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Autore: Ayr    05/08/2014    2 recensioni
Quando Matisse incontra Zefiro, un ragazzo affascinante ma misterioso, la sua vita tranquilla viene completamente sconvolta: il ragazzo infatti le rivela che lei è la principessa perduta, la legittima erede al trono di Heaven. Inizia così per lei un viaggio in compagnia di Zefiro, il cui silenzio pare nascondere un grande segreto, che la porterà dal tranquillo villaggio in cui vive alla caverna di Procne, una potentissima maga che aiuterà Matisse ad affrontare quello che le aspetta: non si tratta solo di sedere su un trono e di prendere sulle spalle tutte le responsabilità che esso comporta, Matisse infatti, dovrà prepararsi anche per una guerra perchè non è l'unica che ambisce a quel trono e c'è già chi trama nell'ombra per strapparglielo via.
Preparatevi ad accompagnare Matisse in questo viaggio tra maghi, battaglie, segreti, elfi e misteri. Siete pronti a partire?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Zefiro si voltò su un fianco e rimase catturato dalla bellezza del cielo stellato: il piccolo rettangolo di firmamento racchiuso nella cornice della finestra era di un blu molto scuro, quasi nero, era punteggiato di alcune piccole stelle che cercavano di farsi largo in mezzo a quel blu così profondo, una sottile falce di luna, simile ad una fenditura argentea, rischiarava la notte, silenzioso sorvegliante di sonni e custode di sogni.
Il ragazzo si mise a pancia in su, le mani a sostenere la testa, sentiva il venticello fresco della notte spirare tra le case, il suono ovattato del richiamo di un uccello notturno lontano, il regolare e lieve respiro di Matisse e il baritonale russare di Corniolo. Cullato da questi suoni chiuse gli occhi e si addormentò.
Il sogno iniziava come sempre: si trovava in una foresta rifulgente della calda luce del sole di mezzogiorno, stava cacciando, la preda questa volta era una magnifica cerbiatta, la seguiva cercando di fare meno rumore possibile per non spaventarla e farla fuggire; eccola in una radura a brucare placida la tenera erba bagnata dal sole, Zefiro incoccò una freccia e la scagliò; questa andò a trafiggere il fianco della bestia che cadde a terra con un debole lamento e un leggero tonfo, il ragazzo sguainò il pugnale e si precipitò verso l’animale, ma quando lo raggiunse non trovò la cerbiatta bensì Matisse, i lunghi capelli della ragazza erano sparsi sull’erba simili ad un’aureola ramata, i tratti del suo volto erano distesi e pacifici, stava pure sorridendo, in quel suo modo dolcissimo che lo catturava sempre, una freccia era conficcata nel suo petto all’altezza del cuore e dalla ferita usciva un sottile rivolo di sangue che le macchiava la casacca verde scuro.
«NO!» gridò gettandosi in ginocchio «No!» ripeté con voce flebile, stringendo tra le braccia il corpo esanime e freddo della ragazza. Sei stato tu sussurrò una voce aspra che si insinuò nel suo orecchio simile ad un refolo di vento. È colpa tua aggiunse un’altra, tu la ucciderai decretò una terza.
«NO! Non è vero!» gridò Zefiro mentre le lacrime iniziavano a rigargli le guance. Guarda! L’hai appena fatto! gli fecero notare le voci. Il ragazzo stinse di più a sé il corpo di lei, le lacrime cadevano sul suo viso pallido, sereno e bellissimo. «Non è vero!» urlò di nuovo Zefiro, ma con meno convinzione. E invece l’hai uccisa sibilavano le voci, sei stato tu insistevano, è morta per causa tua, tu la ucciderai.
«Non è vero!» urlò disperato il ragazzo «Sparite! Andatevene via!»
Le voci sparirono e il ragazzo si ritrovò nel letto della locanda, le coperte attorcigliate intorno alle sue gambe, si scoprì sudato, tremante, con il cuore che batteva all’impazzata. Cercò subito con lo sguardo Matisse e la vide dormire placidamente, il viso accarezzato dalle tinte rosate dell’alba. Zefiro tirò un sospiro di sollievo: per fortuna, questa volta, era stato tutto solo un brutto sogno.
 
Quella mattina Matisse era particolarmente allegra: quella sera, infatti, si sarebbe tenuta l’attesissima Festa del Solstizio e la ragazza si era fatta promettere da Corniolo e Zefiro che vi avrebbero partecipato. La Festa del Solstizio veniva inizialmente celebrata come rito propiziatorio, affinché i campi e gli alberi dessero abbondanza di frutti; nel corso del tempo era diventata una festa che aveva lo scopo di proteggere il cammino dei viandanti e dei mercanti che durante la stagione calda affrontavano lunghi viaggi per poter giungere ai mercati e vendere le loro merci. Con il passare degli anni, però, questo evento aveva perso il suo antico valore ed era progressivamente caduta in disuso, sostituita da feste più grandiose e sensazionali; ma nei piccoli borghi si festeggiava ancora l’arrivo della stagione calda che veniva salutata con danze e canti intorno ad un immenso falò allestito solitamente nella piazza più importante, o comunque in un luogo ampio e centrale, seguivano lauti banchetti annaffiati da litri di sidro addolcito dal miele. Forse era proprio per la prospettiva allettante di un bel boccale di sidro che Corniolo non si era fatto pregare e aveva accettato di buon grado di partecipare alla festa. Più difficile era stato convincere Zefiro, sosteneva infatti che avrebbero accumulato del ritardo, trattenendosi in quel villaggio un giorno in più. Alla fine, di fronte alle insistenti preghiere di Matisse, aveva acconsentito anche lui.
La ragazza entrò allegra nella sala da pranzo della locanda e salutò i due uomini con un sorriso radioso, poi prese posto a tavola. Davanti a lei sedeva Zefiro, era piuttosto scuro in volto e taciturno.
«C’è qualcosa che non va?» gli domandò la ragazza preoccupata, Zefiro sussultò.
«No, no, nulla» si affrettò a rispondere, in realtà era tormentato dalle immagini dell’incubo della notte precedente. Dopo quel sogno la paura di poter far del male a Matisse si era intensificata e non riusciva a togliersi dalla testa le lapidarie parole delle voci oniriche, «Tu la ucciderai» gli avevano assicurato, e temeva che quelle semplici parole avrebbero potuto trasformarsi in realtà.
Matisse osservò Zefiro, pareva stanco, spossato e i suoi occhi erano privi di luce e vivacità; la ragazza, però, non volle approfondire la questione, per evitare di infastidirlo, e si fece bastare la risposta frettolosa data dal ragazzo.
In quel momento la porta della locanda venne spalancata ed entrò di corsa un uomo trafelato.
«Ci sono degli esseri!» ansimò, nei suoi occhi chiari si poteva leggere il più profondo terrore. La locandiera fece sedere l’uomo e tutti i clienti si avvicinarono incuriositi.
«Che genere di esseri?» chiese uno di loro
«Dove li hai visti di preciso?» domandò un altro.
«Nella foresta a ovest di qui, erano alti e magrissimi, scuri di capelli, ma la cosa più terribile erano i loro occhi, rossi come il sangue!» l’uomo parlava a scatti con voce strozzata «Ce n’erano sei»
Zefiro sussultò «Forse so a cosa si sta riferendo» mormorò a Corniolo, l’ometto annuì.
«Ma erano vivi?» domandò questi, l’uomo lo guardò, spaesato.
«Non mi era sembrato il caso di controllare» balbettò «Appena li ho visti sono fuggito via a gambe levate. Non ho mai visto esseri del genere!» E tornò a descrivere con tinte fosche e volutamente esagerate l’aspetto di quegli esseri.
«Sono Elfi Neri» disse alla fine Zefiro, stanco di tutto quel blaterare «E sono morti» aggiunse, in breve si ritrovò addosso gli occhi di tutta la clientela.
«Come fai a dirlo?» chiese uno di loro, scettico.
«Perché li ho uccisi io» rispose con voce piatta Zefiro scatenando un gran trambusto tra i clienti.
«Tu? E come avresti fatto?»
«Elfi Neri! Ma non erano una leggenda?»
«Uccisi da un ragazzino, ma fatemi il piacere. Uno contro sei!»
«Elfi Neri! Così vicini al villaggio!»
«Non è che sei uno di loro? Gli assomigli molto» quest’ultima considerazione era stata fatta dall’uomo spaventato, irritato forse dal fatto che tutta l’attenzione fosse stata catalizzata da quel ragazzino.
«E perché avrei dovuto uccidere i miei compagni, se davvero fossi stato uno di loro?» domandò Zefiro caustico, l’uomo non seppe rispondere e così nessuno dei clienti.
«Ma se quello che dici è vero, cosa ci fanno degli Elfi Neri da questa parte del confine e così a sud?» era stata la locandiera a porre questa domanda e tutti convennero con lei.
«La barriera ormai è molto debole e piena di strappi, saranno passati da uno di questi» rispose un uomo.
«Ma questo non spiega cosa li ha portati a spingersi tanto a sud» replicò un altro.
«Inoltre, anche se la regina è malata c’è sempre il suo sovrintendente. Perché non ha fatto nulla per impedire che passassero da questa parte?» incalzò un altro.
«Se per sovrintendente intendi quel Radamanto, allora siamo messi bene. Quell’uomo non è capace di fare nulla, solo di pensare a se stesso. Gira voce che sia stato lui stesso a far ammalare la regina, per prendere il suo trono»
«Ma non andrebbe comunque a lui! La regina ha avuto un figlio se non mi sbaglio» obiettò la locandiera.
«Una figlia» confermò uno di loro «Ma non si sa più nulla di lei, se ne sono perse le tracce ormai tempo fa, viene chiamata la principessa perduta, infatti, e finché non verrà ritrovata, se mai ci fosse ancora, Radamanto ha campo libero per prendersi il trono che tanto brama»
Matisse aveva seguito quel caotico scambio di battute e arrivata al punto in cui nominavano la principessa perduta era stata quasi tentata di dire che era lei la suddetta, ma temeva che non le avrebbero creduto e che l’avrebbero presa per una pazza visionaria.
«Davvero mio zio ha fatto ammalare mia madre?» chiese la ragazza in un sussurro a Zefiro.
«Sono solo voci di locanda» rispose il ragazzo «Non dovresti darli troppo ascolto»
«Ma se tu stesso mi hai rivelato che è stato Radamanto a mettere quegli Elfi sulle mie tracce e a dirmi che mi sta cercando» obiettò la ragazza.
«Questo però non implica il fatto che la malattia della regina sia collegata con lui» replicò Zefiro «In fondo non sappiamo il vero motivo per cui ha sguinzagliato quegli Elfi, sono solo supposizioni»
«Ma se davvero mi stesse cercando e mi volesse al suo cospetto, perché non mi ha mandato a prendere e perché non ha assoldato gente meno inquietante e pericolosa? A meno che quello mandato da Radamanto sia tu» osservò la ragazza volgendo il suo sguardo verso Zefiro.
«Ti assicuro che sono stato mandato da Procne e non ho alcun legame con Radamanto» si difese il ragazzo.
Tutte quelle domande senza risposta, tutte quelle voci e supposizioni stavano facendo girare la testa a Matisse, quell’incertezza la rendeva insicura: avrebbe dovuto fidarsi di Radamanto? E chi era in realtà quest’uomo tanto nominato. Dicevano che fosse suo zio, quindi un suo parente, ma, nel contempo, erano diffuse talmente tante voci sul suo conto, e nessuna fino a quel momento era stata positiva, che non sapeva più cosa credere. Forse sarebbe stato meglio rimandare questi pensieri ad un altro momento, non era un problema impellente, non era nemmeno lontanamente vicina alla città d’oro, dove presumeva abitasse Radamanto; quando fosse stata più vicina a lui e sicura di incontrarlo avrebbe ripreso in mano l’argomento, ma per il momento trovava un’inutile spreco di energia accanirsi su questi interrogativi.
 
Una flebile luce rossastra illuminava il suo volto distorto in un ghigno compiaciuto, Radamanto, chino su un calderone fumante, con somma soddisfazione, mescolò il liquido che in esso sobbolliva, era di uno scialbo color zafferano ed emanava un lieve sentore di fiori. Radamanto aggiunse una manciata di un’erba giallognola e il composto si schiarì ulteriormente, poi travasò il contenuto in un’ampolla e, tappatola, la infilò nelle pieghe della tunica scarlatta.
Con un sorriso uscì dalla sua stanza e percorse i corridoi del castello. Tutti si erano stupiti del profondo cambiamento del sovrintendente della regina, era molto più gioviale e cortese; non che si fosse mai comportato con scortesia, ma solitamente i suoi modi parevano piuttosto affettati e quasi falsi, costruiti. In quest’ultimo periodo, però, sembrava sinceramente più contento e tutti se ne chiedevano il motivo. In fondo le condizioni della regina sua sorella erano peggiorate e, nonostante si mostrasse terribilmente contrito e dispiaciuto per lei, la sua tristezza non pareva autentica, anzi, in certi momenti sembrava quasi godere dei gemiti e delle urla lancinanti che provenivano dalla stanza della regina. Questo strano comportamento dava molto da pensare agli abitanti del castello e molti di loro iniziavano a pensare che stesse architettando qualcosa.
Radamanto entrò proprio nella stanza, indisturbato, in fondo era l’unico parente che le rimaneva nonché suo sovrintendente. La camera da letto della regina era circolare e molto luminosa, il pavimento a mosaico sui toni del blu e le pareti di un delicato azzurro davano l’impressione di essere immersi nell’oceano o sospesi nel cielo, lo stesso letto della regina con il suo baldacchino bianco, pareva una nuvola, sulla quale era adagiata una donna profondamente addormentata. Ismene era stata sempre univocamente considerata molto bella con la sua pelle d’alabastro e i folti capelli biondi che le ricadevano in morbide onde sul viso dai tratti un po’ affusolati e appuntiti, e anche adesso, nonostante la malattia l’avesse resa più pallida e avesse sciupato un poco la sua figura, rimaneva comunque una donna dalla bellezza quasi eterea e trasfigurata.
«Buongiorno sorellina» disse Radamanto rivolgendosi alla donna addormentata, ma non ottenne da lei risposta, gli occhi della donna rimasero chiusi. L’uomo iniziò a vagare con lo sguardo sui comodini in ciliegio accanto al letto, ma non trovò il consueto vassoio con la tazza di tè per la regina e nemmeno un misero bicchiere d’acqua in cui disciogliere il veleno. Radamanto imprecò sottovoce e perse improvvisamente tutto il suo buon umore. In quel momento entrò nella stanza un ragazzino dai capelli ricci castano chiaro che sorreggeva un vassoio d’argento. Radamanto lo riconobbe come uno degli insulsi e pedanti apprendisti di Ebano.
Prima o poi mi toccherà fare fuori anche loro pensò mentre seguiva con lo sguardo ogni movimento del ragazzino. Questi posò il vassoio e rivolse un rispettoso cenno del capo a Radamanto. L’uomo rispose impaziente e aspettò che il ragazzino uscisse dalla sala. Il ragazzino ci impiegò tantissimo tempo a fare il percorso inverso e non smise un attimo di fissare Radamanto con i suoi intelligenti occhi nocciola, il suo sguardo era attento e quasi sospettoso come se intuisse qualcosa. Finalmente si chiuse la porta alle spalle e Radamanto tirò un sospiro di sollievo; con cautela estrasse la fiala dalla tunica e ne versò il contenuto nella tazza da tè finemente decorata. Il pregio maggiore del veleno era quello di essere inodore e insapore, di modo da non poter essere riconosciuto, inoltre il suo colore si mimetizzava perfettamente con quello della bevanda calda che emanava un lieve profumo di gelsomino.
«Lunga vita alla regina» sussurrò mentre anche l’ultima goccia di veleno raggiungeva la tazza «O forse sarebbe meglio dire lunga vita al re…» aggiunse atteggiando la bocca in un sorriso ricco di perversa malvagità mentre riponeva la fiala nelle pieghe dell’abito.
 
«Ti piace vero?» domandò una voce e Zefiro sussultò, voltatosi incontrò i gentili occhi verde chiaro di Corniolo. L’ometto stingeva tra le dita due boccali ricolmi di un liquido giallo brillante: sidro.
«Chi?» chiese il ragazzo accettando il boccale che l’uomo gli porgeva.
«Matisse, naturalmente!» rispose l’uomo prendendo posto accanto a lui, lo sguardo del ragazzo andò a posarsi istintivamente sulla figura di una ragazza che stava danzando intorno al falò, eretto nel centro della piazza. La sua risata cristallina giunse fino a lui. Zefiro bevve un sorso di sidro, era caldo e dolce, con un lieve retrogusto floreale.
«Allora?» incalzò l’omuncolo «Non credere che io sia cieco. Ho visto come la guardi. E credo che tutte le attenzioni che le dedichi non siano dovute solo all’impegno che ti sei assunto nei suoi confronti»
Zefiro scoppiò a ridere, ma era una risata tirata e visibilmente innaturale «Credo che tu abbia esagerato con il sidro» disse, Corniolo lo scrutò con un sopracciglio sollevato.
«Non prendermi in giro, ragazzo, non sono stupido. E comunque non c’è nulla di male…»
«Ma io non provo niente per lei» dichiarò il ragazzo con un tono che non convinse nemmeno lui «E comunque anche se fosse lei è una principessa…»
«E con questo?» saltò su Corniolo, Zefiro provò a replicare ma l’ometto lo interruppe «La regina era sposata con un cantastorie»
«Davvero?» domandò Zefiro sorpreso strabuzzando gli occhi, Corniolo distese le gambe e appoggiò la schiena al tronco dell’albero, mettendosi comodo.
«Lui diceva di essere un poeta, un rimatore. In realtà era uno scapestrato senza un soldo ma che aveva il dono di saper usare le parole, la regina rimase ammaliata dai suoi versi e si innamorò di lui. Era anche un bel giovane, non c’è che dire…Non è che io guardi gli uomini, ma avrebbe affascinato chiunque con la sua chioma ricciuta e i suoi malinconici ed enigmatici occhi azzurro cielo, affascinò la regina, infatti» Corniolo ridacchiò «E alla fine, nonostante la loro relazione non fosse vista di buon occhio, la regina lo sposò»
«E perché mi staresti raccontando questo?» domandò Zefiro.
«Per farti capire che non importa di quale condizione sociale tu sia, l’amore non guarda a queste cose, per fortuna» rispose l’uomo bevendo un altro sorso di sidro.
«Da quando sei un filosofo?» chiese il ragazzo divertito.
«Tu non mi prendi sul serio» borbottò l’uomo. Rimasero per un attimo in silenzio ad ascoltare la musica e le risate che si impregnavano l’aria fresca della notte.
«Stai, però, ben attento che l’amore non ti faccia dimenticare i tuoi doveri e le tue promesse» lo ammonì Corniolo, rompendo il silenzio tra i due. Zefiro voleva replicare qualcosa, ma l’ometto sparì.
Zefiro volse pensieroso lo sguardo verso il liquido dorato, possibile che i suoi sentimenti fossero così manifesti?
«Zefiro! Cosa ci fai qui tutto solo?» chiese una voce interrompendo bruscamente i suoi pensieri, il ragazzo alzò lo sguardo e si ritrovò davanti gli occhi smeraldini di Matisse, stava davvero bene nel semplice abito verde che le aveva prestato la locandiera e i capelli, lasciati sciolti, ricadevano in morbide onde sulle spalle, Zefiro rimase come incantato a guardarla e non sentì quello che la ragazza le stava dicendo.
«Allora?» incalzò lei «Non vieni a ballare?»
Zefiro sorrise e abbandonato il boccale ai piedi dell’albero si lasciò trascinare dalla ragazza fino al falò. Almeno per quella sera poteva permettersi di non pensare ad altro che a divertirsi.
 
***


È da giorni che non aggiorno (mi dispiace ma ho avuto altro da fare) e l’unica cosa che mi esce dopo questo periodo infinito è un altro orrendo capitolo di stallo.
Scusatemi, ma non so veramente come andare avanti, non che non sappia come mandare avanti la storia, ma ho paura che poi divenga troppo coincisa e quasi tirata via, nel contempo ho paura di dilungarmi troppo e di annoiarvi con questi inutili capitoli.
Nella speranza di ritrovare l’ispirazione vi lascio con un disegno di Radamanto fatto sempre da una mia amica, la stessa autrice del disegno di Zefiro.
(La mappa sta prendendo forma nella mia mente, prima o poi riuscirò a trasferire la mia idea su carta)




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