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Autore: BellinianSwan    25/08/2014    1 recensioni
"Posò poi lo sguardo su di un ritratto che lo attrasse magneticamente con cieca irrazionalità. Vide due occhi neri fieri, apparentemente impregnati di uno scopo, di un mordente per cui vivere, allargò lo sguardo all'intera figura e si sentì ancora più solo al mondo, lei, chiunque fosse sembrava esperta dell'arte del vivere, quell'arte che era sempre stata refrattaria ad adattarsi alle sue sgradevoli sembianze. Eppure, uno sguardo più attento mise in luce gli angoli della sua bocca, carnosa e ben disegnata, leggermente piegati verso il basso, in un vano sforzo di resistere. [...] Sentì quella figura nel ritratto vicina, dannatamente vicina eppure distante anni luce, a causa di quella vaga luce che le ardeva negli occhi. Lei nonostante tutto aveva trovato un mordente, o forse indossava una maschera oramai divenuta un tutt'uno con il suo volto fiero."
- Gertrude Degl'Innocenzi è stata ispirata al personaggio protagonista del manga "La Rosa di Versailles", Lady Oscar -
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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Senza le illusioni non ci sarà mai grandezza di pensieri,
nè forza, impeto e ardore d'animo,
nè grandi azioni che per lo più son pazzie.




Gli piaceva quel nome, racchiudeva una latente dolcezza coronata di spine. Si rese conto che si era fatto tardi e che a breve il visconte avrebbe chiesto di lui. Rifletté sulle parole della fanciulla riguardo al padre e pensò che stava per offrire i suoi più intimi moti dell'anima ad un estraneo che amava si la sua poesia ma non la persona che fremeva di sdegno per la gelida crudeltà del tutto, a lui importava del conte Leopardi grande poeta, non di Giacomo. Abbassò lo sguardo. Non solo a lui... un'orda di sconforto gli tolse il fiato. Forse Gertrude voleva solo salvare il salvabile e farsi perdonare... forse non le importava davvero di lui. Forse nemmeno a Carlo e Paolina, in fondo non l'avevano scelto, era capitato che fosse loro fratello. Forse era proprio vero, tolte le abilità poetiche tolte il titolo non restava altro che Giacomo, un povero uomo malato. Ora ne era certo, per quanto qualcuno amasse Leopardi, di Giacomo non importava niente a nessuno. Sentì le lacrime annebbiargli la vista, tirò su col naso e dopo un profondo respiro tornò a fingere, senza smettere di pensare che era troppo vero l'affetto di quella fanciulla per essere stato dettato da un mero senso di colpa.

Quel pomeriggio si trascinò lento. Troppo lento per i suoi gusti. Fin quando arrivò la sera e l'ora di coricarsi dopo la cena. Gertrude si recò nella sua stanza e dopo una buona mezz'ora poté vedere il Conte fare lo stesso, sbirciando dalla fessura della porta socchiusa. Aveva un sapore amaro in bocca, come se avesse inghiottito del fiele. Cercò disperatamente di distrarsi dall'idea che nulla di esistente o di immaginabile avrebbe potuto saziare la sua voragine. Eppure seppur per poco era stato bene quella mattina... forse bastava poco, molto poco a spegnere quell'inguaribile strazio. Sentì un lieve cigolio alla porta e si trascinó goffamente di fonte ad essa. Sfiorò il legno con il palmo della mano e capì che qualcuno stava facendo lo stesso dall'altra parte. Ebbe voglia di convogliare la sua debole vista nella stretta toppa della serratura come quando, fanciullo, spiava sua madre mentre pregava con la viva speranza di essere notato. Si mise in ginocchio, a fatica e socchiuso l'occhio sinistro vide quest'ultimo magneticamente attratto dallo sguardo profondo di Gertrude. Sobbalzó per l'imbarazzo ma contemporaneamente si rese conto di non riuscire ad ordinare alle sue gambe di rimetterlo in piedi. Gertrude si distolse dalla porta e su girò di spalle tamburellando un dito sulla bocca, riflettendo. Infine uscì e lo raggiunse. Se lo vide davanti, in ginocchio, poggiato sulle mani. Subito si chinò su di lui.

- Eccellenza.. che avete? State male?

Chiese preoccupata poggiando una mano sulla sua spalla, pronta a reggerlo, semmai avesse voluto rialzarsi.

- Perdonatemi - mormorò a fatica, quasi in lacrime - Non chiamatemi più Eccellenza o Conte... - pensò di essere preso per pazzo. così aggiunse - Questi appellativi decorano la forma, voi mi sembrate detestare quest'ultima, non cedetele ve ne prego. Mi avete quasi privato della mia funesta vita. Mi avete visto lottare per difendere qualcosa che ogni giorno chiamo aberrante. Chiamatemi Giacomo, voi non siete vostro padre, vi prego.

La supplicó afferrando delicatamente la sua mano per rialzarsi.

- Siete voi che sembrate odiarla tanto.

Lo guardò sconvolta per tutto il tempo e lo aiutò a rialzarsi.

- Perdonate me... non avrei voluto né dovuto attentare alla vostra vita.

Lo guarò con gli occhi colmi di lacrime.

- Voi avete attentato alla mia vita in nome di un ideale, non sapete quanto vi invidio... darei tutto per poter credere ancora in qualcosa oltre all'angosciosa infinitezza del nulla...

- So che molto probabilmente io sono la persona meno adatta per questo genere di cose. - cominciò con aria sognante. - Ma la vita ci preserva tante sorprese e quando meno ce lo aspettiamo... beh, viene qualcuno o qualcosa che ci stravolge tutto. Irrompe nella nostra anima come un Attila furioso e combina un putiferio. Se in senso positivo o negativo? Beh... questo lo scopriremo solo vivendo.

Lo guardò mantenendo il sorriso sulle labbra e lui non poté fare a meno di ricambiarlo, sebbene fosse appena accennato, quasi impercettibile.

- Parlate di un'esperienza o di un'illusione, se mi è lecito chiedere?

- Ci sono illusioni che durano una vita, Eccellenza. Le esperienze ci segnano, ma non sono eterne. Se sia la prima o la seconda non lo so. Dipendiamo dalle Moire e la nostra Vita è nelle loro mani.

- Vi porrò un'ultimo quesito... Vi siete mai sentita vittima di un destino aguzzino, costretta a recitare un canovaccio che vi disgusta ma che non potete rifiutare, perchè è la vostra vita e perchè come tutti, temete la morte?

- Io non temo la morte. La sfido. La affronto. La sbeffeggio. Ogni giorno. E il mio canovaccio l'ho già stabilito tanto tempo fa. Nessuno viene ad apprezzare la mia recitazione, ma non m'importa. È il mio teatro e recito come voglio. Sono io stessa aguzzina del mio stesso Destino. Gli sto andando contro. Avversa. Io vado controvento e andare controvento è solo per i più coraggiosi. Gli altri sono il vento. Io l'ostacolo.

Leopardi la ascoltò senza nemmeno respirare, era esattamente il modo in cui si era proposto di agire varcata la soglia dell'adolescenza, ma ora che le sue speranze si erano fievolmente assopite, pur serbando in lui quell'impeto guerriero in grado di cambiare i destini avversi non trovava più le energie per alimentarli di fuori di lui.

- Ammiro la vostra forza d'animo, non deve essere stato semplice e indolore per voi

diventare ciò che siete...

- Mi è già bastato mio padre a rendermi la vita difficile.

Sospirò.

- La sofferenza è una dura maestra, non c'è dubbio. Anche io ero in disaccordo con mio padre su molte questioni, per non parlare dell'intransigenza di mia madre... vi comprendo appieno... deve essere stato duro con voi.

Rispose lui torcendosi le lunghe mani affusolate e candide come la neve.
Gertrude lo fissò in quei suoi occhi celesti che sembravano celare un mare in tempesta, nel quale erano pochi gli scogli a cui potersi aggrappare.

- Eccellenza, bisogna sempre rialzarsi. Nonostante tutto. Bisogna ribellarsi. Combattere contro gli ostacoli, e se non ce la facciamo da soli, vedrete che prima o poi arriverà qualcuno disposto ad aiutarci, che ci accetterà per come siamo e che apprezzerà il nostro teatro e la nostra recitazione. Bisogna solo saper riconoscere questo diamante in mezzo a migliaia di schegge di vetro.

La ascoltò concentrandosi sulle sue esili mani, così apparentemente innocue, così avvezze al sangue e senza distogliere lo sguardo aggiunse:

- E se si incontrasse qualcuno con cui non sarebbe nemmeno necessario recitare, ma mettersi a nudo totalmentesenza temere la propria distruzione?

Teneva le mani compostamente giunte sulle gambe. Le loro mani si sfioravano appena, senza volerlo, ma era un contatto delicato come un sussurro. A pochissimi millimetri. Etereo. Ma dannatamente piacevole.

- Chi siamo noi per distruggerci di fronte al nulla? Noi stessi siamo nulla. Nati dalla polvere, un giorno torneremo ad esser polvere. Dobbiamo lasciarci trasportare quando il cuore ce lo implora e fermarci quando la nostra mente è stanca. E poi, cos'è la Vita se non un immenso teatro? Un teatro in cui non si fa altro che improvvisare, Eccellenza. Ci pensate?

Giacomo annuì mestamente.

- Improvvisiamo perché veniamo gettati sulla scena all'improvviso, con indosso una maschera che nemmeno abbiamo scelto e che il pubblico vede ancor prima di noi stessi... improvvisiamo per sopravvivere agli sguardi famelici del mondo, e come a teatro temiamo il calare del silenzio. Ma se una volta nella vita vi capitaste di incontrare qualcheduno che vi rivolgesse non lo sguardo supponente di chi sta in platea ma lo sguardo perso di un attore che come voi è costretto a recitare per salvarsi e senza maschera vi chiedesse di scendere dal palco, per un secondo voi abbassereste la vostra mostrandogli le vere sembianze della vostra anima?

Le chiese con voce tremante senza allontanare le mani da quelle della fanciulla, che forse stava cominciando a capire dove il poeta esattamente volesse andare a parare. Sorrise dolcemente e gli prese le mani nelle sue. Apprezzando il contatto con la pelle liscia e morbida del poeta. Quelle mani l'affascinavano. Così scarne e bianche. Delicatissime al tocco.

- Allora quell'attore dovrà essere abbastanza arguto da esser capace di farmi abbassare la maschera.

Continuò a guardarlo dopo qualche secondo di silenzio e aggiunse.

- Ma prima devo accertarmi che questo attore abbia davvero gettato la maschera, prima di togliere la mia.

Un improvviso rossore gli inondó le guance, si sentiva vivo, dopo tanto tempo sentiva la vita irrorare le sue membra aride, quasi con furia.

-La noia, la disperazione l'abisso sono stati gli abili sarti che hanno sfigurato il mio volto, sordi alle mie convulse grida di strazio hanno continuato a cucire sul mio volto quella maschera che tanto somiglia alla morte. L'eterno fanciullo imprigionato sotto di essa sta morendo per asfissia...

Le disse tutto d'un fiato, con voce strozzata, stringendole convulsamente le mani, sottraendo loro un po'di calore, un po' di vita. Lei lo ascoltò rimanendo calma, continuando a sorridergli con dolcezza.

- Eccellenza... le sofferenze della Vita vi avranno pure sfigurato, come dite voi, ma tante volte le maschere sono come gli abiti. Servono per abbellire o imbruttire, ma non costringono chi le indossa ad adeguarsi ad esse. Siamo noi che scegliamo. Siamo liberi. La nostra anima lo è. Siamo noi che inconsapevolmente a volte la imprigioniamo. La chiave l'abbiamo sempre in mano, dobbiamo solo trovare la serratura giusta. E poi, Eccellenza, non è la maschera a soffocare il fanciullo. Siete voi. L'uscita è proprio davanti a lui. Guidatelo. Liberatelo.

Gli disse sfiorando con un pollice il dorso della sua mano fredda, che adesso sentiva prendere calore.

- Se è la Vita ad avervi costretto, adesso vi spinge a fare l'opposto. A rimediare.

Lui la guardò come il naufrago che, sul punto di mollare la zattera oramai vinto dalla sete e dallo sconforto, per farsi inghiottire dal mare e improvvisamente riafferra saldamente quel misero pezzo di legno perché vede un brandello di terra in lontananza. Giacomo vide fugacemente la possibilità di salvarsi e decise di non rinunciarvi, non quella volta.

- Forse avete ragione voi, forse quel fanciullo è agonizzante ma non ancora defunto. Ho come la sensazione di non dover temere nulla ad abbassare la maschera... ma forse è solo un'ingannevole illusione... Voi... l'avete mai abbassata? Chiese infine in un impeto incontenibile.

- No, Eccellenza... con me non dovrete temere nulla. Io vi proteggerò.

La sua bocca si allargò in un dolce sorriso e gli lasciò una mano per sfiorargli una guancia scarna e pallida.

- Non l'ho mai abbassata, la mia, semplicemente perché l'ho fatto sin da quando ci siamo incontrati al ruscello. E non è un'illusione... tutto questo è vero.

- Ditemi come potete non soffrire, enormemente, se voi senza maschera siete veramente questa quando vi macchiate le mani di sangue...

Le chiese avvicinandosi un poco a lei, davvero non riusciva a comprendere come in quell'esile figura potessero essere contenute due persone così diverse.

- Ci si fa l'abitudine, Eccellenza. E' il mio lavoro. Mi pagano per questo.

- Non sentite nulla quando uccidete persone che non hanno colpa alcuna, che magari hanno la colpa di essere nate in un'altra patria? La guerra non fa altro che peggiorare le intollerabili sventure cui già ogni essere umano è soggetto...

- Dunque voi non amate la guerra.

Le disse fissandola nei grandi occhi neri.

- Nessuno ama la guerra, Eccellenza. Non qui, almeno. Ma adesso basta parlare. Ero venuta a darvi la buona notte e sono già passate tre ore. - ridacchiò - Avrete bisogno di riposare... siete un po' pallido. Vi farà bene una dormita. Mi dispiace di avervi trattenuto così tanto.

- La colpa è mia... vedete... mi è capitato raramente di parlare così a lungo con qualcuno di argomenti che esulano dalla letteratura e dalla filosofia.

- Beh, allora Eccellenza, dato che noto sia stato di vostro gradimento... potrete parlare con me ogni qual volta lo desideriate.

Il poeta arrossì impercettibilmente, le sorrise questa volta più apertamente.

- Domattina leggerò alcuni miei componimenti a vostro padre, se voi foste presente, beh diciamo che... sarei piacevomente lusingato... Beh... buonanotte.

Si limitò a farfugliare, riscaldato da un acceso rossore alle guance

​- Con immenso piacere, Eccellenza! Buonanotte.

E si dileguò. Giacomo si addormentò in fretta, rivivendo nella sua mente i piacevoli istanti appena trascorsi. Si sentiva stranamente in pace col mondo e con se stesso, come da fanciullo. L'indomani mattina Gertrude si alzò presto e si fece un bagno. Ne approfittò per riflettere ancora su quale deliziosa persona fosse il Conte Leopardi. Aveva ancora impressa nella mente la sua bocca sottile e i suoi occhi. Sulle sue mani poteva ancora sentire quelle dita scarne stringere, quando quel pover'uomo, preso dall'impeto della sua vitalità repressa, esternò tutta la sua sofferenza e per un momento fu quasi un altro uomo. Il Leopardi che avrebbe dovuto essere. Ma gli era rimasto ben poco di quel Leopardi. Il Giacomo aitante con gli occhi languidi da fanciullo e il sorriso dolce. Non era di certo aitante, ma Gertrude era sicura di non aver mai incontrato un uomo così dolce in vita sua. Si asciugò e mise una divisa pulita.
S
i alzò impacciatamente in piedi, con la consapevolezza di non avere nulla in più del visconte e soprattutto di Gertrude che sembravano pendere dalle sue labbra. Si assomigliavano maledettamente, padre e figlia in quell'istante. In fondo i.suoi versi erano forgiati dalla più nera sofferenza, la stessa che aveva caricato il moschetto di Gertrude

- Mi auguro... possiate gradire codesto mio componimento decisamente autobiografico.

Mormorò con la sua voce fioca, visibilmente a disagio. Sentì un lieve disgusto percuoterlo, sentí che stava dando in pasto la sua sofferenza ad un uomo annoiato e deluso dalla figlia. Sapeva che il visconte avrebbe trovato alquanto sollazzevole la crudeltà che la natura e la sorte gli avevano sempre manifestato. Abbassò gli occhi, in un disperato tentativo di fuga, poi sopraggiunse l'amara rassegnazione e non poté far altro che schiarirsi debolmente la voce e iniziare a darsi in pasto ai suoi ascoltatori "d'in su la vetta della torre antica..." iniziò a declamare; Gertrude lo fissò attentamente come se, in altro modo stesse raccontando una storia a lei troppo familiare, la sua. Continuava ad ascoltarlo come incantata. Il Visconte restava seduto a tenersi il mento tra due dita. Quando finì, la fanciulla applaudì sorridendogli dolcemente.

- Fantastica. Come sempre, del resto. Ancor di più se letta dal suo autore!

Giacomo si sentì travolto da un'ammirazione piacevole, ma dal retrogusto amaro. Non sapeva razionalmente spiegarsi il perché, forse pronunciare quei versi sofferti ad alta voce aveva dato loro un'inquietante concretezza, che ora pesava maledettamente sul suo debole cuore. Sollevò lo sguardo con surreale lentezza e, senza riuscire a parlare a causa dell'enorme peso che gravava su di lui, abbandonó il salone di tutta fretta, lanciando uno sguardo fugace, sospeso nell'eternità a, Gertrude, come ad accennarle una tacita supplica di perdono. Il suo sorriso si spense.

- Ma che gli ha preso?

Sbottò Alcide alzando lo sguardo sulla figlia, che era in piedi al suo fianco

- N-non lo so, padre... - balbettò Gertrude - Vorrei tanto saperlo. Ieri sembrava così entusiasta... Volete che vada a cercarlo?

Alcide sapeva benissimo che la figlia sapeva cosa gli fosse preso, erano state molte le,volte in cui Gertrude da piccola aveva abbandonato la tavola in occasioni importanti, lasciando sbalorditi gli ospiti. Si strinse nelle spalle, Alcide e inconsciamente incolpó la figlia dello strano comportamento del Conte. Sì, era colpa dell'assalto e dei barbari modi che aveva utilizzato per rimediare, peggiorando la situazione a detta sua.

- Entusiasta dite? Io direi piuttosto piacevolmente fuori di sé - Sibiló con disumana freddezza - E' tutta colpa vostra!

Sbottó improvvisamente oramai posseduto dall' ira.

- Colpa mia?! - ripeté Gertrude guardandolo esterrefatta. - Ogni volta che che succede qualcosa qui dentro è colpa mia! Se se n'è andato forse non stava bene! E comunque non potete giudicare così senza conoscere la situazione! Voi vivete forse nella mente del Conte? No! E nemmeno io! Quindi adesso col vostro permesso io vado a controllare.

E si dileguò lasciandolo ai suoi deliri. Chiese ad una domestica e le rispose che lo aveva visto salire di sopra. Gertrude, una volta giunta al lungo corridoio del piano superiore, cominciò a chiamare piano.

- Eccellenza...?

Aprì piano la porta della sua stanza, che trovò socchiusa, bussando delicatamente sul cornicione.

- Eccellenza...

Chiamò ancora, a bassa voce, per non essere indiscreta. Giacomo cercò la voce per risponderle, lo voleva più d'ogni altra cosa ma la sua bocca non volle saperne, si sentì strozzare ed emise un semplice rantolo, sostenendosi il busto con entrambe le mani appoggiate ad un mobile.

- Eccellenza. Oddio... - lo vide in quel modo e corse a sostenerlo. - Che avete? State male? Chiese velocemente, guardandolo impaurita e preoccupata.

- Perdonatemi... - Riuscì infine a mormorare, ansimando. - Leggendo quella poesia... mi crederete pazzo... mi è caduto il mondo addosso.

Non si trattenne più e scoppiò in un convulso singhiozzo. Gertrude sospirò più sollevata e lo strinse delicatamente a sé.

- Giacomo... - azzardò dopo aver fatto tanta fatica per avere il coraggio di pronunciare quel nome. - Non avete nulla di cui scusarvi. State tranquillo. Non è successo nulla, va tutto bene..

Cercò di rincuorarlo, non sapendo fino a che punto quelle parole potessero consolarlo.

- Potrete parlare più tardi con mio padre, se non vorrete più leggergli le vostre poesie. Sono sicura che comprenderà... o almeno lo spero. Nel frattempo... non pensateci più. Calmatevi, su...

Si strinse convulsamente a lei, quasi fosse l'unico appiglio alla vita rimastogli e si calmò un poco.

- Perdonatemi. Voi... mi capite?

Una grossa lacrima tiepida precipitò sulla camicia della fanciulla.

- Non è colpa di vostro padre, sono io... - Appoggiò delicatamente la testa contro alla sua spalla e aggiunse: - Vi ritiene colpevole di ciò, non è vero?

- Non importa...

Gli sorrise dolcemente e poggiò timidamente una mano sul suo capo.

- Non pensateci più... gli passerà presto. E poi...

- Non è giusto che voi soffriate, anche solo un misero istante per colpa mia.

Mormorò beandosi del calore che la mano della fanciulla gli stava tramettendo

- Ma no... - sorrise - Io non soffro per voi. Io soffro con voi. Siamo così diversi, eppure così simili... non ci rimane che sopportare, no?

- Aimè si... ma... mi mi auguro Gertrude che la sorte per voi prepari un disegno ben più gradevole di quello che ha tessuto per me, credetemi, al contrario del sottoscritto voi lo meritate.

- Vi ringrazio, ma... chi lo sa che la sorte non preservi qualcosa pure per Voi... Domani, o fra un anno... Ogni tanto bisogna lasciar correre i nostri problemi.

- Io... non credo che... - Ispirò a fondo. - Forse avete ragione ma... non è così seplice per me... ad ogni modo ora scenderò di sotto, devo delle scuse a vostro padre...

Si sentì l'orologio a pendolo della stanza suonare. Erano le cinque.

- Si è fatta l'ora del té... sicuramente starà già bevendo. Un momento perfetto per approfittarne. Voi ne volete?

- Non posso rifiutare...

Mormorò lui sorridendole timidamente, ancora imbarazzato per ciò che era accaduto prima. Lei sorrise contenta dandogli una leggera pacca sulla spalla.

- Su, andiamo. Mio padre ci starà aspettando.

- Perdonatemi Visconte, non so che cosa mi sia preso...

Mormorò non appena raggiunsero la sala da pranzo, con la precisa intenzione di scomparire seduta stante. Intervenne Gertrude, proprio mentre terminava la frase.

- Sua Eccellenza stava poco bene, padre. Mi sono assicurata che si riprendesse.

Giacomo annuì visibilmente a disagio. "Non si sentiva bene per una ragione ben precisa, conte se posso permettermi" Disse il visconte ancora rubicondo

- Padre, basta, vi prego...

Lo supplicò.

- Diglielo maledetta!!!!

Gridò senza sapere che Gertrude avesse già rivelato a Giacomo il tremendo errore. Si portò convulsamente una mano al petto, digrignò i denti e tentò disperatamente di appigliarsi al tavolo, prima di accasciarsi sul pavimento a peso morto, ansimando.

- Cosa, padre, cosa?

Alzò la voce aggrottando le sopracciglia, quando lo vide accasciarsi per terra. Gertrude subito accorse al suo fianco, urlando:

- Padre!!!

Subito lo fece sdraiare supino da che era sul fianco e gli sorresse il capo.

- Padre... respirate... andrà tutto bene. Michelangelo! Michelangelo!!!

Chiamò il maggiordomo con tutta la voce che aveva in corpo e quello accorse tutto ansante.

- Il dottore! Il dottore, presto!

Ordinò urlando mentre sentiva il pianto schiacciarle il petto e quando l'uomo si fu allontanato, si piegò sul padre stringendolo a sé, singhiozzando. Alcide Sentì la voce della figlia, in lontananza come se provenisse da un altro mondo, si stava disperando per lui, nonostante tutto. Le volle immensamente bene, voleva dirglielo ma non poteva. Temette di non poterglielo dire. Mai più.

 
   
 
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