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Autore: RobynODriscoll    04/08/2014    0 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quando venni a conoscenza della morte di Giuliano della Rovere, il mio cuore esultò con ferocia.
Era lui, il tributo richiesto dall'Universo. Per una volta, una giustizia superiore aveva riconosciuto chi meritava la morte e chi no. Per una volta, un patto con il demonio non si ritorceva contro chi l'aveva stipulato.
Fu come ricominciare a respirare, per me; tutti se ne accorsero, e non instillarono dubbi nella mia certezza.
Agamennone era lentamente migliorato, in quei lunghi mesi, fino a guarire del tutto. Un'altra cicatrice alla testa, gemella di quella che aveva ricevuto durante lo sterminio della sua famiglia, faceva sfoggio di sé tra i suoi ricci biondi, che in quel punto non crebbero più folti come prima. Anche lui, suppongo, non fu più esattamente lo stesso di prima. Era così convinto che sarebbe morto giovane, e per tanto tempo, che fu difficile per lui realizzare di avere ancora tutta una vita da vivere.
Appena Simza aveva decretato che il convalescente poteva spostarsi, lui e Veronica erano rientrati a Milano, per ricongiungersi con la loro Emilia. Il nostro periodo di separazione non era durato a lungo, comunque: quell'estate, a Monteriggioni, fummo riuniti tutti quanti, per un evento finalmente felice.  Martino ed io, infatti – e per il grande sollievo di Zia Claudia, che detestava dover mantenere il segreto -, avevamo deciso di celebrare il matrimonio in maniera ufficiale.
Anche se con il cuore ancora schiacciato da presagi e paure dopo quella battaglia tremenda, riuscimmo a farne una bella festa. C'era la mia famiglia, naturalmente, che ora era ristretta ai miei genitori, gli zii e la sempre più graziosa e arguta Lisabetta, che aveva compiuto da poco undici anni. C'erano Agamennone e Veronica con Emilia, e Diamante, con il figlio di sangue e i due, Niccolò e Guido, di cui aveva promesso di prendersi cura. Naturalmente, Monteriggioni fu invasa da un'orda di Semeraro, e non soltanto quelli che io conoscevo. La situazione era così straordinaria che l'energica Flaminia aveva affidato allo smidollato marito la fattoria, il neo-consacrato Pietro aveva lasciato il convento e i soldati di ventura Francesco e Sebastiano avevano chiesto una licenza. Nella sala dei banchetti aggiungemmo un tavolo solo per loro.
Dal canto suo, Jacopo mandò un biglietto per congratularsi, ma, con quella grazia impeccabile da diplomatico consumato, capì al volo che non sarebbe stato il caso di partecipare. Simza, ci fece sapere, era ripartita per un vagabondaggio solitario da gitana, ma qualcosa nel tono della lettera mi fece intuire che forse avrebbe fatto di nuovo tappa alla villa romana del nostro comune amico, quando il vento del destino ve l'avesse spinta di nuovo.
Come zia Claudia aveva auspicato la notte delle nostre prime nozze, il vecchio prete cieco e ubriacone di Monteriggioni unì Martino e me in matrimonio – di nuovo - come aveva fatto per i miei genitori e per i miei zii. Erano presenti tutte le persone a cui più tenevamo, ed erano arrivati regali da mezza Italia per il matrimonio e per la nostra nuova casa. Già, avevamo una nuova casa: Martino ed io avevamo comprato, con i proventi delle nostre missioni, il casale dove ci incontravamo da ragazzi. Ci sarebbero voluti molti lavori di ristrutturazione per rimetterlo in piedi, ma la gente del borgo fu felice di aiutare; alla fine dell'estate eravamo a metà dell'opera. Appena l'intonaco fu asciutto, appesi  nella camera da letto il mio dono di nozze preferito, che era arrivato direttamente da Mantova. Si trattava di una lamina d'argento, su cui la Marchesana aveva fatto incidere lo stemma degli Assassini. Sotto di esso, campeggiava il suo motto: Nec spe, nec metu. Né con speranza, né con paura.
Sì, Isabella era stata costretta dagli eventi a rinnegarci; ma ora non potevo più biasimarla come un tempo. Sapevo bene che, se la vita di Martino fosse stata a rischio, io avrei fatto esattamente lo stesso. Per questo, volli il suo dono sulla testata del mio letto nuziale: un ricordo di come avrei voluto vivere la nostra nuova vita da quel momento in avanti. Né con speranza, né con paura. Solo con la forza di affrontare ciò che sarebbe arrivato sul nostro cammino, di volta in volta, insieme.
Agamennone e Veronica accettarono di restare a vivere con noi al borgo, almeno per il momento. La villa aveva ampio spazio per accogliere loro e la bambina, e ne avrebbe avuto ancora di più  dopo la morte del Papa, visto che la situazione instabile avrebbe costretto metà dei suoi abitanti a spostarsi a Roma. I mesi di quiete dopo il nostro secondo matrimonio erano stati brevi: il tempo delle celebrazioni, per la mia famiglia, era finito.
Prima di lasciare la Villa, Agamennone ed io ci eravamo salutati con un fondo di amarezza dietro gli occhi; non tensione, no, ma una punta di tristezza. Vincendo la profezia, entrambi avevamo perduto qualcosa di importante, a cui non sapevo dare un nome. Fu come se da quel momento in poi non fossimo più stati in grado di distinguere giusto o sbagliato, bianco e nero - o, per quel che importa, tutte le sfumature intermedie. Non so se posso parlare anche per il mio amico, ma per quanto mi riguarda sento che la mia coscienza ora è fatta di macchie di nebbia, più scure, o più rade, o uniformi, senza alcuna soluzione di continuità. Ha senso quello che vi sto dicendo? Quel che intendo è...prima, era più facile intuire ancora i confini del bene o del male.
Il tempo per i rimpianti, in ogni caso, era finito. Dovevamo concentrarci sul Conclave che avrebbe seguito la morte del Papa: avevamo pochi giorni per organizzarci, prima che i cardinali venissero rinchiusi in San Pietro.
 
3 Marzo
 
«I convocati saranno venticinque» disse Ariosto, mentre seguivo i suoi passi lungo il distretto del Foro, tra le rovine romane. «Riario è il nostro nemico principale, il papabile che dobbiamo sconfiggere. È spalleggiato dai due nipoti di Giulio, Sisto Gara e Marco Vigerio; inoltre, dobbiamo considerare che i vescovi filospagnoli saranno probabilmente dalla loro parte, visto che la Lega Santa non è stata ufficialmente sciolta.»
«Quanti sono, questi filospagnoli?» domandai. Il passo di Ariosto aveva la sicura inesorabilità di chi si accinge a scendere in battaglia, ed io mi domandai se stessimo davvero raggiungendo la locanda della Volpe Addormentata, o se piuttosto non mi preparasse a scendere con lui in una tana di leoni.
«Due» replicò lui, secco «Luigi d'Aragona e Jaume Serra i Cau, detto l'Alborense. In più, Francesco Soderini farà di tutto per contrastare l'ascesa di un Medici al trono pontificio.»
«E chi abbiamo dalla nostra parte?»
«Achille Grassi, vescovo di Bologna: è un solido alleato di Giovanni, hanno collaborato spesso quando era legato pontificio.»
Attesi, con una smorfia, che proseguisse. Non lo fece.
«Ditemi che non è l'unico, Ludovico.»
«Non esattamente. Sigismondo Gonzaga desidera riparare la vergogna che suo fratello Francesco ha portato sulla famiglia, tradendo l'Ordine per la Borgia.»
«Grassi e Gonzaga. Chi altro?»
«In mezzo, ci sono gli indecisi. Un inglese, uno svizzero: troppo fuori dalle nostre sfere di influenza per poter prevedere chi appoggeranno. L'ungherese, Bakócz potrebbe avere interessi comuni ai nostri. Non sono sicuro del francese: se la verità sulla morte di Gaston De Foix è trapelata nelle alte sfere – e sono sicuro che lo sia, a questo punto -, potrebbe essere difficile convincerlo.»
«Un momento. Mi state dicendo che i Templari hanno già sei voti assicurati, e noi soltanto tre?»
«Ci sono sedici cardinali imprevedibili tra loro e la vittoria, Bianca. Il Papa viene eletto con una maggioranza di due terzi: nel nostro caso, ne servono sedici perché un candidato sia legittimamente eletto. I giochi sono ancora aperti, come potete vedere.»
«Sembrate molto sicuro che riusciremo a convincere gli indecisi a passare dalla nostra parte.»
«Lo sono, perché so che voialtri saprete essere molto persuasivi.»
«Noialtri...chi?»
Ebbi la mia risposta quando la porta della taverna schioccò sui cardini, rivelando un locale insolitamente vuoto. Sì, avevo fatto in tempo a scorgerlo prima che Ariosto aprisse la porta: il cartello diceva che la taverna era chiusa. Dentro, però, seduti insieme a un grande tavolo rotondo, c'era un gruppo di uomini dalle facce scure.
Mio padre e Martino sedevano uno accanto all'altro come a fare fronte comune, ben separati da Ermes, Vanni e un templare alto, vestito interamente di nero, che non riconobbi. Seduto accanto a loro c'era anche un vecchio dall'aria bonaria, che non avevo mai visto prima. Indossava un povero saio. Appena mi vide, mi rivolse un sorriso, e batté la mano sulla sedia vuota accanto a lui.
Ebbi l'istinto di rispondere a quel sorriso. Le mie labbra si ritirarono in una linea stretta appena notai che portava al collo la croce d'argento con i rubini.
«Bianca Auditore, vi presento Padre Geremia» disse Ariosto «ed Etienne Ponthieux, cavalieri del Tempio.»
Il vecchio continuò a sorridere, l'uomo chiamato Ponthieux rimase impassibile. Sembravano le personificazioni della Gioia e della Tristezza, e che uno vestisse abiti poveri mentre l'altro portava un giustacuore raffinato non faceva che rafforzare quel contrasto.
«Bene» Ariosto pose sul tavolo alcune carte, ed io sedetti, sebbene a denti stretti, accanto al vecchio. Martino, al mio fianco, era cupo come raramente l'avevo visto. «Vi chiedo scusa per il ritardo, madamigella Auditore è appena rientrata da una ronda ed io ho dovuto raccogliere le informazioni che mi ha portato. Direi che siamo pronti per iniziare.»
Sostanzialmente, ciò che Ariosto disse fu una versione piu' lunga e dettagliata di quel che aveva spiegato a me: questo mi consentì di lasciare vagare la mia attenzione sui presenti. Ermes era serafico come sempre, mentre Vanni sembrava avere occhiaie piu' profonde dell'ultima volta in cui l'avevo incontrato. Mi chiesi quali ripercussioni avesse avuto su di lui l'assassinio di Gaston. Forse aveva subito le conseguenze dell'ira di Lucrezia. Per una volta fu difficile non simpatizzare con lui, nonostante tutto. Benché avesse distrutto l'alleanza con i francesi, il suo gesto aveva probabilmente salvato le sorti della battaglia e le chiappe di tutti noi.
Già, i francesi. Se non appoggiavano più la Borgia, cosa ci faceva qui quel Pontieux?
Mentre correva dal suo volto squadrato alla parte assassina del tavolo, il mio sguardo intercettò quello di mio marito. Era carico di un odio a malapena trattenuto, che si riversava tutto sul templare in nero.
Gli scoccai un'occhiata che conteneva una domanda. Lui schiuse appena le labbra, tenendo i denti stretti.
«Mirandola» sussurrò, così piano che solo io potei sentirlo. «Ponthieux era er carceriere.»
Serrai forte la mascella, e, cercando la mano di Martino sotto il tavolo, la strinsi. Dovevamo ingoiare bocconi amari come quello ancora per poco. Una volta che il nostro candidato Papa fosse stato insediato sul soglio di Pietro, i figli di Abele non avrebbero avuto più nulla a che spartire con noi figli di Caino.
Ci dividemmo i compiti, separandoci in squadre. Ermes e mio padre si sarebbero occupati di persuadere il cardinale Bakócz, Vanni e Martino avrebbero intimidito lo svizzero Schiner, Ariosto e Ponthieux avrebbero cercato di far ragionare – amavo quell'espressione – un paio degli italiani non schierati. Io, per quel primo incarico, finii in coppia con Padre Geremia.
Il vecchietto sembrava contento, ammiccò nella mia direzione quando gli incarichi furono distribuiti.  Mi chiesi se non si trattasse di un viscido modo di fare un'allusione. Volevo crederlo, in parte. Era più comodo che accettare il fatto che quel frate templare avesse un'aria benevola e felice proprio come sembrava.
Alla strana coppia che eravamo fu affidato il compito di mettere pressione su Alessandro Farnese.
 
4 Marzo
 
Le nostre spie ci dissero che l'avremmo trovato di mattina presto nella Biblioteca Vaticana, dove soleva trascorrere molto tempo dalla morte di Giulio. Curioso. Altri uomini di chiesa avrebbero cercato consolazione nella preghiera, almeno per le apparenze che il loro ruolo richiedeva. Avrei presto appreso che il cardinale Farnese aveva dovuto imparare a non prestare troppa attenzione alle apparenze.
Padre Geremia non aveva più l'età per arrampicarsi, ma sapeva persuadere con il suo sorriso calmo e le generose donazioni che riusciva ad estrarre dalle pieghe dell'insospettabile saio. Grazie ad una di queste, un attendente del Vaticano si incaricò di farci strada verso la biblioteca, facendoci spergiurare che non avremmo fatto il suo nome, e nessuno sarebbe rimasto ferito, e il suo posto di lavoro sarebbe rimasto al sicuro. Con quella serenità che lo contraddistingueva, Geremia promise e gli lasciò una benedizione sul capo, giurando che non voleva altro che l'accesso agli scritti autografi di San Tommaso d'Aquino, per poterne ricopiare le sante parole da riportare al suo monastero. L'attendente, allettato dal denaro, finse di credergli.
Per quanto mi riguarda, io seguivo il frate a capo chino, vestita da ragazzo, con i capelli nascosti da una pruriginosa parrucca dall'orribile taglio rotondo che ci si ostinava a infliggere ai ragazzini. Ero, ufficialmente, un novizio francescano.
Sì, lo ammetto, la situazione era piuttosto ironica. E, se mi ero lamentata in passato degli abiti da dama, promisi a me stessa che non l'avrei più fatto, ora che conoscevo la sensazione della iuta che sfrega sulla pelle nuda.
Camminavo tesa dietro Geremia, osservando i corridoi così ridondanti di stucchi e affreschi colorati che tutti gli angeli, serafini e cherubini sembravano voler scendere su di me a soffocarmi. Quell'architettura non si apriva verso l'alto, no, non era una preghiera a un Dio invisibile. Era pensata per far vedere a chi lo attraversava che il cielo è pieno di occhi che osservano, giudicano, vendicano. Era un memento del potere degli uomini sugli altri uomini.
L'attendente ci lasciò di fronte alla porta, e sgattaiolò via.
«Come facciamo ad essere sicuri che non ci venderà alle guardie?» mormorai, guardando la sua schiena allontanarsi.
Il frate mi sorrise. «Non lo siamo. Per questo, è meglio fare in fretta.»
La Biblioteca aveva altre finestre che inodavano di luce gli scaffali ricolmi. Il cardinale era in piedi accanto ad essi, e sfiorava lentamente le brossure. Non sembrava stesse cercando un libro in particolare. Pareva piuttosto accarezzare il volto di qualcuno che amava, e trarre consolazione da quel contatto.
Si accorse della nostra presenza in ritardo. Alzò gli occhi, sospettoso. Due frati francescani non erano esattamente una vista comune in Vaticano.
«Eccellenza reverendissima» zufolò Padre Geremia, inginocchiandosi a fatica sulle giunture nodose per baciare i suoi anelli. «Il mio discepolo ed io siamo mortificati di aver disturbato il vostro raccoglimento.»
«Nessun disturbo, padre. La conoscenza appartiene a tutti.»
Potevo vedere la diffidenza sul suo volto, quando aiutai Geremia a rialzarsi. Mi accinsi a compiere lo stesso gesto del mio compagno, ma la mano inanellata sfuggì alla lieve stretta delle mie. Sfiorò le mie guance con la stessa delicatezza con cui aveva afferrato i libri. Poi, con improvvisa fermezza, strappò la parrucca e mi torse i capelli dietro la nuca.
«Che razza di scherzo è questo? Cosa ci fa questa donna...»
Non feci in tempo a reagire, che avvertii la stretta allentarsi e il corpo di Farnese irrigidirsi. Padre Geremia gli si era portato alle spalle, le mani raggrizite stringevano il suo braccio saldamente mentre l'altra mano gli puntava alla schiena un pugnale.
«Tranquillizzatevi, Eminenza» sussurrò dolce sulla sua spalla. «Vogliamo soltanto fare due chiacchiere con voi.»
Scrollai la testa per liberare la treccia, e strappai quel moncherino di parrucca che penzolava ancora dalla mia nuca. Estrassi a mia volta dalla coscia i pugnali da lancio che vi avevo legati, allo stesso modo in cui Veronica usava tenere i suoi stiletti. «Se provi a chiedere aiuto ti faccio affogare nel tuo stesso sangue, brutto bastardo.»
«Non ce ne sarà bisogno» Geremia mi rivolse un'occhiata di bonario rimprovero. «Non è vero, Eminenza?»
«Cosa volete da me?»
Padre Geremia accompagnò gentilmente il cardinale ad una sedia, mentre io andavo a bloccare le porte di accesso alla biblioteca.
«Oh, nulla di ché» sorrise il templare «Vogliamo solo assicurarci che votiate la persona giusta al prossimo conclave.» Prese posto accanto al prigioniero, e poggiò un gomito sul tavolo, sprofondando poi il volto rugoso nella mano. Con l'altra, roteava il pugnale tra le dita con l'abilità di un giocoliere.
Farnese accennò ad un ghigno teso. Era un uomo che si avviava verso la sessantina, tuttavia negli occhi bruni conservava ancora un guizzo impertinente, da ragazzo.
«Fatemi indovinare...vi ha mandato Riario?»
Roteai gli occhi al cielo. «Non puoi essere più fuori strada.» Una volta che ebbi tirato le tende, assicurandomi che non avremmo avuto interruzioni, mi avvicinai al lungo tavolo e presi una sedia a mia volta, assumendo una postura un po' più minacciosa di quella che sfoggiava Geremia.
«De' Medici...non ci credo.» Una risata amara fiorì nella gola del nostro bersaglio. «Non può essersi abbassato a tanto.»
«È cambiato parecchio, da quando studiavate insieme a Pisa» disse Geremia, quasi atono. «È quello che succede in questo covo di serpenti che è San Pietro...Ora, vedete, Giovanni ha bisogno di reinverdire il vostro antico vincolo di amicizia, per essere certo che non tradirete la sua fiducia.»
«E lo fa mandandomi dei sicari?»
Ammiravo l'ironica spavalderia del cardinale, ma sapevo che il ruolo del gendarme pericoloso sarebbe toccato a me, in quel frangente. Perciò, lasciai che fosse Geremia a rispondere, sornione: «La mia amica ed io preferiamo definirci negoziatori. Sappiamo bene che un uomo potente come voi non lascia intimidire da così poco...»
«Dunque, cosa sperate di ottenere?»
«La domanda giusta, Eminenza, è cosa sperate di ottenere voi, in cambio delll'aiuto che presterete alla nostra causa.» Prima che Farnese potesse schiudere di nuovo la bocca, Geremia si portò un dito sulle labbra. «No, non ditelo. Non nominate quel nome. Sappiamo che tormenta ancora le vostre notti. È intriso nei muri, in ogni stucco di questo palazzo. Il suo profumo impregna ancora l'aria.»
Poggiai i gomiti sul tavolo a mia volta, protendendomi verso il cardinale. «Sono passati dieci anni, ma nessuno a Roma ha mai smesso di parlare di Giulia. O della figlia che ha dato a Papa Borgia. O del fatto che dovete la vostra amata porpora a lei... mio caro cardinal Fregnese.»
La mascella dell'uomo si serrò. Mi strinse il polso, tirandomi verso di sé. Io reagii puntandogli il pugnale alla gola.
«Bianca» sibilò Geremia. Finsi di non averlo nemmeno sentito, mentre puntavo gli occhi in quelli del cardinale.
«Sei uno sporco ingrato, Farnese. Era bella, tua sorella Giulia, non è vero? Aveva quindici anni quando la tua famiglia l'ha messa nel letto di Borgia...per te. Per dare potere e onori a te. Una quindicenne, venduta a un vecchio bavoso come fosse una puttana. Tutta Europa la chiama ancora la sposa di Cristo...e tu ti vergogni come un cane, perché sai che senza di lei non saresti arrivato dove sei ora.»
«Ed è per questo che siamo qui» disse Geremia, in tono conciliante. «Se speri che un giorno la macchia sulla reputazione della tua famiglia sia lavata, Farnese, la memoria di Giulia deve sparire dal Vaticano per sempre. La sua bellezza è diventata una vergogna imperitura...eppure campeggia in ogni quadro sacro, in ogni statua ordinata dal Borgia. L'amante del Papa ha prestato il suo volto alla Madonna...non ti fa rabbrividire, questo?»
Lo sguardo spaventato che passò negli occhi del cardinale in quel momento me lo fece rivalutare un po', lo ammetto. Almeno aveva a cuore la vita della sorella a cui doveva tanto. Abbassai la lama.
«Lasciatela in pace. Giulia ha pagato abbastanza...si è ritirata nel suo feudo, governa le sue terre e non si mischia più alla politica. E anche io...potrò aver ottenuto questa porpora grazie a lei, ma ciò che ho fatto poi con questo potere dipende da me soltanto!»
«Oh, Eminenza!» Geremia si portò una mano sul cuore. «Ci avete frainteso, me ne dispiaccio. Non intenderemmo mai ferire la vostra amata sorella, o voi. Ciò che vi proponiamo, è una damnatio memoriae...sapete, come il senato romano decretava dopo la deposizione degli imperatori folli. Distruzione delle statue e delle effigi, per cancellare i loro tratti dalla memoria collettiva. Forse, a ben pensarci, anche per la vostra Giulia sarà un sollievo poter essere dimenticata da questo  mondo di corruzione e inganni.»
«State davvero paragonando mia sorella a un Nerone? A un Domiziano?»
«Be', come dirlo in termini gentili, Eminenza...il suo ricordo avrà sulla vostra carriera ecclesiastica lo stesso effetto dell'Incendio di Roma. Pensate davvero che potrete mai diventare un papabile, con una tale macchia nel vostro passato? E anche se fosse, cosa scriverebbero gli storici della Chiesa di voi? Il Papa della Gonnella, vicario del Meretricio in terra...»
L'uomo sorrise, amaro. Lo capii subito, le parole di Geremia avevano colto nel segno. Tuttavia,  lui tentò un'altra, ironica difesa: «Il passato di Papa Borgia era ben più torbido, non trovate?»
«E voi non volete certo essere come lui.»
L'espressione di Alessandro Farnese vacillò.
Scacco matto.
Premuroso, Geremia disse: «Solo le statue, Eminenza. Solo i quadri che la ritraggono. Soltanto ciò che ricorda la turpitudine a cui si è dovuta sottoporre...sapete che ne avete bisogno, e forse ne ha bisogno anche lei. Troveremo un quadro dopo l'altro, una statua dopo l'altra. Le abbatteremo per voi, e sarete entrambi liberi. In cambio non chiediamo altro che assicurarci che farete la scelta giusta quando entrerete nella Cappella Sistina.»
Farnese abbassò gli occhi. Strinse le labbra, rilasciando un sospiro pesante dalle narici.
«Giovanni...sarà un buon Papa.»
Il sorriso di Geremia si allargò. «Se non lo pensassimo, Eminenza, non saremmo qui.»
«Avrete il mio voto, se farete ciò che avete promesso. Ma» e, quando mi guardò, i suoi occhi erano gravi «un voto non basta a darvi la certezza della vittoria. Non otterrete nulla di concreto finché non avrete in pugno Adriano Castellesi e Luigi d'Aragona. Sono loro che possono spostare l'ago della bilancia.»
Castellesi...Castellesi...quel nome risuonava sottile nella mia memoria. Perché?
Adriano Castellesi...cardinale...un agosto torrido...una cena nella campagna romana...una ragazzina prigioniera dei nemici di suo padre, e del vino avvelenato...
Geremia raddrizzò le spalle rachitiche, come a dire a Farnese: vi ascolto. Il cardinale proseguì:
«Castellesi è il procuratore di Enrico VIII di Inghilterra a Roma, il che significa che Bainbridge seguirà le sue direttive.»
«Un solo voto non è determinante» obiettai. Farnese mi zittì con un'occhiata.
«Lo è, se considerate i legami politici di cui è intriso. Castellesi rappresenta gli interessi del re inglese, che è sposato con Caterina d'Aragona. La sorella della Regina Consorte d'Inghilterra è la madre del giovane Carlo, erede della corona di Spagna e futuro successore del nonno Massimiliano sul trono del Sacro Romano Impero. Con queste alleanze di mezzo, capirete da soli che se avete il voto della Spagna porterete con voi tutto l'Impero...puntate anche Luigi d'Aragona, vi dico, e Jaume Serra i Cau. Sono sopravvissuti a tanti papati, sono abili abbastanza da persuadere tutti gli altri che Giovanni è l'uomo di cui la Cristianità ha bisogno in questo momento..»
Rivolsi un'occhiata nervosa a Geremia. «Abbiamo combattuto gli spagnoli a Ravenna. Non ci appoggeranno mai. La Lega Santa...»
Farnese rise – un suono secco e brusco. «La Lega Santa, madonna, è morta con quella battaglia, e sepolta con Giuliano. Chi vi aderisce ancora non segue altri che l'Imperatore...e quei tre, per i motivi che vi ho elencato, sono coloro che sussurreranno all'orecchio dell'Imperatore il nome del nuovo Papa. Trovate il modo di persuadere loro, e avrete il conclave in pugno.»[1]
Era complesso, e del tutto fuori dalle logiche dualistiche in cui avevo imparato a incasellare il mondo: templari da una parte, assassini dall'altra. Quella millenaria divisione contava ancora qualcosa? I templari erano scissi, e noi ci eravamo alleati con una delle due fazioni. Per il male minore, certo. Immagino che anche i grandi della politica ragionassero a quel modo, mentre muovevano le loro pedine sulla mappa dell'Europa. Qual è il male minore per la mia gente e la mia stirpe? Come posso lasciare in eredità una situazione migliore a quelli che verranno dopo di me? Alla fine, ridotto ai minimi termini, questo è il conflitto di tutti noi: se la situazione migliore sia un tozzo di pane in più sulla tavola o un regno più esteso e più prospero di quello che abbiamo ereditato, questo lo decide soltanto il destino della nostra nascita.
 
 
Non avevamo tempo di adempiere alla promessa fatta a Farnese prima dell'inizio del conclave – non del tutto, almeno. Iniziammo la distruzione delle raffigurazioni di Giulia Farnese quella notte stessa, ma rintracciare tutte le opere che la ritraessero sparse per l'Italia era un lavoro meticoloso, da svolgersi in più settimane, se non mesi. Di quella notte dei primi di marzo del 1513, ricordo l'affresco della Madonna con il Bambino. Era nella stanza privata di Papa Borgia, in quell'ala del Vaticano che Giuliano della Rovere aveva fatto chiudere dopo la sua elezione, quasi fosse un luogo infestato da presenze maligne. Immaginavo pareti che grondassero il sangue dei delitti di quella famiglia diabolica, o almeno un odore di malvagio, un mormorio di spettri mai placati. Non fu quello che i miei compagni ed io ci trovammo di fronte...erano solo muri, con tende strappate e decadenti su bastoni spezzati, finestre distrutte dal lancio di sassi, mobili ancora eleganti ricoperti di ragnatele e strati di polvere decennale.
Inspirai forte, inalando quell'odore di desolazione. Solo dieci anni prima, Cesare Borgia era stato potente e temibile, ed io l'avevo mandato a morte certa a casa di Adriano Castellesi da Cornero, con al dito un anello che avrebbe rilasciato un veleno mortale. Cesare aveva capito il mio gioco, e si era sbarazzato dell'anello...ma suo padre, avvelenato dal vino regalatogli da Lucrezia, era morto comunque, trascinando con sé tutta la fortuna del figlio.
Zio Ugo mi poggiò una mano sulla spalla. Cercai i suoi occhi nel buio, sotto il cappuccio. Distinsi solo una pozza di buio.
«Sto bene» dissi, seccamente. Accesi una candela per rischiarare gli affreschi, e iniziare la nostra opera di distruzione.
Quell'affresco in particolare lo trovai sulla porta della camera del Borgia.[2] Era bello, non c'è che dire. Di una bellezza che, se si fosse trattato di qualcun altro, mi avrebbe toccata. Il Papa che mio padre continuava a chiamare con disprezzo Lo Spagnolo era inginocchiato nell'atto di adorare una Madonna con Bambino. Rodrigo si toccava il cuore con la mano; nell'altra stringeva delicatamente il piede del neonato, guardandolo rapito come solo un padre può guardare un figlio. La Madonna, dai lineamenti squisiti e i grandi occhi neri, ossevava a sua volta quella scena con infinita dolcezza.
Eccoti qui, Giulia Farnese.
Accatastammo un paio di mobili, su cui dovetti arrampicarmi per raggiungere il muro intonacato. Sfiorai i tratti del volto di Giulia, di cui tanti poeti e umanisti avevano cantato le lodi per anni. Era così giovane. La sentivo così vicina.
E il bambino? Era figlio del Borgia? Possibile. Non mi ero informata sulla discendenza della Farnese, ma quegli occhi neri, dal taglio similissimo a quello del Papa, non potevano trarre in inganno.
Fui felice di ficcare lo scalpello dritto nella fronte di Rodrigo, scrostando via ogni centimetro di quel volto dalla parete. Quando fu il turno di Giulia, però, fui attenta. Con grande fatica e diverse bestemmie strette tra i denti, riuscii a staccare una sezione più o meno regolare del muro senza intaccare il dipinto. [3]Cambiai la presa per riuscire a reggerlo meglio, e lo passai a Ugo, che dovette appoggiare la candela a terra.
«Non distruggerlo» aggiunsi. Lui si strinse nelle spalle.
«Un ornamento per la nuova casa?»
Sorrisi. «Forse.»
Tutto ciò che lasciai sul muro fu la parte che ritraeva il neonato. Dei suoi genitori, rimasero solo le amorevoli mani: quella di lei che gli cingeva la schiena, e quella di lui intorno al piede. Di tutto ciò che Rodrigo Borgia e Giulia Farnese rappresentavano, scelsi di lasciar vivere solo l'amore per quel bambino.
 
7 Marzo[4]
 
Faceva straordinariamente caldo, per quel periodo dell’anno.
Giovanni De' Medici era arrivato a Roma solo il giorno precedente: il viaggio da Firenze sulla dannatissima portantina era stato estenuante. La messa di apertura di quella giornata di votazioni era iniziata da pochi minuti, e già sentiva l'affanno serrargli la gola. Solo un lieve fastidio, comunque, niente che non potesse tenere a bada. Erano tanti, i piccoli malanni che avevano minacciato la sua vita nell'infanzia; ma la volontà di Giovanni aveva imparato ad addomesticarli, mantenendolo in vita fino ad ora. Il segreto era il più banale del mondo: il respiro. Vuotare completamente i polmoni, attendere in apnea totale per tre secondi. Inalare di nuovo, lentamente. La volontà controllava la fisiologia, la fisiologia controllava la mente. Non a caso i Greci connettevano questi tre elementi, non è vero? Psyké: soffio vitale, anima, vita intellettiva. Chi controlla il respiro è padrone di se stesso.
Sì, andava già meglio. Ora il familiare senso di oppressione si allentava. Se guardava in alto, verso il soffitto splendidamente decorato della Cappella Sistina, sentiva che quel tetto non esisteva affatto. Riusciva a dimenticare le finestre sprangate da assi di legno, e il senso di soffocamento che gli davano. Attraverso le scene degli uomini e donne senza legge[5] che Michelangelo Buonarroti aveva da poco terminato di dipingere, Giovanni si sentiva elevato in uno spazio più aperto, che tendeva al cielo.
«Il Santo Padre della nostra Romana Chiesa, Giulio II, ha posato il fardello delle chiavi di Pietro per essere ricondotto all'abbraccio di Dio. Possa Egli avere pietà della sua anima.»
La voce di Raffaele Riario era sottile e fastidiosa nelle sue orecchie. Per fortuna, seduto sullo scranno com'era, Giovanni poteva fingere di essere raccolto in uno stato di profonda contemplazione, e non era costretto ad alzare gli occhi sul suo volto topigno. Decano del Sacro collegio, quell'animale da fogna. Il pensiero lo costrinse ad allentarsi il collo della tunica purpurea.
«Vi prego, unitevi insieme a me in una preghiera silenziosa per il nostro Santo Padre.»
Giovanni ubbidì, ma, mentre tra le labbra scivolava sicuro un pio ave Maria, una voce sottile nella sua mente sgranava un altro rosario.
 
O cane rabbioso che hai appestato l'Italia con la tua smania di sangue e potere,
io benedico la mano che ti ha soppresso.
O ambiziosa, smisurata, egotica anima troppo feroce per il corpo di un uomo,
marcisci ora con la carne che troppo a lungo hai appestato.
O potenze divine, se davvero esistete in qualche forma,
fate che il suo seme avvizzisca e le sue idee restino infertili,
e che il mondo dimentichi Giuliano Della Rovere,
perché mai nasca un altro essere umano come lui.
Amen.
 
Il Decano decise che avrebbero votato per la prima volta un'ora dopo il pasto del mezzogiorno. Consumarono il pranzo in un silenzio teso, non ci furono discorsi propagandistici dei grandi favoriti né discussioni goliardiche da parte di coloro che non avevano particolare potere decisionale. Solo tanti sguardi sfuggenti attraverso le brocche di vino e i panieri colmi di frutta, sguardi di chi sta cercando di decidere quali, tra coloro che lo circondano, siano potenziali alleati, e quali nemici mortali.
Morte...il soffocamento è la sensazione che più le somiglia, per Giovanni.
Anche ora, rinchiuso nel suo cubicolo con la scusa di cercare il consiglio divino prima della votazione, tiene la fronte poggiata sulle grandi mani intrecciate, e si pone di controllare il respiro per non soccombere a quel senso di affanno. Sogghigna, amaro. Sarà colpa del delirio mistico, se suda come un porco? Ah, se solo tutto girasse come deve...quale rivincita, padre mio. Quale riscatto per il nome dei Medici.
Ricorda le informazioni che ha ricevuto da Auditore. I tre cardinali di fazione spagnola subiranno pressioni nei prossimi giorni, ma lui non deve avvicinarli finché non riceverà il suo segnale. Gli ha chiesto come si manifesterà, questo segnale. Quel delinquente di Ezio ha soltanto sorriso. Dice che lo capirà.
Almeno, Farnese è con lui. E Grassi. E Sigismondo, sì, anche lui è un amico. Dove si sono conosciuti? Non se lo ricorda, dannazione...si terge il sudore con la manica dell'abito purpureo. Non c'è niente da temere, comunque, Bernardo[6] sta facendo un ottimo lavoro dentro il Vaticano e Auditore ne starà svolgendo uno altrettanto scrupoloso fuori. Se solo qualcuno potesse impedirgli di sudare così tanto, adesso...
Si terge con pezzuole profumate, e per un po' il sollievo che gli regala la freschezza gli schiarisce la mente. Quando è ora per i cardinali di dirigersi di nuovo verso la Cappella Sistina in un'ordinata processione, il respiro è tornato regolare.
Ha vinto di nuovo. Dentro di sé, rivolge un'altra risata irridente alla morte che ogni tanto si affaccia per vedere se è maturo. Si fotta: non è ancora il momento. Non lo sarà tanto presto.
Una volta sbrigati i neniosi rituali da espletare prima della votazione, Giovanni prende il suo posto e scrive, in silenzio devoto e raccolto, come se stesse davvero ascoltando la voce dello Spirito Santo nell'orecchio: io, Giovanni De Medici, Cardinale di Santa Romana Chiesa, do il mio voto a...
Ed ecco, è tempo di ripiegare il foglio accuratamente, per poi unirsi alla lenta processione dondolante che deve riporlo nel calice d'argento dello scrutinatore. Riario posa uno sguardo avido sul cumulo di biglietti. Vorrebbe avventarvisi sopra, il bastardo, ma deve attendere che ognuno dei cardinali abbia riguadagnato il proprio seggio prima di sfiorare il calice. Calmati, razza di assatanato. È solo la prima.
Quando è di fronte a lui, finalmente, Giovanni lo fissa negli occhi. Così comuni, come il resto dei lineamenti. A parte la piega volitiva delle labbra, non c'è nulla che resti impresso nei suoi tratti. Non resterà impresso nemmeno il suo nome dentro la storia. Giovanni sorride, teso, mentre una goccia di sudore – di nuovo? Dannazione – gli scivola dalla tempia lungo la mascella. Stende la mano. Il biglietto cade nel mucchio.
Giovanni De' Medici si schianta sul pavimento un attimo dopo.
Tiene gli occhi aperti a forza. La vista è sfocata, è vero, ma può vedere i cardinali, sono chini su di lui. Una danza di cappelli rossi...qualcuno batte sulle porte chiuse della cappella, invocano il medico per Sua Eccellenza De' Medici...non ce n’è bisogno. Vuole accanto solo Bernardo. Ora glielo dirà.
Ma la voce non obbedisce, e gli arti non rispondono. Giovanni li vede lì, immobili come pezzi di carne morta, e benché ordini loro di alzarsi non vogliono ascoltarlo. Quando il medico della Santa Sede irrompe nella cappella, il sudore sembra cessato e la sua fronte è di nuovo gelida: eppure, ancora, non riesce a muoversi. Il tocco pratico dell'uomo in nero è sicuro, ma allo stesso tempo impalpabile.
«Cardinal De' Medici? Mi sentite? Vostra Eccellenza, guardatemi.»
Giovanni fatica a tenere le palpebre aperte. Ma le costinge, per la malora, a farlo. La forza di volontà è tutto, in un uomo. E Giovanni De' Medici non morirà oggi...
Poi, riconosce il volto del medico. Gli occhi rossi come l'autunno, i capelli dello stesso colore, il sorriso confortante. E gela.
«Non temete, Eccellenza. Mi prenderò io cura di voi.»
 
*
 
«Atti di matrimonio?»
Ezio squadrò Jacopo con aria scettica, mentre Ermes esaminava i documenti in questione. L'ex ambasciatore si sistemò gli occhiali sul naso.
«1492: Luigi d'Aragona convola a nozze con Battistina Cybo, nipote di papa Innocenzo VIII. Due anni dopo, l'unione viene annullata per permettere all'Aragona di avviarsi alla carriera ecclesiastica.»[7]
«Niente di nuovo» borbottò Vanni, giocando nervoso con la croce templare al suo collo. «È una storia sentita mille volte.»
«Non ci interessano le altre novecentonovantotto volte, in effetti...» sorrise Jacopo, e spostandosi sulla spalla di Ermes Bentivoglio estrasse un foglio in particolare dalla risma. «Ma la novecentonovantanovesima, sì.»
Iniziavo a spazientirmi anche io di quei giochetti, e non capivo dove il mio amico volesse andare a parare. Il conclave era iniziato: erano previste al massimo quattro votazioni al giorno. Le contrattazioni erano a malapena cominciate, e sapevamo che non sarebbe stata una faccenda semplice; tuttavia, la paura che tutto si concludesse prima che riuscissimo a mettere pressione sui cardinali giusti aleggiava su di noi come uno spettro senza corpo.
Lo sguardo di Ermes si illuminò come quello di un felino.
«Adriano Castellesi e Brigida di Bartolomeo, sposati nel 1485. Il matrimonio è stato annullato nel 1489...» scorre rapidamente le linee scritte in una grafia arzigogolata. «...perché dichiarato non consumato.»
«E dunque?» L'impazienza di Vanni era palpabile. La mano guantata di nero di Etienne de Ponthieux gli si posò sulla spalla. Mi aspettai che parlasse. Dio, quell'uomo era ancora più inquietante perché non apriva mai bocca.
«E dunque» completai per lui «gli annullamenti sono mosse politiche, ed è altamente probabile che ci siano dei figli nascosti da qualche parte, o addirittura delegittimati. Conoscendo il nome della madre, potremmo rintracciarli più facilmente di qualunque figlio bastardo i cardinali possano aver avuto in giro per l'Europa, e ricattare i padri con questa informazione.»
Il mio tono implicava un pesante: dovresti averlo capito prima. Dopo tutto, la sua mogliettina era proprio il frutto di uno di questi matrimoni non consumati. Dal suo sguardo affilato, compresi che lo aveva capito, eccome. Lo scopo delle sue irritanti domande era un altro.
Si allungò sul tavolo, in un atteggiamento provocatorio verso nostro padre.
«Avete intenzione di minacciare i figli di quei cardinali?»
Ezio non abbassò lo sguardo. «Se sarà necessario.»
«Credevo fosse contro i vostri metodi così puri.»
Ermes rivolse un'occhiata di rimprovero al suo allievo, ma Ezio gli fece cenno di restarne fuori. Raddrizzò le spalle, e abbassò il mento. «Non abbiamo tempo per marcare i rispettivi territori, Giovanni. Potremo tornare a queste stupide dispute quando il nostro cardinale vestirà la tiara papale. Nel frattempo...il fango è fango, e nessuno di noi va fiero di immergerci le mani.»
Respressi a stento un brivido. Una volta, nei miei viaggi verso Roma durante un'estate più umida del solito, avevo visto una tempesta in cui i fulmini, invece di schiantarsi al suolo, saettavano di nube in nube, rischiarando la notte a giorno. Nella stanza chiusa in cui ci trovavamo sembrava stesse per scoppiare quel tipo di temporale, ed è inutile che vi spieghi chi fossero le due nubi.
 
8 Marzo
 
La ricerca diede i suoi frutti, ed entro la mattina successiva la nostra fitta rete di informatori ci diede tutte le delucidazioni che ci mancavano. Se di Battistina Cybo apprendemmo che era morta poco tempo dopo l'annullamento, e senza prole, c'era un'altra donna che aveva lasciato il segno nella vita di Luigi d'Aragona. Il cardinale aveva avuto una relazione lunga almeno otto anni con una certa Giulia Campana...il nome non mi era nuovo del tutto: si trattava di una cortigiana ferrarese che era stata piuttosto famosa negli ultimi anni. Ebbene, fino a poche settimane prima dell'inizio del conclave la donna aveva pagato una balia per sua figlia Tullia, di cinque anni, poco fuori Ferrara.
Poi, i pagamenti erano misteriosamente cessati. La bambina poteva essere morta. Oppure no.
«Non vuol dire niente» obiettai, mentre Vanni ed io discutevamo appollaiati sul tetto dell'Aracoeli. Eravamo tranquilli, benché lievemente più in vista di quanto avremmo osato normalmente; la maggior parte delle guardie romane era impegnata negli stretti dintorni di San Pietro, in quei giorni.
Avevano mandato proprio noi due a raccogliere le parole degli informatori. Entrambi avevamo accettato senza fiatare.
Una volta, l'averci appaiati per una missione mi sarebbe apparso un affronto. Ora, si trattava di un semplice dato di fatto: Giovanni Antonio Auditore era un collaboratore della mia causa, e come tale l'avrei trattato fino all'ultimo giorno della nostra alleanza.
«Questo niente» mi rispose Vanni «è tutto quello che abbiamo.»
«Non c'è tempo per andare a Ferrara a fare altre ricerche, né per interrogare la madre.»
«Ma c'è tutto il tempo per mettere alle strette l'Aragona e parlargli di questa figlia.»
«Negherà, e noi non abbiamo uno straccio di prova da opporgli.»
«Le inventeremo.»
«E se fosse morta?»
«Dio, Bianca! Smetti di invocarci la sciagura addosso, non ci aiuterà.»
Settai le labbra, e buttai fuori il fiato cattivo. Sì. In questo, aveva ragione.
Sedemmo in silenzio, contemplando un sole che bruciava più di quanto di solito facesse in quella stagione. Era più del tepore di una primavera in anticipo: batteva esigente sulla pelle e prosciugava la saliva in gola. Un'imponente minaccia d'estate.
Una rondine stridette forte, da qualche parte nel cielo azzurro slavato. Mi girai d'istinto per cercarla con lo sguardo. Rimanemmo in silenzio, a lungo.
«Te lo ricordi?»
Chiusi gli occhi. La voce di Vanni si era fatta bassa. Quasi malinconica.
«Cosa dovrei ricordare?»
«No, è che...pensavo al giorno che siamo usciti a cavallo, con la mamma e...» inspirò. «Nostro padre. Quanti anni avevamo, te lo ricordi?»
«Non mi ricordo niente del genere. Te lo stai inventando.»
«Può essere, i ricordi reali a volte si confondono con i desideri.»
«Erano troppo impegnati nelle loro missioni, quando eravamo piccoli. C'è stata la destituzione di Savonarola, nostro padre non era quasi mai al borgo. Anche la mamma ci lasciava spesso con zia Claudia e la nonna...mi sembra improbabile che fossero a casa entrambi, e avessero abbastanza tempo libero per portarci fuori a cavallo.»
«Già. Hai ragione.» Si umettò le labbra. «Però è un'immagine molto chiara nella mia testa, sai. Mi ricordo che c'era il sole, forte come oggi. Sono sicuro...era prima che partissero per Roma, Ugo non c'era ancora. Siamo andati a cavalcare nei campi. Due stalloni sauri, erano meravigliosi, e mi sembravano così alti...io dovevo avere tre anni o giù di lì...»
«Ne avevi cinque.»
Tacqui. Lui poteva rinfacciarmi di avergli mentito. Non lo fece.
Mi voltai solo quando capii che Vanni non stava guardando me, ma un punto indefinito nel cielo, in cui era sparita quella rondine, con il ginocchio al petto e un braccio a stringerselo addosso. Era bello, me ne accorsi solo in quel momento, con i lineamenti nobili di Ezio e i colori contrastanti di Rosa. Sembrava meno tempestoso del solito. Meno tormentato.
«Mi ricordo l'aria che mi frustava il viso, e le braccia di nostro padre che tenevano le redini mentre mi circondavano. Tu eri a cavallo con la mamma...abbiamo fatto tre gare, ma noi vi abbiamo sempre battuti.»
«Avevate il cavallo migliore.»
Vanni accennò ad un sorriso. «No...ci avete lasciato vincere, tutte e tre le volte.»
Sentii che anche la mia bocca si distendeva. Sì, li avevamo lasciati vincere, perché altrimenti Vanni avrebbe frignato per tutto il giorno, rovinando quel pomeriggio che i miei genitori si erano ricavati con tanta fatica tra i loro impegni per poterlo dedicare soltanto a noi. Non mi era dispiaciuto. Era stato bello ridere, tutti insieme, e non preoccuparsi di nulla. Era stato bello...
«Perché devi attaccarlo a quel modo?»
Lo domandai con cautela, perché non sembrasse un'accusa. Vanni alzò le spalle, continuando a guardare lontano.
«È stupido. E anche malato, lo so...ma solo quanto riesco a ferirlo si ricorda che esisto. È sempre stato così.»
Lo fissai così seria che dovette avvertire un richiamo dentro il mio sguardo. Quando voltò il viso, lo resse senza timore.
«Lo sai che questa è solo una tregua, vero? Non c'è speranza di tornare indietro, non puoi chiedere perdono alla nostra famiglia per quello che hai fatto.»
«Non è quello che spero.»
«Allora perché rivangare quel ricordo?»
Volevo che abbassasse gli occhi per primo. Non lo fece. Il suo volto pallido era calmo, consapevole. Sembrava tanto più adulto dei suoi vent'anni ancora da compiere.
«Perché è un bel ricordo. Solo per questo.»
Attesi che cercasse di persuadermi del fatto che c'erano immagini positive di lui, dentro di me. Mi aspettai che si appellasse alla nostra infanzia felice per estorcermi una promessa, chiedermi un favore, implorarmi di intercedere presso nostro padre.
Non fece nulla di tutto ciò.
Annuii, grave, per fargli capire che avevo riconosciuto l'onestà delle sue intenzioni quest volta.
«Sì. Lo è.»
Scendemmo da quel tetto nella nostra differente maniera: lui con una rapida arrampicata verso il basso, io con un molto più veloce Salto della Fede. La paura delle altezze che lo aveva afflitto da ragazzino poteva anche essere stata vinta, ma sapevo che non l'avrei mai visto compiere quel gesto. Il suo rifiuto del salto era sempre stato il segno che era diverso da tutti noi, e ci teneva a rimarcarlo ancora di più dopo quell'improvvisa, inaspettata vicinanza che avevamo condiviso sul tetto di Santa Maria in Aracoeli, in quel pomeriggio primaverile.
Stavamo camminando uno accanto all'altra, il suo cappuccio grigio bordato di porpora e il mio bianco bordato di rosso, in un silenzio teso. Dovevamo raggiungere la Volpe Addormentata, ma nei pressi del Colosseo mi sentii afferrare un braccio. Trasalii. Vanni fece per estrarre la lama celata contro la figura in cappuccio brunito che mi aveva stretta. Lei lo fulminò con gli occhi viola.
Diamante aveva in volto una maschera di gelo.
«Cosa è successo?»
«I piani sono cambiati. Siamo diretti in Vaticano.»
«Perché? Rispondete, maledizione» ringhiò Vanni. La donna lo guardò come se strangolarlo fosse l'unica cosa che le avrebbe procurato sollievo. Aveva ragione a pensarlo, lo sapevo. Ma non avrei potuto permetterglielo.
«De' Medici», sibilò infine. «È stato avvelenato.»
 
Se una volta mio padre aveva dovuto lasciare che i suoi compagni provocassero dei disordini nelle zone più disparate di Roma per riuscire a distrarre le guardie del Vaticano, questa volta la situazione si prospettava più rosea per i nostri. La verità, era che la nostra rete romana si era fatta fitta e capillare, grazie soprattutto all'intenso lavoro di Ugo e Claudia in questo senso. Il vuoto di potere che aveva seguito la morte di Giulio II, poi, ci aveva permesso di introdurre a San Pietro uomini di fiducia: arroccati in quel palazzo non c'erano soltanto nemici, non avremmo dovuto espugnare una fortezza avversaria.
Tuttavia, Ezio volle mettersi a capo della sortita. Per spianarci la strada, diceva. Io credo che a quel punto volesse prendere le redini di una situazione diretta verso il ciglio del burrone. Se De' Medici fosse morto, avremmo perso la guerra. Dovevamo controllare le sue condizioni di persona, e poi sistemare la questione con i tre spagnoli. Poco importava che non avessimo nulla contro due di loro e quasi nulla contro il terzo: avremmo dovuto improvvisare.
Non fu particolarmente difficile scalare le mura degli immensi giardini; ci eravamo divisi, per diminuire le possibilità di essere visti. Dall'interno, Bibbiena e gli altri avevano facilitato il compiro distraendo le guardie: ad alcuni avevano concesso del vino drogato, per lasciare che ronfassero più profondamente del previsto, mentre per altre era stato necessario ricorrere alle scollature generose e le gonne spaccate di alcune vecchie amiche. Avevamo appuntamenti precisi con i nostri compagni di missione: Martino e Vanni si sarebbero incaricati di persuadere, con un po' di azzardo e finzione, il Cardinale Castellesi; Ponthieux ed io avremmo parlato con Luigi d'Aragona riguardo la sua figlia scomparsa. Ermes ed Ezio avrebbero conferito con Bibbiena sulla salute di  De Medici, prima di recarsi da Jaume Serra i Cau, l'uomo più impenetrabile di questo dannatissimo Conclave.
 
*
 
Bernardo Dovizi da Bibbiena passseggiava nervoso nello stretto corridoio tra i cubicoli occupati dai conclavisti, sorvegliando la porta[8] dietro cui riposava Giovanni: da quando quella faina travestita da medico aveva provato a mettergli le mani addosso, non poteva fidarsi più di nessuno.
Gli aveva somministrato lui stesso gli emetici che l'avevano aiutato ad espellere la bile e il veleno, aveva aiutato la sua mole non esile a scivolare nella vasca per abbassare la temperatura, che era tornata alta d'improvviso dopo la perdita di sensi. Dove...nel suo cibo? Forse nel vino? Dove era stato messo il dannato veleno? Non ne aveva trovato traccia sugli abiti, né tra i suoi oggetti personali. Poteva solo averlo ingurgitato. Sì, c'era della polvere di arsenico nel suo anello, ma ben custodita dentro una capsula che il suo signore non poteva aver aperto per sbaglio. In ogni caso, confortato nella propria diagnosi improvvisata dalle pustole che erano apparse sul corpo del suo signore e dal colorito giallastro che aveva assunto, gli aveva somministrato infusi di elleboro bianco, perché espellesse ogni traccia del veleno.
Alzò lo sguardo di scatto, quando le due figure incappucciate gli si avvicinarono. Anche se avevano l'incedere di due monaci, Bernarndo sapeva bene che non lo erano.
«Ezio» sospirò in un sussurro, quando identificò il mento dalla barba argentea che emergeva da sotto il cappuccio nero. L'altro, con quegli abiti rossicci, non poteva essere che...sì, ora che aveva alzato il volto era impossibile non notare la somiglianza con quella serpe del Bentivoglio.
«Bernardo» disse l'Assassino, in tono basso e grave. «Come sta?»
Per tutta risposta, il segretario di De' Medici aprì loro la porta del cubicolo, lasciandoli scivolare al suo interno.
Era uno spazio troppo angusto per quattro uomini adulti, di cui uno così massiccio e disteso: tuttavia, non potevano correre il rischio che altri conclavisti li vedessero nei corridoi. Si strinsero spalla a spalla, mentre Bernardo spiegava:
«È stato l'arsenico Ezio, ne sono quasi certo. Acqua tofana, forse...aveva iniziato ad accusare attacchi di vomito fin dalla partenza, a Firenze. È stato un viaggio estenuante...ma poi sembrava essere migliorato, e non ho pensato...»
L'Assassino sembrava non averlo ascoltato. Bernardo lo osservò mentre si inginocchiava accanto al papabile in cui per tanti anni aveva posto le sue speranze.
«Giovanni, mi sentite...?»
Il cardinale sospirò pesantemente. «Ezio Auditore» mormorò, tra le labbra spaccate. «Cosa ci fate qui? Dovreste essere là fuori...ad assicurarvi...i miei voti.»
Il Mentore mosse appena la bocca in un sorriso, e poggiò la mano sulla sua, inanellata. «Voti inutili, se ci lasciate la pelle prima dello scrutinio.» Accarezzò uno degli anelli in particolare, quello con lo scomparto segreto dove il cardinale custodiva la polvere di arsenico. Ezio la raccolse con il polpastrello, la saggiò tra indice e pollice. «Se avete così poco cara la vita, avreste dovuto dirmelo dall'inizio.»
Bernardo sgranò gli occhi, rifiutandosi di credere a ciò che il Mentore suggeriva. Il suo signore avrebbe ingerito da sé il veleno, dunque? Per quale motivo? Per quale...
Giovanni De' Medici produsse un sogghigno, che la debolezza trasformò in una smorfia. «E ora, la metà degli indecisi ha...una buona ragione per votarmi. Ho trentasette anni, già...ma sono così malato!»[9] Rivolse uno sguardo al suo segretario, e Bernardo avrebbe potuto giurare di vedere una scintilla furba rilucere nei suoi occhi scuri per un momento. «Ora starà al mio abile amico, qui, convincere gli altri conclavisti che...votare me è un'ottima scusa per prendere tempo per qualche anno, in attesa del prossimo conclave.»
Silenzio, teso e pesante.
Poi, una risata sommessa da parte del capo degli Assassini. «Non vi fidate proprio della mia capacità di procurarvi quei voti.»
«Non c'è di che, Ezio. Vi ho appena risparmiato di dover minacciare gli ultimi dieci cardinali della vostra lista...» Un respiro difficoltoso. «Anche se sì, gli spagnoli ci faranno comodo. Usate...anche questo, per convincerli. Se Riario non li ha già ricoperti d'oro, è chiaro.»
Bernardo si fece avanti, inquieto. Lo infastidiva che quei due parlassero con tanta calma. Il suo signore aveva ingerito del veleno, senza mettere nessuno al corrente di questo folle piano...e quei due pazzi ne ridevano?
«Vostra Eminenza» sussurrò, portandosi accanto all'Auditore. Non si inginocchiò, ma guardò duro l'uomo che aveva servito, e in cui aveva creduto, per tutta la vita. «Perché? Come avete potuto fare questo a voi stesso? Se vi avessimo perso, avremmo perduto con voi tutto...l'uomo, la causa, la speranza intera per il futuro! E tutti quegli anni di lavoro...di devozione cieca...per cosa, Giovanni? Per cosa!»
De' Medici sorrise. «Fiducia, Bernardo. In te. Sapevo che avresti capito da cosa era causato il mio malore, e che mi avresti somministrato la giusta cura.»
«E se quel dottore infernale avesse messo le mani su di voi per primo?»
«Confidavo nel fatto che non glielo avresti permesso.»
Nell'assenza di suoni che ripiombò su di loro, echeggiò dopo qualche istante il lento applauso di Ermes. 
«Posso farvi i complimenti per la vostra scelta, Ezio?» disse il templare, con appena un accenno di divertimento nella voce. «Quest'uomo è il più subdolo serpente calcolatore che abbia mai conosciuto...e mio fratello è Tancredi Bentivoglio, il che rende i miei punti di riferimento piuttosto elevati.»
Ezio Auditore, con quell'aria da ragazzo mai cresciuto che non comprende la gravità delle conseguenze, sorrise. Bernardo ne fu sconcertato.
«Cosa volete che vi dica, Ermes...ha sorpreso perfino me.» Non aggiunse: e mio figlio è Giovanni Antonio Auditore, ma Bernardo sentì comunque quella parte della frase riecheggiare nella stanza, tra di loro.
 
*
 
Luigi stava bevendo un bicchiere di vino nel suo cubicolo, quando lo raggiungemmo. Aveva appena allontanato il valletto, che, uscito dalla porta, aveva trovato me e il mio silenzioso compare a sorprenderlo. Prima che potesse gridare, Ponthieux l'aveva stordito con un preciso colpo alla nuca, per poi trascinarlo con sé dentro la stanza.
Al nostro ingresso, il cardinale non alzò nemmeno lo sguardo dal libro che stava leggendo.
«Fernando, ti ho detto...»
Solo quando Ponthieux lasciò scivolare a terra il suddetto Fernando come fosse un sacco di papate, il cardinale si accorse di cosa stava accadendo. Sembrava adontato. Aveva indosso tutta l'espressione altezzosa degli Aragona di Napoli. Gli puntai contro la mia balestra già carica.
«Un fiato, Eminenza, e sarà l'ultimo che tirerete.»
Lui fissò il dardo che gli puntavo contro con aria quasi di sfida. Inarcò un sopracciglio.
«Questo conclave si prospetta davvero particolare.»
Ponthieux poggiò le spalle alla porta, e pronunciò, gravate da un leggero accento, le prime parole che gli avevo sentito dire. «Potremmo essere sicari, lo sapete?»
Un sorrisetto ironico fiorì sulle labbra dell'Aragona. «Non avreste perso tempo a minacciarmi, e sareste già passati ai fatti. Dunque, deduco che siate qui per contrattare...» Fece un gesto verso l'unico sgabello della stanza. «Mi duole non avere sedie da offrire a entrambi...per cavalleria, immagino lascerete questo onore alla signora?»
Ammiccai verso Ponthieux. Lui fece appena un gesto con il mento, che voleva chiaramente dire: accomodati, lo spocchioso è tutto tuo.
Sedetti senza fretta, le mani poggiate alle ginocchia. Guardai la faccia da schiaffi che avevo di fronte, studiandone i lineamenti mentre dicevo:
«Cosa mi dite di Tullia, Vostra Eminenza?»
«Dico che è un bel nome. Lo portò la figlia di Cicerone, se non erro.»
«È anche il nome della figlia della vostra amante ferrarese.»        
L'uomo chiuse il libro, e se lo pose sulle ginocchia. La sua mascella sembrava irrigidita.
«Non sono responsabile del modo in cui una donna che un tempo ho conosciuto ha battezzato sua figlia.»
«Non vi ha consultato, dunque? Quanto cattivo gusto. Immagino che avreste voluto darle il nome di vostra sorella Giovanna.[10] È ricorrente nella dinastia d'Aragona, vero?»
«Sentite: se siete della cricca di Riario, sappiate che vi considero i peggiori demoni vomitati dall'inferno. Sì, farò quanto mi ha chiesto, gli darò il mio voto. Voglio solo che la bambina torni da sua madre, al più presto.»
Battei le palpebre. Gettai un'occhiata sulla mia spalla al templare, che sembrava imperturbabile come sempre.
«Ci state dicendo che Riario ha fatto rapire vostra figlia Tullia?»
 
*
 
«Sappiamo che avete una moglie, a Volterra.»
Martino teneva le mani amorevolmente appoggiate sulle spalle di Castellesi, per essere certo che non provasse ad alzarsi da quello sgabello un'altra volta. Vanni  gli girava intorno, con l'aria di chi ha tutto il tempo del mondo per estorcere l'informazione che desidera.
L'uomo deglutì, prima di balbettare: «L'avevo. Il matrimonio è stato dichiarato nullo.»
«Perché non consumato.» Vanni finse di leggere un foglio che aveva estratto dalle pieghe del mantello. «Per...un vostro impedimento fisico...» Sfoderò un ghigno strafottente, e sedette sui talloni, esaminando le pieghe della veste cardinaliza all'altezza dell'inguine dell'uomo. «Davvero, Castellesi? È per questo che avete preso i voti, perché il vostro batacchio non funziona? E io che pensavo foste solo un altro galletto affamato di potere! Invece, siete un cappone.»
«Forse, visto che tanto nun se ne fa' gnente, j'o potemo pure tajà. 'n probblema de meno, eh, Eccellenza?»
Le spalle di Castellesi tremarono sotto la sua stretta. «Cosa volete da me, maledetti...»
Vanni si strinse nelle spalle.
«Un'inezia. Solo il tuo voto per il Cardinale De' Medici.»
«Ma vedi, ce dovemo assicurà che poi 'o voti pe' davero. C'avemo gli omini nostra quaddentro, sa'? E ogne scheda c'ha sopra 'r nome. Quinni, se voti quarcun artro, noi o' venimo a sape'...»
«E ovunque questa moglie sia, noi la scoveremo... I nostri uomini la stanno già cercando, Adriano. I nostri uomini sono molto bravi a scovare i segreti inconfessabili della feccia come te.»
Martino non vedeva il volto dell'uomo pavido che stavano torturando a suon di vuote minacce, ma avvertiva dal crescente umidore delle sue vesti che non avrebbe retto a lungo. Tuttavia, c'era una traccia di dolore nella sua voce terrorizzata, quando disse: «I vostri uomini arrivano tardi...non potrei votare De' Medici nemmeno se volessi. E, credetemi...vorrei.»
Vanni gettò una rapida occhiata a Martino. No, nemmeno lui aveva la più pallida idea di cosa stesse dicendo. Si alzò in piedi, guardando il prigioniero dall'alto in basso.
«Dicci di più.»
 
*
 
«Non c'è niente che voi possedete che possa comprare il mio voto.»
Ermes ed Ezio fissarono il volto incartapecorito del vecchio cardinale catalano, inginocchiato a pregare con un rosario tra le mani. Doveva avere almeno ottant'anni.
«Dove riponete la vostra lealtà, Jaume?» domandò Ezio, «Se non possiamo comprarvi, possiamo almeno tentare di convincervi della bontà della nostra causa.»
«La mia lealtà è solo per Dio.»
Lo disse con gentile fermezza. Senza orgoglio, come ad affermare un semplice dato di fatto.
Ermes, però, non si lasciò incantare da quell'aria da pecorella che segue docilmente il pastore. Aveva conosciuto troppi uomini del genere per credere ancora alla bontà delle loro parole.
Fece un passo in avanti. Squadrandolo dall'alto in basso, mentre quello continuava a pregare e sgranare il suo rosario.
«Intendete candidarvi voi stesso, non è così?»
Il vecchio non aprì nemmeno gli occhi. Non sorrise. Non cambiò affatto espressione.
«Sono sopravvissuto a otto Papi, signori, con intatta fortuna, privilegi e poteri. In base a questo, ho l'ardire di presumere che potrei essermi guadagnato il diritto di proporre il mio nome...ma se sarò scelto, questo sarà soltanto lo Spirito Santo a deciderlo.»
«Mi dispiace deludervi, ma nessuno vi voterebbe, Eminenza. Fare gli interessi della Spagna è un conto, mettere un suo suddito sul soglio di Pietro è un altro. Roma non è pronta per un altro Spagnolo, le ferite sono ancora troppo fresche.»
Le sopracciglia ispide del vecchio ebbero un guizzo. «Perché, l'ultimo italiano le ha forse portato  lustro?» Scosse la testa, poggiando la fronte sulle mani giunte. «Volete sapere perché entrambi, Borgia e Della Rovere, non hanno funzionato? Perché non erano uomini di Dio, ma del potere: uomini della terra, del fango e del vizio. Io voterò per chiunque deciderà di fare gli interessi non di se stesso o di chi lo circonda, ma di Gesù Cristo nostro Signore: se qualcuno vedrà questa stessa qualità in me, non è una scelta che dipenda dal sottoscritto.» Fece una pausa, durante la quale sembrò essere risprofondato nella preghiera, o in un sonno catalettico. Ma dalle labbra secche emersero ancora queste ultime parole: «Se non siete qui per uccidermi – e non lo siete, perché altrimenti sareste degli sciocchi -, vi auguro la buona notte, miei signori. Pregherò per voi.»
 
*
 
Scivolammo via, senza guardarci indietro, senza cercare le ombre incappucciate dei nostri compagni. L'appuntamento era al Colosseo; fu lì che ci trovammo, sotto la luce forte delle stelle. La luna era ridotta a un quarto sottile e quasi non brillava.
Riportammo i rispettivi resoconti, da cui ricavammo precisamente queste informazioni:
Giovanni De' Medici, all'animaccia sua, aveva ingerito del veleno per convincere i conclavisti indecisi di avere una salute malferma;
Luigi D'Aragona aveva confermato che Tullia fosse sua figlia; aveva inoltre sostenuto che fossero stati gli uomini di Riario a rapirla, con l'intenzione di tenerla in ostaggio fino alla fine delle votazioni;
Adriano Castellesi aveva sì annullato il suo matrimonio per procedere nella carriera ecclesiastica, ma la non più moglie, Brigida[11] Inghirami, era rimasta la sua amante fissa. Anche lei era stata rapita da Riario, che lo ricattava come stava facendo con l'Aragona;
Jaume Serra i Cau, detto l'Alborense, non era né un Assassino né un Templare, ma poteva rivelarsi un avversario più pericoloso di Riario stesso.
«Abbiamo poco tempo» commentò Ezio. «Dobbiamo mobilitare i ragazzi al più presto. Bianca, Martino: andate al covo e...»
Non fece in tempo a terminare la frase, perché Ermes gli pose la mano sulla spalla, indirizzando la sua attenzione verso l'orizzonte.
Fuoco.
In direzione della Volpe Addormentata.
 
Corremmo forte, quella notte, e la vita ci singhiozzava su e giù per la trachea con ogni respiro affannato. Corremmo come non ricordo di avere più corso, fino a che il fumo non ci riempì le narici. Nell'arancio tremolante delle fiamme che avvolgevano la taverna, i ladri superstiti si davano da fare per gettare secchiate d'acqua contro quel muro di fuoco.
«Ugo!» chiamò forte Ezio. Mi sembrò che passasse un momento infinito, prima di udire in risposta la voce di mio zio che gridava: «Ezio! Da questa parte!»
Era alla pompa, di cui faceva ruotare il mulinello con tutta la sua forza per riempire i secchi più in fretta. Zia Claudia? Dove...sì, ora ricordavo, era all'Isola Tiberina quella sera. Ci affrettammo a prendere anche noi secchi colmi d'acqua, fare quello che potevamo. E tutti gli altri, e Diamante?
Cercai di non pormi quella domanda assillante, mentre il corpo si teneva impegnato nell'azione. Quasi singhiozzai di sollievo, quando vidi tre sagome uscire dalla porta – Dio, sembrava il cancello dell'inferno.
Erano Diamante e suo figlio Oreste. Stavano trasportando a braccia un uomo esanime: conoscevo quel fisico rachitico, anche ora che era abbandonato come un Cristo in croce. Padre Geremia.
Vanni fu il primo a correre verso di loro, emettendo un gemito mentre il vecchio frate si accasciava a terra.
«Era nelle stanze superiori» disse Diamante, tossendo «l'abbiamo raggiunto per miracolo, ma...» cercò i miei occhi, ed io andai a sostenerla per permetterle di sedersi. Chiesi a Martino di portare dell'acqua, per lei e Oreste.
Nel frattempo, i templari si erano radunati intorno al loro compagno caduto.
«Padre...per favore.» Vanni prese il volto dell'uomo tra le mani. «Aprite gli occhi, padre Geremia. Vi prego...»
«Giovanni.» Ponthieux gli si era avvicinato. Gli aveva posto la mano sulla spalla. «Il Padre della Comprensione l'ha chiamato a sé.»
Mio fratello lo guardò come se avesse affermato di aver visto la luna farsi verde. Poi, si volse di nuovo verso l'anziano templare.
Due lacrime solcarono il volto di Giovanni Antonio Auditore. Due soltanto. Non si disturbò nemmeno a cercare di asciugarle, mentre Ermes chiudeva solennemente gli occhi di quel vecchio che, da vivo, sembrava la personificazione della serenità.
«Che il Bufihamat ti accolga, fratello, nella sua benevolenza universale» pronunciò il Bentivoglio a fior di labbra.
Io rimasi a guardare quella scena, senza capire perché mi sentissi il cuore tanto pesante. C'era una cosa giusta che quel folle di Alfonso d'Este aveva detto sul campo di battaglia di Ravenna, ed era: sono tutti nemici nostri. Ma in quel momento, di fronte al loro lutto condiviso, li sentii così simili a noi che il cuore mi tremò di paura.
Mi rivolsi a Martino, per cercare conforto nella sua mano. Scoprii che quello che ne aveva più bisogno era lui, che fissava ancora il fuoco come se si trattasse di una punizione divina.
Il fuoco, già. L'incendio dove erano morti quei due bambini, in Francia.
In quello scenario di persone piangenti, fuliggine e secchi d'acqua gettati a terra in segno di resa, mentre le fiamme consumavano l'ultimo ostinato scheletro della taverna, il fatto che le nostre dita si intrecciassero forte non sembrò fuori luogo a nessuno.
 
9 Marzo
 
Era stata una ritorsione degli uomini di Riario, questo era chiaro a tutti. Come ci era chiaro il fatto che, se volevamo trovare gli ostaggi vivi, dovevamo agire rapidamente. Non avevamo margini di errore. Per questo proposi di usare il potere dei Frutti dell'Eden, per poter rintracciare la donna e la bambina.
Aveva senso. Quella strana seconda vista che chiamavamo Occhio dell'Aquila alle volte mi segnalava il percorso da compiere, un luccichio dorato che avevo incontrato soltanto nella mia mente, dopo aver maneggiato i Frutti dell'Eden. Una volta, quella scia luminosa mi aveva guidata su un'altissima torre perché potessi trovare il Serpente Doveva essere legato a loro, per forza.
Il Bastone era gelosamente custodito in San Pietro, d'accordo, ma la Mela e il Serpente sarebbero stati sufficienti. Durante quella riunione di emergenza negli appartamenti romani di Machiavelli, Martino si oppose con forza, ricordando a me e a tutti i presenti in che stato mi fossi ridotta dopo che avevo usato il Serpente l'ultima volta. Io gettai un'occhiata a Ezio, che restò in silenzio. Stava lasciando a me la responsabilità di difendere la mia idea.
«Sai che non c'è altro modo.»
«E allora perderemo. Perderemo questa guerra fottuta, e ar diavolo tutto. Te nun lo tocchi più quer coso malefico, m'hai sentito?»
«Non lo farà da sola.»
Tutte le teste si girarono verso Vanni.
Calmo, lui continuò: «È qualcosa che scorre nel sangue degli Auditore, fin dal Maestro Altaïr. Abbiamo tre Auditore in questa sala, e solo due frutti...se l'algebra conta qualcosa, dovremmo essere in grado di dominare il loro potere.»
Guardai di nuovo mio padre. Anche Vanni lo fece. Questa volta, non poteva evitare di esprimere la propria opinione.
Ezio si alzò in piedi.
«Vale la pena fare un tentativo.»
Martino tacque, ma era livido in volto. Cercai di sfiorare la sua mano, un contatto a cui si sottrasse.
Capivo il suo punto di vista. Guardare senza poter fare niente era più terribile che gettarsi a capofitto nel vuoto. Forse ero pazza: tutto quello che avevo vissuto a Ravenna con il Serpente avrebbe dovuto farmi valutare più scrupolosamente le conseguenze di un gesto simile. Tuttavia, sapevo anche che la situazione era abbastanza disperata da richiedere misure drastiche. Non mi ero mai tirata indietro, mai. Mio marito doveva perdonarmi, ma non l'avrei fatto questa volta.
Chiudemmo gli altri fuori dalla stanza – non avevamo mai maneggiato due Frutti nello stesso momento, non sapevamo cosa sarebbe potuto accadere. Ezio prese cautamente la Mela in una mano, e il Serpente nell'altra. Al suo fianco, Vanni ed io ci scambiammo uno sguardo. Stringemmo ognuno un braccio di nostro padre, per poi porre la mano libera sul Frutto. Io toccai il Serpente, Vanni la Mela: il peggior incubo di entrambi, visto come ci avevano manipolati in passato...tuttavia, quel fondo di astiosa competizione che restava vivo tra di noi ci impediva di dimostrarci l'un l'altro quanta paura avessimo di affrontare di nuovo quell'ordalia.
Quella volta, non ci furono suoni stridenti a graffiarci le orecchie. I Frutti produssero ognuno una nota attutita, cauta, che si articolò in una specie di armonica melodia. Dietro le palpebre chiuse, imposi al respiro di placarsi. Lentamente, dimenticai la pesantezza del corpo, escluso i punti di contatto con il Frutto, da cui sembrava irradiarsi una benefica frescura.
Navigai le schegge di immagini che mi sfrecciavano davanti senza suono. Non potevo percepire la presenza di Ezio e Vanni, ma ero consapevole che, a qualche parte nella loro coscienza, stavano vedendo le mie stesse immagini. Non sentii le loro voci, o baggianate simili che i falsi indovini cercano di propinare ai creduloni. Semplicemente, sapevo che erano con me anche senza poterli fisicamente sentire.
Un po' per mia volontà e un po' guidata dalla loro, lascia che quelle immagini mi scorressero addosso...fino a che alcune di esse non presero a brillare della luce dorata che avevo imparato ad associare all'Occhio dell'Aquila. Le seguii, allora, come un bambino salterebbe sui sassi rotondi che emergono dall'alveo di un torrente, che paiono un sentiero tracciato apposta per fargli guadare il corso d'acqua indenne.
 
 
Una campagna che inizia a farsi meno brulla. Il bruno dell'inverno fiorisce in giallo e verde pallido, sono gli ultimi strascichi di gelo prima della rinascita. Il pianto lamentoso di una bambina, viene trascinata da mani rudi. Una donna la segue, incespicando. Anche lei è spinta brutalmente. Tra un passo e l'altro stringe maledizioni per i carcerieri, e parole di conforto per la bambina.
Le immagini che seguirono erano sfocate, e troppo rapide per poterle osservare attentamente. Mura alte, torri tozze e rotonde...la donna guarda in su, vede un'iscrizione in latino che non faccio in tempo a incamerare – gratabo, poi nient'altro...Brigida viene spinta nei bui corridoi, fino a quella che sembra una prigione. Supplica che la piccola almeno possa restare con lei. Gliela strappano dalle braccia. Mostri! È spaventata, è solo una bambina! Riceve in risposta uno spintone, che la fa rovinare a terra. Tullia piange, i carcerieri chiudono la porta della cella a doppia mandata. Brigida si rialza, batte i pugni sul legno spesso, invoca la vendetta degli angeli su quelle bestie. Il pianto di Tullia nel corridoio si fa sempre più lontano, insieme ai passi dei carcerieri.
 
 
Mi svegliai intorpidita, con un lieve senso di nausea a ristagnarmi negli zigomi. Battei le palpebre, mentre tornavo lentamente nella stanza. I Frutti risplendevano, ma quel bagliore stava scemando. Ezio e Vanni ripresero coscienza a loro volta.
Ci scambiammo uno sguardo, prima che io prendessi fiato.
«Avete visto...?»
«La donna, la bambina, il castello» annuì Ezio. «Ma potrebbe essere ovunque.»
«Non è ovunque» disse Vanni, sicuro. Inarcai un sopracciglio, mentre lui spiegava: «Sono già stato laggiù, più di una volta. È la Rocca Pia di Tivoli.»
«Come fai ad esserne certo?»
«La scritta all'ingresso.»
Ezio gli rivolse uno sguardo indagatore. Pronunciò le parole che aveva fatto in tempo a leggere: «Grata bonis, invisa malis...»
«...inimica superbis sum tibi Tibure.»[12] Suonava sicuro di quelle parole come del suo nome. «Le tengono prigioniere laggiù.»
 
10 Marzo
 
Quella sera, dopo una buona cena irrorata di vino, i venticinque cardinali del conclave sedevano pacificamente nella Sala Regia. Giovanni sapeva che, ad un occhio esterno, sarebbero apparsi gruppi di commensali che dividono spensierate conversazioni prima che venga il tempo di spegnere le candele e ritirarsi per la notte. Quelle spensierate conversazioni stavano, in realta’, decidendo il destino della cristianita’ intera. Forse, a dar retta a Bernardo e ad Ezio Auditore, i destini del mondo.
Nella seconda votazione di quel giorno, Jaume Serra i Cau detto l’Alborense aveva ricevuto tredici voti. Solo tre meno di quelli necessari per essere eletto Papa. Giovanni era sicuro che gli indecisi si fossero unanimamente schierati dalla sua parte. Era la scelta più conveniente. Né bianco né  nero. Apparentemente vecchio abbastanza da lasciar presumere un breve pontificato, che avrebbe lasciato la possibilità ad altri cardinali di proporsi sulla scena politica al prossimo conclave. Un uomo, c’era da considerare anche questo, ligio al suo dovere e timorato di Dio.
Ma questo non sarebbe bastato a fermare la faida. Lui, Giovanni, poteva farlo invece. Sconfiggere la fazione templare di Riario, imporre Lucrezia Borgia come Gran Maestro del Tempio di conseguenza. Avere la pace, almeno temporanea, tra assassini e templari. Da quanti secoli non accadeva.
Sì, Giovanni De’Medici non cercava la tiara papale solo per fini puramente altruistici. La riconquista di Firenze non era bastata per assicurare il ritorno in auge della sua gloriosa stirpe. Non avrebbe lavato la vergogna della fuga, la macchia che Savonarola aveva impresso sul passato della sua amata città, la ferita inferta nel suo orgoglio di erede di Lorenzo il Magnifico dalla repubblica di Soderini. Con un Medici come padre spirituale della Chiesa, quelle offese sarebbero state lentamente oscurate da una più grande gloria. In lui dormiva un leone pronto a riconquistare e difendere ciò che apparteneva al suo sangue.
Quel leone, però, ora doveva restare mansueto alla catena.
Osservò l’operato solerte di Bernardo, il suo infallibile e astuto segretario. Aveva una porpora pronta per lui quando – se – fosse diventato Papa.
Curioso. Di solito erano i segretari, o i cardinali alleati con minore prestigio, a sbrigare la contrattazione per i papabili. In quel momento, invece, era Serra i Cau in persona ad avvicinarsi a lui. Giovanni bevette un sorso dell’infuso ricostituente che Bernardo insisteva nel fargli assumere, e si disse che sarebbe stato un dialogo interessante.
«Sono felice di vedere che vi siete ripreso, Eminenza » esordì il vecchio. Giovanni accenno ad un sorriso modesto.
«Fortunatamente, Dio mi ha voluto ancora qui perché adempissi al mio dovere. »
Gli occhi cisposi dello spagnolo lo scrutarono, facendogli capire che la sua piccola messinscena era del tutto sprecata con lui. Giovanni finse di non aver inteso la sua occhiata.
«Certo, la notizia del vostro attacco ha preoccupato molti, qui dentro. »
«O li ha piuttosto confortati? »
«Non fingete di non capire, cardinal De’ Medici. Ora come ora, quel fortuito malore è l’arma più persuasiva che il vostro solerte segretario abbia nella manica. »
Giovanni si trattenne dal sottolineare che diceva così perché non aveva visto la sua lama celata. Si limitò a sorridere.
«Non tutti possiamo vantare la vostra età veneranda e così tanta prossimità alla...saggezza. Dobbiamo giocare le carte che abbiamo. »
«Dobbiamo? Abbiamo? » Il vecchio gli rivolse un sorriso. «Parlate già come un Santo Padre. »
«Eppure siete voi ad avere quasi sfiorato la tiara, oggi. »
Il cardinale spagnolo distolse lo sguardo, fissandolo su Riario che era circondato da un capannello di cardinali dall’altra parte della sala. «Non vogliono votare per lui. Le guerre ricomincerebbero a dissanguarci... »
«Non vogliono votare nemmeno per me, a quanto sembra. »
«Non sapete quanto vi sbagliate. » Il vecchio accennò al pallidissimo Castellesi, a cui nemmeno il vino aveva riportato colore alle guance, e all’apparentemente distaccato Aragona. «Loro  sono costretti a votare Riario, sapete...ma hanno convinto chi li appoggia a stornare i loro voti su di me. Momentaneamente... » Ammiccò. «Sembra che attendano un segnale da certi vostri amici. Se quel segnale arriverà,  quei voti saranno vostri...e presto avrete ogni ragione di parlare al plurale. »
Fu il turno di Giovanni scrutare l uomo che aveva di fronte. Era piuttosto sicuro che Ezio non fosse riuscito a persuaderlo a schierarsi.
«Cardinal Serra i Cau, perché mi dite questo, ora? »
L’uomo sospirò. «Da anni sogno per quel seggio qualcuno che veramente compia le opere del Signore. C’è stato, alle volte. Altre volte, il mio compito è stato soltanto scegliere il male minore. » Gli occhi cisposi tornarono su Riario, che scoccava ai suoi complici un sorriso da serpe. Serra i Cau battè la mano sulla spalla di Giovanni. «Voi, amico mio, questa volta siete il male minore. »
Giovanni De’ Medici sorrise.
“Mi fate troppo onore, Cardinal Serra i Cau. »
L’uomo annuì, come a confermarlo. Quindi, gli rivolse un’occhiata a Riario, che si stava avvicinando con quel suo passo da gatto intento a preparare un agguato. “Ora cercate di non farvi eliminare dal male maggiore. »
Serra i Cau si allontanò lentamente, rivolgendo a Riario soltanto un cenno con il capo. Il cardinale templare sedette sullo scranno lasciato libero dall’anziano.
«Sono sorpreso, Cardinal De’ Medici » zufolò l’uomo. «Sapete tessere ragnatele complesse, all’occorrenza. Credevo voi assassini sapeste soltanto aprirvi la strada a colpi di lama. »
Giovanni sorrise, ma la mascella rimase rigida. «Io sono l’umile servo del Signore, Cardinal Riario. Non tesso, e sa il Cielo che non uccido. Lascio le strategie ai militari, e l’omicidio agli empi...che di certo nulla hanno a che fare con gli abiti che portiamo. »
«Certo che no. » Lo sguardo del templare si era illuminato di ironia. «La porpora che indossiamo è segno di potere...lo sapevate che un tempo la vestivano solo i re? »
«I tempi sono cambiati. Ora la veste del Re della Cristianità è bianca, come la purezza. »
L’altro ammiccò. Le sue sopracciglia troppo sottili ed arcuate rendevano al suo volto un aspetto inquietante.
«E’ sotto un manto di purezza che si celano le brutture più indicibili. Cesare Borgia, sapete...usava dire che ciò che è candido instilla in chi lo guarda il desiderio di rovinarlo. Il bianco, in realtà, è il colore del peccato. »
«E dunque, io e voi ora concorriamo per indossare una veste bianca come il peccato. » Sorrise. «Quante e quali brutture vi celeremo sotto, lo sanno solo Dio e la nostra coscienza. Spero che, se sarete eletto Santo Padre, ve ne fabbrichino una abbondante. »
Riario sorrise, mellifluo. «Gli uomini che stanno lavorando tanto alacremente per portarvi sul soglio di Pietro sognano di cambiare l’ordine precostituito. Il problema è che non sanno con cosa sostituirlo, vedete? Sono pura rottura, totalmente incapaci di strutturare ordinatamente il nuovo mondo di cui vagheggiano. Nella loro idea imprecisa del futuro, hanno scelto voi come strumento di questa rivoluzione...ma una volta forzata la diga, Cardinal De’ Medici, sarete travolto dalle conseguenze di ciò che avete creato. Tutti noi lo saremo. »
«Parlatemi dell’ordine che voi intendete dare al mondo, Cardinal Riario. Una piramide al cui vertice siete voi, e sotto di voi tutti coloro che ritenete inferiori? »
Il templare si strinse nelle spalle. «E’ ciò che il buon pastore fa con il suo gregge, altrimenti ignorante e perduto. Si eleva su di loro, e lo guida. »
Giovanni puntellò il gomito sul proprio ginocchio, e si sporse in avanti. Mantenendo l’aria perfettamente amabile che la conversazione aveva portato avanti fino a quel momento, disse sorridendo:
«Allora forse questo gregge non ha bisogno di un pastore. Forse ha bisogno di un capobranco, che aiuti le pecore a scoprire il leone che dorme in loro. »
 
 
 
11 Marzo - Mattutino[13]
 
Tullia si era rannicchiata nell’angolo meno sporco della cella, le braccia strette al petto come quando abbracciava le sue bambole, a casa. Solo che qui non aveva bambole, e allora doveva essere la bambola di se stessa e tenersi stretta forte forte. Dormiva, a volte, ma poi sognava la mamma e le veniva da piangere. Dov’era la mamma? Gli uomini cattivi l’avevano portata via da lei, ma forse adesso la stava cercando. Forse la stava cercando anche quel signore alto alto, vestito di rosso, che a volte le veniva a trovare e portava sempre a Tullia nuovi giocattoli e libri per farla esercitare nella lettura. Sì, non doveva avere paura, sarebbero venuti a prenderla. Doveva soltanto abbracciarsi forte per non sentire più freddo, e poi tutto il resto sarebbe andato a posto da solo. La prossima volta che avesse aperto gli occhi, avrebbe trovato la mamma che le tendeva le braccia per riportarla a casa...
Un tonfo sul pavimento. Tullia sbarrò gli occhi e si rannicchiò di più nel buio, sperando che gli uomini cattivi non la vedessero e si dimenticassero che esisteva.
La porta si aprì, cigolando. Entrò qualcuno – una donna – con un cappuccio bianco in testa. Le tese le braccia.
«Vieni, piccola. Ti porto fuori di qui. »
Anche se non era la sua mamma, non sembrava cattiva, e la sua promessa era allettante. Perciò, Tullia le strinse forte le braccia intorno al collo, e si lasciò sollevare.
 
*
 
Pregai che la bambina non piangesse, né singhiozzasse, né pensasse di mettersi ad urlare in mezzo ai corridoi pieni di guardie. La Volpe aveva fatto un buon lavoro nell’organizzare, con un gruppo di ladri ben addestrati, un attacco dall’altra parte della rocca, ma nonostante questo la via era tutt’altro che sgombra. Ci fermammo nelle nicchie, dietro le statue, in ogni angolo d’ombra disponibile, mentre i soldati correvano a dare man forte ai loro compagni per respingere gli assalitori.  Vanni stava cercando di liberare la donna di Castellesi, dall’altra parte della fortezza. L’appuntamento era alla base del torrione, entro dieci minuti. Quando raggiunsi i camminamenti, guardai la piccola Tullia. “Ora devi tenerti stretta a me e non aprire gli occhi per nessun motivo. Mi hai capito?
Era spaventata, potevo vederlo bene anche nel buio. Ma annuì con forza, aggrappandosi alle mie spalle e seppellendo il viso nel mio collo.
«Brava bambina. »
Durante il Salto della Fede non emise che un sottile lamento; tuttavia, quando toccammo terra sbatté gli occhioni e mi guardò stupita.
«Possiamo rifarlo? »
Nonostante tutto, il suo tono mi strappò un sorriso. «Magari un’altra volta, quando saremo meno di fretta. »
Ci dirigemmo al luogo dell’appuntamento, poco lontano da dove eravamo atterrate dopo il salto. Vanni era già lì, e mi aspettava, con accanto una provata Brigida che lo guardava con fiducia.
«Sei in ritardo » mi apostrofò lui, cupo.
Strinsi le labbra per non replicare. Dall’alto rimbombavano i passi dei soldati, le grida; ci avevano individuati, non avevamo tempo per le stupide ripicche. Raggiungemmo i cavalli che i nostri complici avevano nascosto poco lontano per permetterci di partire il più presto possibile. Vanni issò la donna sul suo cavallo, io strinsi a me la bambina. Avevamo poco tempo, se volevamo portarle all’appuntamento con i segretari dei cardinali prima della votazione del mattino.
 
11 Marzo - Ora prima[14]
 
Rosa non riusciva a stare ferma. Camminava avanti e indietro, mentre scrutava l’orizzonte che iniziava appena a rischiarare, sperando di identificare in ogni ombra le figure di Bianca e Vanni.
Era quasi certa di aver scavato un canale sotto la suola dei suoi stivali, quando Ezio le afferrò delicatamente il polso.
«Andrà tutto bene. »
«Ci stanno mettendo troppo. »
«Si sono fermati lungo la strada, per seminare gli inseguitori. »
«Come puoi esserne certo? »
«Abbiamo studiato il piano a tavolino. Non sono degli sciocchi, Rosa. »
«Sono giovani e inesperti, non dovevamo mandare loro. »
«Sono i migliori » intervenne Ermes “quando si tratta di velocità e arrampicata, sono silenziosi come gatti e hanno anni di missioni attive alle spalle. Non avremmo potuto scegliere nessun altro. »
Rosa gettò un’occhiata a Ponthieux, nella speranza che almeno lui le desse man forte. Invano. L’uomo in nero stava zitto e immobile, le braccia incrociate al petto come una sentinella, e non sembrava voler prendere parte alla discussione.
Rosa imprecò pesantemente, senza curarsi di farlo ad alta voce. Gli uomini potevano dire quello che volevano: l’appuntamento davanti a Porta Maggiore era per mezz’ora fa, l’aurora stava scolorando nell’alba e i suoi bambini non erano ancora lì. Diamante avrebbe mandato un messaggio se qualcosa fosse accaduto, di certo. Una staffetta sarebbe arrivata ad avvisarli...e se non ci fosse rimasto più nessuno per inviare quel messaggio? No, non voleva, non poteva pensarlo.
«Presto arriverà anche il servo di Aragona, Ezio » aggiunse Ermes. Dal suo tono, Rosa intuì che anche al templare non piaceva quel ritardo dei ragazzi. Ma il Mentore – granitico, come sempre: maledizione a lui! – replicò:  «Non è ancora qui. »
Intanto, però, anche i suoi occhi bruni non lasciavano la strada.
A Rosa parve di ricominciare a respirare, quando due delle ombre tremolanti nel grigiore assunsero, a mano a mano che si avvicinavano, le sembianze dei suoi figli. Ce l’avevano fatta. Non si erano fatti uccidere, né si erano uccisi a vicenda. Avevano con sé la bambina e la donna. Se Rosa avesse creduto nel Dio che bestemmiava così spesso, gli avrebbe rivolto una preghiera di espiazione e ringraziamento.
Non ci fu tempo per gli abbracci che avrebbe voluto dare loro, però. Appena scesero da cavallo con gli ostaggi liberati, Rosa ammirò il loro contegno, e si stupì di quanto le sembrassero maturi ed estranei insieme. Mentre riportavano brevemente la dinamica del viaggio e il modo in cui avevano seminato gli inseguitori nascondendosi nel granaio di una fattoria, Rosa pensò che Ermes aveva ragione: erano davvero i giovani più promettenti dei due schieramenti. Doveva loro almeno questo, la sensazione di essere adulti che compiono il loro dovere, e non bambini per cui la mamma è stata in pena fino a questo momento.
Ezio poggiò una mano sulla spalla di Bianca. «Ben fatto. Il servo di Aragona sarà qui a minuti... »
«È già qui. »
Rosa gelò. Quella voce non apparteneva al giovane Ferdinando.
 
*
Strinsi Tullia al petto, mentre la bambina, percepita la tensione degli adulti, emetteva un piagnucolio sommesso. Il servo di Aragona era lì per davvero, ma a tenerlo stretto era un uomo in nero, con una maschera bianca dal lungo naso. Il Medico. Tancredi Bentivoglio.
Maledetto...intorno a sé aveva radunato un gruppo di soldati, che iniziava a stringersi intorno a noi. Cercai di contarli. Dieci. Potevamo farcela, ma c’erano degli ostaggi da tenere al sicuro. Lanciai un’occhiata a mio padre. Lui era concentrato a fissare lo sporco doppiogiochista.
«Questo mio giovane amico dice che il suo signore l’ha incaricato di controllare che la bambina e la donna siano veramente vive, prima che i cardinali votino per De’ Medici. Di’, Ferdinando...le hai viste? »
Con la voce tremante, il ragazzo rispose: «S...signore, vi prego... »
«Bene. Allora, il tuo compito è esaurito. »
Il volto del giovane uomo si contorse, e quando si accasciò sulle ginocchia, per poi rovesciarsi prono sul terreno, vedemmo il pugnale sporgergli tra le scapole. Lurido, lurido verme.
«Bianca, Vanni! » abbaiò mio padre, mentre estraeva la spada. I soldati sguainarono a loro volta, i nostri fecero lo stesso. Si stavano preparando allo scontro, ma...senza di noi...ce l’avrebbero fatta?
Tuttavia, non dicussi l’ordine. Misi la bambina in sella e salii rapidamente dietro di lei. Vanni fece lo stesso con Brigida. Ci scambiammo un breve sguardo, prima di spronare i cavalli. Nello stesso istante i cui i nostri talloni toccarono i loro fianchi, mia madre gettò a terra una bomba fumogena.
Attraversammo al Porta Maggiore, e ci gettammo al galoppo verso San Pietro. Sarebbe stata una lunga corsa, e costellata di scale, strade affollate, ostacoli. Gettai solo un’occhiata sulla spalla, per vedere Tancredi uscire dalla mischia confusa nel fumo grigio, salire a cavallo, inseguirci.  Ermes cercò di puntare la balestra contro di lui, il suo dardo lo mancò. Mi voltai di nuovo. Non importava quello che avevo alle spalle, ma quello che c’era davanti. Dovevo convincermene, adesso. Troppi destini dipendevano da questo.
 
*
 
 Vanni gettò un urlo per far scostare i passanti, che sembravano non avere nulla di meglio da fare che mettersi sulla sua traiettoria. A quell’ora le strade di Roma erano già brulicanti come formicai, com’era possibile? Il cavallo correva veloce, ma Tancredi Bentivoglio stava recuperando terreno. Figlio di puttana, lo inseguiva dai tetti ora...se fosse stato solo, Vanni avrebbe saltato sulla prima prima pila di casse che avesse trovato, per raggiungerlo e farla finita con lui una volta per sempre. Ma non lo era. La donna terrorizzata  che stava in sella davanti a lui gli impediva qualsiasi mossa azzardata. Doveva pensare più in fretta dell’aria che gli fustrava il viso, più in fretta dei dardi che l’uomo scagliava dall’alto – nel tentativo di centrarli aveva colpito dei civili, maledetto. Vanni doveva portare la donna il più vicino possibile al Vaticano, così che gli uomini di Castellesi vedessero che era viva. Certo, doveva anche mantenerla viva nel processo...
La sua strada si era separata da quella di Bianca al Colosseo. Avevano deciso rapidamente di dividersi per dare almeno a uno dei due una possibilità. Tancredi, naturalmente, aveva seguito lui. La sua solita dannata fortuna.
Vanni imprecò, quando si trovò di fronte una bancarella, piantata proprio nel mezzo della strada. Non sarebbe riuscito a scartare in tempo. Tirò le redini più forte che poté: il cavallo si impennò. Riuscì a restare in sella, e a non far cadere Brigida, che si aggrappava disperatamente al collo dell’animale. Ma quel momento di esitazione era stato sufficiente perché Tancredi prendesse la mira. Vanni cercò di coprire la donna. Fu il cavallo ad essere colpito, lo scarto improvviso lo aveva messo sulla traiettoria. La freccia gli si conficcò dritto in fronte. Dannazione. Dannazione!
Vanni tolse i piedi dalle staffe appena in tempo per non restare schiacciato dal peso dell’animale che si accasciava. Riuscì a trascinare via Brigida, che singhiozzava incontrollabilmente.
Smettila, piangere non ti terrà in vita, idiota!
La sua testa lo urlava forte, mentre cercava di far perdere le loro tracce tra la folla. Si gettò in un androne, e sperò che non ci fosse nessuno. Non voleva uccidere di fronte alla donna.
La tenne stretta, in parte per nasconderla sotto il mantello e in parte per soffocare contro il proprio farsetto i suoi singhiozzi. Si stava calmando. Anche il respiro di Vanni era più calmo, e la sua mente iniziava a schiarirsi.
No, la donna e la bambina non sarebbero servite a Tancredi da morte. Se fossero state uccise prima del voto, i Cardinali avrebbero potuto reagire per vendetta e votare contro Riario comunque. Il Medico voleva reclamarle come ostaggi. Questo non lo faceva sentire meglio, comunque. Di certo, per farlo sarebbe passato sui cadaveri di Bianca e Vanni con gusto.
Restò nell’ombra dell’androne, cercando di decidere il da farsi. Forse avrebbe dovuto lasciare la donna in un posto sicuro, eliminare il Bentivoglio e, solo allora, tornare a prenderla. Già...ma quale era un posto sicuro?
Un sibilo leggero richiamò la sua attenzione. Proveniva dal cortile che si apriva oltre l’androne.
Non la vide, subito. Il tombino di pietra era stato appena smosso, ma quando si spostò un po’ di più Vanni si accorse del cappuccio bianco che vi si celava sotto.
Sospirò.
Era da molto tempo che vedere sua sorella non lo faceva sentire così sollevato.
 
*
 
L’idea di mostrare a Vanni i percorsi segreti degli Assassini attraverso la rete fognaria di Roma non mi entusiasmava, ovviamente. Tuttavia, era stata l’unica soluzione a cui fossi riuscita a pensare.
Camminammo nel tanfo di quei corridoi luridi, trascinandoci dietro i due ostaggi liberati che, evidentemente, non riuscivano ad apprezzare la sicurezza data dall’oscurità e dalla posizione nascosta nelle viscere della città. La donna procedeva con la bambina in braccio, cercando di tapparle il naso per proteggerla da quegli effluvi. Ogni tanto ci lanciava occhiate cariche di disprezzo. Razza di ingrata, se l’avessimo lasciata in mano templare non avrebbe più inalato nessun tipo di aria, profumata o pestilenziale che fosse.
«Dovremo riemergere in superficie prima di arrivare al Tevere » li avvisai. «C’è ancora un tratto di strada scoperto da attraversare, perciò preparatevi. Potrebbe essere pieno di soldati, là fuori. »
«Sappiamo dove Fernando doveva incontrare il suo informatore dentro il Vaticano? »
«Piazza San Pietro. Avrebbe dovuto sventolare un fazzoletto bianco. »
«L’informatore non si fiderà di noi. »
«Sì, invece. Saliremo su un tetto e faremo il segno. Vedrà che Tullia e Brigida stanno bene, porterà la notizia ai Cardinali e tutta questa follia finalmente finirà. »
«È troppo lontano, non ci vedrà mai. Chi è l’informatore? »
«Un vescovo. »
«Dobbiamo trovare un altro modo... »
Vanni smise di parlare, e anche mio mi arrestai, trattenendo la donna per il braccio. Dei passi risuonavano sotto le volte della cloaca, passi che non appartenevano a noi. Provenivano dalla direzione opposta.
Vanni sfoderò la spada. Lo imitai, ponendomi davanti agli ostaggi. Attendemmo, i nervi tesi, che si facesse vedere.
Nella luce della torcia che stringeva in mano, i colori rossicci di Ermes Bentivoglio apparivano ancora più intensi. Sembrava, lo giuro, un emissario del demonio.
«Maestro » Vanni sospirò per il sollievo. Ermes si portò un dito davanti alle labbra.
«Mi ha mandato vostro padre. »
«Lui e la mamma » chiesi senza fiato. «Stanno bene? »
Ermes annuì. «Qualche ammaccatura appena. Torneranno al vostro covo per coordinare le azioni di disturbo. Venite. »
«Nessuno si muoverà di qui. »
Ci voltammo di scatto. Brigida gridò alla vista dell’uomo dalla maschera di uccello. Era seguito da tre soldati, doveva essere riuscito ad ottenere dei rinforzi lungo la strada. Nessuno di loro sembrava avere armi da lancio, o le avrebbero già usate contro di noi.
Io digrignai i denti. Feci scattare la lama celata, quando Ermes mi pose una mano sulla spalla, cacciandomi in mano la torcia. «Hai altri doveri, adesso. Andate, penso io a loro. »
Tuttavia, mio fratello rispose granitico: «Non ti lascio, Maestro. »
«Vanni... »
«Due contro uno, è una buona proporzione. Prometto che vi lascerò la carogna con la maschera » sogghignò. Ermes esitò solo un istante, prima di annuire.
«Vanni... » sentii me stessa mormorare. Odiavo quel vuoto all’altezza dello stomaco, ma non volevo lasciarlo lì, nella fogna, a battersi in un duello impari. Lui mi rivolse appena un cenno.
«Ti raggiungeremo su quel tetto. Vai. Vai! »
Inghiottii l’amaro che mi fioriva in gola, e afferrai la mano di Brigida. Iniziammo a correre, cercando di annegare nel rumore dei nostri passi in fuga il clangore delle armi che si scontravano.
 
*
 
Ermes e Vanni avevano combattuto molte battaglie fianco a fianco, come maestro e allievo. Avevano imparato ad affiatarsi, con il tempo. Ermes affondava e Vanni gli copriva il fianco; Vanni schivava ed Ermes si spostava in tempo per non ricevere il colpo al suo posto. Era come una danza improvvisata, in cui conoscere il proprio compagno era la parte fondamentale per non pestarsi i piedi – che, in questo caso, voleva dire non restare uccisi.
Le guardie svizzere erano, Vanni lo riconosceva, ossi duri. Era molto più difficile trovare un punto in cui penetrare la loro armatura, perciò si concentrò nel disarmarli. Gettò la spada a terra, e attese che l’energumeno gli si slanciasse contro. Torse il busto per schivare la lama, gli afferrò le mani giunte sull’elsa: lo attirò verso di sé per sferrargli una ginocchiata all’inguine che lo lasciò piegato a metà.
Con la picca che gli aveva sottratto infilzò la gola del suo compagno; la ferita mandò uno spruzzo generoso di sangue a macchiargli gli abiti e il volto. Eliminato il soldato, tornò all’altro: gli sferrò una bastonata in testa per levargli ogni possibile idea di rialzarsi, e lo finì conficcandogli la lama nel collo.
Vanni si passò una mano sulla guancia, lasciando una scia rossa lungo la mandibola. Bene, i suoi due erano sistemati.
Si voltò per controllare a che punto fosse il suo Maestro. Anche l’altra guardia svizzera era caduta. Dunque, restava solo Tancredi.
Sbarrò gli occhi, quando vide Ermes piegarsi in avanti, colpito al ventre dal medico. La punta della sua spada gli sporgeva dalla schiena.
«No...NO! »
Per un lungo attimo, Vanni Auditore restò paralizzato dall’orrore. Ermes caracollò all’indietro, portandosi l’arma che l’aveva ucciso con sé.
«Figlio...di strega... » sussurrò Ermes. Tancredi lo guardò dall’alto verso il basso, e si tolse la maschera, a rivelare un’espressione sprezzante.
«Questo figlio di strega ti ha battuto, fratello. Ti senti ancora superiore a me? Credi ancora che non abbia diritto di stare al mondo solo perché sono un bastardo? »
Con quelle parole, Tancredi lasciò cadere la maschera sul fratello agonizzante.
Il gesto infiammò il sangue di Vanni a tal punto che non ci fu più spazio per il calcolo e la ragione. Si gettò sul medico, e lo colpì con la lama celata – quella che non aveva mai tolto dal polso, dal giorno in cui aveva pugnalato sua sorella in un vicolo di Bologna. Gliela conficcò nel petto così tante volte, e con così tanta foga, che non si accorse nemmeno del dolore bruciante la fianco, all’inizio. Fu solo quando il corpo di Tancredi gli si accascio’ addosso, stringendolo in un grottesco abbraccio, che i suoi occhi rossi mandarono un ultimo bagliore. Tra le labbra correvano gia’ rivoli di sangue.
«Muoio felice...se posso...trascinarvi con me. »
Scivolo’ sulle ginocchia, la sua stretta sulle braccia del giovane templare era sempre più debole. Vanni posò la suola dello stivale sulla sua spalla e lo spinse a terra supino. Sputò sul suo corpo prima ancora che emettesse l’ultimo respiro. Voleva che sapesse cosa ne pensava delle sue minacce, della sua devozione ai Templari Ortodossi, della sua vita di bastardo e della sua morte troppo veloce. Non badò alla propria ferita. Dopo tutto, era solo il graffio di uno stupido ago. Quasi non buttava sangue. Quasi non lo sentiva.
Premette la mano guantata sul fianco, e si chinò sul suo Maestro. Sperò di poter raccogliere un’ultima parola da lui, almeno uno sguardo. Sperò di potergli fare sentire che c’era, mentre gli stringeva la mano. Ma era troppo tardi. Poteva soltanto chiudergli gli occhi, e accettare di aver perso anche lui, come aveva perduto Padre Geremia. Con Etienne lontano, era davvero solo adesso.
Recitò una breve preghiera per il Padre della Comprensione, perché accogliesse Ermes come aveva già fatto con Geremia. Vanni li avrebbe vendicati, quel giorno, mettendo il dannato De’ Medici sul trono del Papa.
Doveva fare presto. Bianca aveva bisogno del suo aiuto.
 
 
11 Marzo - Ora Terza[15]
 
Nell’affolata Sala Regia, dove i cardinali si preparavano in vista della votazione del mattino, Luigi D’Aragona guardava incessantemente la finestra che dava sui giardini. Aspettava il segnale del suo uomo, quel fazzoletto bianco che avrebbe brillato nel cielo come una stella fuori posto quando fosse apparso. Niente. Ancora niente. Scambiò un’occhiata nervosa con Castellesi, che parlava con un gruppo di alleati all’altro angolo della Sala. La votazione di oggi sarebbe stata quella decisiva. Da quella notizia sarebbe dipeso tutto quanto.
Ma la notizia non arrivava, e l’Aragona si vide costretto a rivolgere un cenno di diniego a Castellesi, e a Serra i Cau. Sentiva gli occhi di De’ Medici e Riario incollati addosso, l’uno nervoso, l’altro trionfante.
Non c’era nulla che potesse fare. Poteva solo guardare la finestra, e aspettare che quella pigra stella diurna squarciasse il cielo per illuminare l’orizzonte della votazione.
 
*
 
Non avevo altra scelta. Per mandare il dannato messaggio dovevo arrampicarmi sul tetto del palazzo più vicino al colonnato, ma non potevo farlo con entrambe la bambina e la donna da tenere d’occhio. Fortunatamente, una cosa di cui una città-cantiere come Roma abbonda sono i montacarichi. Forse, sperare che sganciare i pesi di colpo ci portasse su tutte e tre era un azzardo molto grande; d’altronde, all’interno della confraternita avevo visto praticare quel trucchetto a uomini che pesavano il doppio di me. Brigida, io e la bambina formavamo insieme la stazza di un uomo nerboruto: almeno, fu questo che cercai di ripetermi mentre dicevo loro di non lasciarmi andare per nessun motivo.
Funzionò, non senza qualche ammaccatura, ma tutto sommato bene. La bambina sembrava ancora più estasiata dall’ascensione che non dal salto: mi chiesi se, dopo tutto, non stessi la plasmando involontariamente perché diventasse una di noi. Mi ripromisi di tornare a scoprirlo entro una quindicina d’anni. Per ora, ero l’unica Assassina nei dintorni, e tutto era riposto nelle mie mani.
Guardai Piazza San Pietro che si apriva di fronte a me: niente più della vecchia facciata di una chiesa cadente, circondata da un quadriportico su cui gli altri edifici si addossavano come donne al lavatoio, intente a carpire i pettegolezzi dalle vicine. Niente di grandioso, niente di speciale, niente che trasudasse sacralità. Solo edifici costruiti alti e massicci per intimidire gli uomini su cui si elevavano.[16]
«Cosa farete ora? » domandò Brigida. Io scrutavo l’orizzonte. Dov’era il nostro uomo? Non tra la folla che si stringeva nella piazza, in attesa di conoscere il nome del nuovo pontefice. Doveva essere qualcuno pronto a correre all’interno del palazzo del Vaticano. Qualcuno come i vescovi che vedeva passare dalle finestre – sembravano intenti ad una specie di ronda. Sì...uno di loro si fermava chiaramente a scrutare la piazza, durante il suo giro di ricognizione. Aspettava un segno. Dovevo soltanto capire come darglielo.
«Aiutatemi» dissi, porgendo a Brigida la manica della camicia. Dovevamo avere un panno bianco con cui segnalare la salvezza degli ostaggi, e non riuscivo a pensare a niente che si potesse strappare più facilmente in tutto il resto del mio vestiario. Brigida fu pratica, e riuscì a strappare la stoffa fin dalla spalla.  E adesso?
«Adesso dobbiamo farglierlo arrivare. »
Alzai la testa di scatto. Vanni era stato più veloce di quanto avessi previsto.
Ci raggiunse, studiando la piazza a sua volta. Non mi sfuggì il fatto che si stesse stringendo il fianco.
«Sei ferito?»
«Una sciocchezza.»
«Dov’è Ermes?»
Vanni serrò la mascella. «Morto.»
Non so perché la notizia mi colpì così. Forse perché ero certa che quell’uomo ed io ci saremmo scontrati in un duello mortale...era qualcosa su cui avevo fantasticato fin da bambina.
«E Tancredi? »
«Morto, anche lui. »
«Se è stato lui a ferirti è meglio controllare. Sai che la sua arma preferita è il veleno. »
Per tutta risposta, mio fratello mi strappò la balestra dalle spalle. Tese l’altra mano, quella con cui si stringeva il fianco fino a un attimo prima. In effetti, sul suo guanto lucido non c’erano tracce di sangue. Forse stavo esagerando con la preoccupazione.
«Dammi un pezzo della manica,» disse Vanni.
«Cosa vuoi fare? »
«Attiro l’attenzione dell’informatore. Sta’ a vedere.»
Vanni stracciò via il pizzo dal resto della manica della mia camicia, lo infilzò nel dardo e caricò la balestra. Quindi, puntò dritto a una delle false colonne ornamentali che stavano tra le finestre arcuate.
Non può farcela, pensavo. È troppo lontano. Anche se la gittata fosse sufficiente, non riuscirà a prendere la mira.
Ma Vanni scoccò, e riuscì. Il dardo si conficcò nel suo bersaglio proprio nel momento in cui il vescovo dalla birretta rossa stava per lasciare la sua postazione, rassegnandosi a un ennesimo giro a vuoto. Lo vedemmo fermarsi, e guardare nella nostra direzione. Fu allora che sventolai il resto della manica bianca, a grandi bracciate.
In risposta, il vescovo estrasse a sua volta qualcosa di bianco – un altro fazzoletto, si sarebbe detto. Lo agitò, in maniera meno plateale di quanto avessi fatto io. Doveva essere sorvegliato. Infine, si ritirò.
«È fatta? » domandò Brigida, la voce carica di speranza. Io annuii Non potevo credere che fosse finita per davvero. Mi chinai su Tullia. «Presto tornerete a casa. Vi scorteremo noi stessi, non è vero...»
Stavo per interpellare Vanni, ma il rumore della mia balestra che cadeva mi bloccò in gola le parole. Alzai gli occhi su di lui.
Il suo pallore. Il modo in cui respirava affannosamente, senza riuscire più a nascondermelo.
«Ho solo...mi è scivolata la presa» cercò di mentire. Io non gli credetti. La ferita era grave. Forse avvelenata.
 
11 Marzo - Ora sesta[17]
 
Non potevo portarlo al Covo sull’Isola Tiberina, né agli appartamenti di Machiavelli: erano troppo lontani. Con l’aiuto di Brigida riuscimmo a calarlo a terra. Fu estenuante e penoso per tutti, ma, più di ogni altra cosa, io credo, fu frustrante per Vanni. Dipendere ancora da me. Dovermi chiedere aiuto. Doversi appoggiare a me, dopo tutto ciò che aveva fatto per uscire dalla mia ombra. Eppure, non poteva stare in piedi se non con il mio aiuto. Cercava di non pesarmi addosso, lo sentivo, ma ogni minuto trascorso la sua agonia diventava più profonda.
Fu sulle rive del Tevere, che Ponthieux ci intercettò. Avrei quasi pianto per il sollievo, nel vedere arrivare quel templare grande e grosso. Avrebbe potuto aiutarci. Avrebbe potuto sollevare Vanni tra le braccia e portarlo al covo, farlo vedere da un cerusico...sudava copiosamente, le sue membra avevano iniziato a fremere di piccoli scatti sconnessi. Ora Etienne de Ponthieux mi avrebbe aiutato a salvarlo.
«Fermatevi. Ho bisogno...» Vanni si accasciò, e solo la stretta dell’altro templare lo aiutò a scivolare delicatamente a sedere invece di schiantarsi a peso morto. La sua pelle bruciava. “Ho bisogno che mi togliate ogni arma. »
«Vanni, non...»
«Lo hai visto anche tu...alcuni veleni...fanno impazzire i soldati, e...quelli iniziano a menare colpi...alla cieca. Slacciami la lama celata...» I suoi occhi grigioverdi si misero nei miei. “Ti prego. Non voglio più...non voglio farti del male di nuovo.»
Deglutii a vuoto. Gli obbedii, slacciando anche il cinturone con i pugnali. Non aveva più la spada, doveva averla lasciata nelle fogne. Brigida si teneva in disparte, stringendo Tullia a sé. Io nemmeno le vedevo. Avevo dimenticato della loro esistenza. Avevo dimenticato perché fossimo arrivati fin lì.
Cercai di tergergli il sudore con la manica superstite. «Tieni duro. Il tuo amico può aiutarci a portarti al sicuro.»
Un lungo brivido lo scosse.
«Non capisci, Bianca? Non c’è...nessun posto sicuro per me, adesso.»
«Sì invece. Lo abbiamo creato insieme. Giovanni De’ Medici sarà Papa, abbiamo costruito un futuro sicuro, Vanni...un futuro dove la tregua tra gli Assassini e i nuovi Templari durerà.»
«Sono contento. I miei figli...i miei figli vivranno in pace.» Lanciò un’occhiata a Ponthieux. «Ma non io. La visione, te la ricordi? Quella che ci hanno mostrato la Mela e il Serpente. Abele e Caino. »
Vanni si aggrappò alla mia mano. I suoi occhi erano arrossati, e lucidi. Le dita non smettevano di tremare.
«Abele chiese a Caino di ucciderlo, perché gli Antichi lo avevano ingannato...»
«No, Vanni. No... »
«Uccidimi, Bianca. Uccidimi, ti prego. Come Caino ha fatto con Abele...»
«No!»
«Solo tu puoi farlo. Solo tu...AH!»
 
«Tu sei...mio fratello. Ti prego. Ti prego...»
Abele sta morendo, tra le braccia di Caino. Gli avevano promesso la suprema conoscenza...e gliela avevano data, per un istante. Un solo istante, in cui il fulmine aveva attraversato il corpo di Abele, e lui aveva partecipato all’esplosione di luce del cosmo, al momento stesso in cui era nata la Vita. Quel solo istante di onniscienza lo stava pagando con una lenta, dolorosa discesa nel reame della morte.
Caino piangeva, il volto ruvido rovinato dal sole era striato di lacrime.
«Abele, non puoi chiedermi questo...non posso!»
Abele gli accarezzò la barba, e disse:
«Non c'è altro modo. Ti supplico...voglio soltanto la pace. Solo tu puoi farlo per me, Caino. Solo tu...»
Quando Caino alzò la pietra, pensò alle lacrime che Eva avrebbe versato. Pensò al volto di Adamo, a come si sarebbe spezzato per sempre insieme al suo cuore. Pensò a se stesso, a come non avrebbe più potuto guardare le proprie mani senza provare disgusto per la propria esistenza.
Eppure, Abele soffriva oltre ogni possibile definizione di dolore. E Caino, che lo amava, non poteva non abbattere quella pietra su di lui.
 

In un battito di ciglia, le mie visioni si erano messe insieme d’un colpo, a formare il quadro completo. E ora che Vanni stava abbandonato tra le mie braccia come Abele tra quelle di Caino, capivo tutto quanto.
Avevo giurato a me stessa che quel momento sarebbe arrivato. E ora che era giunto, le lacrime mi tremavano agli angoli degli occhi.
«Non posso.» Sussurrai. «Non voglio...»
Ma Vanni sussultava più violentemente, in preda ad una febbre devastante. Continuava a supplicarmi, a gemere per la sofferenza. Ed io andavo in pezzi, di minuto in minuto.
 
*
 
Martino, Claudia e Ugo erano in Piazza San Pietro, mischiati tra la folla. Avrebbero voluto aspettare anche loro il ritorno di Bianca al covo, ma il loro incarico era attendere l’annuncio. Se qualcosa fosse andato storto, non c’era molto che potessero fare; almeno, però, avrebbero potuto diramarsi per portare la notizia a tre diversi covi romani, e spargerla tra gli accoliti. Martino non osava sperare. C’era qualcosa che non funzionava, per lui, in quella giornata. Se lo sentiva nelle ossa.
«Aò, quanno ce mettono ancora? »
«Hanno appena esposto la croce» lo rimbeccò zia Claudia. «Ora il nuovo Papa deve decidere il nome, poi lo vestiranno con i paramenti sacri.»
«È troppo tempo o’ stesso.»
«Silenzio» intimò zio Ugo, stringendo il braccio di entrambi con un modo di fare più autoritario del solito. Martino e Claudia tacquero, mentre il porporato – sì, dalla descrizione che ne aveva fatto Bianca pareva proprio Farnese - spalancava la finestra che dava sulla piazza, e con voce stentorea diceva:
«Annuntio vobis gaudium magnum;habemus Papam!»
«Abbello, questo ‘o sapemo già» bofonchiò Martino. Claudia gli diete una gomitata nel costato, che lo zittì all’istante.
«Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Ioannes,» A questo punto Claudia afferrò la mano di entrambi gli uomini, «Sanctæ Romanæ Ecclesiæ Cardinalem De’ Medici, qui sibi nomen imposuit Leonem Decimum!»[18]

«È De’Medici...» la voce di Claudia si spezzò, metà in sorriso e metà in pianto. «È De’Medici!» Mentre la folla intorno esplodeva in un boato, Claudia afferrò il viso di Martino e gli schioccò due grossi baci sulle guance; poi gettò le braccia al collo di Ugo, euforica. Anche il marito era raggiante, e coinvolse Martino nell’abbraccio. L’uomo rise, come loro, ma dentro una voce gli diceva: Aspetta ad esultare. Aspetta fino a che non sarete a casa. Aspetta di poter abbracciare Bianca...
 
*
 
La notizia viaggiò veloce, e quando arrivò all’isola Tiberina un identico boato di gioia esplose tra gli Assassini. Rosa attirò a sé Ezio per il bavero della camicia, baciandolo senza vergogna di fronte a tutti. Quante ne avevano passate, per poter vedere quel momento. Quante battaglie, quanti lutti, quante sconfitte. Tutto per quella gloriosa vittoria...il soglio di Pietro ora era presieduto da un Papa Assassino.
Eppure, gli occhi scuri di Ezio non brillavano di trionfo come Rosa si aspettava.
«Che c’è?»
«Nulla.»
«Ezio... »
Il Mentore, capo degli Assassini di tutta Italia, si sciolse delicatamente dalla stretta della moglie e si diresse verso la finestra. Le sue spalle sembravano curvate dalla preoccupazione.
«I ragazzi. Non sono ancora rientrati.»
 
*
 
 
Vanni chiese ad Etienne di avere cura di Margherita, e del bambino. Appresi solo in quel momento che c’era davvero un piccolo Auditore-Borgia in arrivo. A me domandò di vegliare su Ilaria e Leonardo, e ricordare la mia promessa di tenere il figlio fuori dalla guerra di nostro padre. Mi chiese di dire a Rosa che trovasse la forza di perdonarlo, se poteva Poi, si morse le labbra pallide.
«Mi dispiace...di averti ferita, quel giorno, a Bologna. E di aver dovuto uccidere Nicola. Ma del resto...non mi pento. Non mi pento di nient’altro. »
«Lo so.» Eppure, non riuscivo a respingerlo. Non riuscivo a non piangere, mentre stringevo la sua testa al petto. Nel giro di pochi minuti il dolore che costringeva le sue membra a continui spasmi si era fatto troppo forte, tanto da farlo delirare.
«Bianca. Ti prego. Dio, Bianca! Aiutami. Aiutami!»
Ed io capii che non potevo più rimandare.
Ciò che passò nella mia mente in quel momento, furono immagini. Un bambino che chiama il mio nome ridendo. Gli occhi arrabbiati di un adolescente che inizia ad odiarmi. Il volto di quel giovane uomo, in preda a una sofferenza atroce.
Si stringeva il petto freneticamente, come se il cuore minacciasse di sfondarlo ad ogni battito. Poggiò la testa sulla mia spalla, in agonia. Non riusciva a respirare.
Me lo strinsi addosso, e posai una mano sul suo cuore. Doveva essere veloce. Chiusi gli occhi, ma solo per un momento. La lama celata scattò.
Di colpo, l’agonia scivolò via dal volto di Vanni. Si volse verso di me, emise un gemito.
«Perdonami,» mormorai. Lui accennò a quello che voglio credere fosse un sorriso. Poi, la sua testa si riversò all’indietro.
Gli ultimi battiti del cuore di mio fratello risuonarono attraverso il mio polso, e si spensero dentro le mie vene.
Alzai lo sguardo colmo di lacrime brucianti. Vidi Ponthieux protendersi su di me, e poggiarmi una mano sulla testa in un goffo gesto di affetto.
«Grazie. Ora non soffre più. »
Mentre tra i vicoli di Roma risuonava in trionfo il nome del nuovo Papa Giovanni De’ Medici, io dicevo addio a Giovanni Antonio Auditore, il mio nemico mortale, la mia nemesi, una volta e per sempre.
Gli chiusi gli occhi, e poggiai una mano sulla sua. Sembrava dormisse. Come l’avrei detto ai nostri genitori? Con che coraggio avrei dato la notizia ad Ilaria?
Eppure, Vanni riposava, finalmente: la tempesta era scivolata via dal suo sguardo sfuggente, il broncio perenne non gli tirava più i lineamenti. Per questo, mormorai contro il suo orecchio:
«Requiescat in pace.»
Perché lo speravo davvero.
 
 
14 Marzo - Vespro
 
 
Decidemmo di seppellirlo nella campagna romana. Sembrava la soluzione più simile ad un compromesso, perché le sue due famiglie non si contendessero il posto dove andare a portargli un fiore. Margherita l’avrebbe voluto in Romagna, noi l’avremmo preferito in Toscana. Ma Vanni decideva sempre di testa sua, e aveva scelto di morire distante da tutti noi.
Fu l’ultimo evento che ricordo in cui Assassini e Templari si riunirono insieme, per dire addio all’uomo che per un breve periodo era riuscito ad unirli. Il silenzioso Ponthieux, senza mutare espressione, piangeva quietamente. Dovevano essere legati, lui e Vanni...io non ne sapevo nulla. Zia Claudia sosteneva mia madre, come se Rosa non potesse reggersi in piedi senza il suo abbraccio. Poteva, io lo sapevo...ma quest’oggi aveva bisogno di quel gesto come non mai. Ugo pose una mano sulla spalla di mio padre, che rimase rigido, intento a guardare mentre la bara veniva chiusa. Da quando aveva appreso la notizia, non aveva pronunciato una parola.
Agamennone e Veronica ci avevano raggiunti da Monteriggioni, incaricandosi di andare a prendere Ilaria e Leo a Vinci per portarli al funerale. Mi avevano anche tolto il fardello di dare loro la notizia. Non so se mi avrebbe retto il cuore. Come si fa a guardare negli occhi un’amica e dirle: l’uomo che ami è morto, perché io ho scelto di salvarne un altro?
Sì. A tutt’oggi io credo – no, io so che Vanni è il pegno richiesto da Plutone. Era uno scambio crudelmente equilibrato. Avevo salvato la vita di un fratello, per vedermene portare via un altro. Per questo Agamennone viveva, e Vanni non più. Era uno dei motivo per cui avevo chiesto che il Serpente fosse sepolto con lui. Nessuno si era opposto, nelle alte sfere Templari come in quelle Assassine. Quel Frutto era troppo distruttivo, e aveva fatto troppo male a tutti noi. Non ce la sentivamo di usarlo, né di correre il rischio che altri lo usassero dopo di noi.
Margherita, naturalmente, era presente. L’aveva scortata la sua stessa madre, Lucrezia Borgia. Il suo ventre era impossibile da nascondere perfino sotto gli ampi abiti da dama: il parto doveva essere vicino, eppure aveva compiuto un viaggio difficile per venire a dire addio a suo marito. Quel dettaglio non sfuggì nemmeno ad Ilaria. Lo sguardo che si rivolsero, una con le mani sul pancione e l’altra con il suo bambino di tre anni stretto tra le braccia,  non avrei saputo definirlo. Non c’era odio, ma nemmeno comprensione. Solo un mutuo riconoscimento del fatto che erano venute a piangere lo stesso amore.
Il piccolo Leonardo sembrava molto intento a osservare la bara che avevamo preparato per Vanni. Poi si guardò intorno, smarrito, come se cercasse qualcuno. «Papà?» chiese.
Lo stava cercando. Fui molto vicina a spezzarmi in pianto, e se non lo feci fu solo perché la mano di Martino strinse forte la mia.
Ilaria non parve turbata dalla domanda. I suoi occhi erano asciutti, ma palpitavano forte. Rispose:
«Il tuo papà è diventato una stella, Leonardo. Come i suoi antenati. Dalle stelle, lui ti guiderà sempre. »[19]
Lucrezia Borgia rivolse un’occhiata a mio padre, prima di cominciare il suo discorso.
«Oggi commemoriamo la vita di Giovanni Antonio Auditore: figlio, marito, padre amatissimo, promettente guerriero e stratega, amico. Secondo il nostro credo, ora lui riposa con il Padre della Comprensione, e la sua mente si è unita al Tutto. So che voi non credete in questo, e tuttavia spero vi porterà conforto pensare che la tempesta di Vanni si è placata per sempre. Il suo cuore è calmo, ora. La sua anima ha trovato la pace. »
Non provai rabbia a quelle parole. Non provai nulla, una patina di nebbia mi era scesa sul cuore dal momento in cui gli avevo tolto la vita. Avevo tenuto fede alla promessa che avevo fatto a me stesssa, ero diventata il Caino di Vanni. Questo non mi aveva portato nessuna gioia, solo una fitta di rimpianto che è rimasta con me, negli anni, e che continuerà ad accompagnarmi fino all’ultimo respiro.
Fu il turno di Ezio prendere la parola. La sua voce era impastata, all’inizio. Dovette schiarirsela, e ricominciare.
«Molti di noi qui presenti accusano Vanni di aver commesso molti errori. Lo stesso capo di accusa che Vanni ha sempre rivolto a me. E aveva ragione, sapete. Ma se potessi tornare indietro, cosa cambierebbe? Lui era destinato a camminare un sentiero che non è il mio. Ed è morto come un guerriero valoroso. Sì, non c’è altro che possa dire su di lui. Era un guerriero valoroso...ed era mio figlio. Nonostante tutto. Perfino nonostante il suo stesso volere.» Un mezzo sorriso amaro gli spezzò le labbra, e poi vennero le lacrime. Si formarono gentili nei suoi occhi e scesero quiete, per annegare nella sua barba argentata. Ezio si inginocchiò accanto alla bara, e poggiò la fronte sul legno. «Requiescas in pace...figlio mio.»
Rosa si inginocchiò per stringere Ezio, e in pochi istanti mi sfrecciò nella mente l’immagine di quella giornata che Vanni mi aveva ricordato solo pochi giorni prima.
Il sole nella campagna senese. I nostri genitori che ci portano a cavallo. Una gara che gli lasciavo vincere ogni volta...
E chi ha vinto, oggi, Vanni? Tra me e te, intendo. Io me lo chiedo ancora.


 


Note Storiche
[1] È molto difficile, arrivati a questo punto, riuscire a mantenere il dualismo netto templari/assassini. È difficile anche capire profondamente le motivazioni politiche dietro certe decisioni, e di certo quella che ho messo in bocca a Farnese è un'interpretazione forte – e non storicamente fondata – della situazione politica del tempo. Ho solo cercato di delineare un quadro che avesse senso per le mie scelte narrative, basandomi sulle alleanze del tempo. Purtroppo non ho condotto uno studio più approfondito su quanto questa teoria potesse essere plausibile, mi dispiace.
[2] Per un approfondimento su questo interessante affresco del Pinturicchio: http://it.wikipedia.org/wiki/Ges%C3%B9_Bambino_delle_Mani. Ho suggerito che il Bambino fosse basato su un ritratto di Laura Orsini, la figlia che Giulia Farnese ebbe da Alessandro VI, nata nel 1492...data a cui risale anche l'affresco. Anche se i mesi sono un po' discordanti, lasciatemi il lusso di questa interpretazione romantica. In realtà, l'affresco fu frammentato e distrutto oltre un secolo dopo per ordine di Alessandro VII, che voleva spezzare ogni legame con con colui che aveva portato quel nome prima di lui.
[3] Biancarè si improvvisa muratrice/restauratrice XD In realtà i frammenti dell'affresco sono staccati a massello: per un lavoro così delicato non basta di certo mettere in mano lo scalpello e smartellare senza alcuna cognizione di causa, come fa qui Bianca. Passatemi la licenza.
[4] Come riportato in «The life and pontificate of Leo the Tenth», di William Roscoe. Per chi mastica l'inglese, si trovano i pdf dei sei volumi gratis online.
Al contrario di quanto riportato in questa e in altre esimie fonti, ho deciso di far fare ai nostri conclavisti più di un paio di votazioni (pare che Giovanni sia stato eletto alla seconda votazione, il che implica che la prima sia avvenuta il 10 Marzo, e non il 6 come ho scritto qui). Necessità di trama mi portano ancora una volta a modificare la Storia.
[5] Cioè, le storie della Bibbia prima che Mosé ricevesse le tavole della Legge sul Sinai.
[6] Dovizi Da Bibbiena, segretario del cardinale: ve lo ricordate?
[7] Le fonti sono discordanti, in ogni caso: c'è chi riporta l'annullamento del matrimonio e chi la vedovanza dell'Aragona. Io ho scelto la versione che più mi avrebbe aiutato nella storia.
[8] Il fatto è che non sono sicura che i cubicoli avessero porte. Anzi, temo proprio che a malapena avessero tende. Purtroppo, per le scene che seguono non posso fare altro che metterle...sopportate questa imprecisione, vi prego.
[9] Nella realtà storica, Giovanni De' Medici era indisposto già quando aveva lasciato Firenze per Roma. Il cardinale e storico della Chiesa Paolo Giovio (Historiarium sui temporis libri XLV) attribuisce a questo suo malanno – un ascesso, parrebbe: sembra che sia stato operato durante lo stesso conclave – il fatto che De' Medici sia stato votato come Papa: avendo dimostrato di avere una salute cagionevole, sarebbe probabilmente morto giovane.
[10] Alla cui vicenda è ispirata la tragedia La Duchessa di Amalfi *__* Quante cose si vengono a scoprire con un po' di ricerca per una fanfiction!!
[11] Nome completo: Brigida Inghirami di Bartolomeo. Cfr°: Il cardinale Adriano di Corneto, di G.Antonazzi. Pdf scaricabile gratuitamente dal sito http://www.artestoriatarquinia.it.
[12] «Grata ai buoni, invisa ai malvagi, nemica ai superbi, sono per te a Tivoli.»
[13] Prima delle prime luci dell’alba.
[14] Le sei del mattino.
[15] Le nove del mattino.
[17] Intorno a mezzogiorno.
[18] Vi annuncio una grande gioia: abbiamo il Papa! L'eminentissimo e reverendissimo Signore, Signor Giovanni Cardinale De' Medici di Santa Romana Chiesa, il quale si è imposto il nome di Leone Decimo!
[19] Questo piccolo pezzo di dialogo è una citazione da Ila, che l’ha descritto in una toccante scena di roleplaying.
   
 
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