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Autore: RosenrotSide    26/09/2008    6 recensioni
Bill Kaulitz non è uno stinco di santo, suo fratello Tom non scopa come un riccio, il timido Gustav non è poi così timido e quando vuole parla a raffica e Georg Listing, l'hobbit che tutti prendono di mira, è quello più furbo e che conquista più ragazze. Se erano questi i ragazzi che conoscevate, dimenticateveli. Io che lavo la loro biancheria tutti i giorni posso giurarvelo davanti ad ogni Dio esistente.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Oh mio Dio, è un secolo che non aggiorno, mi dispiace, mi dispiace davvero tanto, soprattutto per te Freiheit, non sai quanto mi ha fatto piacere il tuo commento, anche se sei una sconosciuta (bè, è ovvio che spero di conoscerti meglio) *-*
La citazione di Dawson's Creek, bè, non mi ricordo molto bene perchè l'ho messa. Volevo sicuramente mettere delle frasi di un telefilm vero, le frasi in inglese che Tom sente svegliandosi. Poi, proprio perchè quelle, non lo ricordo; sono una fan di Dawson's Creek e quella puntata mi era molto cara. Sicuramente, non morirà nessuno XD Però il fatto che le situazioni degenerino in fretta fa pensare ed è collegato al fatto che Charlie, che è libera, lo dice lei, e quindi libera di scegliere, scelga così bruscamente di voltare la schiena a Mimi, a Tom, presa da un impulso da animale in gabbia. Lei, come Anya, non è fatta per stare in gabbia.
In quanto al pezzo della mamma, è un flashback molto da interpretare, mi è venuto così, pensando ai miei risvegli da bambina. Io li sento Tom e Bill, soprattutto in queste cose. Sono felice che tu abbia apprezzato, davvero tanto ^^

Ora, il nuovo capitolo.
Avviso, è lungo. Ma lungo.
Eppure, non mi sono stancata a scriverlo.
Se c'è qualche errore di battitura, perdonatemelo. Non mi funziona più a dovere Word e anche rileggendo certe cose non sempre saltano all'occhio.

Niente sarà più come prima, dopo questo.



Consiglio dell'autrice: visto che non vi do mai canzoni da ascoltare durante la lettura, questa volta voglio consigliarvi come procedere in questo senso, sempre che vi vada. Dopo il primo * che separa due parti dello stesso capitolo, l'argomento va a toccare i ricordi. Ricordate un pò anche voi, magari ascoltando una canzone dei mini-Tokio like Der Letzte Tag (la prima versione). Se ne preferite altre simili, siano le benvenute.
Dopo il secondo * io ho sempre immaginato il tutto con Amour dei Rammstein. E' metal molto, ma molto leggero. L'ho fatta sentire ad alcune amiche, che si sono spaventate XD (non è il tuo casoFreiheit) Quindi è una cosa molto facoltativa, tutto è facoltativo, però io mi sono sentita in dovere di indicarvi alcune cose che potevano migliorare la lettura.
La traduzione di Amour la potete trovare facilmente su metalgermania, un sito molto fornito, adoro le parole, per me sono vere più di qualsiasi altra cosa. Buona lettura.

Dopo questo, niente sarà più come prima.



17.
Nothing Else Matters


Gli aveva detto che era incinta, di tre mesi; da tre mesi a quella parte aveva sentito qualcosa dentro di sé crescere e sconvolgerla e lei l’aveva lasciata andare avanti, tenendola segreta e al sicuro dall’ambiente in cui viveva, fino a quando la necessità della sua condizione di povera barista senza mezzi non l’aveva indotta a chiedere aiuto a Luke, il colpevole. La sua risposta era stata un ceffone che l’aveva sbattuta a terra facendole sputare sangue sul pavimento del Lost Heaven e da quel pavimento l’aveva raccolta Gustav. La luce bluastra del locale avevano reso i lineamenti del ragazzo quasi spettrali, tanto che era giunta a chiedersi se non fosse stato l’angelo che l’avrebbe condotta all’Inferno con le scuse del Santo Padre, ci dispiace, ma il Paradiso non fa per te; invece lui le aveva parlato nella lingua che sin da bambina aveva considerato sua e l’aveva sollevata da terra come se fosse stata fatta di piume leggere. Ne era rimasta accecata e a chi altri dare la sua fiducia, dopo che lui aveva passato l’intera nottata ad ascoltarla? Le era venuto naturale confessargli il suo segreto, gliel’aveva quasi sputato in faccia tanta era la foga di pulirsi di quel bellissimo peccato e sapeva già dal principio che lui l’avrebbe aiutata, non si sarebbe tappato le orecchie coprendo il suo lamento con altre parole, come un bambino isterico. Magari le avrebbe lasciato dei soldi, da quel che diceva Charlie sul loro conto, i Tokio Hotel erano una band famosa, il cantante spendeva dei milioni solo per vestirsi. Qualche dollaro non poteva di certo rovinare il biondino.
Gustav, invece, si era alzato dal letto su cui lei era coricata ed era andato al comodino a versarsi un bicchiere d’acqua; il tempo di berlo gli era stato sufficiente per decidere con un’impulsività che tirava fuori di rado e solo in occasioni che la richiedevano con così tanta persuasione.
-Tu non hai bisogno di soldi- le aveva spiegato, avvicinandosi di nuovo –tu hai bisogno di tutto l’aiuto che ti posso offrire e questo non sta di certo in un paio di banconote-
-Che cos’hai qui, in America?- le aveva chiesto poi.
-Ho un appartamento, un lavoro e Charlie. E il bambino- aveva risposto Mimi.
-Una famiglia?-
-No, i miei non li ho mai conosciuti, ho vissuto con mia cugina Martha, che in verità non è neanche mia cugina di sangue, ma la figlia del mio padrino e poi a sedici anni me ne sono andata-
-E parli tedesco- aveva considerato Gustav.
-E parlo tedesco- gli aveva confermato.
-Domani partiamo per la Germania. Vieni con noi- non era una proposta, né un invito.
-E lì, cosa farò?- chiese Mimi, un attimo spaventata dalla determinazione del ragazzo.
-Nulla di nulla, penserò a tutto io. Fino a quando rimarremo lì, starai con me, se vorrai e per il resto, per non affaticarti con i nostri viaggi e i nostri orari impossibili, starai a casa di mia sorella- le spiegò il biondino, inginocchiandosi ai suoi piedi e poggiandole con fare rassicurante una mano sulla spalla.
Mimi non seppe che rispondere, si limitò a sorridere con gratitudine a Gustav; avrebbe voluto che il padre del suo bambino fosse così, come una vita nuova.

*



Le specialità di Simone in fatto di dolci erano i waffel e le torte al cioccolato e marmellata di albicocche; quando i suoi figli erano più piccoli, poi, cucinava sempre e solo biscotti perché a loro piaceva giocare con le formine e dare alla pasta l’aspetto di animaletti, soli, lune e quant’altro. A Bill non piaceva il cioccolato, quindi i biscotti al caramello erano tutti suoi, li sceglieva con cura dal vassoio e li nascondeva a suo fratello per non farglieli mangiare, così che Tom faceva indigestione di quelli al cacao e alle nocciole. Poi, quando Bill aveva deciso di togliersi l’orecchino che lo distingueva stupidamente dal fratello per adottare la maniera più drastica di tingersi i capelli di nero e truccarsi gli occhi, non avevano più voluto cucinare con lei e imbrattarsi di farina lanciandosi le pentole oppure assaggiare l’impasto non ancora pronto con le dita. Il loro maggiore divertimento, dal creare animali strani mai visti né in cielo né in terra, diventò quello di rinchiudersi o in soffitta o nella casetta di legno sull’albero a suonare; Bill, appena imbracciata una chitarra, aveva capito che cantare era il suo mestiere: neanche il tempo di pizzicare una corda, che quella era subito saltata via, preferendo suicidarsi piuttosto che stonare tra le mani del ragazzino. La differenza tra i due fratelli in campo musicale era che Tom aveva avuto la costanza e la testardaggine di domare lo strumento e Bill aveva preferito non rischiare e andare sul sicuro su una cosa che sapeva già fare. Nonostante ciò, da quel momento i due avevano sempre e solo continuato a fare musica, senza più smettere. Per questo, Simone si stupì quando, il giorno della festa, Bill arrivò in cucina al mattino presto, sveglio e lavato e si mise accanto a lei ad impastare farina, sporcandosi subito il naso e disegnandosi per gioco due baffi signorili con il lievito.
Nonostante la sua buona volontà, l’aiuto maggiore che il ragazzo riuscì ad offrire senza combinare danni fu quello di assaggiare, con molto piacere, ogni dolce, per poi dare una mano a preparare il giardino per la festa e, compito più difficile, svegliare suo fratello nel primo pomeriggio perché desse anche lui il suo contributo.
-La festa è tua, te la prepari tu- fu la risposta mugugnata di Tom quando Bill entrò in camera cantando a squarciagola una canzone di Nena.
-Una volta non tanto lontana mi hai detto che sono tanti anni che me ne sto con le mani in mano e non faccio niente, per paura di quello che potrebbero di me. Io ho solo paura di quello che potrebbe dire lei di me, ma questa volta mi aiuterai tu- ritrattò il fratello, aprendo leggermente le imposte per fare chiaro.
-Non posso mica scoparmela per te- borbottò Tom, buttandosi giù dal letto a fatica.
-No, però puoi coprirci-
Dal sopracciglio alzato di Bill, Tom capì che faceva sul serio e la cosa contribuì a svegliarlo del tutto. Aveva deciso e sapeva bene che suo fratello non si tirava indietro, non dopo aver fatto la sua faccia convinta; come aveva ottenuto il successo, con quel sopracciglio avrebbe ottenuto lei.
Tom scelse con cura la felpa e i jeans da indossare, perché sapeva che sarebbe venuto anche Andreas e questo voleva dire che la festa si sarebbe evoluta solo in una maniera: una fuga nel primo locale a bere con gli amici e rivedere le vecchie fiamme della scuola, anche se quest’ultimo particolare non gli interessava più di tanto: erano diventate tutte brutte per lui e l’unica cosa che potevano offrirgli di allettante erano i ricordi passati, per distrarlo.
-Tom, aiutami a portare fuori i salatini per piacere!- urlò Simone, pulendosi le mani nel grembiule ed affacciandosi dalla porta della cucina per vedere il figlio maggiore scendere i gradini a due a due ed afferrare le chiavi della macchina da una mensola.
-Bill, aiuta mamma a portare fuori la roba!- urlò di rimando Tom al fratello che lo seguiva a ruota –Io vado a prendere Andreas, mamma, ci vediamo dopo- schioccò un bacio sulla guancia di sua madre e poi uscì dalla porta sul retro, mentre Bill si congratulava con lui ad alta voce per tutto l’aiuto che gli stava dando.
Uscendo, Tom inciampò in uno degli attrezzi da giardino di Simone e battè la testa contro la porta aperta del garage, dove aveva parcheggiato la sua auto tornando dalla città la scorsa sera.
-Maledizione!- imprecò, portandosi una mano alla fronte –Merda-
Appoggiò entrambe le mani al muro, respirando perchè la fitta di dolore gli passasse più in fretta; ma non c’era modo per fargliela passare del tutto. Odiava essere lì, a casa, odiava essere stato trattato così e adesso fare finta di nulla solo perché suo fratello lo voleva bello e sorridente per la festa, per il comodo di averlo come alleato alla caccia alla puledra, dopo che lui aveva lasciato scappare la sua. Charlie non era ritornata sulla sua decisione, era scappata e basta dopo avergli urlato contro quelle falsità, dopo averlo insultato. Perché quello era un insulto. Tom era andato a cercarla nel suo garage, l’aveva trovato chiuso e nessuno aveva risposto alle sue urla; poteva provare a chiamarla ora, aveva il numero del suo cellulare, ma non gli avrebbe risposto mai, anzi, dubitava che la ragazza lo possedesse ancora sapendo che lui poteva rintracciarla, sicuramente l’aveva buttato in un tombino.
Stronza ed ingrata, maledizione.
Tom aprì con rabbia l’auto e si fiondò sul sedile, chiudendo con un colpo secco la portiera e portando le mani al volante. La vista dei sedili in pelle color crema lo calmò: la sua Cadillac non lo avrebbe tradito mai. Aveva desiderato tanto averla, talmente tanto che la stava per comprare ancora prima di aver preso la patente e appena avuto il documento in mano si era già visto girare la Germania con la sua auto, la sua bambina; dopo la collezione di chitarre, quella era la cosa a cui teneva di più. Ma anche adesso che la sua presenza confortante e titanica lo circondava, non poteva fare a meno di desiderare che da un momento all’altro, dalla carrozzeria spuntassero delle ali, per poter viaggiare sopra il mare e tornare da dove era venuto per non ricommettere l’errore di farsi prendere in giro da quella ragazza. Accarezzò il volante in pelle, tutta la sua curva, lucidando con il pollice gli inserti di acciaio e sotto i polpastrelli non sentì il freddo del metallo, ma il calore di Charlie che lo bruciava e rianimava. Se la sarebbe ripresa.
Si sistemò meglio sul sedile, appoggiando la testa al cuscinetto imbottito, stirando la maglia con una mano e continuando a toccare il volante e poi il cambio e poi la radio con l’altra, preso dalla fantasia che ogni parte dell’auto fosse una parte del corpo di Charlie. Inclinò all’indietro il sedile anteriore del passeggero solo per il piacere di immaginarsi la ragazza stesa lì e lui. Se la sarebbe mangiata viva.
La radio a tutto volume che aveva acceso inavvertitamente lo riportò alla realtà: si risedette composto, sistemandosi la visiera del cappellino. Decisamente, quella era il tipo di macchina che faceva per lui.
Appena oltrepassato il vialetto di casa, vide i nonni, i primi invitati, entrare dalla porta principale con in mano dei dolci; erano tanto invecchiati, poveri nonni.
Le strade di Loitsche erano deserte come sempre, drittissime e affiancate da pini solitamente grigi ed insignificanti, ma il sole che stava uscendo in quell’ora del pomeriggio li faceva più rossi ed irreali in una visione decisamente strana. Tom superò la casetta della fermata dell’autobus che portava lui e suo fratello a scuola anni prima e che ora i fan avevano trasformato in un piccolo santuario.
Una figura comparve lontana al bordo della strada e, man mano che l’auto si avvicinava, i suoi lineamenti si facevano più netti: teneva in mano un cappottino di lana ed un berretto e indossava un vestito a righe, con gli stivali. Tom frenò per avvicinarsi, sorridendo tra sé.
-Ti sei fatta tutta la strada a piedi da Amburgo?- chiese ad alta voce, scendendo dal macchinone e stringendo in un abbraccio Anya.
-No, solo fino dalla stazione- gli sorrise lei, alzando lo sguardo per incontrare quello ben più alto del ragazzo.
-Se lo avessi saputo, ti sarei venuto a prendere in macchina, anche Andreas arriva in treno, ha l’auto a riparare-
-Non fa niente- scrollò le spalle lei –Allora, tutto bene? Vi siete ripresi dal viaggio?-
-Sì, tutto a posto. Ammettilo che ti siamo mancati- scherzò Tom, infilando le mani in tasca e sorridendo sornione.
-Vuoi farmi dire una bugia?- rise lei.
-Ah bè, grazie, grazie mille davvero- si offese Tom –Quando tu a noi sei mancata moltissimo!-
-Posso immaginare- tagliò corto Anya -Adesso sarà meglio che vada, a piedi è più lunga che in macchina-
-Ma non scherzare, sali, andiamo a prendere Andreas e poi torniamo con la mia- propose Tom, aprendole la portiera.
-Grazie, ma preferisco andare da sola, vai pure a prendere il tuo amico, ormai sono di strada-
-Come vuoi- fece spallucce Tom, salendo in macchina –ma ti avverto: a casa c’è ancora solo mio fratello con i nonni. A lui farà sicuramente piacere, non so quanto possa far piacere a te discutere con due vecchietti sordi. A dopo-
L’auto partì a tutta velocità sgommando e Anya rise di quanto fosse scemo, a volte, Tom. Riprese la sua strada, sistemandosi la spallina del reggiseno che le era scivolata su una spalla.
Era stata a casa dei gemelli solo una volta, qualche anno prima; forse era proprio nel primo periodo in cui aveva iniziato a lavorare per i Tokio Hotel, non ricordava bene. Era una casa normalissima, come tante in quel paese, con il suo bel giardino e tutto il resto, proprio il tipo di posto in cui le sarebbe piaciuto vivere da bambina; anche le camere dei due ragazzi parevano abbastanza nella norma nonostante i proprietari non lo fossero per nulla.
La loro mamma era una donna al contempo pacata ed energica, nulla faceva presagire che avesse dato alla luce due pazzi. Le aveva fatto vedere le foto dei due fratelli quando ancora indossavano magliette con il loro nome scritto sulla schiena e Bill rimaneva appiccicato a Tom come una figurina all’album; il fratello si era sempre preso cura di lui: dormivano insieme se Bill aveva paura dei mostri che sbucavano da sotto il letto o da dietro le tende, lo portava in giro per mano morbosamente ed esaudiva qualsiasi suo capriccio, anche se dava sempre a vedere di essere lui il capo. Era sempre stato lui il più responsabile da un certo punto di vista, anche se nessuno l’avrebbe mai detto.
Simone le aveva raccontato tutto questo mentre entrambe aspettavano che i gemelli portassero giù le valigie per il loro primo tour, sedute comodamente sul divano, senza nessuna intenzione di fare dei convenevoli, come due amiche improvvisate. Poi non si erano più viste.
Salutata con qualche difficoltà la nonna e altri amici di vecchia data appena arrivati, Bill si incamminò per portare dalla cucina al giardino gli ultimi piatti di stuzzichini. In un punto imprecisato del prato si fermò di colpo, guardandosi i piedi: era sicuro che proprio in quel punto, in quel comunissimo fazzoletto di verde, fosse caduto e si fosse sbucciato un ginocchio, quando era piccolo. In realtà, non poteva affatto ricordarlo ed era anche improbabile, visto che non era mai stato il tipo di bambino che passava le giornate dietro ad un pallone, preferiva giochi più tranquilli o sessioni di litigate con il fratello per decidere quale cartone animato guardare, ma l’istinto primitivo del ricordo e dell’appartenenza lo rendevano certo di aver versato sangue e lacrime su quella terra, sua, sua e di Tom. La differenza tra il loro pianto e il loro sangue era nulla, magari c’era differenza nel modo di versarli.
Se n’era andato da lì a sedici anni, ben felice di farlo: sua mamma, da quando era arrivato Gordon, aveva potuto ricominciare a vivere, iniziare di nuovo da zero dopo la brutta separazione con loro padre; lui e Tom avevano intrapreso la loro strada senza alcun rimpianto, senza alcuna casa, viaggiatori instancabili.
Era una bella strada da percorrere, con le sue curve e i suoi incidenti, ma comunque era la loro strada.
Poche fermate e rari incroci. 
Forse era ora di averne di nuovo una, di casa, un appartamento grande, vicino ad Amburgo, in un posto un po’ isolato magari. Assorto nei suoi pensieri, Bill tirò un calcio ad una zolla di terra con i suoi camperos dorati, facendola finire ai piedi di qualcuno appena entrato di soppiatto dal cancello del giardino, qualcuno con degli stivali molto familiari.
-Wow, che fantastica accoglienza a casa Kaulitz!- sorrise sarcastica Anya, tirando di rimando un calcio alla zolla.
-Non-non ti ho vista arrivare, scusa- balbettò Bill, deglutendo a tradimento alla vista della ragazza.
Lei annuì, scrutandolo: -Già-
Aveva accorciato di poco i capelli, finalmente, ed indossava semplicemente dei jeans, una maglietta e la giacca di pelle. Il dettaglio più sorprendente era il vassoio di salatini che reggeva con una mano sola, in pericolo di caduta imminente, già troppo inclinato per la forza di gravità. Si avvicinò per sorreggerlo visto che Bill, troppo intento a fissarla, sembrava non essersene accorto.
-Oh!- eslcamò, riprendendo il controllo sul vassoio.
-L’aria dell’America non deve averti fatto troppo bene, hai una faccia…- commentò Anya, scrutando gli occhi lucidi di Bill.
-Io sto benissimo!- si difese il ragazzo, corrugando la fronte. Scusa tanto se faccio la faccia da ebete, ma era una settimana e più che non ti vedevo e scusa ancora se mi sei mancata!
Ma non lo disse, rimase solo a fissarla di nuovo, mentre lei, disinvolta, continuava a sostenere il suo sguardo, senza alcuna ombra di imbarazzo, come solo lei sapeva fare.
-Oh bè, se non hai niente da dirmi, posso anche smetterla di guardarti in attesa che spiccichi parola. Vado a salutare tua madre- Anya lo superò sbattendo i tacchi; passandogli accanto, Bill percepì il vento che la sua gonna aveva sollevato e la fragranza dei vestiti e dei capelli, lavati da poco. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni, senza girarsi: anche senza vederla, sapeva che Anya l’aveva superato di buon passo e adesso stava incrociando le braccia sbuffando.
-Mi sei mancata- quasi le urlò da dietro le spalle, affinchè lo sentisse; poi, riprese velocemente la sua strada verso il gazebo del giardino, infilandosi un salatino in bocca. Tirò fuori con una mano il cellulare ed iniziò a premere i tasti, continuando a masticare rumorosamente.
"E’ arrivata, vedi di muoverti" scrisse a suo fratello, con la rapidità del pollice da SMS.
"Vedi di muoverti tu, scemo!" fu la risposta divertita ed altrettando veloce di Tom.
-Vaffanculo- biascicò Bill tra i denti, appoggiandosi di schiena con entrambe le mani al tavolo dei dolci, rischiando di rovesciarlo.
Da lì poteva vedere la veranda di casa, la porta aperta della cucina e, contemporanemante, il vialetto di accesso, ornato da una siepe di mirto, da dove sarebbero arrivati gli altri ospiti. Sua madre uscì di casa per braccetto ad Anya, presentandole i nonni e i vicini; Gordon stava arrivando in quel momento, le braccia cariche di patatine e popcorn in più presi al supermercato. Raggiunse Simone stampandole un bacio gentile sule labbra colorate dal rossetto e abbracciò Anya calorosamente.
La ragazza sembrava a suo agio più di quanto lo fosse Bill in quel momento, come se lei avesse sempre vissuto lì al posto suo, come se quelli fossero i suoi parenti, quella la vita che non aveva mai vissuto. Il ragazzo, invece, era sull’orlo di una crisi di pianto, ancora prigioniero dei ricordi per potersi scuotere e tornare al presente di quella giornata che infrangeva le regole del tempo, ridimensionandolo a bambino, rimpicciolendo il suo cuore ai sentimenti antichi e ingrandendolo di rassegnazione ai nuovi.
Dei passi sulla ghiaia del viale gli fecero cacciare indietro la lacrima a bordo dell’occhio destro che già voleva cadere; riconobbe la chioma liscia di Georg e quella bionda di Gustav oltre la siepe. Ma non solo le loro: dietro veniva quella tinta e composta di Natasha.
Bill chiuse gli occhi a fessura a quella sorpresa e strinse i pugni sui bordi del tavolo: ok, se non l’aveva invitata, aveva avuto i suoi buoni motivi, quindi, cosa ci faceva lì?
Gustav alzò la mano nella direzione del vocalist, salutandolo e dirigendosi verso di lui con Georg al seguito, leggermente imbarazzato, mentre Natasha, euforica, correva incontro alla cugina, trascinandola in una danza isterica, ridendo e baciandola tutta.
Bill distolse lo sguardo dalle ragazze ridenti e si concentrò di nuovo sui suoi due amici, che già si stavano servendo dal buffet. Quando Georg incrociò gli occhi neri e furenti di Bill, si cacciò le mani in tasca e chinò la testa, sentendosi colpevole, soprattutto di tenere nascoste tante cose all’amico, che aveva subito sentito odore di bruciato e aveva individuato senza fatica il responsabile.
-Scusa Bill- rispose così all’occhiata dell’amico.
-Sapevi che non volevo che venisse, vi avevo spiegato che negli ultimi tempi il suo comportamento mi dava fastidio perché l’avevo sempre attaccata, all’aeroporto, nella zona relax, in macchina. Non la posso sopportare-
-Lo so Bill, ho provato a dirle che era una cosa privata, solo tua, ma quando ha saputo che veniva anche sua cugina, ha insistito tanto- tentò di giustificarsi Georg, pentendosi di non essere stato più severo con la bionda.
-Non gliene frega niente, a quella, di sua cugina- ringhiò Bill. Quante volte, facendo di tutto per rimanere in disparte con lui, gli aveva casualmente elencato i mille e più difetti di Anya? Era stato questo suo nuovo comportamento, adottato in America perché lontana dall’altra, ad indurlo a prendere in antipatia la truccatrice che prima, se non la considerava propriamente sua amica, era comunque una persona piacevole e simpatica, con cui passava del tempo insieme ai ragazzi.
La falsità della bionda, che ora abracciava amorevolmente la cugina, gli fece venire i nervi a fior di pelle.
Georg rimaneva ancora con le mani in tasca, aspettando un gesto di Bill che gli facesse capire se dovesse scusarsi ancora o se fosse stato perdonato.
Il vocalist sciolse i muscoli del collo in tensione e finalmente sorrise all’amico, dedicandogli uno dei suoi sorrisi speciali, non quelli montati da passerella. Georg gli battè una pacca sulla spalla, sollevato, infilandosi una manciata di salatini in bocca.
-Gustav, come sta Mimi?- chiese Bill, girandosi verso il batterista.
-Il viaggio in aereo è stato stancante per lei, ora è a casa di mia sorella. Hanno fatto subito amicizia, è una buona cosa no?- rispose Gustav, accennando un sorriso.
-E’ un’ottima cosa- annuì Bill –Oh bene, è arrivato Tom!- esclamò poi, vedendo quel bestione della Cadillac Escalade del fratello entrare dal cancello automatico. Ne scese al volo un allegro Andreas, il biondo che più biondo non si può, loro amico da sempre, già munito di una Beck’s finita per metà.
-Hallo leute!- esclamò, in direzione della casa, aprendo poi la portiera posteriore per far scendere tre ragazze e due amici che si erano stretti di poco per entrare tutti nel macchinone, con somma preoccupazione di Tom; si vedeva lontano un miglio che stava ringraziando il cielo con il pensiero perché era andato tutto liscio e i suoi sedili di pelle erano ancora integri.
C’era stata solo una vittima: un CD di Sammy Deluxe che Andreas aveva schiacciato con il sedere, accomodandosi pesantemente al suo posto.
-Mamma, dov’è Bill Kaulitz?- urlò Andreas, rivolto a Simone; sin da quando erano piccoli, aveva preso la strana abitudine di chiamarla così e da allora non aveva mai cambiato.
-Sono qui- gli rispose Bill, raggiungendolo a passo svelto e abbracciandolo come un fratello.
-Era ora che ci rivedessimo, razza di stronzi che non siete altro!- Andreas battè una forte pacca sulle spalle fragili di Bill. Il biondo si era fatto più uomo che mai, aveva sempre avuto questo punto in più rispetto ai gemelli: la virilità. Divertente, muscoloso e con un bel sorriso, Andreas, nonostante non fosse alto quanto i due Kaulitz, sembrava il loro doppio.
-E lei dov’è?- chiese ad un tratto, prendendo da parte Bill.
-Lei chi?- strabuzzò gli occhi l’altro.
-Lei Anya- Andreas abbassò ancora di più la voce –Tom mi ha raccontato-
-Ci avrei scommesso- borbottò il ragazzo –Comunque, è sulla veranda con mia madre- accennò con la testa alla figura della ragazza seduta a lato di Natasha.
Andreas alzò lo sguardo e la riconobbe: l’aveva incontrata un paio di volte, ma, siccome durante le rimpatriate con i gemelli andavano sempre in qualche locale fuori, lei non aveva mai voluto venire e lui non aveva mai avuto l’occasione di conoscerla meglio. E in più, quello stronzo di Bill non gli aveva mai detto niente di niente.
-E’ brutta come me la ricordavo- scherzò Andreas, ridendo di cuore alla faccia scorbutica dell'amico.
-Non è brutta!- protestò infatti il ragazzo.
-Diciamo che è il solo tipo di ragazza che potrebbe colpire te-
-Scusa tanto se non ho il testosterone al posto dei neuroni e non mi piacciono particolarmente le bionde siliconate!-
-Avanti Bill, scherzavo!- rise ancora Andreas –Su, andiamo da lei-
E, nonostante le proteste silenziose di Bill, l’amico lo trascinò fino alla veranda, mentre Tom e gli altri si gettavano sul buffet raggiungendo Georg e Gustav.
-Buonasera a tutti!- salutò ancora Andreas, alzando la bottiglia mezza finita in direzione degli ospiti seduti su delle sedie di fortuna portate dalla cucina. Simone si alzò per baciarlo su entrambe le guance e fare presente ai nonni, alzando la voce, che quel giovanotto ben cresciuto era il piccolo Andreas che veniva a casa da scuola con Tom e Bill qualche anno prima. Un po’ di anni prima.
-Oh!- esclamarono i nonni, fingendo di ricordare o ricordando davvero.
-Salve- li salutò allegramente il ragazzo, sorridendo con tutto il gusto che metteva sempre nei suoi sorrisi e rivolgendosi poi alle due cugine sedute sul dondolo –Anya e Nat-
Anya si alzò sistemandosi la gonna e si avvicinò per salutare il ragazzo, seguita dalla cugina. A convenevoli superati, Andreas le prese entrambe a braccetto, annunciando che loro andavano a servirsi qualche stuzzichino.
-Volete qualcosa?- si chinò a chiedere Anya ai nonni e alle vicine –Da bere, una fetta di torta?-
-Grazie cara, vorrei solo un bicchiere d’acqua fresca- le chiese la nonna di Bill, sorridendole gentile.
-Gliela porto subito- le assicurò Anya incamminandosi insieme alla cugina e i due ragazzi verso il gazebo del buffet.
-Che ragazza a modo e gentile!- commentò la signora, poggiando una mano sul ginocchio di Simone, quando i giovani si furono allontanati –E’ la fidanzata di Bill?-
Simone scosse la testa: -No, mamma, è una ragazza che lavora per loro-
-Ma sei sicura?- si stupì la donna –Da come la guarda mio nipote, sembrerebbe molto di più- affermò, spalleggiata dai suoi anni di esperienza e dall’abitudine di spettegolare.
Simone la fissò imbambolata, illuminandosi ad un tratto per quella rivelazione; spostò il suo sguardo verso i due ragazzi che camminavano nel giardino e sorrise, ancora confusa e sentendosi una povera rimbambita per non essersene accorta prima.
Arrivati al gazebo, Anya dovette salutare tutti, dedicando maggiore attenzione alle sue quattro scimmie, che non vedeva da tempo e quindi fu felicissima di riabbracciare Georg, Gustav e Tom e sentire i loro discorsi sull’America; ovviamente, più tardi, sarebbe venuta a conoscenza di particolari scottanti, gli unici per cui rimpianse di non averli seguiti. Non si incontra tutti i giorni una Charlie.
Li lasciò poi ai loro discorsi, Georg seduto su delle sedie in mezzo alle tre amiche dei gemelli, gli altri intenti a discutere tra loro di auto e ragazze, con Natasha che tentava di partecipare, ma lei di macchine non se ne intendeva molto, quindi veniva subitto azzittita dagli altri, esperti appassionati.
Anya si avvicinò di nuovo al tavolo del buffet, riempendo un bicchiere d’acqua ed un piatto con del dolce e dei salatini da portare a nonna Kaulitz.
-Posso darti una mano?- le chiese Bill, avvicinandosi da dietro; la ragazza annuì, indicandogli di prendere la bottiglia dell’acqua e degli altri bicchieri.
Si incamminarono insieme di nuovo verso la veranda, il ragazzo un po’ stufo omai di fare avanti indietro, ma ben determinato a stare vicino ad Anya.
-Allora, questa America?- interrupe il silenzio lei, concentrata a non far cadere nulla dal piatto.
-Niente di che, in fondo. E’ andato tutto bene-
-Niente di eccitante, di strano, degno di nota?- indagò ancora lei, rallentando il passo e alzando la testa per guardare Bill.
-A me, personalmente, non è accaduto niente di che. Chiedi a Tom e Gustav- le sorrise, incuriosendola, ma Anya non potè chiedere ancora, perché, raggiunti gli ospiti sulla veranda, le parve scortese continuare il suo discorso con il ragazzo non includendo gli altri.
Servirono tutti e fecero girare il piatto con il cibo, sentendosi ringraziare mille e mille volte.
-Prego, prego- continuava a ripetere Bill, mentre le signore chiacchieravano alle sue spalle, ponendosi i soliti mille interrogativi sul suo conto, ma non osando chiedere nulla per la centesima volta ai suoi genitori.
-Vieni- sussurrò Bill, prendendo Anya per un braccio per allontanarla dalle signore che continuavano a chiederle dove avesse preso quel bel vestito e dove fosse andata a farsi mettere in piega i capelli, perché erano proprio belli, così lunghi e lucidi.
La ragazza scese i gradini in legno delle veranda, facendo per dirigersi nuovamente verso il gazebo, ma la presa sul braccio di Bill la fece fermare.
-Andiamo di qua- accennò lui, indicandole il retro della casa –Voglio farti vedere una cosa-
-Va bene- assentì lei, seguendolo. Fecero il giro della casa, diretti verso un grande albero al centro dell’altro fazzoletto di giardino che confinava con la casa dei vicini.
Bill si girò una volta sola verso il fratello, per dargli il segnale convenuto; Tom era dall’altro capo del prato, ma lo stava guardando e recepì il messaggio, non aspettava altro. Fece un gesto scaramantico e uno di vittoria senza farsi vedere, finalmente. Finalmente, dopo tre anni, forse ce l’avevano fatta, perché quella era una vittoria di entrambi.
-Ehi Tom, andiamo a farci un giro di là? Hai ancora quel pallone da calcio che ti avevo regalato?- chiese Andreas all’amico –Possiamo farci due tiri vicino al grande albero mentre aspettiamo di andare-
Tom si risvegliò dal suo coma momentaneo, allarmato.
-Ehm, no, non ce l’ho più il pallone e tanto tra cinque minuti ce ne andiamo, mio fratello ha detto che non viene e se ci dividiamo tra la mia e la carretta di Georg ci stiamo tutti- spiegò il rasta, prendendo l’amico e facendolo voltare nuovamente verso il gazebo, perché non vedesse Anya e Bill allontanarsi assieme.
-E mia cugina?- rimbeccò Natasha, alzandosi in punta di piedi per cercare la testa mora dell’altra. Tom le si piazzò di fronte, bloccandole la visuale e facendo girare anche lei verso gli amici, che, impegnati a bere e chiacchierare, non si erano accorti di niente.
-Tua cugina è in casa con mia mamma e mia nonna, hanno voluto farle fare il giro, sai com’è…- mentì Tom, infilandole a forza una bottiglia di birra in mano.
Bevi e ubriacati, magari è la volta buona che non rovini la vita a mio fratello, pensò, tracannando anche lui un lungo sorso da una bottiglia.

*

La casa sull’albero era semicoperta dai rami della grande quercia nodosa, che stava mettendo le foglie in quella tiepida primavera; il sole cominciava a tramontare, regalando l’ultimo arancione della giornata al paesaggio. Per salire, il papà dei gemelli, a suo tempo, aveva applicato al tronco dell’albero dei pioli sporgenti e una corda annodata per aiutarsi. La salita era la parte più bella, ma questa volta Bill trovò qualche difficoltà: doveva avere avuto i piedi molto più piccoli per salire su quei pioli. Anya si arrampicò dopo il ragazzo, aiutandosi con le mani e rischiando di cadere non poche volte, ma arrivata in cima, Bill la sollevò con entrambe le mani e lei fu issata senza problemi sul balconcino della casa. Cadere da lassù non sarebbe stato affatto piacevole. Bill aprì la porticina della costruzione, lasciando entrare per prima Anya.
-Perché mi hai portata qui?- chiese la ragazza, guardandosi intorno.
-Per farti vedere il mio vero regno- Bill mostrò con un gesto delle lunghe braccia il piccolo interno della casetta. I raggi dorati del sole entravano dalle due finestrelle senza vetri; il ragazzo doveva stare lievemente chinato per non battere la testa sul tetto spiovente .
Anya fece scorrere le dita sullo schienale di una delle seggiole vicine al tavolo contro la parete, catturando con i polpastrelli la polvere che si era accumulata nel tempo.
Chiuse gli occhi e le sembrò di vedere i due fratelli come nelle vecchie fotografie, giocare tra quelle mura, incredibilmente ricchi di un posto tutto loro, incredibilmente ricchi di loro stessi.
Si sentiva quasi di troppo lei, Anya, in mezzo a quei ricordi non suoi che, ne era certa, in quel momento si specchiavano nelle due pozze ambrate di Bill, a cui dava le spalle.
-E’ un bel posto- sorrise. Silenziosamente, come per paura di infragere un qualcosa che non vedeva con gli occhi, ma percepiva su ogni centimetro di pelle, il ragazzo si avvicinò, circondando Anya con le braccia, avvolgendola e appoggiando una guancia sulla sua spalla.
Lei chiuse gli occhi, tutti i suoi buoni propositi, i suoi piani, i suoi ragionamenti cancellati dai battiti accellerati del suo cuore.
Stronzo e capriccioso; non era lui quello che l’aveva sempre tratta con un misto di disprezzo e superbia, quello che le passava davanti con una ragazza dai capelli castani o gli occhi verdi al braccio per farle vedere quanto loro fossero giuste, non lei, che doveva solo servirlo e non gli andava giù, no, che lei lo trattasse come se fosse ancora un sedicenne, ma quella era la loro lotta. Sì, era stato lui.
Ricordò i suoi recenti pensieri davanti al Kosmos mentre i capelli di Bill le sfioravano il viso. Doveva ribellarsi, subito: se i sentimenti erano testardi e prepotenti, lei lo sarebbe stata di più
Tira fuori le unghie, tigre, si urlò mentalmente, perché non poteva credere che il suo cuore stesse battendo per l’emozione e non per l’indignazione.
Si girò di scatto, fronteggiando il ragazzo e lo aggredì con quanto fiato aveva in gola.
-Ho passato tre anni della mia stupida esistenza a seguire te e gli altri, mi hai sempre disprezzata, forse per quello che faccio, forse perché non ho una vita rosea come la tua e adesso? Tenti di ammaliarmi come una qualsiasi?-
-Tento di amarti- mormorò Bill, sentendosi ferito da quelle parole, che erano vere, in parte: quella stupida maschera che si era cucito per lei aveva avuto le sue ragioni. Ma non abbandonò la determinazione.
-Tu ami solo te stesso, le tue unghie, i tuoi capelli! Non prendermi in giro, sei talmente presuntuoso che, con tutte le arie che ti dai, potresti volare!-
Era caduta sul personale, mai toccare il look a Bill Kaulitz. Ma Bill Kaulitz sorrise fra sé del tono della ragazza, che voleva essere cattivo, invece sembrava sempre di più disperato; del suo corpo, che voleva allontanarsi, ma gli permetteva di avvicinarsi sempre di più; dei suoi occhi, che volevano incenerirlo e invece la rendevano solo più bella.
-Tu piaci a Natasha- Anya si aggrappò all’unica motivazione che le rimaneva.
-E tu a Georg- le fece notare lui, ma a quel punto non importava a nessuno dei due, nonostante se lo fossero detti in faccia.
Bill l’afferrò per i fianchi, ormai lei cozzava contro il tavolino di legno e poteva afferrarsi solo a quello. Avvicinò i loro bacini, facendogli sentire che lui c’era, era lì contro di lei; faceva sempre così, era il suo modo per imporsi. Anya dischiuse le labbra, involontariamente, presa a fissare il loro punto di contatto e lui approfittò di quell’attimo per catturarle la bocca e aprirgliela dolcemente. Inciampando nei suoi stessi stivali, pressata da Bill, la ragazza si sedette sul tavolino, per poi coricarsi e lasciarsi spogliare, sentendo il contatto della schiena con la superficie ruvida.
La pelle levigata come un sassolino bianco e calda come tenere un pulcino in mano; da piccolo, Bill aveva tenuto un pulcino in mano: sperduto e pigolante, ruotava il collo e piangeva, agitando le zampine, così come ora lei muoveva il suo corpo diafano sotto di lui, pronta a scappare, ma troppo sconvolta per farlo, gli occhi grandi e verdi spalancati che brillavano. Rimaneva lì, a subire, ammaliata dalle mani del ragazzo, dai loro giochi concentrici. Continuò a guardare il suo corpo fremere d’amore, le zone che non si erano abbronzate durante le ultime vacanze, le natiche fragili quanto le sue, ripensando alla sgomento dolcissimo che l’aveva paralizzata anni prima tra le braccia di un altro.
Le bastò dire, tremando –Bill, ho freddo- perché lui raccogliesse la sua giacca da terra e le coprisse le spalle dolcemente, lasciandole scoperti i capezzoli scuri e lucidi della sua saliva. L’aveva voluta, chiamata, anelata. Dalla prima volta che l’aveva vista nuda e senza difese dalla fessura di una porta, aveva desiderato mille e mille volte di averla, confondere i suoi peli biondi con quelli di lei ricci e scuri, di vederla sussurrare quelle parole in una lingua che solo loro capivano e nessun’altra ragazza aveva saputo parlare, le stesse parole che ora le uscivano dalla gola come fusa di gatta e a cui lui rispondeva con baci e sospiri, mentre lasciava posto nella sua mente solo ai movimenti secchi e ritmati come una canzone che stava compiendo per rincorrere il paradiso dentro di lei.
Si sentivano più forte del primo giorno d’estate, più della pioggia che ti sferza il viso, più dell’attimo rivelatore in cui sai di per certo che al mondo la gente soffre e muore, ma nel momento in cui ami tutto il dolore svanisce e Bill sapeva che anche quando fosse stata vecchia avrebbe continuato ad amarla così, facendole scricchiolare le giunture e lui, pur di stare tra le sue gambe, non sarebbe mai invecchiato, agonizzando nella lussuria che lo spintonava e lo lasciava poi vinto e senza difese a dibattersi in una pozza d'amore.
Il sole le colorava i capelli sciolti oltre il bordo del tavolo, cascata rossa e viva, mentre Anya perdeva le sue mani tra i capelli neri di Bill, sul suo volto e i suoi occhi chiusi, sulla sua bocca che le baciava le dita. Il ragazzo le sollevò la schiena per avvicinarla ancora di più a sé, poggiando la fronte sul suo petto e continuando a muoversi più adagio. Avevano entrambi la pelle d’oca ed Anya avrebbe voluto continuare a sfregare i loro corpi più che per sempre, pentendosi, ma reclinando la testa all’indietro verso l’infinito e lasciando che dalle sue labbra scappasse un gemito che fece sorridere Bill di soddisfazione. Le morse piano la pancia e sollevò gli occhi fino ai suoi. Non aveva mai visto una ragazza più bella, tutte quelle che si erano mosse sotto di lui in quella posizione gli sembrarono volgari e trasparenti al ricordo, lei, invece, aveva una consistenza umana bruciante; aveva voglia di dirglielo e dirle altre mille cose, ma sapeva che se avesse aperto bocca tutto si sarebbe infranto. Erano in due, ora, a dover tacere.
  
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