Hunger Games hanno tutti questi nomi strani e buffi, così ho voluto che Tyler si pronunciasse e scrivesse allo stesso modo – e lo adoro, per quanto sia un dettagliuzzo. x°
Al prossimo capitolo darò una descrizione di lui più approfondita, sia a livello psicologico che fisico 
– così come lo farò anche per Edwin, che manca all'appello in questo –, ma per questo bisognerà aspettare settembre, perché io adesso parto e auguro buone vacanze a tutti. Il mare mi aspetta! *-*
Spero che il capitolo sia stato di gradevole lettura e svolgimento di trama
– e mi auguro qualche commento in più. x°
Alla prossima, a sto punto, e grazie ancora per tutto!


© a u t u m n
   
 
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