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Autore: May90    25/08/2014    2 recensioni
(Seconda storia della serie "Come...")
Due pirati bloccati a Ward-Golfe.
Se uno é Regy "Spada d'Argento", la Marina alzerà al massimo il margine d'allerta. Ma se l'altro é Ace "Pugno di fuoco", le cose si faranno davvero scoppiettanti!
Al loro fianco, due indigeni davvero imbarazzanti.
I fratelli McFerson: Principessa, più accattivante (e prepotente) che mai, e Clayton, un cucciolo con qualche asso nella manica.
Dubbi esistenziali, mercanti prepotenti, nuove entrate e vecchie conoscenze, marinai indisponenti, risoluzioni estreme... Mai visti quattro giorni così...
Genere: Avventura, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"Come..."'
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Giorno II – Pomeriggio

 
Ace si parò davanti a Clayton, ma ogni proposito avesse in mente sfumò subito. La carnagione del giovane stava assumendo lentamente ma inesorabilmente un colore malsano, quasi verdognolo, mentre tutta la spavalderia di poco prima mutava a vista d’occhio in una smorfia disgustata.
- Clay…? – domandò, incerto anche per l’interruzione improvvisa del suo slancio.
- Sto per vomitare… - biascicò come unica spiegazione e si fiondò nel bagno, chiudendo la soglia dietro di sé.
Il pirata impiegò un istante a realizzare, poi bussò alla porta: - Stai bene? –
Tra qualche mugugno poco rassicurante, giunse un sussurro rauco: - Si, certo… - seguito da colpi di tosse che affermavano il contrario.
- Vado io. – asserì Regy, senza essere interpellato, ma notando l’espressione insicura del comandante, che pure non voleva lasciare solo il ragazzo.
 
Mezz’ora dopo, l’esperto di rotte, incurante del brutto spettacolo al quale aveva assistito poco prima reggendo la fronte del padrone di casa, preparava qualcosa di rudimentale per pranzo. Clayton, da parte sua, sedeva su un divanetto scalcinato del salotto adiacente, con una coperta avvolta intorno alle spalle e le labbra tirate dalla nausea nel sorseggiare, neanche con molto entusiasmo, un tazzone di tè al limone. Ace si era accomodato sul secondo sedile, al capo opposto di un basso tavolinetto di legno intagliato, sfoggiando la sua solita gamba accavallata all’altezza della caviglia. L’aria rilassata, ostentata in una simile posa, contrastava con lo sguardo preoccupato fisso sul giovane, gli occhi neri quasi sgranati da quell’atteggiamento apprensivo.
- Prima che tu me lo chieda e io finisca per avere un’altra crisi… - iniziò il debilitato, rauco,  inghiottendo un altro sorso della bevanda per prepararsi - … ho visto l’esecuzione in piazza. -
Abbandonò il capo all’indietro sullo schienale imbottito per cercare di trattenere un nuovo stimolo all’altezza dello stomaco e prese un respiro profondo prima di continuare.
- Non avevo mai visto niente di simile, prima d’ora. Per fortuna ho fatto in tempo ad arrivare a casa prima di smaltire l’adrenalina e… collassare. – spiegò, sbrigativamente.
- Credi davvero a quello che hai detto a tua sorella? –
La domanda fulminea, ben lontana dall’attendere educatamente un proverbiale minuto di silenzio, proveniva dall’improvviso bisogno di comprendere. Il pirata avrebbe voluto sapere molto altro su ciò che era avvenuto in città, come naturale a causa della reclusione forzata. La cosa essenziale, però, prima di tormentare il giovane con immagini che preferiva rimuovere dalla sua mente, era capire cosa significasse la discussione con Principessa. Perché lei gli era sembrata persa. Perché la reazione di lui gli era apparsa così terribilmente familiare – parole violente dette senza pensare e solo per sfogare il proprio ego – da portarlo a scommettere che non vi fosse nulla di vero in ciò che aveva udito.
Clayton sollevò il capo e si posò una mano sulla guancia ancora arrossata dallo schiaffo ricevuto. Teneva gli occhi bassi e sembrava pensarci fin troppo seriamente.
- Mi ha fatto molto male. – commentò, tra sé.
Ace attese, senza alcun cenno di impazienza. Ogni tanto lanciava sguardi ansiosi in cucina, ma si trattava di semplice istinto di sopravvivenza e desiderio di cibo.
- Penso che abbia bisogno di me, che sono la sua sola famiglia, e per questo mi soffochi tanto, a questo arrivo senza problemi. – iniziò, inclinando il capo contro una spalla – Il resto è un’altra storia. So che é diversa, dentro, da come desidera apparire: in un certo senso migliore, perché più spontanea, nell’altro peggiore, perché più spericolata e superba. Ma ha troppa paura del parere altrui e si impone questa patina contraddittoria. –
Alzò gli occhi dalle sfumature calde sul suo interlocutore, rivelando la sincera afflizione che provava: – Penso di essere io la causa dei suoi timori, della sua apparenza falsa, del suo legame con questo posto, che invece odia con tutte le sue forze. Eppure, quando libero le mie energie, quando per almeno un istante riesco a dimenticare le mie paure, mi fa tornare nel mio bozzolo. E’ incoerente. -
Il pirata rispose solo con un mugugno e una mano a scompigliarsi i capelli neri.
- Per me si può anche continuare così, qui, senza cambiare nulla! Vorrei poter dire che per lei sia lo stesso, ma neanche mia sorella sa cosa vuole. – concluse il giovane, alzandosi dalla poltrona con un movimento tutt’altro che sicuro.
- E’ facile che abbia davvero paura per te. Lo sai, vero? – cercò di buttar lì l’ospite, reprimendo un fastidioso senso di inutilità.
- Sarà. Ma allora ci stiamo obbligando a vicenda a non essere noi stessi, solo per paura del giudizio altrui o… - si mostrò impacciato nel soggiungere - per non cambiare ciò che è rassicurante e conosciamo tanto bene. –
- Poi però c’è anche la paura che quella vera natura, quello che è scritto nel sangue, parli più di tutto il resto. – concluse Ace, con un’aria particolarmente comprensiva.
Clayton scrollò solo le spalle.
 
- … Non credi anche tu, Regy? -
Il navigatore rivolse un’occhiata glaciale al compagno, forse la terza da quando erano stati lasciati soli, a discutere sull’argomento. Il padrone di casa aveva deciso di digiunare e si era ritirato in camera sua.
Mancando una risposta, Ace parlò per lui: - Io ero convinto che… fossero così. Invece Principessa cerca di nascondere la sua natura incontrollabile, pare. E contemporaneamente impone a Clayton toni remissivi e tranquilli, insegnandogli suo malgrado ad accettare tutto esattamente come sta. Così entrambi vivono in trappola su quest’isola, in una vita che, se avessero alternative sicure, lascerebbero. – scosse la testa tra sé.
- E’ una scelta. – fu la sola affermazione, netta e inflessibile, dell’ex-marinaio, mentre spegneva il fuoco sotto le bistecche ormai cotte.
- Ma Principessa non sembra proprio averla fatta volontariamente. E’ una testa calda, si vede. – osservò. La preoccupazione fu sostituita per un istante da un sorriso divertito.
L’altro rispose con un verso di insofferenza attraverso le labbra serrate. Servì la pietanza nei piatti e si sedette composto.
- E Clay… Mi fa quasi piacere sapere che abbia un simile caratterino, anche se nascosto in profondità. Me lo rende più simpatico, stranamente. – concluse, prima di accanirsi sulla bistecchina striminzita che gli era stata messa nel piatto.
Regynald diede voce – incolore e priva di intonazione, chiaramente – a quello che entrambi avevano pensato:
- Invece io so per certo che cosa è scritto nel sangue di quel ragazzino. - e suo malgrado sospirò. Prima di tutto perché una frase tanto lunga gli era sempre un po’ estranea e faticosa. Poi per nascondere una certa mancanza: perché una persona più teatrale e chiacchierina di lui, un tipo come Satch insomma, avrebbe aggiunto a quella presa di coscienza una frase epica. Tipo: “Sono Guai con la lettera maiuscola”.
- Già! Anch’io! – soggiunse Ace, con la bocca piena e un atteggiamento molto più entusiasta.
 
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Il promontorio sul mare al margine di una piccola macchia boschiva rimase la sua unica alternativa. Principessa si sedette sulla roccia accomodando al meglio che riusciva la lunga gonna. La testa dovette riposarsi sulle mani giunte, dopo che queste avevano allontanato i capelli dal viso, mentre il vento marino lottava al contrario per scompigliare quella massa rossa quanto meglio potesse.
Aveva moltissime cose a cui pensare, ma tutte si concentravano ora sopra un preciso episodio del passato. Complice quell’angolo di boscaglia, che era deleteria per il suo umore già pessimo. L’errore peggiore che avesse mai fatto. Era stata la fine di una vana innocenza, l’inizio della consapevolezza, lo svanire di più di una sicurezza. Allora la sua fiducia da ragazzina si era scheggiata, allora aveva capito che la sorte di sua madre sarebbe stata la sua.
 
Quel giorno avevo un appuntamento, o qualcosa di simile. Clayton, ragazzetto di dodici anni, mi aveva chiesto più volte se poteva venire con me. La mamma mi aveva guardato fisso per qualche momento, preoccupata, e aveva indotto mio fratello ad altri interessi. In realtà non c’era nulla di strano nel dover incontrare Johnny Carpenter: giocavamo insieme fin da quando ero piccola ed era il mio unico amico. Lo raggiunsi su quello spuntone solitario, sedendomi un po’ verso l’interno, sull’erba al riparo, dove i cespugli e gli alberi iniziavano ad infoltirsi.
- Scusa, sono in ritardo. – affermò Johnny, accompagnando il suo respiro ancora affrettato con un passo svelto.
- Si. – risposi, scostante.
Appena prese posto al mio fianco, mi accorsi della ruvidezza innaturale di quel tappeto verde. Lui era troppo vicino. Stava invadendo il mio spazio. Mi trattenni dallo spostarmi, prima di offenderlo, ma i ciuffi smeraldini di quella distesa sembravano pungermi sempre più gambe e braccia.
- Molto bello il vestito. – osservò. Eppure indugiava chiaramente sugli arti scoperti e sullo scollo. Nel momento in cui me ne accorsi, piegai istintivamente le ginocchia al petto.
- Un’idea di mia madre. Il giallo non mi piace. – affermai, con più forza del dovuto.
Poteva dedurre fossi arrabbiata con lei, ma non era così. Allora impiegavo molto tempo a spiegare alla mamma quanto amassi il nero, quante sfumature quasi impercettibili potesse avere, come mi facesse sentire forte e sincera con me stessa e con gli altri. Non mi contestava mai, sorrideva ed annuiva, con vuota accondiscendenza. Poi, per essere una ragazza per bene, rispettabile, appariscente ma non funerea e sconcia, mi cuciva vestiti sgargianti come livree di uccelli tropicali. Per farla felice li indossavo, per renderla orgogliosa sfoggiavo una sicurezza che quella luminosità solo esteriore non poteva concedermi, per non causarle vergogna tacevo ad ogni maldicenza e cattiveria. Ma non si poteva dire che la mia recitazione avesse grande successo e soprattutto tra i miei concittadini: continuavo per abitudine e lo faccio ancora, con uno sforzo innaturale.
- E’ luminoso. Come i tuoi capelli. – disse Johnny, affettuoso.
Percepii un fruscio, una ciocca che si spostava e un dito che sfiorava la mia guancia. Prima di potermi trattenere, sobbalzai. Mi ero solo spaventata o si trattava di vivido rifiuto?
Improvvisamente tutto il suo atteggiamento era diventato talmente evidente da infastidirmi.
Da quel che ricordavo Johnny era sempre stato con me. Ogni volta che poteva, si presentava a casa nostra e mi portava a giocare. Aveva sei anni più di me, ma si comportava come se non ci separasse neanche un giorno. Crescendo, mi accorsi grazie alla sua presenza attorno a me di cominciare a guardare i ragazzi con occhi diversi: mi sembrava bello, con i suoi capelli biondi, quel viso maturo che però non sembrava mostrare neppure un accenno di barba, il modo di fare affettuoso che univa parole gentili a canzonature divertite. Eppure il pensiero che non avessimo alcun legame di sangue non mi aveva mai sfiorata: era un fratello maggiore, niente di diverso. Con la nascita di mio fratello, sembrava aver trovato un compagno di giochi privilegiato, ma non ne ero gelosa e con l’adolescenza avevo più bisogno di una mamma che di un amico. Continuammo comunque a trovarci per chiacchierare, spesso nel suo locale di famiglia, solo ed esclusivamente se c’era sua madre al bancone.
La buona donna era morta pochi mesi prima e lui ne aveva fatto una malattia. Per qualche tempo avevamo smesso di condividere anche solo quelle due parole. Poi era tornato a gozzovigliare con mio fratello, infine aveva preso contatti con me.
Era diventato del tutto diverso dal ragazzo che conoscevo. Non riconoscevo le sue espressioni, vi trovavo sempre qualcosa di troppo: un luccichio degli occhi, un bagliore malizioso, un imbarazzo evidente. Non riuscivamo più a parlare come una volta e tanto meno qualche scherzo a lungo usato arrivava a smorzare la tensione. Mi metteva in difficoltà con un silenzio inquieto, con un semplice gesto, con una sola parola, e cominciava a pesarmi non riuscire più ad essere me stessa nemmeno con lui. Era palese cosa improvvisamente vedesse in me, appena diciottenne, legata stretta al mio solo amico e lontana miglia da una possibile cotta, tanto in quell’isola ostile quanto più lontano, e lentamente mi accorsi che non bastava fingere di non vedere.
- Scusa. -
Si era ritratto in fretta a quella mia reazione ed ora appariva sincero nella richiesta di perdono.
- Mi sono spaventata… - mi scusai a mia volta, per combattere la tensione.
- Oh… - iniziò, poi prese un respiro inquieto – Posso…? –
Non ne fui contenta, ma annuii.
La sua mano scorse lungo i miei capelli con una calma e uno studio dei minimi movimenti quasi morboso. Era tutto troppo lento, mi innervosiva. Raggiunse improvvisamente la guancia, sfiorandola piano, poi appoggiando l’intero palmo. Il pollice scorse sul mento, rendendomi indolente e tesa.

- Hai finito? – chiesi e mio malgrado il mio tono uscì bassissimo e per nulla aggressivo.
Non rispose e io arricciai il naso.
- Piantala! – esclamai, voltando il capo. Ma l’altra mano intervenne pronta a farmi tornare di fronte a lui.
- Voglio guardarti. –
C’era qualcosa di febbrile nel suo tono, come se la richiesta nascondesse una sentenza di vita o di morte. Cosa sarebbe successo se l’avessi colpito per obbligarlo?
- Smettila con queste cose, Johnny… E’ troppo tempo che sei strano… - mi lamentai, senza sapere cosa fare.
- Non sono strano. So quello che faccio. – affermò avvicinando pericolosamente il suo volto al mio.
- Io no! – esclamai per contro, sbattendogli una mano sulla bocca per scostarlo.
- Non è colpa mia, Principessa! – sbottò anche lui, rabbioso.
- Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così!? – tentai di interromperlo, senza successo.
- Tu non ti rendi conto di quello che sei, di cosa mi fai passare per la mente… di quello che provo quando siamo così vicini! –
- So quanto basta! “La Strega”… -
- Non mi importa! – esclamò, con tutto il fiato che aveva – Se mi importasse, non sarei qui! Se mi importasse, non mi sarei innamorato di te! –
Deglutii a vuoto e mio malgrado tacqui. Pensai solo che non poteva essere serio: eravamo amici e già così tutta la stramaledetta isola non faceva che giudicarci, non ultimo suo padre, ora l’unica famiglia nella sua vita e il peggior detrattore della mia.
- So che sei preoccupata e scettica che le cose possano funzionare, ma se saremo entrambi determinati, se lasceremo gli altri parlare e andremo per la nostra strada… Ce la faremo, Principessa! Saremo insieme per sempre e la gente dimenticherà quel soprannome! Non sarai figlia di tuo padre o di tua madre: avrai il mio nome e non sarai più obbligata a far dimenticare l’Ammiraglio o fare accettare la ballerina dal Nuovo Mondo. Andrà tutto bene. –
Erano possibilità tanto lontane da me, sconosciute e impensate, che me ne sentii improvvisamente inebriata. Dimenticai il dubbio che mi attanagliava, cioè se io ricambiassi davvero il suo sentimento. Potevo permettermi di fare la difficile? Non era già un miracolo che una persona potesse volermi al suo fianco? Johnny era comunque una persona a me cara, quindi ero fortunata e dovevo essere grata. Poi magari la mia era solo ritrosia e imbarazzo e tutto sarebbe cambiato tutto in poco tempo con l’esperienza e la conoscenza.
Non mi accorsi di qualcosa che, con il senno di poi, non avrei dovuto mettere da parte: non aveva mai messo in dubbio, neanche per un istante, che io potessi ricambiarlo. Scontato per lo stesso ragionamento che avevo fatto io: solo lui poteva volermi. Allora non mi chiesi come Johnny potesse essere diventato così egoista e per quale ragione stesse affrettando così tanto le cose e la stesse sparando tanto grossa.
Qualcosa nella mia espressione dovette convincerlo che avevo deposto le armi e sorrise con quel viso immaturo e sbarbato.
- Promettimelo. – gli ordinai, con la voce che tremava, mentre si prendeva la libertà di baciarmi.
- Te lo prometto. – rispose in un sussurro carico di aspettativa.
Un attimo dopo eravamo sdraiati sull’erba. Un attimo dopo l’abbraccio non si scioglieva più. Un attimo dopo ero diventata sua.
 
Con mia madre fui evasiva, buttandole lì che le dovevo parlare di una cosa mentre faceva il bucato. Ricordo che mi guardò prima con curiosità, poi con una lenta e cupa rassegnazione, come se sapesse più di quanto cercavo di nasconderle. I capelli rossi già striati di bianco raccolti in una coda sulla nuca, le maniche ravvolte sulla pelle non più tonica delle braccia, sulla quale spiccavano i due serpenti neri, tatuati come se si attorcigliassero strettamente intorno agli avambracci.
- Johnny Carpenter, eh? – fece, senza partecipazione.
- Si, mamma. – risposi, guardando altrove.
- Non esattamente quello che speravo per te, eh? – chiese ancora conferma, con un sospiro.
- Non ricominciare con la storia della “principessa”, ti prego. –
- Se tu sei felice. Se sei convinta della tua scelta. Se… –
- Si, certo. – affermai, mettendo a tacere le vocine di dissenso.
- …ti fidi di lui. –
Mi irrigidii e tacqui per un istante di troppo. Gli occhi color nocciola mi indagarono in silenzio per tutto il tempo. Ancora oggi mi chiedo se sapesse cosa sarebbe successo.
- Me l’ha promesso. Andrà bene. Pensavo solo dovessi saperlo. – risposi poi, con parole poco mie ma per chiudere nettamente il discorso.
- Anche tuo padre ha sempre saputo mentire bene. –
Finsi di non sentire.
 
I giorni che seguirono tutto sembrava normale: finito il turno alla locanda, passava a prendermi e andavamo nella spiaggia sotto il promontorio, a fare una passeggiata, a parlare, a guardare il mare. Continuai a fingere di non notare i segnali: come dopo quel giorno non osasse più neppure baciarmi, come non nominasse suo padre neanche di sfuggita, come sorridesse senza sincerità ad ogni allusione al nostro rapporto, come non mettessimo più piede su quel prato, che avrebbe invece dovuto evocare solo le migliori emozioni.
Fu insolito trovarmi così in soggezione da non ribellarmi e faticavo a mettere insieme i pensieri quando tornavo a casa. Avevo la sensazione di nascondere a me stessa qualcosa, di non riuscire ad esternare la mancanza di serenità, di comportarmi come se tutto fosse inevitabile, senza poter più reagire. In sostanza, stavo arrivando a non essere me stessa nemmeno con me stessa.
Con l’ultimo bagliore di consapevolezza in quella corrente che mi stava trascinando, decisi di recarmi alla locanda. Era passato quasi un mese dal giorno della dichiarazione di Johnny e non aveva senso essere ancora in quello stato di attesa. Alla parte razionale, che mi ricordava il disprezzo che ricevevo da suo padre e il fastidio che causavo nei miei compaesani, rispondeva un improvviso guizzo della mia baldanza con un mantra solo apparentemente insensato: “Ora, così non perderò altro tempo”.
 
Non ricordo davvero perché mia mamma si trovasse lì con me. Mi si parò davanti come una furia appena mi affacciai nell’ambiente fumoso e fece per spingermi indietro per la scala, gli occhi fiammeggianti come poche altre volte avevo avuto modo di vedere.
- Anche tua figlia ora, Carmen? Viene a darti supporto? – fece Lucas F. Lemes, il sindaco, con la sua tipica voce strascicata e melliflua.
Lei mi strinse forte la spalla e digrignò i denti per controllarsi.
- Vieni avanti, ragazza. – questa volta fu Michael Carpenter a parlare. Era un uomo non molto alto, con due baffoni militari castano chiaro, come i capelli radi che un tempo potevano essere stati addirittura biondi.
Seguii istintivamente quel richiamo, senza paura nonostante gli sguardi di tutti rivolti su di me e sul mio abito eccessivamente blu. In un attimo riconobbi numerosi rappresentanti della giunta politica, per la maggior parte consanguinei di Lemes, qualche uomo della Marina dall’aria annoiata, avventori con sorrisetti di maliziosa curiosità, Johnny, suo padre e qualche loro parente che conoscevo di vista e… una ragazzina pallida e insipida che non conoscevo, ma era stata posizionata davanti ai Carpenter, esposta come un trofeo di caccia.
Sfidai ognuna di quelle persone con uno sguardo di assoluta indifferenza, come quando affrontavo accusatori disposti a giurare di aver ricevuto da me una qualche forma di malocchio. Non ero certa si trattasse di qualcosa di diverso, quindi, come le altre volte, mi sarei avvalsa della facoltà di mandarli tutti al diavolo.
Solo mentalmente, con la bocca accuratamente sigillata.
- Sai cosa sta succedendo qui? – chiese ancora Michael.
- No. –
- Questo è un incontro di fidanzamento. –
Battei solo gli occhi.
- Chiaramente non si sta parlando di te. –
Risatine degli astanti, ma anch’io sorrisi. Faceva ridere che ritenesse una cosa simile anche solo pensabile.
- Oggi mio figlio Johnny promette di sposare un giorno la qui presente Ofay. –
- Conosci Ofay? - lo interruppe Lemes, con soddisfazione.
- No. – ma guardai subito l’unico volto ignoto.
- Mia figlia. Non si fa vedere spesso in giro. – e dispensò una carezza alla ragazza, che tuttavia mantenne lo sguardo basso e ben nascosto sotto una frangia spessa.
- Il punto è che… - riprese il signor Carpenter con un ampio gesto esplicativo del braccio - non sei più la benvenuta qui. Mi sembrava di averlo già  chiarito ma a mio figlio pare non essere arrivato il messaggio… -
- Padre… - bofonchiò Johnny, in difficoltà. Doveva essere un tentativo di ribellione, quel vocino e quell’aria da cane bastonato?
- Non so cosa speravi di ottenere ronzando intorno a mio figlio, ma sono quasi certo che ora le tue speranze svaniranno. Quindi, non ti voglio più vedere qui. – concluse, netto. Gli astanti sembravano colpiti dal suo discorsetto, da come mi sfidava apertamente senza paura. E lui se ne compiaceva: non credeva che io o mia madre fossimo davvero “streghe”, ma permetteva che gli altri lo pensassero e faceva la ruota nel trattarci con durezza, come impestate.
Come in un sogno, immersa nella mia riflessione e nella mia maschera nell’attesa che la sceneggiata finisse, avevo dimenticato che mia madre fosse lì, come una leonessa pronta all’attacco per difendere la cucciolata.
- Noi abbiamo sempre fatto le cose insieme, Michael! Io e tua moglie compravamo le riserve insieme, come bravi vicini! Possibile che tu sia così… -
- Non ho parlato di questioni di affari: quelli possono continuare con vantaggio reciproco, Carmen. Anzi, a conti fatti, dopo questo matrimonio potrei essere io a fare il tuo vantaggio come intermediario con la Fratellanza… -
- Mi vuoi far credere che ti faccia schifo respirare la stessa aria di mia figlia o vederla parlare con tuo figlio, ma puoi pensare di accordarti con me per gli ordini di generi alimentari!? Per interesse! Stai facendo sposare Johnny a chi fa comodo a te! Solo a te! –
- Non so di cosa parli! Johnny conosce Ofay da molti mesi e sa da tempo quale fosse la mia idea! –
- Ma non é la sua! So che non é la sua! – puntò uno sguardo indignato sull’interessato – Hai sempre voluto solo Principessa! Tu stesso me lo avevi rivelato! Io ero disposta ad accettarlo, perché credevo fossi sincero! E anche Principessa lo credeva! –
Istintivamente guardai la porta, ansiosa di andarmene. Il fatto che mi pungessero improvvisamente gli occhi era influente, di certo.
- Smettila immediatamente! –
Quando tornai a guardare la scena, mia madre aveva afferrato Johnny per il colletto e lo strattonava malamente:
- Ti sei dichiarato! L’hai convinta che avresti cambiato la sua vita! L’hai illusa! Sei solo un ragazzotto opportunista ed egoista! Ti interessava solo il suo corpo, vero!? –
Chiusi gli occhi e presi un bel respiro. Ignorai il brusio che si era sollevato e gli sguardi maliziosi che mi venivano indirizzati. Mia madre non sapeva più cosa diceva e cosa faceva. Mi resi conto che in me vedeva se stessa e le sue illusioni, ma non mi fece sentire meglio. Cosa pensava di fare? Cosa pensava di ottenere?
Eppure non mi aspettai la reazione di Michael Carpenter. Se Johnny guardava mia mamma inebetito e Ofay si faceva sempre più piccola e rossa in viso, quello la spinse con un gesto violento che la fece cadere a terra scompostamente.
- Dannata strega! – sbottò infine, con gli occhi sgranati – Lascia andare mio figlio! Di cosa lo stai accusando!? Credi importi a qualcuno dell’integrità di quel demone di tua figlia!? Johnny è di certo una vittima in tutto questo! La ragazza lo ha corrotto, questo è evidente! –
Sorrisi. Era paradossale, ma forse era andata davvero così: avevo contato troppo su Johnny, l’avevo convinto che fossi sola e bisognosa e che lui mi dovesse salvare. Per questo aveva creduto di potermi amare e liberare dal mio destino. Guardandolo a capo chino, tanto facilmente sottomesso alla volontà del padre, all’improvviso mi fece pietà. Ma anche questo era un sentimento feroce e disincantato: aveva creduto di essere un eroe quando non poteva neanche decidere per se stesso, eppure aveva pensato che nel frattempo bastasse prendere tutto ciò che poteva, me compresa, per ottenere senza lottare l’alibi e la via di fuga che desiderava. Mi ero davvero fidata di quel patetico cretino?
Interruppi mia madre nel bel mezzo di una serie di imprecazioni colorite che avevano fatto sbiancare anche i più malpensanti.
- E’ proprio evidente. –
Feci un paio di passi per trovarmi davanti a Johnny, mentre tutti erano troppo stupiti per reagire. Regalai ai presenti il sorriso più suadente e insieme crudele che possedevo, quello che urlava “malaffare e maleficio” da ogni angolazione. Era quello che volevano, quindi per quale ragione facevano quel ridicolo passo indietro?
- Povero piccolo Johnny… - sussurrai morbidamente e sarcasticamente, afferrandolo per il mento come un mese prima aveva fatto con me – Non ti aspettavi che ti violentassi in quel modo, vero? Deve essere stata una brutta esperienza per te, immagino… Scommetto che credevi di essere davvero innamorato di me… Per questo me l’hai lasciato fare, no? –
Aveva gli occhi lucidi che sembravano chiedere scusa e pietà contemporaneamente. Gli scoppiai a ridere in faccia. Meritava solo tante bastonate.
Porsi la mano a mia madre, che era ancora a terra. Anche mentre si sollevava, scuoteva la testa, disarmata e umiliata. Avviandoci verso l’uscita, Lemes non riuscì ad evitare una delle sue frecciate:
- Mi sembra di capire che verrai a trattare al tendone il mese prossimo, Carmen? Da sola… -
- Un giorno ti aggiusterò quel brutto muso che ti ritrovi con un pugno sul naso, Lucas F. Lemes. –
Non rispettò mai la promessa.
In compenso lo faccio io, ogni volta che posso.
 
La mamma mi fece una bonaria ramanzina: secondo lei dovevo negare, negare fino alla morte, dimostrare di essere la vittima, perché lo ero, evidentemente. Io le dissi solo che tanto nessuno avrebbe preso le parti della “Strega” e che a nessuno sarebbe importato che arrivassi integra al matrimonio. Voleva dirmi altro, lo vedevo nei suoi occhi stanchi nei quali la disillusione che combatteva ogni giorno, solo per aiutare me, faticava ad essere celata. Tuttavia si limitò ad abbracciarmi forte, fino a farmi male. Non piansi, ma stranamente mi sentii comunque meglio. Quello era il mio destino. Ero convinta di essermi rassegnata.
 
Forse proprio per questo, passato del tempo, fu davvero facile riaccogliere Johnny nella mia vita: avevo bisogno di qualcuno con il quale parlare, un buon amico sul quale contare, e solo lui era ancora disposto ad essere almeno questo. Ora sono certa che , se fossi stata davvero innamorata di lui, non sarei stata capace di lasciarmi il rancore alle spalle.
Come un cane bastonato, con quei ridicoli baffetti che si era fatto improvvisamente crescere senza una ragione apparente, si presentò un giorno dell’anno seguente a casa mia per chiedermi perdono. Aveva ottenuto da suo padre il pieno controllo sulla gestione della locanda da quando il matrimonio era stato ufficialmente fissato - anche se ad alcuni di distanza, in attesa almeno della maggiore età di Ofay. Del resto, il vecchio Carpenter era invecchiato improvvisamente e non poteva più occuparsene: chiaramente molti vociferavano che le McFerson lo avessero maledetto, ma lui non era disposto a crederci più di tanto. Potevo tornare al locale, tutte le volte che volevo, disse anche che intendeva anche riprendere la società per gli ordini, ma mia madre fu irremovibile.
La pratica del nostro rapporto fu molto macchinosa all’inizio, ma poi si assestò e tornò come prima di ogni ambiguità: un batti e ribatti continuo, divertente e folle, come quando eravamo poco più che bambini.
Io sono “la Strega” e porto sicuramente molta sfortuna e lui è il bravo ragazzo che sistemerà la sua famiglia per generazioni con un matrimonio vantaggioso.
Che lui sia ancora attratto da me, mi sembra semplicemente una sua assurda fissazione.



§ § § § § § § § § § § § § § § §
... A volte succedono dei miracoli...
Questo è un tipico esempio!!! Dopo due anni e più di silenzio... I'm back!!! XD
Tutta colpa di questo lungo flashback se mi sono impiantata e poi persa in altri progetti più o meno validi, fino a questi giorni. Eh sì, avevo intenzione da tempo di creare questo passato molto vile e odioso tra Prin e Johnny, ma ho fatto fatica a metterlo giù, a creare i presupposti psicologici e a far capire che... no, Principessa non lo amava, credeva solo di non avere scelta, ma non è una "facile".
E ora nel giro di un paio di giorni l'ho finito... I casi inspiegabili della vita (spiegabili solo se il risultato vi farà schifo, cosa che non escludo del tutto)...
Quindi, niente: tra poco ricomincia l'università, non so quando riuscirò a postare il seguito e in merito sono molto confusa, i punti che mi ero segnata per la continuazione della storia mi sembrano scritti in aramaico. Però, non dispero: la finirò di certo!!! *furor* *_*
Ringrazio in anticipo chi ritroverò qui, chi magari scoprirà ora la serie (non disperareeeeee!), chi avrà l'infinita gentilezza di lasciare un commento!!!
Tanti baci!!!!
 
  
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