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Autore: Phantom13    02/08/2014    5 recensioni
L'umanità ha sempre cercato di raggiungere e conquistare la Perfezione. Sempre. Ma questa volta sono più accaniti e determinati del solito... esattamente come lo è il loro "obbiettivo".
In fondo, noi abbiamo sempre cercato, scavato a fondo, analizzato e smembrato con arroganza ogni aspetto di questo mondo ... o quasi.
Ma è il cosa si cerca che fa la differenza. L'obbiettivo che si vuole raggiungere.
E questa volta, l'obbiettivo in questione è il più inviolabile dei diritti: la vita. Artificiale o autentica che sia.
In questo caso, soprattutto artificiale.
Anche se, in fin dei conti, non fa questa grande differenza. La vita è sempre la vita, indipendentemente dal "come" e dal "perchè" ... non ho forse ragione?
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"–Lui è solo un robot fatto di carne e sangue anziché di metallo. Non è una persona, è una macchina.- disse semplicemente, con una calma stomachevole e arrogante sufficienza. –È un oggetto che cammina. Null’altro.-" (cap. 5)
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AVVERTENZA: alcuni contenuti potrebbero urtare la sensibilità del lettore.
Genere: Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Rouge the Bat, Shadow the Hedgehog, Sonic the Hedgehog
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 11
- Dolore-

 
 
Tra ossa dolenti, muscoli straziati, articolazioni scricchiolanti, gambe zoppicanti e morale sotto i tacchi, avevano impiegato una cosa come tre ore e mezza per scendere da quella maledettissima montagna e raggiungere nuovamente il Tornado X, parcheggiato sullo spiazzo creato dal Chaos Blast di Shadow.
Non s’erano decisi subito a scendere, erano rimasti per un bel po’ immobili sotto l’acqua a fissare il vuoto lasciato dai corpi del riccio nero e della pipistrella, con tutti i gradi possibili di dolore e angoscia nei cuori.
Knuckles aveva urlato, scagliandosi in avanti, disperato come mai lo era stato prima. Le sue dita avevano toccato la pozza rossa viscosa, annacquata di pioggia, tutto ciò che rimaneva di Rouge. In ginocchio, sotto l’acqua battente, era rimasto lì.
Amy s’era portata le mani al viso, soffocando a forza un grido, lasciandosi crollare in ginocchio.
Sonic era rimasto come imbambolato, a fissare il nulla. Il primo a reagire era stato Omega, che aveva caricato di nuovo le sue armi e aveva fatto fuoco sull’assassino che aveva sparato Rouge nello stomaco. Le pallottole incendiarie del terzo membro del Team Dark avevano mancato in parte il bersaglio. Quel cane aveva avuto tutto il tempo necessario per allontanarsi, approfittando del dolore e della sorpresa di tutti. Ma era stato ugualmente colpito di striscio da Omega.
S’erano dunque visti fuggire anche la possibilità di una vendetta. Sonic aveva provato ad alzarsi ed inseguirlo ma le sue gambe non ne avevano voluto sapere. Aveva dovuto dunque rimanere immobile, contro la sua volontà, a guardare il suo amico disperarsi a terra.
Tutti avevano visto la pallottola sparata da Anubis, tutti l’avevano vista colpire Rouge in pieno ventre. E tutti sapevano che con una pallottola conficcata nello stomaco, non c’erano possibilità di sopravvivenza.
Tutti lo sapevano, ma nessuno riusciva ancora a crederci. Erano rimasti fermi, sotto l’acqua battente, a fissare il vuoto e a sentire quello stesso vuoto morderli da dentro, dilaniarli, senza che loro avevano avuto il coraggio di ammettere almeno a loro stessi che in quel momento avevano dovuto dirle addio.
E se l’espressione d’orrore di Knuckles aveva colpito così a fondo Sonic, quella di Shadow non aveva avuto paragone. Quello dipintosi sul volto del riccio nero andava oltre il dolore o l’orrore: era puro oblio.
Sonic tutti questi pensieri li aveva formulati solo in seguito, sul momento, non era riuscito a pensare a nulla, cosa che l’aveva fatto sentire anche peggio, nei confronti di Rouge.
Erano rimasti immobili sotto l’acqua gelida, come a sperare che riuscisse a ghiacciare anche i loro cuori, fino a quando Tails li raggiunse, risalito in volo il fianco della montagna dal Tornado X fino a loro. Quella che gli si era parata davanti era stata senz’altro una scena insolita, e, soprattutto, inaspettata.
In particolare Knuckles. Non erano riusciti a toglierlo da lì fino a quando lui stesso non era crollato dallo stremo, forse per le ferite.
Avevano avuto però tutto il tempo di guardarlo disperarsi, testa china, per quella sua odiata ladruncola che da sempre lo aveva stuzzicato e che lui aveva sempre detestato, ora uccisa con un proiettile nello stomaco. S’erano detestati da sempre ma, forse, in fin dei conti, il duro cuore dell’echidna s’era affezionato all’idea divere sempre Rouge pronta ai tentativi di furto durante le lunghe veglie. Niente più Rouge.
Gli altri però si erano stupiti solo fino ad un certo punto della reazione del loro amico, troppo intenti a vedersela con i loro, di sentimenti. Niente più Rouge …
L’unico che non emise suono di alcun tipo fu Omega, compagno che Shadow non aveva esitato a lasciarsi dietro. Probabilmente, s’era del tutto scordato di lui visto l’accaduto.
Nessuno di loro avrebbe saputo dire per quanto tempo erano rimasti là in cima, con quel cielo sempre nero era impossibile stabilire lo scorrere del tempo.
S’erano però infine decisi a muoversi, dopo quella che era parsa un eternità racchiusa in soli pochi attimi, comunque schifosamente troppo pochi e troppo ignobili per la memoria della loro amica-nemica. In un qualche modo, erano riusciti ad allontanarsi da lì e si erano incamminati, scendendo al Tornado X, per tornare a casa. Anche solo il fatto di poterci tornare, era sembrato ai loro occhi un privilegio che non si erano meritati. Loro, che avevano perso contro il nemico, tornavano a casa; lei, che aveva vinto e che li aveva salvati, era sparita con lui nel nulla, insieme a morte e sangue. Il premio per l’aiuto che aveva portato.
Con questi stati d’animo, erano tornati al Tornado X, sentendosi quasi in colpa per poter ancora camminare, a differenza di lei. O meglio, di poter zoppicare, chi più chi meno.
Omega li aveva lasciati in quel momento, borbottando che doveva farsi tutto il ritorno a piedi fino alla base, già che Shadow non lo aveva portato con sé e visto che lui, robot enorme, non poteva di certo entrare nel Tornado X.
Erano decollati così. Tails, occhi sul cielo per pilotare. Amy, sguardo fisso sulle proprie ginocchia. Knuckles occhi serrati e annacquati, forse di pioggia o forse di un altro improbabile tipo di gocce che mai s’erano viste prima sul suo viso. Sonic, sguardo puntato sul passo pesante di Omega che si allontanava, scivolando di tanto in tanto sull’infido pietrisco di montagna.
I giorni che erano seguiti s’erano svolti come nella nebbia, senza inizio e senza fine. Azioni, pensieri, movimenti s’erano susseguiti impastati dalla viscosa fuliggine del dolore, che aveva mischiato tutto in un’unica massa indistinguibile.
C’erano state cure mediche, bende, pastiglie da bere, disinfettanti brucianti, stecche a gambe e braccia, ore ed ore passate nell’immobilità più tremenda, a vedersela con le propria ossa dolenti, e portando dentro l’odiosa sensazione di vergognarsi quasi di doversi preoccupare solo di qualche graffio o di qualche taglio, mentre un’altra di loro s’era ingiustamente presa ben di peggio.
Erano dovuti rimanere immobili, costretti dalle ferite riportate a non potersi muovere né sfogare in alcun modo cioè che sentivano dentro, proprio quando ne avevano avuto maggior bisogno. Niente corse liberatorie per Sonic, dalle rotule malconce. Niente passeggiate rilassanti per Amy, ossa indebolite dai colpi e dalla frana di macerie. Niente pugni scagliati al muro per Knuckles, che a stento riusciva a muovere un dito. L’unico ancora più o meno intero era Tails, investito dunque del ruolo d’infermiere insieme a Vanilla e alla piccola Cream.
Nessuno fece particolari sforzi per mangiare. Tutti gli stomaci erano ben serrati. E Tails fu costretto ad aprire a forza mandibole e mascelle per far scivolare nelle gole minestrine e brodaglie varie per aiutare le rispettive guarigioni. Lui, almeno, aveva un gran daffare. Poteva distrarsi, lui.
Sonic s’era sentito prudere le gambe dalla voglia di correre fino allo sfinimento e di fuggire da tutto quello, magari lasciandosi alle spalle momentaneamente anche i brutti pensieri, ma la massima distanza che poteva percorrere era il tragitto tra il letto e il bagno ed era sempre compiuta zoppicando, ad una velocità, dunque, paragonabile a quella di un lombrico (anche se gli diveniva sempre più facile camminare, segno che le ferite stavano guarendo). Costretto ad affrontare giorno e notte  la consapevolezza e il senso di colpa, senza sfoghi, era come impazzito.
Lui aveva deciso di ignorare le parole di Shadow, lui aveva deciso di muoversi all’attacco, lui non era stato in grado di affrontare il nemico, lui aveva avuto bisogno di aiuto. Aveva sbagliato di brutto, e l’avevano pagata cara. Loro tutti, Rouge di più ancora.
Un’odiosa vocina remota nella sua testa continuava a chiedere come avrebbe fatto a guardare di nuovo negli occhi Faker … aveva ignorato il suo consiglio, tutto il Team Sonic aveva rischiato di lasciarci la pelle, e Rouge ce l’aveva lasciata sul serio soltanto perché lui non era stato capace di difendere i suoi amici a dovere e aveva avuto bisogno di aiuto.
Anche il suo inguaribile ottimismo, quella volta, non pareva servire a molto. Come capo aveva fallito portando quasi al massacro i suoi amici. E aveva trascinato nel baratro anche i suoi alleati accorsi per loro.
Sdraiato nel proprio letto disgustosamente comodo, ad occhi rigorosamente chiusi, cercava un …. Cercava qualcosa che potesse alleviare il peso che provava dentro. Ma non riusciva a trovare nulla. Colpa mia …. Tutta mia.
Aveva ascoltato il pianto ininterrotto di Amy, nella stanza accanto, in pena per le sorti della pipistrella e forse anche un senso di colpa simile a quello che rodeva Sonic. Era stata lei ad aver avuto l’idea di chiedere aiuto al Team Dark. Aveva chiesto a Rouge di venire … ma era stato Sonic a decidere di andare all’attacco del laboratorio.
Da Knuckles non era stato emesso suono alcuno. Dal momento in cui erano tornati, l’echidna aveva smesso di parlare, di bere, di mangiare, di battere le palpebre, di camminare. Era rimasto steso sul letto, come in catalessi, da allora. E nessuno era ancora riuscito a smuovere una singola reazione in lui. Forse, la gravità delle ferite era solo parte del problema.
L’echidna era stato ricoverato insieme a loro, ormai più nessuno minacciava di rubare il Master Emerald da Angel Island.
Eppure, ancora, nei recessi dei loro neuroni, una pigolante vocina continuava a suggerire che forse la pipistrella non era …
Una minuscola, insignificante speranza, che però, per quanto minuta, continuava a ribattere colpo su colpo la perdita e il vuoto. Perché?
Perché erano passati tre giorni.
Shadow non s’era più visto. E con lui erano sparite tutte le possibili notizie riguardanti Rouge, ovviamente. Il dubbio era diecimila volte peggio di una certezza.
Il dubbio che forse il riccio nero era riuscito a compiere il miracolo, perché, altrimenti, non esisteva una ragione valida per l’assenza di manifestazioni di dolore o di vendetta da parte di Shadow, l’unico capace di portare il concetto di vendetta ad un livello tutto nuovo, con massimo effetto distruttivo. Ed era sicuro come il sole che la prima mossa di Shadow sarebbe stata andare a farla pagare ad Anubis.
Con una pallottola nello stomaco, però, non c’erano possibilità di sopravvivere. Proprio nessuna. Non era un medico, ma sapeva che il dissanguamento e i succhi gastrici garantivano una morte lenta e dolorosa … e inevitabile. Ma Shadow, l’unico ad avere notizie di Rouge, non s’era fatto vivo per riscattare la sua vendetta. Niente esplosioni, niente scomparse misteriosi di cani mobiani, niente di niente. Calma piatta.
Sonic voltò piano la testa verso la sveglia sul comodino di fianco al letto. Erano le tre del pomeriggio del terzo giorno.
Chiuse di nuovo gli occhi, senza osare immaginare che razza di sentimenti avesse in corpo il riccio nero in quel momento. Per la seconda volta, una persona che gli stava a cuore era stata sparata di fronte ai suoi occhi.
E l’ultima volta, Shadow aveva quasi disintegrato un pianeta come reazione a quella perdita.
Sonic si tirò su a sedere, aprendo il cassetto e tirando fuori dal comodino il radar per gli Smeraldi del Chaos, dallo schermo desolatamente vuoto.
Aveva la certezza matematica che Shadow non avrebbe tardato a tornare in pista, anche solo per il fatto che là fuori da qualche parte c’era ancora Anubis a piede libero e impunito. E se Sonic conosceva bene Shadow, sapeva esattamente quale sarebbe stata la prossima mossa del riccio. Dunque, non restava altro da fare che aspettare che sul radar tornassero a scintillare i tre Smeraldi di Shadow nel momento in cui egli si fosse deciso a venire lì a prendere Anubis. Sonic s’era sorpreso a desiderare intimamente di riuscire a guarire abbastanza in fretta da poter tenere il passo con Faker, per poter contribuire a prendere a calci il canide.
Ma a questo punto, pensò, osservando il radar, sorgeva un altro dubbio, lo stesso che da tre giorni assillava lui e tutti gli altri, ricoverati ed infermieri.
Dove erano finiti gli Smeraldi di Shadow?
Quel radar copriva un’area sufficientemente grande, quasi globale, ma dei tre Smeraldi non c’era neanche l’ombra. Allora, di nuovo, dov’era sparito Shadow? Dove aveva portato Rouge?
Pareva che fossero scomparsi dalla faccia della Terra …
 
 
Shell controllò di nuovo il pezzetto di carta che teneva in mano con scritto l’indirizzo. Poi sollevò lo sguardo sull’edificio che le stava di fronte. Lesse di nuovo il foglietto. Chiuse gli occhi e scosse la testa. Doveva per forza esserci un errore, non poteva essere quello il posto. Eppure era tutto corretto! La via, il numero civico, la città … pure l’insegna sul muro era quella giusta!
Con la fronte corrugata osservò di nuovo la casetta che le stava davanti. Già, una casa! In centro città! Grattacieli a destra, palazzi a sinistra, grattacieli ovunque, e una casupola da due piani neanche che pareva caduta giù direttamente dalle nuvole tant’era fuori posto!
Si spalmò una mano sulla faccia, reprimendo un altro sospiro desolato.
Va bene, d’accordo. L’aveva scelta lei una compagnia investigativa di basso profilo che potesse aiutarla a cercare informazioni, ma non si sarebbe mai potuta aspettare qualcosa di neanche lontanamente simile a quello!
Basso profilo, bassa casetta, con tetto di tegole e architettura campagnola mobiana. Bah!
Si infilò rabbiosamente il pezzo di carta in tasca, decidendo cosa fare.
Tornare indietro a mani vuote? Neanche da pensare.
Provare ad entrare là dentro? Mai giudicare un libro dalla copertina, le diceva sempre sua madre. Magari quei tre potevano essere davvero ottimi detective, che si mascheravano in una così misera base per poter agire indisturbati, lontani dagli occhi avidi del governo. Sospirò di nuovo, dubitando seriamente di quella possibilità. Ma racimolando tutto il proprio ottimismo, non potè fare altro che aggrapparsi a quell’unica speranza e varcare quella porta.
Non si sarebbe mai potuto dire che Shell The Seagull era tornata a casa senza prima aver tentato!
Camminando con una circospezione che mai aveva avuto, la gabbianella si avvicinò alla porta, un semplicissimo uscio di legno con finestrella, con campanello vecchio stile, maniglia di ottone e zerbino davanti. Suonò il campanello e da dentro si udì un frastuono tremendo, come se qualcosa o qualcuno fosse caduto a terra, seguìto a ruota da una mezza imprecazione. Dal contraccolpo per poco l’insegna inchiodata sopra alla porta non cascò, tre chiodi su quattro cedettero e Shell balzò indietro reprimendo un grido ed una maledizione. Si accorse che, per una qualche misteriosa ragione l’ultimo chiodo era stato conficcato nel muro con una forza assurda, tanto che la testa del chiodo era quasi interamente sparita dentro al legno.
Decise che non era il caso di porsi troppe domande. Attese.
Da dentro, persistevano i rumori d’agitazione. Voci si chiamavano ripetutamente, passi correvano su e giù impazziti e si poteva udire anche un misterioso ronzio di fondo.
Shell spostò il peso sull’altra gamba, sempre in attesa e sempre fuori dall’area di caduta dell’insegna pericolante.
Finalmente, qualcuno si degnò di aprire la porta.
La verde visione di un immenso coccodrillo mobiano l’accolse con un sorriso da sessantadue denti. –Buon giorno, signora cliente! Ben venuta nell’agenzia investigativa Chaotix. Come possiamo esserle utile?-
Shell rimase un attimo interdetta, sia per l’improvvisa apparizione del rettile sia per il suo entusiasmo che rasentava la venerazione. –Emh.- si lasciò sfuggire incautamente.
La reazione del coccodrillo fu immediata. Sgranò gli occhi, la mascella gli si spalancò e le pupille si dilatarono al limite del pianto. –Non sei una cliente, vero?! Ecco! Lo sapevo! La fortuna ancora non si volta verso di noi! Charmy! È tutta colpa tua!- era passato da un timbro di voce triste ad un vero e proprio ruggito.
Una piccola ape uscì volando dalla porta. –E io che c’entro?- borbottò, irritato. Il coccodrillo serrò i pugni e fece per saltare addosso al bimbo-ape quando Shell riuscì a recuperare la parola e a parlare.
-Io sono una potenziale cliente.- si presentò. –Sono venuta per discutere con voi e proporvi un lavoro.-
Il silenzio fu questione di istanti. Il coccodrillo si pietrificò e gli occhioni dell’ape si riempirono di gratitudine profonda per aver evitato di venir sbranato dal rettile. –Possiamo entrare a discuterne?- propose Shell, lievemente in imbarazzo, vista la completa mancanza di reazione da parte dei due.
Una voce sconosciuta, calma e profonda si fece udire dalla porta. –Ignorate i modi dei miei due compagni, signorina. Entrate pure e accomodatevi.- Un camaleonte violaceo dall’aria mortalmente irritata, appostato contro lo stipite della porta, parve materializzarsi dal nulla.
-Ehi!- resuscitò il coccodrillo. –Come ti permetti di rivolgerti a me così?! Sono io il capo!-
-Ovviamente.- ruminò il camaleonte, facendo cenno alla gabbianella di seguirlo all’interno.
Shell ora dovette confessarlo: aveva la certezza che quei tre non erano il team investigativo che aveva sperato di trovare. Erano solo un trio di disgraziati. Ma, invischiata fino a quel punto, tornarsene a casa non era più un’opzione praticabile. A malincuore dovette seguire il camaleonte dentro la piccola casetta, mentre alle sue spalle il coccodrillo e l’ape finivano di azzuffarsi.
-Ti chiedo di perdonare Vector e Charmy. È un periodo duro, niente lavoro, i loro nervi sono a pezzi. Finiscono per sfogarsi così, purtroppo per i nostri affari.- impossibile dire se il camaleonte dicesse sul serio oppure no. Nella sua voce si poteva udire una vaga sfumatura di sottile divertimento celato.
-Capisco.- sorrise Shell, giusto per dire qualcosa.
Venne condotta in un piccolo salottino dall’unico dei tre che pareva avere la testa sulle spalle. Sembrava una stanza adibita all’unico scopo di parlare e discutere con i clienti. Certo, non aveva un aspetto particolarmente formale, ma sapeva dannatamente di casa. Era enormemente confortante stare lì.
Il camaleonte le indicò una sedia, oltre il tavolo, mentre lui le si accomodò di fronte, su una panca. Coccodrillo e ape seguirono, sedendosi separati, con il povero camaleonte in mezzo che fungeva da divisione.
-Allora…- cominciò il camaleonte.
-Spiegaci quale lavoro volevi proporci.- intervenne il coccodrillo, dal nome di Vector, tagliando la voce al camaleonte e troncandogli la frase a metà.
-… perché non ci presentiamo, prima di tutto?- concluse il mobiano viola.
Shell si ritrovò a ridacchiare nervosamente. -Io sono Shell The Seagull e…-
-Piacere!- intervenne l’ape. –Io sono Charmy The Bee, lui è Espio The Chameleon, e l’antipatico è Vector The Crocodile.-
L’ultimo interpellato ringhiò, ma riuscì miracolosamente a mantenere le staffe, limitandosi a mollare all’ape uno scappellotto sulla nuca, oltre il povero Espio che stava a metà tra i due.
-E quale lavoro avevi in mente, quando sei giunta qui?- domandò con improvvisa serietà il coccodrillo, che evidentemente si stava sforzando di apparire serio, dopo lo shock iniziale.
Shell prese un profondo respiro, preparandosi a spiegare tutto quanto, sebbene di quei tre non si fidasse affatto. Piena di dubbi, iniziò a spiegare, con molta calma, ben sapendo quanto fosse delicato l’argomento che voleva esporre loro.
-Io sono venuta qui per proporvi un compito molto arduo e non privo di pericoli, che, una volta portato a termine, farà risplendere il nome della verità e della giustizia.-
Gli occhi dei tre si illuminarono. Non interruppero, per grazia superiore.
-Io sono una giornalista, ed è mio dovere ricercare sempre la verità e diffonderla. Purtroppo, di questi tempi, una menzogna di mostruose dimensioni dilaga nelle vie di questa città e del mondo intero. – gli sguardi dei tre si oscurarono, ma non di esitazione, bensì di un bizzarro e malformato senso di intuizione. -È mia intenzione fermarla. Ma da sola non ho possibilità. Per questo mi sono rivolta a voi, detective. Mi dovrete aiutare a cercare informazioni veritiere, a racimolare gente che la potrebbe pensare come noi e a dare alla vera realtà una voce che possa essere udita ovunque.-
Sulla faccia dell’ape si dipinse una domanda. Espio prevenne. –Non una voce nel senso stretto del termine, Charmy. Sta parlando metaforicamente.-
La mandibola del piccolo Charmy si richiuse, sebbene non avesse idea di cosa mai potesse essere una metafora. Una seconda domanda venne espressa, questa volta ad alta voce. –E quale sarebbe questa colossale bugia di cui parli?- domandò Vector.
Shell sorrise mestamente. –Qui sta il punto, signori. La parte pericolosa del piano.- si interruppe un attimo, cercando il modo migliore di spiegare.
-I rischi non ci spaventano!- dichiarò orgoglioso il coccodrillo.
-Nemmeno se riguardano Shadow The Hedgehog?- fu la risposta che gli diede la gabbiana.
I sei paia di occhi che le stavano di fronte si spalancarono. –Shadow?!- esclamarono più o meno tutti insieme, visibilmente sorpresi.
All’insaputa di Shell, i tre erano perfettamente a conoscenza degli eventi di quei giorni, ma mai si sarebbero potuti aspettare che qualcuno di esterno si sarebbe intromessa in quella che era parsa la segreta guerra privata dei loro amici. Per questo motivo i loro occhi si sgranarono e le loro bocce si spalancarono. La gabbianella giornalista, ovviamente, mal interpretò tutto quello sconcerto.
-So ciò che la televisione e la radio dicono di questo riccio, ma ho le prove che quelle affermazioni sono false.- proseguì.
Piegando la testa di lato, attese una qualche reazione da parte dei tre.
-E come aveva intenzione di agire?- riuscì a formulare Espio, tenendosi sul vago.
Ora fu il turno di Shell di rimanere sorpresa. Possibile che quei tre non avessero null’altro da contestare? Insomma, si stava parlando di Shadow!
-Io avevo intenzione di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili, di cercare consensi fra i cittadini e di pubblicare le informazioni. O qualcosa di simile.- rispose.
Charmy balbettò. –Ho come il dubbio che a Shadow potrebbe non piacere un’idea del genere.-
Shell sbattè le palpebre, aggrottando la fronte. Che…?
-Mi ritrovo d’accordo con te, stranamente.- borbottò Espio. –L’ultima volta che ci siamo messi in mezzo non è finita poi così bene. Anche se siamo sopravvissuti. Se lui ha un piano, è meglio lasciarlo fare.-
Shell era esterrefatta. Doveva per forza aver capito male. Quei tre…?
-Dunque.- proclamò Vector. –Noi siamo ben disposti ad aiutarla, Shell. Siamo decisamente stufi di rimanere fermi, mentre loro combattono rischiando la vita.-
-Cos…?- riuscì a sussurrare la gabbianella.
-L’aiuteremo.- riprese Vector con tono solenne. –Ma ad una sola condizione: chiederemo prima il permesso a Shadow. Non mi farò prendere a calci da lui una seconda volta per interferenze non richieste. È già stata traumatica la prima, una seconda è fuori discussione.-
Shell ricadde contro lo schienale della sedia, svuotata come un palloncino bucato. Loro …
-Voi … voi conoscete Shadow The Hedgehog? Quel Shadow The Hedgehog?- pigolò lei.
-L’unico e il solo, signorina.- ridacchiò Charmy. –Grazie a Chaos! Immagina che disastro sarebbe se ce ne fossero stati due!- aggiunse più a bassa voce.
Shell sbattè le palpebre, cercando disperatamente di riordinare i propri pensieri, con ben miseri risultati.
Non è possibile, concluse. Non può essere! Lei aveva trovato gli unici tre che lo conoscevano. Loro … lui … Non era possibile!
-Lo conosciamo eccome!- sorrise Vector, annuendo. –Ed anche abbastanza bene da poter dire con certezza che se faremo anche una sola mossa sbagliata lui ce la farà pagare cara con tanto di interessi. Mai mettersi sulla strada di Shadow The Hedgehog.-
L’unica domanda che Shell riuscì a pronunciare fu la più stupida di tutte quelle che avrebbe voluto porre. –Come lo contatteremo?- domandò con un filo di voce.
-Espio, hai ancora il suo numero di telefono?-
 
 
Lividi e graffi ovunque per la lotta. Due costole incrinate per il calcio di quella vanitosa sgualdrina, dolori dappertutto a muscoli, ossa, legamenti. Un braccio appeso al collo grazie all’ultimo tentativo d’assalto del terzo inaspettato alleato robotico del riccio nero
Anubis strinse i denti. Sì, poteva dichiararsi senza rimorso in uno stato pietoso. Credeva di essere messo male, ma quando giunse nella stanza di James, il capo operativo, dovette ricredersi.
Lui era quello messo male.
Anubis era stato chiamato nella cabina d’osservazione affacciata sull’arena d’allenamento numero due, nel cuore della Base Alpha. Lì aveva trovato James.
Seduto su una sedia a rotelle, interamente avvolto da bende, il particolare la faccia. L’umano ruotò la testa verso di lui, e il mobiano potè ammirare gli effetti che una mandibola spaccata poteva creare su un volto. Era fuori discussione che la deformazione dell’osso avrebbe lasciato un segno indelebile sulla faccia di James, e quel gonfiore rosso violaceo lo faceva assomigliare ad un melone. Come se non bastasse, gli artigli di Teta avevano donato il loro contributo. Tre squarci sul lato destro del volto, ventisei punti di sutura in totale, un labbro tagliato e un’orbita vuota che s’era portata via metà del campo visivo di James.
Distolse lo sguardo. Non che ad Anubis importasse, ma da vedere era davvero orribile, tra il gonfiore dell’osso rotto e i tre squarci ricuciti.  
L’uomo emise un gorgoglio di gola. –Amico.- biascicò a fatica, evidentemente la bocca gli dava ancora problemi. –Ti trovo bene.-
-Non mi sento di poter dire altrettanto per voi, purtroppo.- borbottò in risposta il canide, aggiungendo il “purtroppo” solo per pietà.
James si guardò le gambe. –I medici dicono che gli effetti della scarica elettrica del Chaos Spear dovrebbero passare a breve. Potrei ricominciare a camminare in un paio di giorni.-
Anubis si chiese perché glielo stesse raccontando. Tra loro due non c’era mai stato uno straccio di rapporto, ed ora tutto ad un tratto James si metteva a chiacchierare.
-Credo.- continuò l’uomo, lentamente, sempre a fatica. –Che la parte peggiore sia la faccia. La faccia e il braccio.- si corresse con un ringhio, sollevando il moncherino di ciò che rimaneva del suo arto superiore sinistro, tranciato di netto da un morso di Teta.
Anubis dovette ammetterlo: era davvero uno spettacolo pietoso, visto nell’insieme complessivo, e se a dirlo era lui, che andava ben famoso per la sua scarsa sensibilità, voleva dire che la situazione era assai grave.
Non conosceva i dettagli, ma pareva che James avesse avuto uno scontro diretto con Shadow (cosa che faceva sentire Anubis enormemente fortunato di essersela cavata con sole due costole incrinate). Subito dopo, quando il riccio se n’era misteriosamente andato, James s’era ritrovato da solo con un assai furoreggiante Teta578 che s’era appena visto svanire davanti il suo prediletto bersaglio nero a strisce rosse. Qualcuno aveva dovuto pagare per la sua frustrazione. Aveva scelto James come candidato. Da quell’istante fino all’arrivo delle forze di sicurezza erano trascorsi solo pochi secondi, ma erano stati più che sufficienti. James le aveva prese di santa ragione, al contrario la donna che stava con lui ne era uscita interamente incolume, solo leggermente traumatizzata
Poi, sedata la belva, erano fuggiti via, prevedendo l’esplosione che sapevano sarebbe seguita di lì a poco. Il moribondo James, la donna che era con lui, metà degli scienziati e i tre esperimenti, di cui uno narcotizzato.
-Non è andata esattamente benissimo su al laboratorio Nord.- disse ad un tratto James. Non era una domanda, e nemmeno un’osservazione.
Anubis deglutì. –Erano tre contro due. Poi sei contro due.- si giustificò.
Gli occhi, anzi l’occhio di James si fece di fuoco. –E si può sapere per quale maledetta ragione hai sparato a Rouge The Bat?-
Anubis voltò di scatto la testa verso l’uomo. –Perché da quando Shadow ha cominciato a contrattaccate le abbiamo prese una dietro l’altra, senza possibilità d’appello! Ogni volta che lui si muove, noi ci ritroviamo a doverci leccare le ferite! Ora un’unità di attacco annientata, ora uno dei nostri esperimenti massacrato, ora un intero centro di ricerca polverizzato. E lo fa con una tale naturalezza! Come a dirci che non valiamo nemmeno la sua attenzione completa!- Anubis digrignò i denti. –Volevo ricordargli che noi non stiamo giocando. Che farebbe meglio a fare attenzione.-
-Deficiente!- L’urlo di James lasciò Anubis per un attimo sorpreso. –Pensi davvero di aver semplificato le cose?!-
-Di sicuro gli ho inferto una bella botta.-
-Hai solo gettato benzina sul fuoco!- la voce arrochita di James si spezzò, cominciò a tossire violentemente. Dalla smorfia sul suo viso, non doveva essere stato un passaggio indolore.
Anubis rimase rigido, in silenzio.
-Almeno.- riprese James. –Sonic si è scoperto, ha preso posizione. Potremo finalmente avere il nostro martire.- Sospirò, ancora provato dallo sforzo causatogli dalla tosse. –Una cosa è sicura: da soli, con le nostre forze ridotte, non ce la facciamo a tenere testa a Shadow. È ora di riscattare l’aiuto esterno, molto più massiccio.-
Anubis si rallegrò. Finalmente una bella notizia. La prima di giornata.
-Abbiamo bisogno di altri fondi economici, però.- grugnì James. –Ti nomino capo delle operazioni. Trovatevi un’altra banca e svuotatela, come già abbiamo fatto in passato. La colpa se la prenderà la Forma di Vita Definitiva, come al solito.-
Il cane mobiano annuì.
-Poi- sussurrò James. –Torna a fare rapporto, ed organizzeremo le nostre prossime mosse quando il Capo verrà qui.-
Si accesero le luci nell’arena. I due spostarono lo sguardo verso la vetrata blindata che mostrava lo spazio sottostante. Stava per cominciare.
-Oggi costringeremo una volta per tutte quel sorcio da provetta a combattere.- sussurrò James.
Anubis gli scoccò un’occhiata. –Hai portato quella donna per questo?-
James annuì. –Si è instaurato uno strano legame tra quel ratto e la donna nelle pulizie. Come una sorta di imprinting, fenomeno presente nel regno animale che lega un cucciolo al primo essere vivente che vede.-
La curiosità di Anubis crebbe. Come avrebbe utilizzato James quella donna?
Dal fondo dell’arena si aprì una sezione del muro di protezione. Un mastodontico robot fece il suo ingresso. Una macchina da combattimento umanoide, due braccia e due gambe, lanciarazzi sulla schiena, mitra sugli arti superiori.
Dal pavimento si aprirono due botole circolari e altrettante piattaforme vennero fatte risalire da sotto fino in superficie. Su quelle specie di ascensori vi erano due piccole figure. Una donna e il topo, completamente guarito dai risultati dell’ultimo allenamento non andato esattamente a buon fine.
Eta si guardò attorno con circospezione, annusando l’aria. Notò il robot e un gemito di terrore si udì chiaramente fino a dove erano posizionati James e Anubis. Un suono molto simile venne emesso dalla povera Lucy, lì affianco.
Il cane mobiano scosse piano la testa, sorridendo. Cosa c’era di meglio per spronare qualcuno a combattere se non offrirgli una ragione più che valida per farlo? Certo che usare come esca una civile innocente era proprio una cattiveria. Il suo ghigno si ampliò. Sarebbe stato un bello spettacolo in ogni caso.
Non appena si udì quella voce, Eta sgranò gli occhi. Voltò di colpo la testa verso di lei, incredulo. Lacrimucce di gioia gli affiorarono agli occhi. Aprì le braccia e si slanciò in corsa verso la donna, che vedendosi venire in contro una specie di abominio della natura, mezzo metallizzato e mezzo peloso, lanciò un grido, facendo per scappare. Eta la raggiunse in un baleno e l’abbracciò da dietro, bloccandone la fuga. Frinendo di felicità, appoggiò il muso sulla schiena di lei.
Finalmente, la memoria della donna delle pulizie sembrò restituirle l’immagine dei pezzi primordiali di Eta incapsulati di qualche settimana prima, e riconobbe il topo che ora le stava appiccicato. –Sei cresciuto parecchio.- le sentirono dire. –Sei molto meglio così, sai? Guardati. Hai anche il pelo! E una coda bellissima.-
La suddetta appendice del corpo di Eta scodinzolò, fendendo l’aria, come a mostrare ancor di più quanto quella lunga e sinuosa coda fosse bella.
Eta ridacchiò, tutto contento, stringendo ancor di più l’abbraccio e affondando il muso nelle pieghe del vestito di lei. Lentamente, Lucy riuscì infine a voltarsi restituendo l’abbraccio all’emozionatissima cavia da laboratorio.
Nella postazione d’osservazione, la pazienza giunse al limite. Il giusto legame era stato formato, era ora di iniziare la lezione.
James schioccò le dita con l’unica mano che gli rimaneva. Due sinistre luci si accesero nei sensori visivi del robot. L’inconfondibile rumore di armi da fuoco caricate si espanse per tutta l’arena, oltre gli squittii di felicità del piccolo topo-cyborg. La cavia da laboratorio si paralizzò sul posto, occhi spalancati di terrore.
Nella mente del piccolo Eta si riaccesero all’istante i ricordi delle ultime sue esperienze trascorse in luoghi simili, in presenza di robot assolutamente uguali a quello che ora si stava avvicinando a lui.
A lui e a Lucy.
Squittì d’orrore, afferrando la mano della donna per trascinarla via. Corsero, ma dovettero fermarsi all’altro lato dell’arena, spalle al muro.
-Ora comincia il bello.- biascicò James, sporgendosi per guardare meglio.
Il robot fece fuoco. Eta e Lucy urlarono, piegandosi, mani sulla testa.
La raffica di proiettili durò poco, come era stato ordinato. I due ebbero dunque il tempo di riorganizzare le idee.
Il robot continuava ad avanzare, a passo lento, sparando ad intervalli regolari sui due, che correvano solo avanti e indietro contro il limitare dell’arena. Ebbero fortuna, nessuno dei due venne ferito, anche perché nel robot era stata appositamente installata una pessima mira. Ma, fuggendo a destra e a manca, i secondi scorrevano e il robot aveva ormai ridotto la distanza che gli separava inizialmente. Era circa a metà della lunghezza dell’arena. Non molto più tempo rimaneva a disposizione, e nemmeno molto spazio in cui muoversi; il panico del piccolo topo si traduceva in termini di rigidezza muscolare e difficoltà a correre. Nessuno dei due osservatori esterni si degnò di guardare cosa stesse facendo Lucy. Era solo una figura d’intralcio, enormemente spaventata, rigida e che urlava per ogni singola pallottola, avendo buone ragioni di credere che la fine non fosse affatto lontana. Le loro attenzioni erano interamente rivolte al topolino
-Guarda!- sogghignò James puntando il dito. Eta stava lentamente cominciando a caricare le proprie armi da fuoco, quelle installate sulle braccia. James rise. –È già un successo solo questo! Mai accaduto prima d’ora che quel ratto caricasse le armi.-
Anubis potè solo provare ad immaginare che tipo di tensione dovesse ora avere in corpo il piccolo cyborg, per costringerlo ad adottare per la prima volta in vita sua un comportamento che prometteva violenza.
Altre due scariche di proiettili, solo un quarto della distanza complessiva rimaneva a dividerli. Eta strillò di nuovo, sentendosi ormai l’acqua alla gola, spingendo ancora più contro il muro la sua protetta. Lei. Fosse stato per lui, i proiettili non erano un problema, aveva già capito da tempo che per gli scienziati era facile rimetterlo in sesto dopo praticamente ogni tipo di ferita. Ma lei. Lei non sarebbe sopravvissuta nemmeno ad una sola di quelle pallottole!
Altra scarica di piombo, questa volta, a distanza davvero ravvicinata. La donna venne colpita di striscio ad una gamba, gridò crollando a terra.
Urlò pure Eta, con la stessa intensità, come se fosse stato colpito anche lui. Ma la sua era paura, non dolore. Si voltò verso di lei, occhi sgranati di terrore, muscoli tesi al massimo. Aveva dato la schiena al robot, che aveva dimezzato ancora la già misera distanza che li separava, tutte le sue attenzioni interamente ripiegate sulla figura di Lucy.
Eta mosse indietro le orecchie quando udì il suono del caricatore del robot, il ticchettio dei bossoli vuoti sganciati per terra, lo sfregamento metallico di quelli nuovi messi in canna. Suoni che volevano dire una sola cosa: tempo finito per loro, tempo finito per lei. Morte sopra di lei. Consapevolezza, dolorosa consapevolezza di ciò che ne sarebbe seguito. Serrò i denti. Paura, inevitabilità. Morte di Lucy. Niente vie di fuga, il predatore aveva vinto. Morte di Lucy.
O forse no.
Anubis e James videro chiaramente Eta chiudere gli occhi e prendere un bel respiro, proprio davanti a Lucy, accasciata a terra contro la parete, le mani premute sulla coscia ferita.
In una frazione di secondo, le armi di Eta furono pronte, una luce bluastra scintillò dal fondo delle due canne da fuoco. Il topino si voltò di scatto contro il robot e fece fuoco. I proiettili volarono, colpirono il bersaglio ed esplosero.
Due cerchi di fuoco divamparono nell’aria dai due punti d’impatto, aprendo il robot in due come una lattina. Della mostruosa macchina da massacro non rimaneva che un cartoccio mezzo fuso di metallo arroventato.
Eta crollò in ginocchio. Lacrime agli occhi, fissi sui resti del nemico.
-Scusa.- gli sentirono dire. –Scusami davvero tanto, collega di ferro.- le lacrime gli rigarono le guance.
Lucy aveva lo sguardo ancora fisso sulle macerie di quella che le era sembrata essere la sua morte fino a due secondi prima. Era sollevata, innegabile, e al contempo confusa per la reazione del suo compagno di disavventura. Corrugò la fronte, occhi rattristiti.
James e Anubis si guardarono, soddisfatti. –Visto?! Lo dicevo, io, che quel topo e’ capace a fare il suo lavoro, quando ci si mette!-
Sotto, alcune bocchette per il gas fecero uscire un sonnifero che spedì tra le braccia di Morfeo umana e cyborg, quest’ultimo con ancora dipinta sul viso l’espressione d’orrore per l’azione appena compiuta.
Caddero uno sopra l’altro, addormentandosi in una posizione che ricordava molto un abbraccio.
 
 
Sentì le proprie palpebre chiudersi, inesorabilmente. Lasciò che la temporanea oscurità lo cullasse per qualche secondo, prima di riaprire gli occhi.
Le iridi color rubino ruotarono ancora una volta verso il corpo steso al suo fianco. Shadow cambiò lentamente posizione, mettendosi seduto in maniera un po’ più dritta, ginocchia al petto. Rilasciò un respiro più profondo degli altri, che avrebbe quasi potuto venir chiamato sospiro.
Era lì da quasi quattro giorni. Non s’era smosso da lì neanche una volta. E non aveva osato dormire.
Il suo mondo si era ridotto al muro metallico al quale stava appoggiato, al pavimento sotto di sè, alla penombra della stanza, e al rantolio del respiro frammentato di Rouge distesa sulla prima branda che Shadow aveva trovato. Nient’altro.
Sentiva vagamente le ore scorrere via, senza che ciò gli importasse molto. Non era cosa che lo riguardasse. Appoggiò la testa al muro, lasciando che la sua concentrazione andasse di nuovo ad abbracciare l’unico suono che le sue orecchie avessero sentito nelle ultime settantadue ore, cioè il lieve respirare della pipistrella.
Forse, Shadow avrebbe potuto udire anche il battito del proprio cuore, ma quello non era un suono importante, in fin dei conti.
Si voltò per l’ennesima volta verso Rouge, percorrendo con lo sguardo i suoi lineamenti disegnati soltanto dal misero spiraglio di luce che filtrava dal corridoio, oltre la porta. Era immobile, nella stessa identica posizione in cui lui l’aveva sistemata tre giorni prima. Sotto il sottile lenzuolo, l’unico movimento visibile era quello del suo diaframma, intento a respirare.
Gli occhi di Shadow tornarono a fissare nuovamente il braccio di lei, l’unica parte di lei oltre al viso scoperta dal lenzuolo. Era adagiato lungo il fianco della pipistrella in una posizione rilassata, avambraccio girato verso l’altro, esattamente come l’aveva lasciato lui l’ultima volta che aveva toccato Rouge, tre giorni e mezzo prima.
Il riccio distolse lo sguardo, chiudendo per un attimo gli occhi. Si poteva ancora vagamente intravvedere, sulla pelle di lei, nell’incavo del gomito, il segno dell’ago. Shadow serrò i denti, la fronte lievemente corrugata.
Per la milionesima volta si chiese se l’avesse davvero salvata, o se l’avesse soltanto uccisa.
 
-Maria è malata gravemente?!- Sgomento profondo.
-Esattamente.- il tono di voce di Gerald era mesto. –Sindrome da Neuro-Immuno Deficienza. In sostanza, il suo corpo non è in grado di produrre anticorpi di alcun genere. Il che la espone a qualunque tipo di malattia, virus o batterio immaginabile. Anche un semplicissimo raffreddore potrebbe avere conseguenze disastrose- una pausa. –E questa sindrome è incurabile.-
Vuoto. Nulla. Baratro. Disperazione cieca.
-O così, si pensava prima che arrivassi tu.- Gerald lo fissava negli occhi. –Il tuo sistema immunitario è tra i più forti che si siano mai visti. Forse, dopo diversi test, potremo riuscire a trovare una cura per lei, tramite te.-
Una scintilla di speranza che perfora la nera coltre di disperazione.
-Una cura.- riprese lo scienziato. –Se riuscissimo a far combaciare il tuo sistema immunitario con il suo. O addirittura sostituirlo, magari. Lasciare che i tuoi anticorpi lavorino per lei e….-

 
Lentamente la Forma di Vita Definitiva aprì gli occhi.
Rouge sarebbe morta in ogni caso. Anche senza che lui tentasse di fare qualcosa.
Non sapeva che effetti avrebbe potuto avere il suo sangue nel corpo di lei. Ma, forse, …
Gli si strinse lo stomaco.
Shadow appoggiò la fronte al ginocchio, chiudendo per un attimo gli occhi.
O l’avrebbe salvata, o l’avrebbe uccisa. Non c’erano stati indizi negli ultimi giorni su quale delle due soluzioni si stesse avverando.
In ogni caso, l’idea che il sangue di (dovette concentrarsi anche solo per forumulare quel nome) Black Doom ora stesse anche dentro a Rouge lo fece quasi stare male. Nausea.
Raddrizzò la testa, guardò di nuovo la pipistrella.
Sarebbe morta in ogni caso, con o senza il suo intervento, si ripetè un’altra volta. Per di più era mezza morta dissanguata, un po’ di sangue in più nelle vene era necessario. Ma il suo? Avrebbe potuto essere veleno. Proveniva da un’altra razza, un altro mondo. Come poteva essere compatibile con Rouge?
L’antidoto per la malattia di Maria non s’era mai trovato, il DNA di Shadow non aveva aiutato. Perché avrebbe dovuto invece salvare Rouge, che nemmeno era malata?
Sistema immunitario … lo stesso che combatte malattie e che risana le ferite. Magari, solo magari, per un qualche miracolo, il suo sistema immunitario rafforzato avrebbe potuto risanare la ferita per Rouge più in fretta di quanto lei avrebbe fatto normalmente, salvandole la vita.
O avvelenando ciò che rimaneva del suo sangue, intossicando tutto il suo organismo.
L’unica, assurda idea che Shadow era riuscito a tirare insieme, quando s’era ritrovato tra le braccia la pipistrella in fin di vita. In un limbo tra flash back e presente, aveva portato Rouge su quel lettino, aveva recuperato una siringa e aveva fatto ciò che aveva fatto: aveva iniettato nella sua compagna di squadra parte del suo sangue.
Shadow strinse i denti, piegando la testa indietro.
Da qualche parte, una vocina gli ricordò di avere fame. La mandò beatamente a quel paese.
Sperare che magari il fatto che lui e lei fossero entrambi mobiani avrebbe potuto aiutare l’adattamento del sangue di Shadow nel corpo di Rouge. Anche se di per se non c’entrava molto, già che il sangue in questione veniva direttamente da un alieno cavalcatore di comete.
Mobiano … ma Shadow era davvero definibile mobiano, anche con quel DNA distorto che si ritrovava?
Deglutì, la gola riarsa non gli concesse il lusso di chissà quali liquidi. Era da giorni che non beveva.
Guardò di nuovo Rouge, sperando che accadesse qualcosa di qualunque tipo. Niente. Lei rimase perfettamente immobile.
Shadow sospirò, ricordandosi perché rimanere da solo con se’ stesso per troppo tempo era un’azione pericolosa.
Lasciò vagare lo sguardo tra le ombre della stanza. Fuori dalla finestra brillavano le stelle.
Sotto quello stesso cielo, da qualche parte, proprio in quel momento, stava anche Anubis.
Sentì il proprio sangue ribollire, riaccendendo la fiamma che Shadow s’era impegnato a seppellire. Per il momento. Fino a quando Rouge avrebbe riaperto gli occhi o smesso di respirare.
Negli ultimi quattro giorni, aveva avuto tutto il tempo desiderabile per pianificare con cura cosa fare di preciso a quel f……….. pezzo di ….. .
E la sola idea di cosa gli avrebbe fatto subire riusciva a calmarlo abbastanza da costringere sé stesso a rimanere seduto lì, vicino a Rouge. Perché, in fin dei conti, Anubis non era che un cadavere che ancora non sapeva di essere morto.
Un suono nuovo lo fece sobbalzare.
Un fruscio, quasi inudibile.
Voltò di scatto la testa, occhi spalancati. Era da quattro giorni che osservava Rouge senza pause, impiegò neanche un quarto di secondo a capire cosa era cambiato.
Le dita di lei ora erano serrate a pugno, stringendo il lenzuolo.
Un’ondata di gioia lo investì da capo a piedi. Subito prima che la sua razionalità gli fece notare che quel gesto avrebbe benissimo potuto essere uno spasmo di dolore, un gesto inconscio di una sofferenza interna. Magari il suo sangue le stava causando problemi e…
Rouge ruotò la testa verso di lui. Aggrottò le sopracciglia.
I dubbi del riccio si zittirono di colpo. Il suo cuore divenne immensamente leggero. Gli occhi di lei si schiusero lentamente. Le iridi cristalline si guardarono intorno per qualche secondo, confuse, prima di posarsi sul riccio.
-Ehi.- la salutò Shadow, sorridendole. Sì, sorridendole.
Il volto di Rouge si illuminò. –Ehi.- rispose, ricambiando stancamente il sorriso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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