Amor onni cosa vince
Parte
prima:
Raro cade, chi ben cammina.
Capitolo
Terzo:
Iustus ut palma florebit.
*
Every demon wants his
pound of flesh
But I like to keep some
things to myself
I like to keep my issues
drawn
It's always darkest
before the dawn
And I've been a fool and
I've been blind
I can never leave the
past behind
I can see no way, I can
see no way
https://www.youtube.com/watch?v=FyGUg9u_psU
26 Marzo
1478, Repubblica Fiorentina,
Un mese
prima della morte di Giuliano de’Medici .
“Non negherò che il
rapporto con Firenze s’è fatto più aspro, in quest’ultimo periodo: ti pregherei
quindi di recarti da tuo fratello un paio di giorni prima di me, mentre io
svolgo un paio di faccende lungo il Chianti.”
Girolamo non s’era fatto
scrupolo alcuno nel domandare alla moglie di precederlo in Fiorenza, la sera
prima del giorno pattuito per la partenza.
Dal canto suo, Beatrice
non s’era stupita affatto.
L’aria era sempre stata
tesa fra la sua città d’origine l’Urbe, tanto che nemmeno il matrimonio tra lei
e il nipote prediletto di sua Santità aveva posto una pezza a quella
traballante pace.
Senza contare che Girolamo
le aveva detto deliberamente che avrebbe dovuto intercedere presso Lorenzo.
Lì per lì, Beatrice
avrebbe desiderato solamente rifiutarsi, ma l’amore per quell’uomo che aveva
ormai imparato a conoscere meglio per se stessa la stava portando addirittura a
mediare trattative fra Roma e Firenze.
La cosa non avrebbe
portato a nulla di buono, ma sperava sempre nel buonsenso del Magnifico e in
una sana dose di fortuna. Dopotutto, Girolamo sapeva essere assai persuasivo se
lo voleva.
Beatrice pregò, quindi,
per un lieto soggiorno in Fiorenza, lontano da drammi.
Pregò, ma era pronta al
peggio, come ogni volta.
Le importava poco di ciò
che sarebbe successo, avrebbe rivisto la sua famiglia e ciò le bastava. In
particolare, aveva patito troppo la lontananza da Giuliano.
Nonostante i rapporti si
fossero incupiti, le mancava troppo.
Alessandro meritava di
conoscere suo zio, così come meritava di fare il suo ingresso a Firenze. Aveva
metà sangue toscano nelle vene e sua madre era figlia dell’arte e della
bellezza di quella città magica.
Beatrice avrebbe fatto di
tutto, in futuro, per farlo studiare presso le migliori menti del loro tempo in
quella città così bella e unica. A costo di litigare in eterno con suo marito.
Tornado al mattino della
partenza, aveva salutato il marito dopo una frugale colazione consumata a letto
–un lusso concessole solo al fine di ammorbidirla, ormai aveva imparato a
leggere in mezzo alla ruffianeria di Girolamo-e s’era messa in marcia con le
sue dame di compagnia, la balia a badare al piccolo Alessandro e una decina di
soldati forlivesi, ai comandi di Edoardo.
Aveva indossato una veste
più leggera, poiché ormai la primavera pareva aver deciso di albergare anche in
Italia e aveva deciso di non negarsi quella lunga cavalcata, rifuggendo come di
suo solito le comodità della carrozza.
Accanto a lei, su un
destriero bruno, con un’ampia veste azzurra, c’era Camilla.
Dopo ciò che era successo
a Roma, dopo ciò che il Papa le aveva fatto, qualcosa era radicalmente mutato
in madonna Colonna. Seppur non portasse seco una spada, aveva sempre un pugnale
sotto alle sottane e aveva iniziato a tirare di scherma e di arco.
Era ancora fin troppo
lontana dall’essere un soldato abile come Beatrice, ma il farsi insegnare
dall’amica quelle basi di combattimento l’aveva portata quanto meno al riuscire
di nuovo a dormire la notte.
Il mutamento di Camilla
era stato molto, molto più profondo di così.
S’era fatta più taciturna
e l’essere stata violentata con tanta crudeltà l’aveva portata a chiudersi di
più e a fidarsi meno. Nonostante ciò, il
caratterino frizzante che l’aveva sempre distinta, era rimasto intoccato.
Così come l’amore di
Olivieri per lei.
La marcia fu lunga, ma
Beatrice aveva la testa altrove, così quasi non si accorse d’aver infine preso
la via che conduceva verso Firenze, una volta svoltato il passo degli
Appennini.
A loro si affiancò un
carretto, guidato da un uomo anziano.
Le guardie forlivesi
s’apprestarono a fermarlo, ma Beatrice alzò una mano affinché non
intralciassero il cammino del mercante, il quale appoggiò una mano alla visiera
dell’ampio cappello che indossava sul capo, in segno di galante ringraziamento.
“Che il buon Dio possa
vegliare su una così gentile Madonna!” disse questi, con un marcato accento marchigiano
“Dirò una preghiera pe’voi, se mi fate la gentilezza di svelarvi chi siete, mia
signora.”
“Costei è Beatrice Riario
de’Medici.” Disse a voce alta Olivieri, stupendo l’uomo che immediatamente si
levò il cappello, scendendo dal carretto e prostrandosi davanti alla contessa
“Signora di Forlì e Imola, moglie del Conte Girolamo Riario”
La signora, senza scendere
da cavallo, sorrise benevola all’uomo, lanciando poi uno sguardo a Camilla che
accaldata la implorò silenziosa per una pausa.
Le fu concessa, visto che
Beatrice allentò le redini, appoggiando le mani sul pomo della sella “Ditemi
buon uomo, dove siete diretto?”
“Nella vostra bella
Firenze, mia signora.” Rispose immediatamente l’anziano “Il mio nome è Ubaldo
Vittori e commercio vini dalle Marche.
Vostro fratello, il Magnifico, m’ha incaricato di portare le migliori damigiane
per il carnevale di stasera.”
Beatrice scambiò uno
sguardo sorpreso con Madonna Colonna “Un carnevale, avete detto? Come mai?”
“Non saprei dirvi mia
signora.” Rispose sempre molto educato Vittori “Si vocifera sia per festeggiare
la Quaresima.”
“Quest’idea dev’esser di
Giuliano” meditò divertita Beatrice, prima di unire le mani sotto al mento “Ci
sarà una colombina, quindi! In marcia ora, non voglio rischiare di attardarmi!”
Poi vece ceno alle guardie di occuparsi di Vittori “Vi scorteremo con noi,
Ubaldo. Così che i vostri vini arrivino salvi alla tavola di mio fratello!”
Il mercante parve più che
felice della scorta e in poco più d’un ora di viaggio, arrivarono alle mura fiorentine.
Ad attenderla a palazzo,
così come le era stato comunicato da un messo, vi era Gentile Becchi.
Beatrice lasciò il cavallo
a uno stalliere, prendendo in braccio il piccolo Alessandro che curioso
scrutava il giardino interno a Palazzo de’Medici, mentre il consigliere si
avvicinava, senza parole.
Vedere colei che per lui
era ancora una bambina con quella creatura fra le braccia lo destabilizzò.
“Che bello rivedervi,
Becchi” esordì Beatrice, mentre Edoardo le si affiancava, felice di non dover
di nuovo recitare tutti i titoli della sua signora da capo. “Vi trovo bene.”
Per risposta, il
consigliere sorrise, ritrovando poi la sua compostezza “Auguro un caloroso
benvenuto alla Contessa di Forlì.” Recitò, così come gli era stato chiesto da
Lorenzo in persona “Se volete seguire la servitù, vi condurrà ai vostri
alloggi. Lorenzo de’Medici vi riceverà entro sera.”
Quella così formale
accoglienza gelò Beatrice sul posto.
Un anno e mezzo prima
Becchi l’aveva strinta in un abbraccio chiamandola ‘bambina mia’, e ora….
Contessa di Forlì.
Cercò di boccheggiare una
risposta, ma fu Edoardo ad anticiparla, nel vederla così in difficoltà “La mia
signora è grata dell’accoglienza. Non vede l’ora di rivedere i fratelli, ma
giustamente deve riposare insieme a suo figlio, ora.” E senza aggiungere altro,
appoggiò una mano sulla schiena di Beatrice, scortandola via da quell’atrio
freddo.
Lontana da quel così
distaccato modo e dalla tristezza profonda che esso le aveva lasciato
nell’animo.
Giuliano si sistemò la
camicia bianca e rossa che indossava quella sera per la centesima volta, prima
di sfilarsela e buttarla con disprezzo oltre il letto.
Si passò le mani fra i
capelli, rimirando la sua immagine nello specchio e desiderando ardentemente di
romperlo frantumarlo in una miriade di piccole schegge di luce.
C’erano giorni in cui, per
lui, essere un de’Medici era una condanna.
Il giorno in cui suo padre
aveva iniziato a istruire suo fratello alla politica, ignorando del tutto gli
altri figli. Il giorno in cui suo nonno era morto e si era sentito dire che mai
lui avrebbe potuto rasentare la sua perfezione.
Il giorno in cui aveva
compreso che non si sarebbe mai maritato per amore.
Il giorno in cui aveva
visto sua sorella maritata con un uomo che non era degno nemmeno di un sorriso
da parte di un angelo come Beatrice, per esempio. Il giorno in cui l’aveva
quasi persa su un campo di battaglia e i suo maledetto cognome gli aveva
impedito di farsi giustizia da solo.
Il giorno in cui lei aveva
scelto quel marito, quella città così lontana e tutte quelle incombenze che la
stavano distruggendo.
Poi era arrivata quella
sera.
Non vedeva Beatrice da
quando era tornata a Roma un anno e mezzo prima, dopo quella brutta lite che li
aveva tenuti divisi e muti per mesi, prima di riprendere a scambiarsi lettere
su lettere, sentendo al contempo un sapore amaro in bocca ad ogni risposta
leggermente forzata.
Girolamo Riario non aveva
solo portato via a Giuliano la cosa più preziosa che aveva, ma aveva anche
distrutto un rapporto che sembrava prevalicare ogni cosa.
Non v’era persona al mondo
che Giuliano amasse più di sua sorella e non v’era uomo al mondo che Beatrice
prediligesse a Giuliano, ma tutto s’era fatto così difficile da distruggere
entrambi i fratelli.
Nulla era più doloroso di
quella separazione.
Giuliano non poteva nulla,
per quanto si sforzasse.
Un bussare alla porta
precedette la serva che gli annunciò che era giunto il momento, così prese
un’altra camicia, indossandola.
Quella che doveva essere
un’allegra serata stava tramutandosi in una lenta agonia.
Trovato il coraggio necessario per uscire dai suoi alloggi,
Giuliano si recò nell’anticamera in cui Lorenzo accoglieva sempre i suoi
ospiti.
Lì trovò la sua famiglia
al completo, ma non degnò di uno sguardo il fratello, preferendo la compagnia
delle nipoti. Maddalena si aggrappò al suo braccio, tirandolo verso di sé
affinché si chinasse su di lei. Solo quando fu alla sua altezza, la piccola
portò una mano a coppa sino al suo orecchio e lì parlò direttamente, piano
affinché i genitori non la udissero “Perché non possiamo andare da zia Beatrice
quando entra?”
Giuliano aveva già la
risposta pronta, ma dire che Lorenzo era un autentico deficiente sarebbe parso
poco rispettoso e poco educativo; preferì usare le stesse parole del fratello.
“Tua zia è una contessa.
Dobbiamo riserbarle l’atteggiamento che merita.”
O quello che lei stessa si
era scelta, sposando Riario.
Maddalena parve confusa,
ma non chiese altro. Si limitò a stringere la mano dello zio, abbassando gli
occhi sul pavimento con muta rassegnazione.
Giuliano non era il solo a
non capire quella situazione.
Nessuno aggiunse altro, sino all’arrivo
dell’ospite.
Fu preceduta da Olivieri,
che entrò nella stanza con addosso la miglior divisa di rappresentanza: una
casacca d’oro e blu scuro, i nuovi colori della città di Forlì in accordo con
gli stemmi delle casate della Signoria.
Il rosso si schiarì la
voce, salutando con un cenno Giuliano che l’osservava con trepidante
nervosismo.
“La mia signora porge i
suoi omaggi alla Signoria vostra de’Medici.” Disse con gentile osservanza il
forlivese, facendo un piccolo inchino “Permettetemi di introdurvi a sua grazia
Beatrice Riario de’Medici, signora di Forlì e Imola e suo figlio, Alessandro di
ser Girolamo Riario.”
Scostandosi dalla porta,
Olivieri fece spazio a madonna Colonna e madonna Pitti che precedettero
l’ingresso di Beatrice di qualche istante.
Dietro di lei vi erano
anche madonna de’Pazzi e monna Agnese, che teneva fra le braccia il piccolo
Alessandro. Dietro ancora, almeno cinque guardie forlivesi chiudevano il
piccolo corteo.
Per Giuliano, però, vi era
una sola presenza lì insieme a lui. Quella stanza affollata era, di fatto,
vuota ai suoi occhi.
Beatrice era così diversa
da come la ricordava.
Dinnanzi a lui, l’austera
signora di Romagna entrò con lo sguardo alto e serio, in totale disaccordo con
gli occhi dolci e il sorriso sognante che aveva sempre posseduto.
Indosso aveva un abito in
broccato nero, con ampie maniche trasparenti. Sul capo, i capelli erano
intrecciati in un’elaborata pettinatori tenuta unita da un diadema di pietre
preziose candide come neve.
Sullo scollo generoso del
corpetto stretto, una collana d’oro bianco risaltava luminosa sulla pelle
diafana della contessa.
Un’immagine gli balenò
innanzi agli occhi, mentre la guardava avvicinarsi.
Una giovane ragazza con i
capelli sempre liberi sulle spalle, sorridente e gioiosa con indosso una veste
bianca merlettata di pizzi raffinati. Ballava accarezzata dal vento, che
trasportava le sue risa per tutta la campagna, mentre il sole tramontava alle
sue spalle.
Incoronata da rosse rose
intrecciate, Beatrice, la sua Beatrice, le parve così differente dalla donna
che ora gli stava innanzi.
Così lontana da parere
irraggiungibile e persa per sempre.
Lorenzo, invece, si trovò
incapace di spostare lo sguardo dal bambino.
Era piccolo, ma aveva lo
sguardo molto vispo, nonostante se ne stesse buono tra le braccia della balia
anziana.
Quegli occhi, grandi e dei
colori del miele, erano identici a quelli di Riario.
Un insieme di pensieri si
fece largo nella mente del Magnifico in quel frangente, destabilizzandolo;
quello era sangue del suo sangue, che doveva condividere con la feccia romana.
Senza contare che, in un
certo senso, l’onta del non aver concepito un erede maschio mentre quell’infame
di Riario vi era riuscito al primo colpo facendosi sua sorella, era davvero
troppo.
Nonostante ciò, trovò la
prontezza d’animo di guardare verso Beatrice.
Le sorrise compiaciuto,
allargando le braccia mentre scendeva quei pochi gradini che li separavano “Mia
adorata.” Le disse, abbracciandola forte.
Si era preparato un
discorso, ma non riuscì ad aggiungere altro.
Il conte non c’era e la
più giovane delle sue sorelle era lì, dopo tanto tempo.
Lei sentì tutta la
tensione scemare fra le braccia di Lorenzo.
Sospirò e chiuse gli
occhi, mentre appoggiava il viso nell’incavo della spalla del fratello,
sentendo di nuovo un profumo familiare che la riportò con la mente alla sua
infanzia.
Quando si staccarono, la
contessa di Romagna prese fra le mani il viso dell’uomo, baciandolo sulla
guancia “Vi trovo bene, Lorenzo.” Gli disse, facendo un passo indietro, per
poter guardare verso il resto della famiglia. Non abbastanza coraggiosa da chiamare
a sé Giuliano, strinse forte Clarice che s’era avvicinata mentre ancora
abbracciava il maggiore, lanciando poi uno sguardo alle nipotine che fremevano
dalla voglia di raggiungerla “S’è persa l’usanza del saluto, qui?” domandò
Beatrice proprio verso di loro, accogliendole poi fra le sue braccia, quando
corsero da lei.
Anche Becchi , visto
l’atteggiamento di Lorenzo, mise da parte la compostezza e accarezzò il capo di
Beatrice, la quale finalmente guardò Giuliano.
Non chiedeva nulla alla sua famiglia, nulla
all’amato fratello se non un po’ di rispetto verso quel marito che lei stessa
alle volte non capiva.
“Tuo marito l’hai lasciato
nel porcile?”
Per l’appunto.
Giuliano non s’era fatto
alcun pensiero nell’esternare ciò che gli passava per la testa e nemmeno
l’occhiata di fuoco del precettore lo fece desistere dal sorridere sfrontato.
Vi era qualcosa
d’irrisolto nell’aria.
L’argomento Girolamo era
ancora spinoso e avrebbero dovuto parlarne, ma era così desiderosa di un
abbraccio che non disse nulla.
Si lasciò cullare dal
calore di Giuliano, rischiando di commuoversi in quel frangente, ignorando la
pessima battuta e cercando di concentrarsi solo su di lui.
Su quanto le era davvero
mancato.
Si staccarono di
controvoglia e si sorrisero, poi finalmente Beatrice parlò “Sei sempre così
delicato, fratello mio. Come un badile sbattuto ripetutamente sulla testa.” Lo
schernì, prima di voltarsi e far cenno ad Agnese di avvicinarsi.
Finalmente avrebbe fatto
qualcosa che bramava da mesi.
Prese il piccolo
Alessandro fra le braccia e lui subito corse a stringere con il pugnetto l’orlo
del corsetto, guardando con i suoi grandi occhi curiosi quelle buffe persone
mai viste.
“Voglio presentarvi il
nuovo uomo della mia vita.” Disse Beatrice, facendoli sorridere tutti, mentre
Lorenzo allungava le braccia per prendere il piccolo.
La contessa glielo
concesse, volendo imprimersi quell’immagine nella mente per non cancellarla mai
più.
Per un istante, il mondo
le parve giusto.
Per un istante s’illuse
che forse, il tempo, avrebbe aggiustato ogni conflitto.
S’illudeva, lo sapeva
anche da sola.
I fuochi del duomo accesi,
i cittadini in maschera, la musica per le vie…
Questa era la Firenze che
Beatrice tanto amava.
Per quanto si sforzasse di
portare anche a Forlì un po’ di quella magia, non vi riusciva.
Il cuore della città
toscana era nei suoi cittadini, nel loro non confacersi alle regole del loro
stesso tempo.
Nonostante il rivedere
Francesco de’Pazzi – il quale portò la fiaccola per l’accensione della
colombina a Lorenzo, cedendola con non poca stizza mal celata- non le fece
piacere, lo spettacolo fu sublime.
Giuliano l’aveva stretta a
sé con un braccio, tenendo con l’altro il piccolo Alessandro, e aveva quasi
urlato per l’entusiasmo quando quell’uccello meccanico era volato vicino a
loro, senza esser sorretto da filo alcuno.
Beatrice non si stupì
nell’apprendere che l’ideatore di cotanta arte era Leonardo da Vinci.
“Quest’artista è un
eretico, si vede dalle diavolerie che architetta.” Aveva sussurrato maligna
Maddalena de’Pazzi, trovando subito il consenso di Ombretta.
Beatrice s’era sforzata di
non mandarla al diavolo, desiderosa di evitare inutili battibecchi: Leonardo
era un genio, lo dimostrava in ogni cosa facesse.
“Lo spettacolo è stato di
vostro gradimento?” aveva domandato il Verrocchio quando s’era ritrovato la
contessa innanzi, dopo averla osservatamente salutata.
“L’ho trovato a dir poco
strabiliante, tanto che vorrei congratularmi io stessa con il maestro da Vinci”
aveva risposto lei, ricevendo uno sguardo esasperato come risposta.
“Vorrei tanto aiutarvi, ma
non ho idea di dove possiate trovarlo” dispose il povero maestro, mentre un
Zoroastro vestito da bacco si faceva avanti.
Il tartaro abbozzò un
inchino goffo “Leo è come l’aria, difficile da catturare ma purtroppo,
tristemente necessaria! Vi trovo meravigliosa come sempre, mia signora.”
S’erano visti un paio di
volte, eppure quell’uomo le era rimasto impresso. Divertita, Beatrice rispose
“Anche io vi trovo bene, messer Zoroastro.”
“Chiamatemi Zoroastro, o
Zo. Non occorrono titoli inesistenti.” Aveva proseguito lui, sventolando una
mano come per scacciare una mosca. L’aveva infine allungata verso la madonna,
sorridendo suadente “Un ballo? Sarebbe un onore poter dire di aver danzato con
voi.”
La ragazza non si fece
pregare.
Appoggiò la mano chiara in quella più olivastra dell’uomo, “E sia! Ho voglia di
ballare!”
La magia del carnevale
consisteva in quello, dopotutto.
Abbandonare il proprio
ruolo in favore di una maschera.
Beatrice si sentì libera,
quella sera.
Libera di essere di nuovo
una ragazza fiorentina, dedita alla leggerezza delle feste e all’ozio di una
vita senza preoccupazioni.
Un lusso che non si
sarebbe più concessa per molto tempo.
La città si spense dopo
molte ore, sotto lo sguardo severo delle guardie della notte.
A riaccompagnare la
contessa al palazzo de’Medici fu il giovane Sandro Botticelli.
“Vi ringrazio per la
premura, Sandro.” Disse Beatrice, mentre camminavano con molte altre persone
per le viuzze della città animata dalla festa “Ho seminato le mie guardie da
molto. Saranno tutti in ansia e mi staranno cercando.”
Botticelli sorrise
divertito “Come un tempo.” Replicò, porgendole un braccio affinché lo
accettasse. Una volta che Beatrice si fu
appoggiata a lui, il ragazzo sospirò “Siete crudele Madonna, sono passati quasi
due anni da quando m’avevate promesso di ritrarvi.”
Era vero.
Beatrice s’era fatto amico
quel giovane di grandi speranze, quell’artista tanto decantato da suo fratello
Giuliano, ad una festa molto simile a quella a cui avevano appena partecipato.
Ancora non gli aveva
commissionato nulla e si sentì in colpa.
“Non so se riuscirete a
ritrarmi prima della mia partenza per Forlì, ma in ogni caso vi chiamerò appena
potrò. Stavolta lo prometto.”
Arrivarono innanzi alle
porte, dove un Olivieri pallido fu più che felice di vedere rincasare la sua
signora.
“T’avevo detto che stava
bene! Non m’hai creduto, scemo!” gli disse Camilla, afferrandolo per un braccio
e trascinandolo lungo il loggiato interno, mentre Beatrice ridacchiava.
Si voltò infine verso
Sandro, che fece un piccolo inchino con il capo, baciandole il dorso della mano
“Abbiate cura di voi, mia signora. Non aspetto altro che i vostri comandi per
munimi di colori e arte per ritrarvi.”
“A presto, Botticelli.
Abbiate un buon riposo, stanotte.”
Lasciato il giovane sulla
porta, la ragazza andò verso i suoi alloggi, fermandosi prima per salutare
Giuliano che però, a detta di Bertino, s’era perso con una giovane ragazza per
la piazza.
Divertita, Beatrice andò
verso la sua stanza, pronta a mandare a letto anche Monna Agnese che s’era
ritirata con Alessandro subito dopo il
lancio della colombina.
Non trovò lei a vegliare
sul sonno del figlio, però.
“Lorenzo.” Sussurrò piano
la donna, fecendo qualche passo verso di lui.
Chino sulla culla, a
osservare il nipotino beato, stava il maggiore della casata.
Le fece cenno di seguirlo
verso la piccola saletta adiacente alla camera da letto, così da non disturbare
il sonno del pargolo e lei eseguì.
Era stanca e sperava di
poter riposare tutto il resto della notte, ma parlare un po’ con suo fratello
le avrebbe fatto piacere.
Per la prima volta,
Beatrice realizzò che dinnanzi a lei aveva praticamente un suo pari.
Un uomo saggio che
governava una città al meglio, così come si adoperava ella stessa di fare.
Sedettero su un paio di
poltroncine, uno di fronte all’altra e Lorenzo si allungò per afferrare la
spada della giovine, appoggiata al tavolino in mezzo a loro.
La estrasse dalla guaina,
osservando la lama lucente e affilata, premurandosi anche di passare un paio di
dita sullo stemma dei de’Medici e dei Riario, che spiccava in rilievo quasi
alla base dell’elsa.
Poi notò le parole incise
in oro sul corpo della lama.
“Iustus ut palma
florebit…” Lesse con la voce bassa e leggermente arrochita “Un salmo?”
“I giusti fioriranno e
persisteranno come la palma, che sempre verde sta.” Recitò a memoria
Beatrice, accavallando le gambe e rilassandosi contro allo schienale della
poltrona rossa “Dal Vangelo secondo Matteo, terzo canto, versetto dodici.”
“Il motto della famiglia
Riario.” Ponderò Lorenzo, prima di rinfoderare l’arma, rimettendola laddove
l’aveva trovata “Ambizioso, come motto, per un uomo avventato come tuo marito.”
“Ammetto che hai ragione.”
Rispose a tono la mora, sorridendo però divertita “Io penso che non siano gli
atti a rendere giusto un uomo, quanto l’intento.”
Lorenzo sbuffò una risata
senza colore “Ti prego, non avventuriamoci in un discorso che non finirebbe
bene. Sono troppo felice di riaverti qui per rovinare la giornata.”
“Hai ragione, ti chiedo
scusa. Solo, ho una richiesta da farti.”
Il Magnifico la
guardò un po’ timoroso, accettando poi
di sentire questa richiesta.
“Cercherò di renderti
felice, sorella mia, ma sai che non posso promettere.”
La contessa annuì piano,
consapevole “Lo so, ma vorrei lo stesso che ci provassi.” Gli disse, prima di
sospirare e domandare “Vorrei che dopo domani, quando Girolamo verrà a
comunicarti il motivo della visita, tu ti prenda un istante per ponderare la
sua richiesta. Non essere anche tu avventato.”
Lorenzo scosse piano il
capo “Deve essere qualcosa di brutto, se mi prepari così.”
“Vorrei solo che tu
provassi a fidarti di lui.” Sussurrò Beatrice, già certa della replica del
fratello.
“Fidarsi di Girolamo Riario
è come stipulare un patto con il Diavolo e meravigliarsi quando viene a
reclamare la tua anima.”
Cosa poteva dire, per
discolparlo?
Nulla.
Girolamo aveva scelto da
solo quella via.
Nonostante ciò, Lorenzo
non riusciva a vedere così triste Beatrice, così si mise diritto sulla poltrona
“Farò il possibile, posso prometterti questo.” Le disse, strappandole un
sorriso intenerito “Ora parliamo d’altro, non so quasi nulla della tua città. Parlami di Forlì.”
Rimasero quasi tutta la
notte lì seduti a parlare di come governare e cittadini, di commerci e di leggi
e per la prima volta in vita sua, Beatrice si sentì davvero vicina a Lorenzo.
Non avevano mai avuto una
simile complicità.
I'm always dragging that
horse around
Our love is pastured,
such a mournful sound
Tonight I'm gonna bury
that horse in the ground
So I like to keep my
issues drawn
But it's always darkest
before the dawn…
[….]
And it's hard to dance
with a devil on your back
And given half the chance
would I take any of it back
It's a fine romance but
it's left me so undone
It's always darkest
before the dawn